Il caso Englaro

1.

Anni fa un regista giapponese fece un film letteralmente atroce, il cui titolo era – se non vado errato – La condanna. Il protagonista era un criminale condannato all’impiccagione. Per un errore tecnico, l’esecuzione della condanna non indusse la morte, ma un lungo coma al risveglio dal quale il soggetto non serbava alcuna memoria del passato. La sentenza doveva essere eseguita nuovamente, ma, in ottemperanza alla Legge, non era possibile mettere a morte un soggetto il cui stato di coscienza non comportava il ricordo della colpa. Per risolvere il problema, fu deciso di affidare il reo ad un’équipe di operatori sociali il cui intento era quello di riabilitarne la memoria. L’alacre dedizione degli operatori fu naturalmente scambiata dal soggetto come un aiuto umanitario, ed egli sviluppò nei loro confronti un sentimento di gratitudine affettuosa. L’esito della cura fu positivo: il soggetto recuperò, ad un certo punto, vividamente la memoria del delitto commesso, e venne pertanto immediatamente giustiziato.

Nella sua scabra asciuttezza, il film denunciava, in ultima analisi, la perversa applicazione di principi apparentemente elevati, ma di fatto barbari. Non ho mai capito se il regista intendesse stigmatizzare la pena di morte o semplicemente la crudeltà implicita in una procedura effettivamente adottata in un caso giudiziario reale.

L'associazione tra il film e il caso Englaro è stata spontanea, vale a dire prodotta a livello inconscio.

Apparentemente la situazione è del tutto diversa. La povera ragazza è stata condannata dalla natura a tribolare finché un pietoso batterio non l'aiuterà a morire. I tribunali, in questo caso, sono in disaccordo. Uno ha riconosciuto il suo diritto ad una morte naturale, un altro ha rivendicato il suo diritto di vivere e il dovere dei sanitari di assisterla,

Che significa dunque quella associazione? Quale nesso ha visto l'inconscio tra due situazioni diverse?

Non penso che gli operatori sanitari confidino in un "miracoloso" risveglio. E' probabile che , per un verso, interpretino alla lettera il codice deontologico medico, che impone loro di salvaguardare in ogni modo la sopravvivenza di un essere umano, e, per un altro, abbiano semplicemente paura di entrare in conflitto con un apparato ecclesiale che, con le sue ramificazioni nell’ambito dell’assistenza sanitaria (e sociale) può facilmente interferire sulla loro carriera.

La probabilità di un “miracolo” è, di fatto, estremamente remota. Se esso si realizzasse - eventualità che non si può escludere in assoluto in linea di principio - sarebbe pagato dalla povera Eluana al prezzo di conseguenze neurologiche molto serie. Al limite, potrebbe tornare ad essere cosciente senza consapevolezza del suo stato. Se ne prendesse coscienza, cos'altro potrebbe fare se non maledire coloro che non le hanno permesso di morire?

Questo è il significato dell'associazione, suggestiva poiché fa riferimento ad un'estrema possibilità, che sarebbe, per la paziente, una sciagura. Essa, però, che affonda le sue radici in un meccanismo d'identificazione, semplifica le cose, non tenendo conto della complessità della situazione.

Prima di affrontare le problematiche etiche che questa evoca, è opportuno, pertanto, fare il punto sullo stato dell’arte in merito al cosiddetto coma vigile.

Le informazioni che riporto sono tratte da fonti diverse.

Lo stato vegetativo persistente (PVS in inglese) venne descritto per la prima volta nel 1940 da E. Kretschmer. (Das apallische Syndrom, in Neurol.Psychiat, 169, 576-579 (1940) che la denominò sindrome apallica in quanto conseguente ad un ampio e diffuso disturbo del pallium (corteccia) nel suo intero funzionamento.

Esso, che si presenta in pazienti con danno cerebrale severo nei quali il coma è progredito ad uno stato di veglia non corrispondente allo stato di consapevolezza o coscienza è caratterizzato dai seguenti sintomi: occhi aperti, regolazione del ritmo sonno/veglia, riflesso di minaccia assente, tono muscolare aumentato, postura in decorticazione o decerebrazione, reazioni grossolane motorie agli stimoli dolorosi, automatismi primitivi orali consistenti in sterotipie di masticazione, deglutizione, digrignamento dei denti, associati a movimenti ritmici e ripetuti della lingua, esagerazione del riflesso di succhiamento

A questi sintomi comportamentali se ne aggiungono spesso altri di natura neurovegetativa: tachicardia, tachipnea, sudorazione aumentata, seborrea, ipertermia, ipersalivazione, ecc.

Il quadro, dunque, è ben diverso da quello della morte cerebrale: è quello di un essere decorticato, quindi del tutto incapace di rapportarsi all'ambiente, se non con reazioni indifferenziate, e di accudire se stesso, ma non agonizzante. Gli occhi aperti, in particolare, fanno impressione, anche se vagano nel vuoto con i bulbi oculari che hanno spesso un assetto divergente. A questo dato, psicologicamente inquietante, occorre aggiungere comportamenti (digrignare i denti, ingoiare, singhiozzare, sorridere, lacrimare e piangere, fare moine, farfugliare, sbuffare, urlare senza alcuno stimolo esterno apparente) che sembrano espressivi di una reattività emozionale.

Il cervello è indubbiamente ancora vivo ma, per la sospensione delle funzioni corticali, non ha alcuna consapevolezza e capacità di comunicazione volontaria con l'ambiente.

Per quanto riguarda il decorso, le possibilità di recupero dipendono dalla entità della lesione al cervello e dall'età del paziente. I soggetti giovani hanno migliori possibilità rispetto agli anziani. Circa il 50-60% si risvegliano nei primi sei mesi.

Le possibilità di recupero diminuiscono progressivamente nel corso dei mesi e degli anni. Casi di risveglio da un lungo stato di PSV sono oltremodo rari. Per alcuni di essi, è stato avanzato il dubbio di un errore diagnostico.

I pazienti che riprendono coscienza dopo la soglia critica di un anno sperimentano disabilità significative: tetraparesi, emiparesi, afasia, parkinsismo, deterioramento intellettivo post-traumatico fino alla demenza con spasticità, disartria, disfonia e disfagia.

Si discute tra gli specialisti se sia corretto definire uno stato di PVS che persiste da tempo irreversibile. In linea puramente teorica forse non lo è. Le conseguenze neurologiche, però, sono tanto più invalidanti quanto più dura lo stato.

E’ importante considerare questo aspetto perché il battage della Chiesa e dei medici cattolici induce l’opinione pubblica a pensare al risveglio come ad una riedizione della risurrezione di Lazzaro. Per fortuna, a differenza di quanto accaduto negli Usa con Terry Schiavo, non sono state diffuse dai media foto attuali di Eluana. Cogliendo infatti il momento in cui le stereotipie emozionali danno luogo ad un'espressione che promuove un'identificazione, è facile confondersi le idee su ciò che vive il paziente e pensare che esso in qualche modo abbia una sorta di proto-coscienza.

Penso che molti cittadini, messi di fronte ad un soggetto in stato vegetativo persistente, non se la sentirebbero di avallare la sospensione dei trattamenti. Si tratterebbe però di un fenomeno dovuto ad un difetto di informazioni. I più, infatti, continuano a ritenere che le emozioni siano intimamente intrecciate ad un'esperienza soggettiva. Non sanno che gran parte delle emozioni di base, come quelle espresse da Eluana, sono innate e attive a livello di strutture sottocorticali, tal che possono continuare ad esprimersi anche in totale assenza di coscienza.

Il problema che si pone è questo: se il soggetto in PVS fosse dotato di consapevolezza e di volontà accetterebbe il suo stato e le prospettive di un decorso che, nel corso degli anni, va inesorabilmente verso la morte o un ritorno alla vita in condizioni di grave handicap?

2.

Le posizioni della Chiesa a riguardo, implacabilmente chiare da sempre, sono state ribadite di recente a partire da dubbi espressi dall'episcopato statunitense.

Nel luglio del 2005, i vescovi nordamericani, attraverso una lettera firmata dal presidente, monsignor William S. Skylstad, hanno posto alla Congregazione della dottrina della fede un quesito sulla necessità di continuare a somministrare cure, e in particolare acqua e cibo, a soggetti in stato vegetativo permanente. Il quesito muove dal fatto che, negli Usa, il numero di pazienti in stato vegetativo tenuti in vita artificialmente è enorme, data la tendenza dei medici ad utilizzare al massimo grado le attrezzature tecniche di cui dispongono

La risposta della Congregazione della dottrina della fede, nel documento vero e proprio approvato da Benedetto XVI, è stata inequivocabile: il nutrimento e l’idratazione sono un «mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita» e, quindi, non possono mai essere interrotti: anche quando i medici competenti giudicano con certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza. Un paziente in "stato vegetativo permanente" , secondo la Congregazione, è una persona, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate, che comprendono, in linea di principio, la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali.

La nota esamina anche il problema che grava sulle famiglia dei pazienti in stato vegetativo. "Può costituire un onere notevole - rileva la Congregazione - il fatto di avere un parente in stato vegetativo. E' un onere simile a quello di curare un tetraplegico, un malato mentale grave, un Alzheimer avanzato". I pazienti in stato vegetativo "sono persone che hanno bisogno di un'assistenza continua per mesi o addirittura per anni". Ma anche in questi casi, "ai pazienti deve essere applicata il principio secondo cui, in caso di malattia grave, resta il diritto e il dovere di mettere in atto le cure necessarie per conservare la salute e la vita".

Il principio secondo cui "la vita allo stato vegetativo è una vita comunque da rispettare", non è nuovo nella Chiesa cattolica. Si pronunciò in maniera identica anche il predecessore di Benedetto XVI. Già nel marzo del 2004, Giovanni Paolo II, in un messaggio ad un congresso medico internazionale, era intervenuto sulla materia dichiarando che gli esseri umani, seppur in stato vegetativo, hanno diritto alla propria dignità: "Il valore di ogni essere umano non cambia con il mutare della condizione fisica".

Nella Chiesa cattolica, il no all'eutanasia resta un principio non negoziabile ribadito recentemente durante la straziante storia di Piergiorgio Welby che, dal letto dov'era costretto da anni per una grave forma di distrofia muscolare, aveva chiesto di morire.

