A bout de souffle

1.

Chi poteva organizzare un Congresso Internazionale su "I trattamenti di sostegno vitale e lo stato vegetativo. Progressi scientifici e dilemmi etici" se non la Federazione internazionale delle associazioni dei medici cattolici (Fiamc) e la Pontificia accademia per la vita? Dato il carattere confessionale degli organizzatori, come si sarebbe potuto dubitare che i dilemmi etici non sarebbero stati neppure affrontati in nome del fatto che essi non sono tali in un'ottica dottrinaria?

Ai congressisti non è bastato però ripetere le solite formulette dogmatiche sulla sacralità della vita Essi, a conclusione dei "lavori", hanno preteso e ottenuto l'avallo del Papa che, ricevendoli in udienza, ha riproposto una dottrina nota che, essendo tale da tempo, ha tolto ogni significato al Congresso.

Quando è lecito staccare la spina a un malato terminale o a un paziente in coma irreversibile? La risposta di papa Wojtyla è ovvia: mai, perché "anche allo stato vegetativo l'uomo è sempre una persona umana" fatta ad immagine e somiglianza di Dio. Fargli mancare dunque le cure che sono dovute ad ogni infermo, a partire dall'alimentazione e dall'idratazione, equivale dunque ad un omicidio, vale a dire ad "una vera e propria eutanasia per omissione"; "la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avvenisse per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione, non un atto medico"; "il suo uso pertanto sarà da considerarsi in linea di principio, ordinario e proporzionato, e moralmente obbligatorio".

Secondo il papa, non possono essere tirate in ballo, a riguardo, "considerazioni circa la qualità della vita, spesso dettate da pressioni di carattere psicologico, sociale e economico". Occorre dunque "contrastare le pressioni per la sospensione dell'idratazione e della nutrizione come mezzo per porre fine alla vita".

Il problema va affrontato su un altro piano, sostenendo "le famiglie che hanno un loro caro colpito da questa terribile condizione clinica", creando "una rete capillare di unità di risveglio, con programmi specifici di assistenza e riabilitazione", prevedendo "sostegno economico e assistenza domiciliare quando il paziente verrà trasferito a casa al termine dei programmi di riabilitazione intensiva" e creando "strutture di accoglienza per i casi in cui non vi sia una famiglia in grado di fare fronte al problema o per offrire periodi di pausa assistenziale alle famiglie a rischio di logoramento psicologico e morale".

E' lecito chiedersi se gli organizzatori del Congresso e il papa stesso hanno tenuto conto della proposta di legge sulle "dichiarazioni anticipate di trattamento", che consentirà a qualunque soggetto di definire i criteri cui i medici dovranno attenersi nel caso si realizzino condizioni di malattia che gli impediscano di esprimere la propria volontà. Se questa proposta dovesse passare, è presumibile che gran parte delle persone che usufruiranno di tale diritto rifiuteranno gli interventi di sostegno in caso di coma. Se i medici che staccano la spina sono dichiarati, con scarso spirito cristiano, assassini, i pazienti dovranno essere definiti suicidi, vale a dire colpevoli agli occhi di Dio di aver rifiutato una lenta, sterile agonia.

2.

Non è la prima volta che, in ambito bioetico, il rigorismo di principio della Chiesa si traduce in un atteggiamento forse involontariamente crudele. Identificare nell'aborto un omicidio può produrre qualche vago senso di colpa e qualche incubo in donne laiche, ma di sicuro ha contribuito e contribuisce a drammatizzare, fino ad esiti psicopatologici, la condizione psichica di tante donne cattoliche che si sono trovate costrette ad interrompere la gravidanza per motivi più oggettivi (di solito economici) che soggettivi.

L'accusa di omicidio ora è rivolta ai parenti che decidono di porre fine allo stato vegetativo di un congiunto e ai medici che staccano la spina. L'accusa verte su una sorta di fraintendimento simbolico. E' vero che Gesù ha detto di dar da bere agli assetati e da mangiare agli affamati. I pazienti in stato vegetativo non sono però assetati o affamati, ma affetti da una situazione comatosa che non solo li rende non autonomi, ma impedisce loro di avvertire gli stimoli della sete e della fame. Attaccarli alla spina, al respiratore, nutrirli e idratarli è un atto medico significativo finché si dà una ragionevole, per quanto improbabile, speranza di una ripresa. Quando tale speranza viene meno, continuare ad assisterli artificialmente significa prolungare a tempo indefinito una sterile agonia. Si configura insomma, da parte dei medici, un comportamento che rientra nell'ambito dell'accanimento terapeutico. Un comportamento illecito se il paziente non è stato in grado di esprimere la sua volontà.

