Parmenide di Elea

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Pensatore greco (sec. 6º-5º a. C.), massimo rappresentante della scuola eleatica. Il nome di P. è legato alla teoria dell'essere unico, immobile e indivisibile, quale venne più tardi accreditata dalla speculazione platonica e dalla critica aristotelica. L'unità e identità dell'essere rimase nota distintiva della scuola eleatica di cui P. fu il capo riconosciuto, e Melisso e Zenone i maggiori epigoni. A questa teoria P. giunse per contrapposizione al pluralismo naturalistico della filosofia ionica e alla dualità uno-molteplice, definito-indefinito della filosofia pitagorica ed eraclitea, in quanto concepivano l'essere come coesistenza di contrari.

VITA E OPERE

Scolaro, secondo una tradizione che la storiografia moderna ha spesso messo in dubbio e talvolta rovesciato, di Senofane di Colofone, elaborò, nel suo poema Intorno alla natura, la dottrina eleatica dell'essere, di importanza capitale nella storia del pensiero greco. Il poema si apre con un'introduzione, che ci è pervenuta quasi per intero e che descrive in forma allegorica come l'autore giunga, condotto dal carro delle Eliadi, di fronte alla dea reggitrice del mondo, e sia da essa esortato alla conoscenza tanto del vero sapere, quanto delle «opinioni dei mortali». Alla conoscenza della verità corrisponde la parte più propriamente positiva e metafisica della concezione parmenidea. Per accedere a essa P. prescrive che si percorra la «via della Persuasione compagna della Verità», e cioè quella nella quale si adopera soltanto l'«essere» e l'«è», e si esclude rigorosamente il «non essere» e il «non è».

Affermare che «il non essere è» è infatti immediatamente contraddittorio, e costituisce la prima e principale via dell'errore; ma da evitare è anche la seconda via dell'errore, costituita dalla contemporanea affermazione dell'essere e del non essere. Il valore di quest'«essere» si chiarisce quando si tenga presente la determinazione che se ne dà: il νοεἷν, il «pensare», è inseparabile «da quell'essere in cui si trova espresso».

E ciò spiega a un tempo l'origine ideale della concezione parmenidea dell'ente e il vero significato della sua identificazione dell'ente col pensiero. Quest'«essere» non poteva non ridursi, nel suo motivo originario, all'«essere» astraibile come forma comune di tutti gli «è» costituenti le singole affermazioni empiriche. Si comprende così il motivo fondamentale del pensiero di P., il quale parte dal rilievo delle molteplicità delle singole designazioni delle cose rispetto all'unità dell'essere con cui esse si predicano e si affermano. Ma le singole cose non sono soltanto particolari, di fronte all'unità dell'essere: sono anche contraddittorie, perché ciascuna di esse «è» in un modo in quanto «non è» in un altro, e quindi mescola insieme contraddittoriamente l'essere e il non essere.

Propriamente vero, e quindi reale, è soltanto «ciò che è» senz'altra determinazione: l'«ente» (τὁ ἐόν). S'intende, d'altra parte, che l'«ente», di cui così P. scopre la natura in base a un'analisi della natura logico-verbale del pensiero, non è per lui un «essere» ideale o logico, che perciò si distingue dall'«essere» reale, ma è anzi, in virtù dell'originaria indistinzione delle sfere ontologica, logica e linguistica propria della mentalità arcaica, la stessa realtà nella sua più vera e solida forma: e può così essere definito come non nato né perituro; non interiormente diverso o diviso, e perciò tutto compatto e pieno; non mobile; e, infine, neppure infinito, perché l'infinità è imperfezione, e quindi definito nella più perfetta forma geometrica, quella della sfera.

La stessa tipica indistinzione tra sfera logico-verbale e sfera ontologica si ripete a proposito di quel mondo «secondo opinione» (κατὰ δόξαν) la cui dottrina P. fa seguire, nella seconda parte del suo poema, alla teoria del mondo «secondo verità» (κατὰ ἀλήϑειαν), cioè dell'ente. Tale dottrina, centrata sull'opposizione luce-tenebre, riprende largamente e reinterpreta motivi tipici della cosmologia precedente.

Nel campo della geometria si deve a lui una critica dei concetti geometrici fondamentali; oltre alla distinzione delle linee in rette, curve e miste (che a lui è attribuita da Proclo, nel commento di Euclide), sembra che gli si debba l'osservazione che le definizioni negative (come quella euclidea del punto come «ciò che non ha parti») sono quelle che maggiormente convengono ai principi.

Sembra che si debbano attribuire a P. le nozioni puramente razionali degli enti geometrici (punto, linea, superficie); così, per es., il concetto di linea è, per P., quello di pura lunghezza senza larghezza, in opposizione alla concezione pitagorica di linea costituita da punti monadi, che risponde a una conoscenza empirica non ancora razionalizzata.

In scavi condotti a Velia (Elea) si sono rinvenute, in momenti diversi, una testa e un'erma acefala recante il nome di P. (1º sec. d. C.): si tratterebbe del primo ritratto sicuramente parmenideo (rappresentante di un tipo ampiamente documentato) finora pervenutoci, scoperto insieme ad altre erme e ad una statua, relative a medici attivi a Elea. Nell'epigrafe, P. è indicato come Οὐλιάδης ϕυσικός: il primo attributo è da connettere probabilmente col culto di Apollo Οὄλιος, divinità salutare, e sembra qualificare P. come capostipite ideale della scuola medica eleate.