Alla questione ha dedicato su Repubblica (21 luglio) un denso articolo Adriano Prosperi, dal titolo Il diritto di morire nel nostro Medio Evo, che riproduco integralmente:

“Una antica rissa cristiana sembra essersi riaccesa in Italia intorno al più cupo dei diritti, quello di morire: suore uscite per un attimo dall´ombra di una vita di carità, prelati e dotti teologi offrono gli argomenti della religione a un movimento assai composito di gente comune e di affannati politicanti. Ed è un dolce nome di donna quello a cui tocca ancora una volta il compito di portare il simbolo dell´offesa e della violenza patita. Ma la schiuma della cronaca talvolta nasconde piuttosto che rivelare le correnti profonde. Per questo non faremo quel nome. Per una volta almeno non sarà pronunziato il nome di donna a cui tocca oggi – in attesa di altri candidati che non mancheranno – il compito di rappresentare nella piazza mediatica il dramma della nostra impotenza davanti alle crudeltà della natura e di offrire il suo volto indifeso alle bandiere di un "partito" contro un altro – un sedicente partito della vita in lotta contro un improbabile partito della morte. Tacerlo è la sola cosa che resta da fare, non solo per pudore e per pietà, ma anche perché tutto il necessario è stato detto e tutte le risorse e i saperi delle istituzioni sono stati messi a frutto.

Qui si tratta piuttosto di capire la sostanza dei problemi che agitano la società e che muovono ciascuno di noi a partecipare intensamente, coi sentimenti e con le idee, alla tempesta che ogni volta si scatena intorno a questi casi. Ogni volta questa speciale forma di morte chiama in gioco la medicina e il diritto, la religione e la politica. È la moderna danza macabra di un nuovo Medioevo, ossessionato come l´antico dalla paura di un nemico terribile: che non è più la morte improvvisa e senza sacramenti della peste, ma è la minaccia congiunta di una vita che non è vita e di una morte debole, inavvertita e sfuggente.

[..] E' la medicina che viene prima di tutto. A lei, in una celebre intervista del 1957, un lungimirante Pio XII lasciò il compito e la responsabilità di individuare il segno del confine tra la vita e la morte. E ben prima di allora i medici hanno cercato di fare propria l´antica certezza di Re Lear: «Io so ben riconoscere quando uno è morto e quando vive». Ci sono riusciti? non sembra. Oggi negli Stati Uniti d´America può accadere che una persona - la stessa persona - sia ritenuta legalmente morta in California e ancora in vita nel Missouri. Il caso (reale) è raccontato dal professor Carlo Alberto Defanti, nella prima pagina di un libro che sembra scritto apposta per guidare con l´aiuto della scienza medica i lettori dei nostri tempi, in sosta angosciati davanti al passaggio estremo: Soglie. Medicina e fine della vita (Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp.270).

Quali le soglie su cui si è attestato nel nostro provvisorio presente il limite estremo della vita umana? Sono ancora quelle antiche, in contrasto da secoli: il battito del cuore, la scintilla del cervello. La medicina si è impadronita della questione quando, col ritorno alla pratica anatomica alla fine del Medioevo, la foresta degli organi è cominciata ad emergere dietro l´unità della pianta umana. E fin da allora la pratica medica concepì quella fame di corpi che non doveva più lasciarla: la "fabbrica del corpo umano" (il titolo fu di Andrea Vesalio) doveva essere chiamata nel ‘900 - dopo la celebre operazione di Christian Barnard - a fornire tanti pezzi di ricambio. Questo non è un dettaglio ma un punto nodale dei problemi attuali. L´offerta di corpi umani, possibilmente ancora palpitanti di una vita residua, ha alimentato i progressi della medicina.

Ma per ottenerli è stata necessaria una alleanza coi poteri della religione e dello Stato: fin dagli inizi. Come si racconta in un libro collettivo, uscito contemporaneamente a quello di Defanti (Misericordie, Confessioni sotto il patibolo, Edizioni della Normale 2007) si ricorse per secoli alle forniture dei patiboli e alle membra più "vili", quelle dei condannati a morte. E ci volle uno speciale investimento di pratiche e di rituali per saldare il necessario circuito tra potere e religione, tra erogazione della morte e promessa di vita - quella dell´aldilà ai condannati e quella di questo mondo agli ammirati spettatori delle meravigliose operazioni della scienza medica. Da allora in poi quel circuito doveva ripresentarsi costantemente, sia pure sotto altre forme.

Le tappe successive della storia scientifica della questione ci portano ancora alla diarchia cuore-cervello. Il "miracolo" della rianimazione (dall´inglese "resuscitation") aprì la strada alle moderne cure intensive con le tecniche per far ripartire un cuore arrestato e ventilare chi non era in grado di respirare autonomamente (il polmone d´acciaio è del 1927). Ma quando si scoprì nel 1959 che in determinati stati di coma l´elettroencefalogramma non rilevava più onde elettriche cerebrali, si pose il problema se valesse la pena proseguire l´assistenza ventilatoria. Dalla scoperta del coma irreversibile derivò la proposta del comitato della Harvard Medical School di considerare questo stato come "sindrome della morte cerebrale" e di fissarlo come nuovo criterio di morte. La data del documento (1968) segna una svolta storica importante, come mostra Defanti che ne analizza il contesto e le ragioni, scientifiche ed economiche, e segnala la cautela con cui fu cercato l´avallo delle autorità religiose. È su questa base che fu definita la procedura per ottenere organi utilizzabili per trapianti, pezzi per l´officina delle riparazioni chirurgiche. Ma, come sanno o dovrebbero sapere tutti coloro che hanno nel portafoglio l´autorizzazione all´espianto dei propri organi, quel criterio fu scelto per ragioni pratiche da chi sapeva quanto fosse difficile fissare l´attimo decisivo su di un orologio della morte che è capace di misurare solo un processo graduale e differenziato. Così anche il documento di Harvard non segnò la fine della questione.

Da un lato la diffusione clamorosa con Barnard del trapianto di cuore spinse potentemente in direzione dell´eutanasia attiva e dell´espianto di cuori funzionanti; dall´altro l´esplorazione del cervello ha dissolto l´unità di questo organo in entità diverse, ognuna con una vita e una morte propria.

Se lasciamo l´ancoraggio delle ricerche mediche, ci si apre davanti l´universo dei sentimenti: specialmente di quella paura della morte di sé che in ciascuno si scatena davanti alla morte degli altri. E qui la realtà del nostro tempo rivela la sua irrecuperabile lontananza dall´antica religione che oggi lotta con tutte le sue forze contro i suoi nemici di sempre. Eutanasia, questa è la parola: parola ambigua, odiata e ripudiata quando si presenta con l´orrendo volto nazista della soppressione forzata di un´umanità difettiva, ma che cela nel suo benevolo suono la voce di una sirena antica: il desiderio e l´augurio - per sé e per i propri cari - di una morte rapida e totale, senza sofferenze; ma anche la convinzione ormai acquisita che disporre della sorte del proprio corpo rientra fra i diritti dell´individuo. Qui si incontrano i bisogni profondi del nostro tempo. E si capisce perché ci colpisce tanto la storia di quella dolce figura femminile, che appare oggi ancora viva almeno nella cronaca lacerata del paese: è la nostra storia, una possibile, sempre più probabile storia della fine che aspetta ciascuno di noi. Qui si misura l´arretramento drammatico del senso cristiano della morte, di quella morte gioiosa del credente che dettò a Martin Lutero uno dei suoi scritti più belli e che doveva animare la fede dei martiri della Riforma mentre salivano lietamente sui patiboli dell´Inquisizione. Oggi solo la deliberata ambiguità della scelta di una parola, la vita - termine che i credenti possono intendere nel senso di vita dell´aldilà e tutti gli altri sono liberi di applicare alla vita che abbiamo qui - sostiene le incongrue alleanze costruite per battere le leggi sull´aborto e le proposte di testamento biologico.

Il filo che ci porta al presente cominciò quando nella cultura europea del ‘700 razionalista prese corpo il rischio della morte apparente. Come ha raccontato anni fa Claudio Milanesi furono allora elaborate norme precise tuttora valide per scongiurare il pericolo della sepoltura di persone in stato di catalessi; e tutti conoscono in che modo la fantasia romantica di Edgar Allan Poe desse poi corpo a quei fantasmi dei morti viventi che abitano oggi negli incubi del nostro presente e ci vengono incontro nelle corsie delle cliniche.

Dunque, una conclusione si impone. La storia ci ha condotti a questo punto, per molte e complicate vie che fanno parte incancellabile della realtà di un paese moderno. Pertanto non ci sono alternative alla messa in opera delle regole faticosamente elaborate per conciliare il diritto individuale a disporre del proprio corpo con l´obbligo istituzionale a fornire tutte le cure necessarie alla persona malata: obbligo che non si deve tuttavia spingere alla "tortura inutile" di cui scriveva Paolo VI nella lettera del 1970 citata da Rodotà. E se le attuali gerarchie cattoliche farebbero bene a meditare quelle parole, spetta invece allo Stato italiano affrontare sia il gravissimo problema delle carenze delle strutture sanitarie che oggi obbligano le famiglie a sostenere il peso anche morale di situazioni dolorosissime, sia introdurre finalmente una regolamentazione adeguata del testamento biologico. Nell´immediato, spetta a noi tutti fare un passo indietro, recedere dal clamore indecente che oggi assedia chi ha diritto al rispetto e al silenzio.”

3.

Adriano Prosperi insiste, insomma, sull'urgenza di una legislazione sul testamento biologico. Se ne parla da anni, ma lo scoglio alla sua approvazione è sempre lo stesso: la Chiesa cattolica e la lobby parlamentare che ne rappresenta gli interessi.

Parlo di interessi e non di ragioni perché se il diritto della Chiesa di propagandare i suoi valori è al di fuori di ogni dubbio, non lo è il suo tentativo di imporli ad una nazione in nome del fatto di avere alleanze in parlamento e tanto meno in nome del fatto che essi sono riconosciuti dalla maggioranza degli italiani. I cittadini italiani battezzati sono, infatti, il 95% della popolazione, ma quelli credenti e praticanti non superano il 25%.

Quali siano gli interessi in questione è ovvio.

La Chiesa sa che, se la legge sul testamento biologico venisse approvata e adeguatamente pubblicizzata, nel momento in cui - cosa possibile nel giro di pochi anni - fosse utilizzata da tutti i cittadini che raggiungono la maggiore età, la verità sull’adesione della popolazione italiana al Magistero verrebbe fuori drammaticamente. Forse anche tra i cattolici, come avviene già a livello politico, un certo numero rifiuterebbe di riconoscere il diktat ecclesiale.