A questa argomentazione i medici cattolici (ed è inutile dire che è puntualmente accaduto nel corso del Congresso) oppongono il fatto che la speranza non deve mai venire meno. Si danno infatti, sia pure rarissimamente, "miracoli" psicosomatici, vale a dire risvegli da stati comatosi che avvengono. Imprevedibilmente, dopo anni. Ponendo tra parentesi l'assoluta rarità di queste circostanze e il fatto che i risvegli si associano comunque a danni invalidanti, c'è da considerare che tenere artificialmente in vita pazienti in stato vegetativo comporta una spesa rilevantissima.

La Chiesa non vuole sentire parlare di economia quando è in gioco la vita umana. Rimane comunque vero che, essendo le risorse del sistema sanitario limitate, le quote investite nell'assistenza ai malati in coma irreversibile sono stornate da altri ambiti assistenziali. Consideriamo solo l'ambito più prossimo a quell'assistenza: quello della rianimazione e delle unità coronariche, laddove la lotta per la vita è infinitamente più significativa. Se il denaro investito nell'assistenza ai malati in stato vegetativo fosse utilizzata in quest'ambito numerosi pazienti potrebbero tornare a vivere. Da questo punto di vista, lo storno di denaro, attrezzature e personale in nome della sacralità della vita, nell'attesa di un estremamente improbabile miracolo, significa, né più né meno, destinare a morte persone che, se assistite, potrebbero sopravvivere. Paradossalmente, insistendo nell'assistenza di malati in coma irreversibile, si commettono indirettamente omicidi per omissioni di cure a malati che hanno ben maggiori probabilità di guarigione.

Questo paradosso merita una riflessione. La politica sanitaria si confronta di continuo con il problema del bene comune e di quello individuale. Tutti i pazienti hanno diritto alla migliore assistenza possibile. Le risorse economiche che una società può sacrificare per l'assistenza medica sono, però, necessariamente limitate. Esse impongono di operare delle scelte tra la necessità di assicurare la migliore assistenza possibile al maggior numero di persone (questo, in ambito sanitario, è il bene comune) e il diritto di singoli pazienti la cui assistenza ha un costo elevatissimo. Questo problema non viene mai affrontato sul piano dell'analisi e del dibattito per un comprensibile imbarazzo ideologico. Essendo fondata sull'individuo, la nostra società non può riconoscere il conflitto tra bene comune e vantaggio individuale. Questo conflitto, però, nella pratica sanitaria si pone e viene affrontato senza alcuna linea guida, casualmente. Penso che si dovrebbe avere il coraggio di affrontarlo apertamente. Tenendo conto che il bene comune è il bene di più persone rispetto a quello di un singolo individuo, non si dovrebbe esitare ad affermare che, in caso di necessità, il diritto all'assistenza di un individuo può essere sacrificato in nome del bene comune. Uno dei campi in cui questo principio dovrebbe essere adottato è, per l'appunto, quello dell'assistenza ai malati in stato vegetativo.

Ritenere tale principio lesivo dei diritti dell'individuo è improprio. L'individuo è un ente sociale. Egli per primo dovrebbe riconoscere di condividere la sua sorte con gli altri e avere una coscienza etica tale da rinunciare ad esercitare i suoi diritti quando essi risultano poco compatibili con i diritti di più persone. Di una coscienza etica del genere non c'è neppure l'ombra nell'orizzonte della nostra civiltà.

Oltre alla ritrosia dello Stato nell'affrontare il problema, c'è da considerare lo scoglio della Chiesa. Nonostante il suo afflato ecumenico, la dottrina e la cultura cattolica è fortemente incentrata sull'individuo. L'anima è individuale, e il problema della salvezza o della dannazione riguarda il singolo individuo. L'enfatizzazione del valore della persona e della sacralità della vita si fondano, in ultima analisi, sul fatto che, nel creare l'anima, Dio intende né più né meno gratificare il singolo individuo del privilegio di giocarsi le sue carte per accedere alla felicità eterna.

Il rispetto della persona si riconduce sostanzialmente al fatto che il corpo è semplicemente il depositario dell'anima. In quanto tale, esso va tutelato, curato, messo in condizione di sopravvivere in qualunque modo. Non è un valore di per sé: è un valore di riflesso. Ciò giustifica anche il paradosso dell'accanimento terapeutico e, da ultimo, della crudeltà di fare agonizzare per anni un paziente in stato vegetativo.