Concetto

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Pensiero, in quanto concepito dalla mente, più in particolare idea, nozione esprimente i caratteri essenziali e costanti di una data realtà che si forma afferrando insieme (lat. concipĕre = cum-capĕre, comprehendĕre) i vari aspetti di un determinato oggetto che alla mente preme aver presenti nel suo complesso.

Nella filosofia antica il c. sta a indicare l’essenza, ciò che rimane stabile al di là della mutevolezza del dato sensibile e della molteplicità delle apparenze. Così la dottrina platonica (e prima ancora quella di Socrate, cui già Aristotele attribuiva la scoperta del c.) intende il c. come ciò che è comune a più specie e, subordinatamente, a più individui, l’universale in cui si coglie la realtà stessa; nei concetti si rivelano le idee esistenti in sé stesse al di là e al di sopra del mondo sensibile. Analoga (nonostante il rifiuto della teoria delle idee) la concezione aristotelica, pur se più articolata: il c. coglie l’essenza delle cose, cioè la loro sostanza. In questo modo la teoria del c. si collega strettamente con quella della definizione. La scolastica rimase nel solco della tradizione platonico-aristotelica: il c. fa conoscere l’essenza della cosa, risulta astrazione di ciò che è intelligibile nella cosa stessa.

Un’impostazione diversa del c. è la teoria espressa da Abelardo (concettualismo): relativamente al problema degli universali, contro la soluzione realistica, la cui gerarchia ontologica culmina nel genere (superiore alla specie) e quella nominalistica per cui sia i generi sia le specie sono puri nomi, Abelardo e i suoi seguaci postularono un diverso status ontologico degli universali, intesi come c. della mente (conceptus mentis); questo peculiare status permette di salvaguardarne la funzione concettuale di fronte alla svalutazione nominalistica, chiarendo tuttavia il loro necessario rapporto alle cose sulla base di un processo astrattivo che si riallaccia alla classica teoria aristotelica della conoscenza; l’universale è ciò che può essere predicato di più cose, ma in quanto concetto.

Occam sviluppò poi con la teoria della suppositio le caratteristiche semantiche della teoria del c., che il realismo della tradizione aristotelica tendeva a mettere in ombra. L’empirismo posteriore in generale, sia pure su basi diverse (Locke, Berkeley, Hume, J.S. Mill), tenne fermo il punto di vista del c. come segno, sviluppando contemporaneamente l’indagine psicologica sulla sua genesi. Indagine esplicitamente rifiutata da Kant, che definisce il c. come una rappresentazione generale di ciò che è comune a più oggetti e distingue dai c. empirici i c. puri, le cosiddette categorie, forme a priori costitutive di ogni esperienza possibile. Anche in Hegel il c. è l’essenza stessa delle cose, ma il vero c., come determinazione al tempo stesso logica e reale, va distinto dal c. in quanto determinazione puramente astratta, frutto dell’intelletto, non della ragione.

La tesi oggettivistica del c. è stata poi accentuata, in un recupero della tradizione platonica e in opposizione sia allo psicologismo empiristico sia all’idealismo kantiano e postkantiano, da B. Bolzano e, soprattutto, da G. Frege, secondo il quale il c. è un’entità astratta dotata di un proprio status ontologico, diverso sia da quello degli oggetti concreti sia da quello delle rappresentazioni psicologiche, e la cui esistenza è da riconoscere indipendentemente dal fatto che vi si pensi o meno. In Frege, inoltre, la teoria del c. appare correlata alla ricerca sul problema del significato e alla nozione di proposizione, che avrebbe costituito oggetto di discussione soprattutto nella filosofia del linguaggio di orientamento analitico (Russell, Church, Carnap, Quine).