C’è un aspetto ancora più importante da considerare. Oltre agli incidenti stradali, che, a livello giovanile, sono molto frequenti e in un certo numero di casi danno luogo al PVS, esistono malattie adulte (come la Sclerosi laterale amiotrofica e alcuni tumori particolarmente aggressivi) o senili (come l’Alzheimer) che possono far prevedere al paziente, se egli è dotato di una qualche consapevolezza, un decorso che, superato un certo limite, diventa un’inutile agonia. Il testamento biologico solleverebbe i medici dal dovere deontologico di adottare tutte le tecniche disponibili per prolungare la vita. Lasciare morire i pazienti in PVS di fatto aprirebbe la porta al dibattito sull'eutanasia.

La Chiesa rischia di trovarsi di fronte ad una rivendicazione crescente da parte degli individui di disporre della propria vita e di amministrare la propria malattia sulla base del criterio della qualità della vita. Ed è proprio quello che non vuole. Finché i suoi valori sono contestati da scienziati e pensatori laici, il problema è arginato perché è facile contrapporre ad essi pareri di scienziati e pensatori cattolici. Se la contestazione affiora dal basso, dal comune cittadino, il pericolo di un contagio ideologico è elevatissimo.

Due circostanze recenti attestano questo pericolo.

Su Repubblica (12 luglio) è stata riprodotta questa lettera:

“Caro direttore, questa è la storia di mia madre, Livia, che coraggiosamente è riuscita a liberarsi da quella terribile malattia che è la SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica). Livia, nata nel 1935, carattere forte, indipendente, amante della libertà, appassionata di libri, della bicicletta, delle corse a piedi, ex infermiera, separata negli anni ´80, cresce una figlia da sola. Nel 2001 le viene diagnosticata la SLA. Lei è documentata, divora libri di neurologia e sa perfettamente a quale dramma andrà incontro.

Fortunatamente è una forma più lenta delle altre, ma a poco a poco tutte le funzioni fisiche rallentano, creando innumerevoli difficoltà a compiere gli atti più scontati della vita, fino ad arrivare al suo ultimo anno, il 2007, dove decide di liberarsi del suo corpo, che ormai è diventato una prigione, prima di raggiungere l´inabilità totale e di perdere quindi ogni dignità. Era davvero difficile vivere in quelle condizioni ed anche per i suoi cari era molto doloroso vederla spegnersi con impotenza.

La sua casa era stata attrezzata, da mio marito, nei minimi dettagli perché potesse vivere sola, come da suo desiderio, non potevamo privarla anche di questa libertà, la mente era lucida e non voleva che nessuno decidesse per lei. Fortunatamente il mio lavoro part-time mi consentiva di pranzare e trascorrere ogni giorno alcune ore con lei prima dell´uscita da scuola del nipotino, e poi di risentirci dopo cena per la buonanotte. Talvolta accennava con lucidità al suo desiderio di suicidio con me e le sue amiche, ma si reputava una vigliacca perché non aveva il coraggio di farlo, e anche perché non avrebbe potuto avere la certezza che sarebbe andato a buon fine.

Come si poteva biasimarla? Noi capivamo benissimo la sua situazione, ma potevamo solo consolarla e starle vicino. Il suo desiderio era l´eutanasia, poter abbandonarsi in un sonno profondo, assistita da un medico e da me, sua figlia, nella tranquillità della sua casa, in tutta legalità. Ma questo non era possibile, non in Italia, e nemmeno alla Dignitas di Zurigo poteva essere accompagnata, senza farci subire conseguenze legali. Nell´ultimo anno le cose erano peggiorate molto, la difficoltà della parola rendeva complicata anche una semplice telefonata, si stancava dopo qualsiasi banalissima azione e riusciva a malapena a passare dalla sedia a rotelle al letto o al wc, e spesso cadendo a terra. Lei sapeva benissimo che al prossimo peggioramento avrebbe dovuto lasciarsi assistere e perdere la sua minimissima autonomia, ma non si parlava più di questo, nemmeno di suicidio. Tutti noi pensavamo che si fosse rassegnata. Quel giorno era serena e nessuno avrebbe immaginato quello che sarebbe successo.

Aveva organizzato tutto, nei minimi dettagli. Verso le 16, orario in cui nessuno sarebbe entrato in casa sua, ha raccolto tutto il suo coraggio e soprattutto le sue ultime forze, ha bevuto (con la sua cannuccia) un flacone intero di un potente sonnifero, mescolato a qualche cucchiaio di Martini (probabilmente per potenziarne l´effetto) e si è sdraiata composta sul suo letto, infilandosi un sacchetto in testa, chiuso con il suo foulard; la sua ossigenazione era già scarsa e si è addormentata per sempre. Ovviamente la telefonata del dopocena non ha avuto risposta. Frequentemente non rispondeva al telefono, soprattutto se si appisolava, e dopo tanti falsi allarmi, come da sue disposizioni, sarei passata a casa sua a verificare che non fosse caduta solo dopo qualche ora di silenzio.

Era mezzanotte quando entrai in casa. La trovai nel suo letto. Accesi la luce e scappai per le scale piangendo, tremando, fra un vortice di emozioni: il vuoto, il dolore per la perdita, la sorpresa inaspettata, ma anche la grande soddisfazione nel vedere che ci era riuscita! Vorrei averle potuto dire: «Mamma ce l´hai fatta! Sei stata coraggiosa! Sei libera!». Ha lasciato dolci bigliettini di addio a tutti noi, ribadendo la serenità nella sua decisione. Quella non era più vita. Capisco il suo gesto e lo approvo. Sono orgogliosa di avere avuto una mamma così coraggiosa. Ora le sue ceneri, per desiderio del suo amato nipotino di 9 anni, sono in un angolino di casa nostra, e talvolta mi permettono di intrattenere la famosa «corrispondenza di amorosi sensi».

Firmato: sua figlia C. ***”

Il 21 luglio, sempre su Repubblica, è comparso il seguente documento:

“Paolo Ravasin, malato di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), affida il suo testamento biologico all'associazione Luca Coscioni e in un video dice "no" all'accanimento terapeutico, certificando la sua intenzione di opporsi a qualsiasi tipo di trattamento forzato. "Se non fossi più in grado mangiare e bere attraverso la mia bocca, oppongo il mio rifiuto a ogni forma di alimentazione e idratazione artificiale sostitutive della modalità naturale".

Una decisione, specifica Ravasin, che dovrà valere anche se non sarà più in grado di comunicare le sue intenzioni: "Tale rifiuto è da ritenersi efficace anche nella circostanza in cui perdessi qualsivoglia capacità di esprimere e ribadire la mia volontà". Un rifiuto che, di per sé, è un'"insuperabile manifestazione di volontà". Ed è l'ennesima forte testimonianza che buca lo schermo e chiede il diritto di morire, dopo quella di Piergiorgio Welby.

Il testamento biologico. "Io Paolo Ravasin, nato a Ceggia, in provincia di Venezia, il quattro aprile 1960, attualmente ospite presso la Casa Soggiorno Villa delle Magnolie a Monastier, in provincia di Treviso, sono stato adeguatamente informato, nel corso di approfonditi colloqui con il dottor Agostino Paccagnella (06.02.08) e il dottor Guido Zerbinati (06.02.08 e 13.02.98) alla presenza del dottor Camillo Barbisan, presidente del Comitato di Bioetica dell'Ulss 9, dell'evoluzione della mia malattia e della conseguente indicazione ai relativi trattamenti. In particolare, per quanto riguarda la possibilità di nutrirmi e di idratarmi".

"La mia ferma, convinta e documentata volontà in proposito - prosegue Ravasin - è la seguente: nel momento in cui non fossi più in grado di mangiare o di bere attraverso la mia bocca, oppongo il mio rifiuto ad ogni forma di alimentazione e di idratazione artificiale sostitutive della modalità naturale. Tale rifiuto è da ritenersi efficace anche nella circostanza in cui perdessi qualsivoglia capacità di esprimere e ribadire la mia volontà. Inoltre, a partire dal momento in cui non fossi più in grado di nutrirmi e idratarmi attraverso la mia bocca, rifiuto la somministrazione di qualsiasi terapia medica destinata a trattare la malattia da cui sono affetto e, oltre altre patologie sopravvenienti intese come complicazioni. Accetto unicamente i farmaci necessari a trattare i sintomi dolorosi derivanti, in particolar modo dalla disidratazione nella modalità di somministrazione che il mio medico - dottor Guido Zerbinati o i suoi sostituti - riterrà appropriata".

"Affermo - conclude Ravasin - di essere stato informato e quindi sono pienamente consapevole delle conseguenze a cui mi espongo mediamente tale rifiuto, che tuttavia considero quale mia insuperabile manifestazione di volontà. Infine, oppongo il mio rifiuto ad ogni trasferimento in strutture ospedaliere'. Non essendo in grado di sottoscrivere materialmente tale documento a causa della mia infermità, attribuisco al medesimo il valore di espressione della mia autentica volontà attraverso una videoregistrazione nel corso della quale ho letto la lettura di questo testo al quale ho dato oralmente il mio assenso e che viene sottoscritto dai testimoni presenti".”

Il sacrificio di Welby, evidentemente, comincia a produrre i suoi frutti.

4.

Lo scontro tra cattolici e laici sul caso Englaro ha raggiunto toni di particolare asprezza, innescando l’ennesima querelle tra potere politico e potere giudiziario.

Dopo varie vicissitudini, che hanno trascinato la questione per anni, il 9 luglio i giudici della Corte d'appello civile di Milano hanno autorizzato il padre di Eluana a interrompere il trattamento di idratazione ed alimentazione forzato che fa sopravvivere la figlia.

Il decreto con cui si autorizza la sospensione del trattamento segue le indicazioni stabilite dalla Cassazione lo scorso 16 ottobre. La Corte aveva disposto un nuovo processo per il caso di Eluana e stabilito la sospensione dell'alimentazione artificiale soltanto in presenza di due circostanze concorrenti: che fosse provata e accertata l'irreversibilità dello stato vegetativo permanente della ragazza e dimostrato il convincimento etico di Eluana, quando era "in piena coscienza". Insomma, la decisione era vincolata alla certezza che la giovane avrebbe scelto di morire e non di vivere artificialmente, privata delle capacità percettive e di qualsiasi contatto con il mondo esterno.

La sentenza, a pagina 61, recita: «La corte d´appello di Milano, prima sezione civile, accoglie il reclamo proposto dal signor Beppino Englaro... e l´istanza di autorizzazione a disporre l´interruzione del trattamento di sostegno vitale artificiale». Inoltre, «in accordo con il personale medico e paramedico», bisognerà organizzare le varie procedure mediche «in hospice o altro luogo di ricovero confacente». Si smetterà dunque di nutrire, di somministrare antibiotici, mantenendo «un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona».

