Senso

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S. comune Espressione filosofica la cui origine è nella denominazione aristotelica κοινὴ αἴσϑησις «sensazione comune», designante l’atto percettivo che fonde in unità i dati dei vari organi di s., riferendoli all’unico oggetto da cui sono determinati e accompagnando ogni esperienza sensibile in quanto ne rappresenta l’autoconsapevolezza. Diverso significato l’espressione acquisisce nella tradizione latina: per Cicerone, per es., essa designa l’insieme delle nozioni e delle credenze su cui esiste un implicito accordo da parte di tutti gli uomini. In quest’ultima accezione l’espressione fu ripresa e diffusa dalla scuola scozzese di T. Reid, che dal consenso universale sull’esistenza degli oggetti esterni faceva dipendere il cosiddetto realismo del s. comune, contrapponendolo al fenomenismo di G. Berkeley e D. Hume. S. morale Secondo la dottrina svolta dai moralisti inglesi del Settecento, e specialmente da A. Shaftes­bury e da F. Hutcheson, capacità quasi istintiva di valutazione morale dalla quale nasce la discriminazione del bene e del male: è questo s. che costituisce una regola infallibile per l’uomo e che comanda ciò che si deve fare e non fare (virtù e vizio). È soprattutto Hutcheson ad assumere il s. morale quale facoltà autonoma rispetto a ogni immediato riferimento edonistico: è per mezzo del s. morale che si prova piacere per le azioni buone altrui e nostre, senza alcun riferimento a vantaggi ulteriori. La dottrina del s. morale è largamente diffusa in altri moralisti inglesi: in J. Butler, per es., e in D. Hume, il quale ritiene essenziale un s. particolare per produrre biasimo o apprezzamento morale, e per cogliere ciò che è utile alla felicità dei più.

Dizionario di Filosofia (2009)

Termine che presenta una complessa stratificazione semantica, potendo indicare, volta a volta: (1) la facoltà di ricevere impressioni da stimoli esterni o interni, ossia la sensibilità; (2) ciascuna delle distinte funzioni con cui l’organismo vivente raccoglie gli stimoli provenienti dal mondo esterno e dai suoi stessi organi e che, nel soggetto umano, si specificano come i cinque s.: vista, udito, gusto, tatto, odorato; (3) la coscienza, o consapevolezza in genere, ossia la percezione di fatti interni (accezione per la quale tende a identificarsi con il sentimento); (4) la capacità naturale di intendere le cose, di apprezzarle nel loro giusto valore, di giudicare rettamente, spesso qualificata più precisamente come buon senso o s. comune (➔); (5) il contenuto e il valore di un elemento linguistico, accezione per la quale tende a sovrapporsi alla nozione di significato, sebbene diversi autori e orientamenti filosofici tendano a distinguere il s., più generale e comprensivo e quindi più mutevole nei diversi contesti, dal significato, più specifico e costante, e altre scuole usino i due termini nel rapporto opposto.

Nella storia della filosofia. Nella filosofia antica, centrale è l’analisi del s. svolta da Aristotele (soprattutto nel De anima), con riferimento alla caratteristica peculiare dell’anima sensitiva, la quale si distingue dalla vegetativa anzitutto per la sua capacità di sentire, ossia «di ricevere, per impressione, le forme sensibili senza la materia, come la cera riceve l’impronta dell’anello senza il ferro o l’oro» (De anima, B 12, 424 a 17-20). Aristotele passa anche in rassegna i cinque s. (rimarcando il carattere primario del tatto), sottolinea come a ciascuno di essi corrisponda un sensibile proprio, e individua quindi nel s. comune, ossia nella capacità di «sentir di sentire», il s. non specifico su cui si fonda la percezione dei sensibili comuni (moto, quiete, figura, grandezza). Alla trattazione aristotelica si ricollega la filosofia scolastica, attraverso la sua più articolata teoria del rapporto tra s. e specie sensibili, che poggia sull’assioma «nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu» (➔), principio che viene ripreso da Locke, e che Leibiniz trasforma per sottolineare, coerentemente con la propria impostazione razionalista, l’irriducibilità dell’intelletto stesso alla sensibilità. A Cartesio va fatta invece risalire la tradizione semantica che assume il buon s. quale sinonimo di ragione, ossia come «la facoltà di giudicare bene e di distinguere il vero dal falso» (Discorso sul metodo, I). In età moderna, sarà Kant a ridefinire, dalla prospettiva trascendentale, il ruolo e la portata gnoseologica del s., dapprima (nella Critica della ragion pura) sottolineando la centralità che esso svolge nell’intuizione del molteplice empirico, nella duplice modalità del s. esterno, su cui poggia la rappresentazione degli oggetti nello spazio (➔), e del s. interno, attraverso cui l’animo intuisce i propri stati secondo la successione temporale (➔ tempo), poi (nella Critica del giudizio) sottoponendo a radicale reinterpretazione la nozione di senso comune, in una prospettiva volta a chiarire la condizione di possibilità del giudizio estetico. Un deciso ridimensionamento del s. compie invece Hegel, il quale, coerentemente con la propria concezione della ragione, rovescia l’assioma della scolastica, affermando il principio «nihil est in sensu quod prius non fuerit in intellectu». Particolare risonanza ha infine avuto la distinzione tra s. e significato formulata da Frege con riferimento alle espressioni linguistiche; in questa prospettiva, infatti, il s. coincide con l’intensione (o connotazione), cioè con il modo in cui un’espressione si riferisce a un oggetto, laddove il significato corrisponde all’«estensione» (o denotazione), cioè all’oggetto cui l’espressione si riferisce.