Nell'ultima pagina del provvedimento, i giudici dettano anche una sorta di 'prontuario' al quale attenersi nel momento in cui si "staccherà la spina" che tiene in vita la giovane. Nel paragrafo intitolato "disposizioni accessorie cui attenersi in fase attuativa", essi scrivono: "(...) in accordo con il personale medico e paramedico che attualmente assiste o verrà chiamato ad assistere Eluana, occorrerà fare in modo che l'interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale con sondino naso-gastrico, la sospensione dell'erogazione di presidi medici collaterali (antibiotici o antinfiammatori ecc.) o di altre procedure di assistenza strumentale avvengano in hospice o altro luogo di ricovero confacente. (...) Durante il periodo in cui la sua vita si prolungherà dopo la sospensione del trattamento e in modo da rendere sempre possibili le visite, la presenza e l'assistenza, almeno dei suoi più stretti familiari".

Il problema è trovare una struttura sanitaria che si faccia carico delle disposizioni dei giudici. Ovviamente, dato il clima politico e ideologico, la cosa non è facile. Nel frattempo il governo si fa carico della questione per rinfocolare il conflitto con il potere giudiziario. Secondo i politici, è compito del Parlamento e non dei giudici fare le leggi. Il principio è inoppugnabile, ma nessuno spiega perché il testamento biologico, di cui esistono numerosi progetti di legge, rimanga da anni bloccato in Commissione e non arrivi nelle aule parlamentari.

La spiegazione ufficiale fa riferimento allo sforzo di trovare una mediazione tra cattolici e laici.

La spiegazione vera è più semplice. La Chiesa, identificando a ragione nella legge sul testamento biologico l’anticamera di quella sull’eutanasia, utilizza senza remore il suo potere di influenzamento attraverso la lobby dei cattolici (e dei teo-dem) attiva in parlamento.

Il primo agosto la Camera dei deputati approva - coi voti del Pdl, della Lega e dell´Udc - il provvedimento con cui viene sollevato conflitto d´attribuzione contro tra poteri dello Stato davanti alla Corte Costituzionale. Il Parlamento, nella sostanza, contesta alla Cassazione l’“invasione di campo”, un pronunciamento giudicato «esproprio della funzione legislativa».

Nello stesso giorno, la procura generale di Milano presenta ricorso contro l’ordinanza della corte d´appello che autorizza la sospensione dei trattamenti terapeutici. Il ricorso della procura impedisce alla famiglia della ragazza che vive da 16 anni in coma vegetativo di interrompere l´alimentazione e l´idratazione di Eluana.

I politici avocano a sé il compito di decidere sul destino delle persona in PVS che non hanno avuto la possibilità di lasciare un testamento biologico.

Facendo riferimento al decreto della Corte di Appello di Milano, il padre di Eluana, verso la fine di agosto, ha chiesto alla regione in quale struttura far ricoverare la figlia, per poter interrompere il trattamento che la tiene in vita. La risposta del direttore generale della Sanità della regione Lombardia è stata questa: "La richiesta avanzata non può essere esaudita in quanto le strutture sanitarie sono deputate alla presa in carico diagnostico - assistenziale dei pazienti"; "Il personale sanitario non può sospendere l'idratazione e l'alimentazione artificiale del paziente"; "[Nelle strutture sanitarie], hospice compresi, deve essere garantita l'assistenza di base che si sostanzia nella nutrizione, idratazione e accudimento delle persone".

Il padre non sembra disposto ad arrendersi, ma, allo stato attuale dei fatti, sembra probabile che Eluana continuerà a vegetare finché la natura non sarà più pietosa degli esseri umani, per la gioia di coloro che vanteranno questa “vittoria” come segno di una civiltà cristiana più profonda di quella statunitense, laddove Terry Schiavo è stata aiutata a morire.

La situazione attuale di Eluana, che può esser equivocata dall'opinione pubblica che, sui girnali, ha visto solo le sue foto quando era vitale e consapevole, è descritta in maniera fedele da Piero Colaprico su repubblica (10 settembre):

"Eluana Englaro oggi ha i capelli corti. Dire che se ne sta a letto è già un mezzo inganno, perché, quando la si vede, quando la si osserva, si percepisce qualcosa che potrebbe essere anche la forza di gravità: qualcosa che non la lascia semplicemente adagiata tra le lenzuola, ma sembra risucchiarla giù, verso un altro luogo, mentre la ragazza, inerme in tutto, non può opporsi. Gli occhi, che nelle foto pubblicate dai giornali, sono spesso ironici e lucenti, colpiscono.

Sono strabici, perché questa forza oscura e le ferite cerebrali hanno vinto i muscoli, ormai appannati. Anche le giunture sono anchilosate, lo si vede dai polsi che escono dalla camicia da notte candida. Diteci com'è Eluana oggi, perché fate vedere le sue vecchie foto e non mostrate com'è adesso? Sono richieste anche legittime, quelle dei lettori nei blog e nei forum (non tutte, certo, perché in qualcuno si percepisce una curiosità che sconfina in un territorio meno nobile). Ma Eluana non è speciale. Se frequenti gli ospedali, sai che appartiene a una nuova umanità disgraziata, che si sta moltiplicando grazie ai progressi della medicina, quella degli esseri umani in stato vegetativo.

Solo in Italia sono circa tremila persone e in qualche modo si assomigliano tutti: alternano momenti di veglia (stanno con gli occhi aperti) a momenti di sonno (stanno con gli occhi chiusi), emettono suoni, gemiti, sospiri senza alcuna attinenza con quanto accade intorno al loro capezzale. I neurologi sostengono che non esiste alcuna possibilità di entrare in contatto con loro, perché non reagiscono in maniera intelligente. Possono avere un soprassalto se c'è un rumore, o una smorfia se si fa loro del male, si tratta però di riflessi. Respirano da soli. Ma se su quegli occhi aperti si avvicina la punta di una matita, restano aperti: nessuna minaccia li muove o li chiude. Perciò la giornata di Eluana, intesa come giornata, non esiste: esiste il non-mondo di Eluana.

Oggi questa donna di 36 anni sta al secondo piano della clinica, in una stanza da sola, dove siamo entrati anche noi. Non raramente è in penombra, con suor Rosangela quasi sempre accanto a lei. Lo fa dal 7 aprile del 1994. Prima, per quasi due anni, Eluana, finita fuoristrada con l'auto, spedita d'urgenza in rianimazione, a poco più di vent'anni - tanti ne aveva... - era stata ricoverata nel reparto di lungodegenza riabilitativa dell'ospedale di Sondrio. Risultati della rianimazione? Deprimenti. Ma "faremo il possibile", aveva promesso il primario di Sondrio.
Le hanno in effetti tentate tutte. Anche in questo caso, miglioramenti pari allo zero. Un giorno una compagna di scuola di Eluana è andata a trovarla proprio mentre la spostavano dal letto, usando un paranco: "Come se fosse un sacco di patate, lei che non voleva farsi mettere le mani addosso da nessuno...". Lo shock è stato tale da tenere questa ragazza lontana dall'ospedale per un bel po'.

Ogni briciola di quella speranza invocata qualche settimana fa in una lettera fraterna anche dal cardinal Tettamanzi è sparita in fretta. E non da sola. Anche la mamma di Eluana, restando accanto alla figlia, "si è consumata". Non compare mai, nelle interviste o in pubblico, perché si è ammalata di cancro e sta malissimo. Papà Beppino le fa da scudo, come fa da scudo alla figlia. I medici gli avevano suggerito: "Pensa alla tua vita, per Eluana non puoi fare più nulla, ci pensiamo noi". Ma questi Englaro, a dispetto di tutto, erano e sono una famiglia unita: e il papà non ha mai mollato per pensare a sé stesso, perché "Eluana intendeva la vita come libertà di vivere, tra noi c'era come un patto di rispetto reciproco delle nostre volontà". Parlando della figlia, l'ha definita "un cristallo". I pezzi di quel cristallo, i cocci della fragilità di una creatura, forse potranno avere sepoltura grazie a un tribunale, o forse no.

Al momento, accanto alla ragazza in questo stato "da 6082 giorni, 16 anni sette mesi e ventitré giorni", come scandisce il papà, ci sono i peluche, le sue foto al mare e sugli sci, i cassetti sono colmi di quegli abiti, di quella biancheria che la mamma esausta e piangente ha continuato a comprare, perché voleva che la figlia, bella, fosse bellissima. La sua bellezza ancora traspare, una bellezza di porcellana, dove qualcuno scorge il soffio della vita, e qualcuno no: ne intravede solo il diafano ricordo, un fantasma traslucido. Ma d'altra parte, gli stessi medici, al papà che chiedeva lumi, non avevano risposto: "Non abbiamo risposte, non abbiamo soluzioni"? Sua figlia, gli avevano detto, è una "non-morta, con gravi handicap".

Tutti, compresa e forse soprattutto la suora, e anche il professor Carlo Defanti, il neurologo che si è detto disponibile a staccare il sondino di questa sua paziente, hanno spiato la quotidianità di questa "non-morta". Mai un cenno, mai hanno percepito uno sguardo, mai una sensazione che qualche cosa della sua volontà, della sua energia sprizzasse all'esterno del guscio della pelle. E così non restano da fare che alcune cose pratiche. C'è stato chi, nelle polemiche venate di crudeltà che caratterizzano questa vicenda umana, clinica e giuridica, si è spinto sino a dire che Eluana fa anche ginnastica. La situazione è, in sintesi, questa.

Ogni pomeriggio alle 17 una sacca beige, con dentro un "pappone", un composto di nutrimenti e medicine, viene pompato, attraverso il sondino nasogastrico, direttamente nello stomaco di Eluana, che ha perso la capacità di deglutire, non potrebbe cioè essere imboccata. Questo pasto dura dodici ore. Poi viene sostituito dalla sacca dell'acqua, per l'idratazione. Per evitare le piaghe - e non se n'è mai formata una, tanto è efficiente l'amore di suor Rosangela - Eluana viene spostata dal letto.

E qua non c'è il paranco, come nell'ospedale, e non ci sono infermieri che protestano per la fatica: questa religiosa con spalle da artigliere l'abbranca, circonda con le sue forme e la sua forza quel fragile essere dalla testa ciondolante, mette Eluana a sedere sulla carrozzella, per un paio d'ore circa. Quando non ci sono giornalisti e fotografi (sarebbe vietato fotografare e pubblicare chi è incapace di intendere e volere, ma non si sa mai), la trasporta nel piccolo giardino, con panchine di pietra e fiori profumati. Comunque, Eluana va sorvegliata a vista, perché se non è imbracata, può cadere in avanti.

Poi c'è la fisioterapia passiva, cioè "le mani altrui", un concetto che per Eluana equivaleva a una violenza, la toccano, la muovono, danno tono per quel che si può ai muscoli inerti come gomma. Succede anche tre volte al giorno, il tempo deve passare, le cure si devono eseguire. Ed è così che "la mamma si è consumata come una candela accanto alla figlia", lamentandosi perché "non l'hanno lasciata morire". Lo stesso papà Beppino, vincendo il pudore che tante volte lo frena, una volta ha detto al cronista che "Sati è morta dentro quando è morta Eluana, e poi è sopravvissuta a se stessa, distruggendosi".

Eluana, nel letto, senza fame, senza sete, senza riconoscenza, senza affetto (lo affermano i neurologi) resta ignara di questa battaglia e di questi dolori dei suoi amatissimi genitori, e pure dei tanti pensieri e delle emozioni che causa la sua tragedia. Il papà, invece, convinto, forse anche da socialista vecchia maniera, che "la sola libertà è dentro la società" non ha accettato quel concetto di "portatela a casa, la facciamo morire di nascosto". Ancora ieri ripeteva: "Da quello che si è creato clinicamente, solo clinicamente si può uscire"."

C’è chi prova a riproporre un dibattito dialettico tra cultura laica e cultura cattolica.

Su Repubblica (12. 07) Aldo Schiavone firma un articolo tutt’altro che radicale, il cui testo è il seguente:

“La Chiesa nel mondo che cambia

Mai come ora la voce e la testimonianza della Chiesa sono state ascoltate e vissute dalla sinistra italiana, e più in genere da tutti coloro che non si riconoscono direttamente nel magistero ecclesiastico, in modo così ambivalente, per certi versi addirittura contraddittorio. Questa oscillazione di giudizio – di cui proprio negli ultimi giorni, e ancora nel doloroso caso di Eliana Englaro, abbiamo visto nuovi evidenti segni – sta diventando un autentico scandalo del nostro tempo, nel significato originario di questa bellissima parola evangelica, e cioè un ostacolo e un inciampo – non solo intellettuale, ma etico – che riguarda certo noi interpreti, ma coinvolge anche e in primo luogo la stessa dottrina cattolica, che, come tutte le concezioni religiose, non smette di evolversi e di trasformarsi.

Da un lato, i continui e forti richiami del Papa e dei vescovi sul dovere dell´accoglienza nei confronti degli immigrati, sull´accettazione consapevole di chi è diverso, contro ogni forma di egoismo culturale e sociale; e in senso più ampio, sulla necessità di una correzione morale dell´economia, nel nome di un inderogabile principio di solidarietà (e diciamo anche di eguaglianza) universale che non esita, in alcuni casi, ad assumere i toni e i contenuti di una vera e propria drastica critica all´ordinamento capitalistico del mondo: con una potenza di concetti che ormai, fuori da questi enunciati, abbiamo purtroppo del tutto perduto altrove. Una Chiesa dal lato degli indifesi, delle vittime innocenti del mercato totale, delle nuove plebi globali; una Chiesa cui la vittoria sul comunismo sta consentendo di esprimere senza più preoccupazioni di ruolo e di schieramento tutte le potenzialità emancipatrici del proprio messaggio.

Dal lato opposto, l´intransigente chiusura cattolica su tutte le questioni che implicano la possibilità di un rapporto davvero trasformatore fra tecnica e naturalità umana – dal più elementare controllo delle nascite alla più sofisticata bioingegneria – e su quelle che riguardano la possibilità di una scelta sui confini della vita. L´immagine, insomma, di un cattolicesimo prigioniero di una visione metastorica e sacralizzata della natura, in perenne e lacerante conflitto con la propria epoca, portato a vedere in rapporti e pratiche sociali come la famiglia, il matrimonio, la sessualità – per non dire della stessa vita della specie – il riflesso di un presunto "ordine naturale" che dovrebbe confinare la nostra civiltà in una sorta di eterno e ripetitivo mimetismo del trascendente; mentre per ognuna di queste istituzioni o strutture è sempre più evidente che siamo unicamente di fronte al risultato provvisorio e modificabile di processi evolutivi, sia culturali, sia biologici: insomma, alla storia e solo alla storia.

Né è accettabile la risposta – del resto facilmente prevedibile – che questa duplicità di atteggiamenti sarebbe solo il prodotto di una deformazione laicista, e che essa non dipenderebbe da altro se non dalle diverse attitudini con cui si può guardare – da chi le è lontano – alla dottrina della Chiesa, che sarebbe invece, per parte sua, assolutamente univoca e coerente, arroccata intorno alla difesa di un unico principio, per quanto declinabile in modi diversi: l´inviolabilità e la dignità della vita e della persona in ogni sua forma, e con essa, del retroterra naturale che le fa da presupposto.

Si tratterebbe infatti di una replica non convincente. Perché quel che chiamiamo "persona" non è un concetto astratto, e non è dato una volta per tutte, in eterno – come ancora sembra sostenere la Chiesa – ma è esso stesso un esito storico, che cambia e si trasforma, come l´umanità cui si riferisce. E oggi quell´espressione – persona umana – esprime, nelle condizioni storiche date, un insieme di domande, di attese, di bisogni, di stati mentali, di differenze, di potenzialità di vita la cui piena valorizzazione e soddisfazione richiede non solo equità sociale e disciplinamento etico dell´economia, ma anche il superamento di quella soglia di "naturalità" che la Chiesa vorrebbe invece preservare come inviolabile. In altri termini – e per rimanere su un piano elementare e immediato – senza massicci programmi di contraccezione è impossibile tutelare la "persona" di moltissime donne africane, o cinesi, o indiane; esattamente come la "persona" di molte donne e di molti uomini europei e americani non può essere valorizzata e difesa senza un´idea del rapporto fra sessualità, affettività e matrimonio che abbia rotto con un modello che non è più "naturale", di quanto lo sia un abito o una città, ma riflette solo una storia che ha smesso di appartenerci. E questo vale anche per ogni forma di controllo tecnologico della vita e della morte, che dipendono totalmente dalla cultura, e non dalla natura. Rendersene conto, non vuol dire arrendersi al capriccio di un individualismo desiderante senza freni e senza vincoli, ma solo riconciliarsi con un´esperienza intellettuale e sociale più matura per poterla regolare con norme migliori.

Se le cose stanno così, abbiamo forse toccato qualcosa di importante, che si addensa al fondo del pensiero cattolico: qualcosa che se non è una vera e propria contraddizione, tuttavia le si avvicina molto. Voglio dire, un´altra importante traccia di quell´atteggiamento ambivalente verso la modernità, i suoi problemi, le sue conquiste e le sue prospettive, che ha segnato tutta l´elaborazione teorica e dottrinaria della Chiesa, dal Concilio Vaticano II in poi.

Attenzione però: questa vicenda non riguarda soltanto chi si riconosce nella fede; coinvolge al contrario tutti noi. Il mondo che ci aspetta domanda un´etica forte, adeguata alle responsabilità che dovremo assumerci, rispetto al futuro della nostra specie, e del pianeta che la ospita. Sarebbe impossibile credere che nella formazione di questa grande impalcatura morale potremo fare a meno del contributo cattolico, e della sua lunga consuetudine universalistica. Il cristianesimo è una religione d´amore, che fin dal suo esordio ha radicalmente problematizzato e capovolto il legame storico fra monoteismo, politica e violenza. È la religione di una socialità rivoluzionata. E di questo noi abbiamo un grande e crescente bisogno. Dobbiamo perciò, tutti insieme, riuscire a creare le condizioni di un dialogo nuovo, in cui la Chiesa sappia immettere più profetismo e meno dogmatica (questo è davvero il momento di farlo), e chi non si colloca all´interno del suo insegnamento sappia evitare di confondere la convinzione nell´inevitabile storicità di ogni proprio assunto con l´adesione a un relativismo superficiale e corrivo. Non resta che da iniziare.”

Non si vedono, al dire il vero, molti spiragli. Ne fa fede l’intervista concessa da Monsignor Rino Fisichella a Marco Politi (Repubblica 18 luglio):

“Monsignor Fisichella, la Chiesa come reagisce alla sentenza di Milano?

«Sento tristezza e sconcerto. Tristezza perché si toglie ad una ragazza la possibilità di vivere, sconcerto perché questa sentenza si sostituisce al legislatore e ai medici. Si è creato un precedente per obbligare il legislatore a intervenire. Si creano le premesse per l´eutanasia. Non nascondiamoci, in realtà questa è eutanasia».

I giudici non dovevano intervenire?

«Qui si è entrati in una vicenda non solo complessa, ma nella sfera del mistero della vita umana, che ha tante sfaccettature che sfuggono ai giudici e ai medici, ai professori e ai sacerdoti».

A un certo punto l´alimentazione artificiale non diventa accanimento terapeutico?

«No. Alimentare è un elemento essenziale per ogni essere umano affinché rimanga in vita. Anche la mamma obbliga a mangiare il piccolo che fa i capricci. Eluana è in coma da lungo tempo, ma darle cibo e acqua è ciò che si dà a ogni persona».

Tuttavia il caso è stato riconosciuto come coma irreversibile, con nessuna capacità di recupero intellettuale.

«Nessuno può stabilire in proposito perché nessuno sa cosa avviene in quella particolare forma di vita che è il coma. Mi fa paura che in questo modo si sia riconosciuto che c´è una vita indegna di essere vissuta. Stiamo andando verso una concezione utilitaristica della vita. Come dire: se non serve, non è degna di vivere. Di fronte a questa visione il nostro rifiuto è netto».

La Corte d´appello di Milano sottolinea di non aver espresso un giudizio sulla qualità della vita di Eluana, ma di essersi attenuta alle sue personali volontà.

«Questa è una conclusione del tutto gratuita. Nessuno può sostituirsi ad una sua personale decisione, nessuno è in condizione di interpretare la volontà di una persona che non è in grado di esprimersi».

Potrebbe essere il momento per tornare ad affrontare la questione del testamento biologico?

«Credo sia una proposta su cui riflettere. Nella scorsa legislatura furono presentate almeno nove proposte di legge. Il Parlamento potrebbe continuare a discutere per individuare soluzioni condivise, che non lacerino il tessuto sociale. Mi preoccupa, però, che il legislatore sia spinto a discutere di un tema così delicato sotto la pressione di un singolo evento e non per il bene di tutti».”

5.

Il pericolo paventato di una lacerazione del tessuto sociale ovviamente non esiste perché esso si è già realizzato. Quando la Chiesa parla di mediazione riguardo ai problemi bioetici fa riferimento a provvedimenti giuridici che non fuoriescano dalla cornice dei suoi principi, definiti non negoziabili. Richiede, dunque, alla cultura laica di accettare - bon gré mal gré - i suoi dogmi come leggi assolute che l’uomo non può violare. Essa non cede all’evidenza per cui quelle leggi valgono, ed è giusto che valgano, per i credenti, ma non per chi non riconosce né l’Autorità divina né quella del Magistero ecclesiale.

Lo scontro tra le due culture è già in atto, e non certo per responsabilità dei laici. Più che mediarlo occorre approfondirlo.

L’orientamento attuale della Chiesa è rivolto a contrapporre i suoi valori, che tutelerebbero la dignità dell’uomo, ai valori deteriori della cultura laica, che la subordinerebbero alla funzionalità. La definizione che essa dà di questi ultimi valori mira ad nobilitare il suo ruolo di istituzione che tutela i deboli (feti, handicappati, anziani, malati, moribondi, ecc.) contro la violenza di un sistema sociale che tenderebbe a liberarsene. identificando in essi pesi morti insostenibili sotto il profilo psicologico, assistenziale ed economico.

Il problema è che essa confonde l’utilitarismo capitalistico, per il quale è senz’altro vero che l’uomo vale in quanto serve, con i valori dell’Illuminismo che hanno universalizzato la dignità dell’individuo estendendola a tutti gli esseri umani.

La civiltà occidentale ha due anime: una, impietosa e cinica, che fa riferimento al darwinismo sociale, alla selezione dei più adatti; un'altra, legalitaria, morale e umanitaristica, che, da Rousseau in poi, identifica nella pietas l'emozione che sottende (o dovrebbe sottendere) i rapporti sociali.

La convivenza di queste due anime è un problema storico e culturale di grande portata.

E' importante considerare, però, che, mutatis mutandis, queste due anime sono presenti anche nella dottrina e nella pratica della Chiesa, che difende la dignità e l'uguaglianza degli esseri umani, ma è spietata nei confronti di coloro che si ribellano a Dio e alle sue Leggi.

Per esempio, essa si batte perché i diritti degli esseri più indifesi in assoluto - i feti - siano rispettati, ma, identificando l'aborto con un omicidio, destina molte donne, che hanno in genere una sensibilità religiosa superiore agli uomini, costrette dalle circostanze a ricorrere all'interruzione della gravidanza, a nutrire per tutta la vita gravi sensi di colpa. La spietatezza consiste nel non tenere conto delle circostanze e nel non considerare che esse sono talvolta a tal punto negative da indurre all'aborto anche donne cattoliche, alle quali viene negata l'assoluzione.

Si può dibattere all'infinito se queste due anime sono costitutive del Cristianesimo o sono il prodotto dell'evoluzione storica della dottrina. L'unico fatto certo e inconfutabile è che esse si ritrovano anche nell'originario messaggio di Gesù, densamente umano nei confronti dei peccatori traviati dal contesto storico (pubblicani, prostitute, ecc.), ma del tutto disumano nei confronti dei suoi “nemici” (Farisei, Sacerdoti del Tempio, ecc.). Si può pensare che l'animosità di Gesù nei confronti di coloro che egli riteneva responsabili della rovina del popolo ebraico sia stata drammatizzata dagli evangelisti, da Matteo e soprattutto da Giovanni, in conseguenza del conflitto tra ebrei e cristiani inaspritosi dopo la morte di Gesù. E' difficile pensare però che quell'animosità sia del tutto infondata.

Le due anime del cristianesimo sono ancora oggi attive e riconoscibili. La vibrante intensità con cui la Chiesa difende il valore assoluto dell'uomo coincide con l'imperativo categorico di accettare integralmente il volere di Dio, vale a dire di accettare, tra l'altro, la nascita di bambini gravemente handicappati o il decorso terminale di gravi malattie.

Essa non sembra in grado di capire che se l'uomo non può essere definito in quanto serve, tale criterio può essere esteso anche al suo dovere di sottomettersi all'imperscrutabile volontà di Dio.

La denuncia dell'utilitarismo capitalistico è poi ridicola poiché non tiene conto del fatto che, nell’ambito del sistema, i “deboli” in questione sono produttori di lauti guadagni. Un bambino che viene al mondo rende circa 400-500 euro al mese, l’assistenza agli handicappati e agli anziani, che viene erogata in gran parte da strutture private cattoliche, è un business fiorente, gli anziani che divorano medicine sono una panacea per le industrie farmacologiche, i comatosi e i malati terminali utilizzano farmaci e attrezzature tecnologicamente avanzate, ecc.

I “deboli” sono, insomma, consumatori elettivi di beni e di servizi.

Riguardo all'ultimo aspetto, c'è da considerare il pericolo che, come accade negli Stati Uniti, in tutti i paesi la tecnologia assistenziale produca un numero considerevole di pazienti senza speranza tenuti in vita artificialmente. Negli Usa essi sono già 40000, in Italia 3000. Contro questa tecnologia, che, al di là di un certo limite, è evidentemente contro l'uomo, la Chiesa non ha alcunché da dire: l'approva entusiasticamente, non rendendosi conto che un solo paziente in stato vegetativo senza possibilità di recupero, con il suo essere un automa deprivato di ogni libertà, di ogni volontà e desiderio, è una contestazione vivente della provvidenza e della bontà di Dio.

Puntare il dito contro un imperscrutabile intento eugenetico, è un non senso o, meglio, è un’interpretazione astratta della modernità. Se si vuole contestare il sistema, occorre tenere conto del fatto che esso tende sì alla selezione sociale, ma non certo nei confronti dei "deboli" che consumano risorse bensì di chi non le consuma: poveri, disoccupati, sottoccupati, ecc.

Ma cosa s’intende, poi, per dignità dell’individuo? La Chiesa la riconduce al principio spirituale - l’anima - che Dio infonde in ogni essere umano e che lo rende del tutto diverso da ogni altra specie vivente. In termini laici, la dignità dell’uomo non è un fatto ontologico, intrinseco alla natura umana. Per questo aspetto, l'uomo è null'altro che il prodotto dell'evoluzione naturale e quindi esposto a molteplici "insulti" naturali, dalle malformazioni ai tumori, all'Alzheimer, ecc.

La cultura laica identifica la dignità dell'uomo nei suoi diritti naturali all'integrità fisica, alla libertà e all’autodeterminazione.

Il problema è che tali diritti non esistono in sé e per sé, non sono prodotti dalla natura ma dalla cultura: rappresentano una convenzione tra esseri che si attribuiscono reciprocamente la parità e l’uguaglianza.

Se si parte da questo presupposto, la possibilità che un soggetto, in determinate circostanze, possa esercitare la sua libertà chiedendo di essere aiutato a morire diventa del tutto legittima.

Su cosa fa leva tale diritto? Su una concezione della vita che va al di là della sopravvivenza biologica e tiene conto della dimensione psicologico-esistenziale dell’esperienza umana. La qualità della vita cui fa riferimento la cultura laica è caricaturizzata se viene ricondotta allo stereotipo dell’essere belli, giovani e vitale. Di fatto si dà una soglia minima al di sotto della quale la vita perde senso per il soggetto, ed è giusto assegnargli il potere di decidere cosa farne.

In difetto di una legge sul testamento biologico, è evidente, come accade nel caso Englaro, che si possono nutrire dubbi sulla volontà di morire di un soggetto che, seppure l’ha espressa esplicitamente, come sostiene il padre, non l’ha mai affidata ad un documento. Non sarebbe difficile risolvere tali dubbi, se si mettessero da parte i cavilli giuridici. Per risalire a quella volontà, basterebbe infatti ricondursi alla visione del mondo del soggetto. Se essa è laica, la volontà di morire è implicita e la si può ricavare dal meccanismo, banale ma importante, dell’identificazione.

Mettendosi nei panni della povera Eluana (come peraltro in quelli di un soggetto affetto da Alzheimer o da un tumore doloroso in fase terminale), un soggetto credente potrebbe accettare di affidarsi all’imperscrutabile volontà divina, ma qualunque soggetto laico rifiuterebbe un’esperienza senza senso.

Penso che questo criterio culturale potrebbe e dovrebbe essere adottato come discriminante sotto il profilo giuridico. Fare riferimento ad una volontà non esplicitamente espressa è un alibi che supporta il dubbio di “uccidere” un soggetto che, se fosse dotato di coscienza, desidererebbe continuare a vivere. Ma come fa una coscienza laica ad accettare di diventare uno "zimbello" nelle mani della Natura o di Dio?

Il paradosso del Cattolicesimo è di iscrivere nell'ambito dell'imperscrutabilità della volontà di Dio situazioni che, osservate con occhio critico, pongono fortemente in dubbio la sue esistenza. La teologia della Croce e del dolore ha una sua densità nel momento in cui coinvolge il credente nell'accettare consapevolmente i mali della vita. Ma come si può estendere tale teologia a chi non ha coscienza? Come si può coinvolgere i parenti in un'esperienza straziante?

La legge sul testamento biologico è necessaria per evitare situazioni dolorose come quella di Eluana. Non solo appare ormai urgente farla, dati gli sviluppi tecnici della medicina, che rischiano di riprodurre in tutte le nazioni avanzate la percentuale enorme dello 0,5% di pazienti in coma vigile. Forse sarebbe ancora più importante rendere obbligatorio per tutti i soggetti che raggiungono la maggiore di esprimere la loro volontà a riguardo (posto naturalmente il loro diritto di cambiare opzione nel corso della vita).

Non torno sul paradosso, su cui mi sono già soffermato, per cui la Chiesa, sacralizzando la vita fino al punto di identificarla nella sopravvivenza vegetativa, esprime in realtà un rozzo materialismo. E’ Dio, secondo essa, che decide quando interromperla. Se fosse vero, il barone d’Holbac con la sua insistente denuncia, ne Il buon senso, della crudeltà divina avrebbe perfettamente ragione.

Riporto in appendice un articolo del Prof. Defanti, che fa il punto sulle attuali conoscenze in tema di PSV e espone la sua valutazione della situazione di Eluana Englaro. L'articolo, ovviamente, non è aggiornato agli ultimi sviluppi politici e giuridici del caso.

Appendice

Carlo Alberto Defanti

Lo stato vegetativo persistente: un appello alla nostra responsabilità

Nel bell'articolo che appare su questo numero della Rivista, Peter Singer riprende in esame il tema della morte cerebrale, che già in più occasioni ha trattato, sostenendo una posizione controcorrente rispetto a quella che predomina nel mondo medico (e bioetico). Egli argomenta magistralmente contro la teoria della morte cerebrale "totale" e al tempo stesso critica in modo efficace, anche se a parer mio non convincente, la teoria alternativa della "morte corticale", che chi scrive ha difeso già nel 1993, nel secondo numero di Bioetica e più recentemente in un libro.

Sul piano pratico la conclusione che Singer trae dalla sua analisi è che non è opportuno ridefinire la morte e cambiare il concetto tradizionale.

Non per questo bisogna rinunciare ai grandi vantaggi che la pratica del trapianto d'organo ha arrecato e tuttora arreca ai malati. Bisogna invece rinunciare alla cosiddetta "dead donor rule" che consente il prelievo di organi solo dopo l’avvenuto accertamento di morte (fatta salva la possibilità di donazione volontaria fra viventi, in condizioni previste dalla legge) e al tempo stesso di rinunciare all'antica dottrina della "sacralità della vita". Vi sono cioè situazioni cliniche terminali in cui, pur essendo l'individuo ancora in vita, è consentito abbreviare il processo del morire se vi è per questo una buona ragione; una di queste buone ragioni è certamente il prelievo d'organo (prescindo qui dall'ulteriore questione circa il consenso espresso o non dal malato in vita).

In questo scritto non intendo replicare a Singer difendendo dalle sue critiche la teoria della morte corticale, che continuo a considerare la più adeguata all'attuale sviluppo delle conoscenze medico-scientifiche, anche se essa non è per ora introducibile nella pratica, data la difficoltà attuale di formulare (se non in tempi assai lunghi) la diagnosi di stato vegetativo permanente, cioè la diagnosi della situazione clinica alla quale il concetto di morte corticale si attaglia. Mi soffermo invece sulla sfida che i casi di stato vegetativo permanente, una volta solidamente accertati, pongono alla nostra responsabilità e lo faccio a partire da un caso concreto che seguo da quattro anni e che ha dato origine al caso giudiziario di cui si dà ampia menzione in questo numero.

Il caso E.E.

E.E., di sesso femminile, all’età di 20 anni fu vittima di un incidente stradale che comportò un gravissimo trauma cranio-cerebrale. Fu condotta presso un ospedale ove si rilevò radiologicamente una frattura del cranio e una frattura della colonna cervicale. Mediante la TAC vennero evidenziate raccolte di sangue in uno degli emisferi cerebrali e immagini di sofferenza nella regione talamica di ambo i lati. Clinicamente la paziente era in stato di coma con assenza quasi completa di riflessi, ma in grado di respirare spontaneamente, anche se non in modo sufficiente. I quattro arti erano paralizzati. La paziente venne sottoposta a intubazione tracheale e a ventilazione meccanica. Nei giorni successivi la situazione si aggravò ulteriormente in quanto il rigonfiamento degli emisferi cerebrali determinava la compressione del tronco encefalico e, come spesso accade in questi casi, la comparsa di un'emorragia nella parte più alta dello stesso (il mesencefalo). Superata questa fase, la paziente riprese gradualmente la capacità di respirare spontaneamente e, circa un mese dopo il trauma, cominciò a riaprire gli occhi, senza però mai riprendere contatto con l'ambiente e senza presentare alcun movimento spontaneo degli arti. Si configurò così il quadro clinico drammatico di uno stato vegetativo persistente che purtroppo si è mantenuto del tutto inalterato da allora.

Al momento della mia prima osservazione, sei anni dopo il fatto, appariva in buone condizioni generali. Manteneva gli occhi aperti durante buona parte della giornata, i globi oculari erano deviati ("deviazione sghemba") e la pupilla dell'occhio destro non reagiva alla luce. Le labbra, la mandibola e la lingua erano animate da una sorta di tremore ritmico. Gli arti erano immobili e spastici, con atteggiamento in equinismo di entrambi i piedi. Respirava spontaneamente, senza ausili meccanici. La nutrizione avveniva mediante un sondino naso-gastrico. Malgrado un'osservazione prolungata e stimolazioni di vario tipo, non si è mai riusciti a entrare in contatto con lei.

Durante la giornata e soprattutto durante la notte si osservavano momenti di sonno. Fra le indagini condotte durante la degenza, l'elettroencefalogramma prolungato per 20 ore confermava l'esistenza di un ritmo sonno-veglia.

L'attività elettrica registrata alla superficie del cranio (e proveniente dalla corteccia cerebrale) si dimostrava poco organizzata e non reagente ai diversi stimoli. La risonanza magnetica dell'encefalo dimostrava una diffusa alterazione della sostanza bianca dei due emisferi e un danno marcato del tronco cerebrale, ove si osservavano gli esiti dell'emorragia nel mesencefalo di cui ho parlato in precedenza. Lo studio dei potenziali evocati dimostrava un'assenza di risposta della corteccia cerebrale agli stimoli uditivi, un'assenza di risposta agli stimoli elettrici applicati sulle caviglie e una debole risposta corticale alla stimolazione elettrica del polso destro.

La diagnosi da me formulata era di stato vegetativo e la mia prognosi era negativa quanto al ricupero della coscienza; parlavo perciò, usando il termine proposto dalla "MultiSociety Task Force on Persistent Vegetative State", di stato vegetativo permanente (o, in altre parole, di stato vegetativo irreversibile). Purtroppo la previsione, del resto fin troppo facile, si è avverata ed E.E. si trova tuttora (nel febbraio 2000) nella stessa condizione clinica.

Che cos'è lo stato vegetativo persistente (SVP)

E' bene introdurre a questo punto una definizione di questo stato, tratta dal rapporto della Task Force testé citata. Si definisce stato vegetativo un quadro clinico caratterizzato da:

1. nessun indizio di consapevolezza di sé e dell'ambiente e di capacità di interagire con gli altri;

2. nessuna risposta comportamentale riproducibile, finalistica o volontaria a stimoli visivi, uditivi, tattili o dolorifici;

3. nessun indizio di comprensione del linguaggio altrui;

4. presenza di un ciclo intermittente di sonno-veglia;

5. conservazione sufficiente delle funzioni dell’ipotalamo e del tronco encefalico tale da permettere la sopravvivenza con semplici cure mediche e assistenza infermieristica;

6. incontinenza urinaria e fecale;

7. conservazione almeno parziale dei riflessi cranici.

Lo stato vegetativo può rappresentare una fase transitoria che a volte è seguita dalla ripresa della coscienza, ma talora esso si protrae. Si parla di stato vegetativo persistente quando esso dura oltre un mese. Lo stato vegetativo persistente differisce dallo stato di coma, con il quale viene spesso confuso dal pubblico, in quanto il malato è in grado di aprire gli occhi e conserva un'alternanza di sonno e veglia.

Quali lesioni cerebrali possono provocare lo stato vegetativo? Le lesioni possono variare da un caso all'altro, ma ciò che accomuna tutti questi malati è il fatto che essi conservano, in varia misura, le funzioni del tronco encefalico (responsabile sia delle funzioni vitali, come il respiro e la regolazione del circolo, sia dell'alternarsi di veglia e di sonno), mentre sono abolite le funzioni delle corteccia cerebrale (sia in seguito alla sua distruzione, sia a causa dell'isolamento delle vie nervose che la connettono ai centri sottostanti) e quindi è abolita la coscienza. L'individuo ha perso la vita cognitiva e mantiene quella vegetativa.

La diagnosi di stato vegetativo è relativamente semplice nelle mani di un neurologo esperto, ma richiede, a differenza di altre diagnosi, un'osservazione clinica attenta e prolungata per cogliere eventuali segni di contatto del paziente con il mondo esterno, segni che possono sfuggire a un'osservazione superficiale. La vera difficoltà che lo stato vegetativo solleva non è però la diagnosi, bensì la prognosi, vale a dire la previsione sulla sua reversibilità o meno. Dopo molte discussioni, la Task Force citata ha raggiunto un accordo su alcuni punti. Uno di essi è che prima di dichiarare permanente, cioè irreversibile, lo stato vegetativo di origine traumatica di un soggetto adulto (il caso di E.E.) è necessario attendere almeno 12 mesi. Trascorso tale lasso di tempo, la probabilità di una ripresa di funzioni superiori è insignificante.

Ancora sul caso

Il caso di E.E. corrisponde perfettamente ai criteri diagnostici su riferiti. Qual è il meccanismo attraverso cui il trauma l'ha condotta allo stato attuale? Con ogni verosimiglianza il trauma ha provocato, oltre all'emorragia nell'emisfero sinistro, che di per sé non giustificherebbe questo stato clinico, soprattutto un danno diffuso delle fibre nervose della sostanza bianca degli emisferi (si usa generalmente a questo proposito il termine inglese di diffuse axonal injury). Si può presumere che siano stati interrotti, per lo meno in gran parte, i collegamenti (sia in entrata che in uscita) fra la corteccia cerebrale e i centri nervosi sottostanti. E' come se la corteccia cerebrale, nella quale vengono elaborati i processi cognitivi, fosse isolata rispetto al mondo esterno, nel senso che non è in grado né di ricevere stimoli esterni né di comandare i muscoli del corpo. Il tronco cerebrale invece, pur essendo stato danneggiato dal trauma, non lo è stato completamente, come dimostra da un lato la ripresa della respirazione spontanea (il centro del respiro è situato nelle parti più basse del tronco, il bulbo e il ponte), dall'altro la ripresa di un’alternanza sonno-veglia, essa pure regolata dal tronco.

Alla luce di quanto ho detto, la diagnosi e la prognosi di E.E. sono oggi assolutamente certe: si tratta di uno stato vegetativo permanente, senza possibilità di ricupero delle funzioni cognitive. Al tempo stesso però la prognosi quoad vitam è favorevole: tale stato è stabile e, a meno di complicanze intercorrenti, il giovane e sano fisico di E.E. – se accudito con cura, come sta avvenendo – può sopravvivere per decenni.

Il problema morale e giuridico

Ma di che sopravvivenza si tratta? In base alle nostre conoscenze, E.E. non è consapevole di vivere, non ha sensazioni di alcun tipo, ciò che sopravvive è unicamente il suo corpo, le cui funzioni viscerali si svolgono normalmente.

Il tubo digerente assimila il cibo che però deve venire introdotto nello stomaco attraverso un sondino flessibile inserito nel naso; le feci debbono essere estratte mediante periodici clisteri; il rene elimina le scorie producendo l'urina che fuoriesce continuamente dalla vescica attraverso un catetere; la respirazione e la circolazione proseguono invece regolarmente e senza ausili esterni. Il suo aspetto è quello di una giovane donna ben nutrita e accudita i cui arti giacciono rigidi e immobili; solo il viso presenta alcuni movimenti automatici e riflessi, ma nessuna espressione umanamente significativa. In nessun modo si riesce a entrare in contatto con lei.

Malgrado tutto ciò che sappiamo ci autorizzi a dire che E.E. non soffre direttamente per il suo stato, è certo che la sua condizione rientra fra quelle che oggi il senso comune ritiene "prive di dignità": di lei rimane un corpo privo della capacità di provare qualsiasi esperienza, con un sondino inserito nel naso e un catetere nella vescica, totalmente dipendente dalle cure che gli vengono fornite dal personale di assistenza. La sua condizione è penosa per coloro che la assistono e che hanno ormai perduto da tempo la speranza di un risveglio e ancor più per i suoi genitori, che hanno perso una figlia ma non possono elaborarne compiutamente il lutto.

La più autorevole società scientifica neurologica americana, l’American Academy of Neurology, ha affrontato già nel 1995 il grave problema etico del da farsi in queste situazioni e ha sostenuto la moralità e la legittimità della sospensione della nutrizione e dell’idratazione artificiale – considerate come vere e proprie misure terapeutiche e non semplici misure di assistenza – qualora il paziente, prima di cadere in questo stato, abbia espresso un'opzione favorevole a questa sospensione.

E' tuttavia ovvio che nella maggior parte dei casi il soggetto non aveva manifestato in passato alcuna opzione di questo tipo, un fatto che vale tanto più in un paese come il nostro, in cui non vi è per ora nessun riconoscimento giuridico delle "direttive anticipate".

Nell’ultimo decennio si è accumulata inoltre una cospicua giurisprudenza, soprattutto americana ma anche europea (si veda per esempio il caso Bland in Gran Bretagna), favorevole alla sospensione delle misure di sostegno vitale anche nei casi in cui manchino direttive anticipate e in cui detta sospensione sia richiesta dai legali rappresentanti dell’individuo.

Sulla base di questi pronunciamenti il padre di E.E., suo rappresentante legale, ha chiesto ai medici curanti la sospensione della nutrizione e dell’idratazione, ottenendone un rifiuto. A seguito di ciò si è appellato alla magistratura: il tribunale di prima istanza (la pretura della città di Lecco) ha respinto il ricorso, assimilando questa sospensione a un atto di eutanasia e richiamandosi al diritto inviolabile alla vita e alla sua indisponibilità anche da parte del suo titolare.

In seconda istanza il padre si è rivolto alla Corte di appello di Milano, che, dopo aver analizzato abbastanza ampiamente il caso, ha raggiunto anch’essa una decisione negativa sul ricorso. Come riporta la motivazione della sentenza (pubblicata nel fascicolo) la Corte reputa che il dibattito svoltosi in ambito internazionale sul punto cruciale della questione, se cioè la nutrizione e l’idratazione artificiale siano mezzi di terapia – che come tali possono essere sospesi quando la situazione clinica è tale che il loro impiego non dà più alcun beneficio al malato – o siano invece ordinarie misure di assistenza che debbono essere comunque mantenute, quale che sia la condizione dell’individuo, non è giunto per ora a nessuna conclusione condivisa e, quindi, che si deve attendere un più ampio consenso.

Una delle posizioni espresse nel dibattito su cui la Corte di appello si sofferma in modo particolare è il documento elaborato nel 1992 dal Gruppo di Studio "Bioetica e Neurologia", del quale chi scrive era allora coordinatore. In quel documento, in effetti, veniva criticato il punto di vista dell’American Academy of Neurology secondo il quale la nutrizione e l’idratazione artificiali possono essere considerate terapie mediche al pari, per esempio, della somministrazione di antibiotici e delle trasfusioni.

Tale equiparazione, a giudizio del Gruppo di studio, è problematica per due ragioni: da un lato a giudizio di molti studiosi la nutrizione e l’idratazione sono sempre doverose in quanto, mentre le terapie mirano a curare i processi morbosi, la nutrizione e l’idratazione sono semplicemente finalizzate a mantenere in vita l’organismo; dall’altro merita di essere sottolineato che, sia pure raramente, nei soggetti in stato vegetativo il riflesso della deglutizione può essere conservato, ciò che rende possibile – anche se laboriosa – la nutrizione per via naturale (cioè imboccando pazientemente l’individuo).

Ora, se due soggetti in stato vegetativo permanente differiscono solo per la conservazione del riflesso di deglutizione, in uno dei due a parità di tutte le altre condizioni, non sembra giustificabile l’adozione di comportamenti diversi nei loro riguardi: non sembra cioè che il semplice mantenimento di un riflesso della vita vegetativa costituisca una differenza morale rilevante. Lo stesso Gruppo di Studio, dopo aver esposto questi argomenti, sosteneva a maggioranza che in realtà ciò che giustifica la sospensione della nutrizione e l’idratazione in questi casi non è il fatto che si tratta di terapie piuttosto che di mezzi ordinari di assistenza, bensì la considerazione che, dal punto di vista morale, gli individui in stato vegetativo permanente si possono considerare morti. Ha sostenuto cioè la concezione della morte corticale, quella concezione che, come ho detto più sopra, Singer critica nel suo articolo.

Anche Singer tuttavia, come ho detto, afferma la legittimità morale di sospendere le misure di sostegno vitale in questi individui. In altre parole, il disaccordo teorico non si traduce in un disaccordo sulle decisioni da assumere nei loro riguardi. Sia che essi siano da considerare deceduti, sia che debbano essere visti come esseri viventi permanentemente privi di attività cognitiva, Singer e il Gruppo di studio italiano concordano nel ritenere moralmente lecita la sospensione dei mezzi di sostegno vitale.

Una discussione interessante sulla questione se la nutrizione e l’idratazione siano da considerare "terapie mediche" o "cure ordinarie" si è svolta di recente sulla rivista Ethics & Medics, cioè sulla rivista della Conferenza episcopale dei vescovi cattolici americani. Da un lato il domenicano K. O’Rourke si è espresso a favore della sospensione della nutrizione e dell’idratazione artificiale, dall’altro le sue tesi sono state vivacemente criticate dal bioeticista W.E. May e dall'editor della rivista, E. Diamond. L'argomento principale di O’Rourke si basa sulla classica distinzione teologica fra "mezzi ordinari" (sempre doverosi) e "straordinari" (non obbligatori) avanzata della scuola di Salamanca.

Tale distinzione, così come il teologo la interpreta, afferma che sono "straordinari" (e dunque non obbligatori) i mezzi che impongono carichi gravosi al malato stesso o agli altri e risultano inefficaci rispetto al raggiungimento del suo scopo di vita (scopo che, nella sua prospettiva, è essenzialmente di ordine spirituale, cioè la conoscenza e l’amore di Dio). La nutrizione e l’idratazione artificiale certamente ottengono lo scopo di prolungare la vita del malato, ma non quello di aiutarlo a perseguire il suo scopo fondamentale di vita in quanto il soggetto in stato vegetativo è privo di capacità cognitive e affettive e pertanto incapace di vita spirituale.

Al contrario May sostiene che la nutrizione e l’idratazione artificiale sono mezzi ordinari (e dunque moralmente doverosi) in quanto non sono di aggravio al paziente stesso (proprio in quanto privo di consapevolezza). Circa la loro inefficacia rispetto al raggiungimento del fine spirituale della vita, essa non è – a suo parere – rilevante ai fini della distinzione.

Il nodo fondamentale del disaccordo tra O’Rourke e May sta nella convinzione del primo che la vita fisica umana non è un bene intrinseco, bensì soltanto un bene estrinseco, cioè un bene strumentale al raggiungimento di scopi superiori (spirituali), mentre il secondo pensa al contrario che la vita fisica sia un bene intrinseco della persona e che anche un individuo in stato vegetativo, ancorché privo di vita cognitiva, conserva il suo carattere e la sua dignità di persona.

L'editor della rivista, Diamond, concorda con la posizione di May e inoltre avanza pesanti dubbi sulla certezza della diagnosi di stato vegetativo permanente. Egli cita casi anche recenti di individui che avrebbero ripreso coscienza dopo tempi molto più lunghi di quelli indicati dalla MultiSociety Task Force. In base a questo argomento (l’argomento dell’incertezza o delle eccezioni) un’influente scuola di pensiero cattolica afferma che bisogna sempre seguire l’azione più sicura (tutior) e pertanto proseguire in ogni caso il sostegno alla vita fisica del malato.

Occorre osservare a questo proposito che l’argomento tuzioristico, se applicato coerentemente, renderebbe quasi impossibile assumere decisioni in medicina. Non esistono in medicina verità assolute e ogni evidenza ha solo carattere probabilistico.

La probabilità che un individuo diagnosticato in stato vegetativo permanente secondo le indicazioni della Task Force si risvegli, anche se non facilmente calcolabile, è comunque estremamente piccola. In altre parole, il grado di certezza è almeno pari a quello di molte altre situazioni in cui assumiamo decisioni senza esitare. Non parliamo poi di un caso come quello di E.E., che giace nel suo letto da otto anni e su cui nessuno può avanzare dubbi ragionevoli circa un "miracoloso" risveglio.

Nella motivazione della sentenza della Corte di appello di Milano le principali posizioni espresse nell’arena internazionale sono prese brevemente in esame, purtroppo non sempre in modo chiaro e talvolta con notevoli confusioni concettuali. Tale sentenza, comunque, rappresenta una risposta assai più alta rispetto a quella del tribunale di prima istanza e – tra l’altro – avalla completamente la tesi del ricorrente secondo cui il legale rappresentante di un malato incapace ha il potere di assumere decisioni in sua vece. Questa posizione rappresenta – credo – uno dei primi passi nella direzione di una nuova giurisprudenza in questo campo: non v’è dubbio infatti che il meccanismo giuridico dell’interdizione e della nomina del tutore sono stati pensati e fin qui utilizzati soprattutto per risolvere problemi di natura patrimoniale, mentre ora vengono estesi anche a quello concernente la vita biologica.

Purtroppo, a differenza di quanto è avvenuto in altri paesi, in Italia un dibattito su questa tematica tarda ad avviarsi, anche perché a essa viene collegato, a dir vero impropriamente, il tema dell’eutanasia, che tende a essere vissuta ancora come un tabù. La pubblicazione della sentenza e dei suoi allegati su questo numero della Rivista è finalizzata proprio all’apertura di una larga discussione pubblica.

Non si tratta di una mera discussione teorica. Il caso E.E. è ben reale, così come la sofferenza della sua famiglia, e sollecitano tutti ad assumerci le nostre responsabilità. Lasceremo la giovane E.E. ancora per anni "intrappolata" – anche se inconsapevole – nelle maglie del nostro sistema sanitario o saremo capaci di aiutarla a trovare una morte dignitosa?

Sono vicino al dolore della famiglia, ma sono sicuro che dopo questa decisione soffriranno ancora di più.