Storia del pensiero occidentale - da Wikipedia


Storia della filosofia occidentale

Per storia della filosofia occidentale si intende la storia del pensiero occidentale così come si è espresso attorno a molteplici questioni filosofiche; iniziata con la nascita del pensiero speculativo greco nel VII secolo a.C., ha coinvolto i pensatori di tutta Europa durante il Medioevo, l'era moderna e contemporanea, in un confronto continuo con i pensatori precedenti e con gli sviluppi di altri campi del sapere. La comune base greca ha trasmesso alla tradizione filosofica occidentale un metodo di pensiero improntato all'antidogmatismo e la sensibilità verso una serie di problematiche ontologiche ed etiche che l'hanno caratterizzata rispetto ad altre tradizioni filosofiche.

Non si può poi tralasciare, come secondo substrato della filosofia occidentale, la tradizione giudaico-cristiana che già dalla Tarda Antichità va ad instaurare un rapporto complesso con il pensiero laico, introducendo una serie di concetti inediti nel pensiero filosofico ed avviando quella dialettica tra fede e ragione variamente risolta nei secoli.

Gli storici della filosofia dividono solitamente la lunga storia della filosofia occidentale in quattro periodi: filosofia antica, filosofia medievale, filosofia moderna e filosofia contemporanea. Per una lista di autori in ordine cronologico vedere Storia della filosofia (tabella cronologica).

Filosofia antica

Anche senza arrivare ad affermare che «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone» (come scrisse Whitehead)1, non si può tuttavia negare che tutti i filosofi posteriori alla fioritura del pensiero antico abbiano avuto come punto di riferimento - anche in funzione polemica e distruttiva - le tematiche sollevate dai filosofi antichi (e da essi stessi risolte in modo eterogeneo) attorno al fine dell'agire morale, al rapporto tra l'uomo e la verità, tra intelletto e realtà.  

I presocratici

 Le prime testimonianze di un approccio allo studio della realtà che si possa definire filosofico risalgono al VII secolo a.C., in Asia Minore. Talete di Mileto, un personaggio sulla cui storicità non è ancora possibile avere certezze, è identificato da una tradizione risalente ad Aristotele come il primo filosofo. Con lui e con la sua scuola (scuola milesiana: Anassimandro e Anassimene) il pensiero per la prima volta si emancipa dall'impostazione religiosa e mitologica per ricercare spiegazioni razionali ai fenomeni naturali e alle questioni cosmologiche.

 Con i milesiani si impose anche come centrale il problema dell'identificazione  dell'archè (o origine), ossia l'elemento costitutivo e animatore di tutta la realtà, indagato anche da Pitagora ed Eraclito nello stesso periodo. Ed è dalle riflessioni sull’archè che si apriranno, con Parmenide e la scuola eleatica, le prime riflessioni ontologiche; e con esse la percezione di un conflitto irriducibile tra la logica che governa la dimensione intellettuale e il contraddittorio divenire dei fenomeni testimoniato dai sensi. Variamente risolto dai successivi filosofi del VI-V secolo a. C. (fisici pluralisti), la questione rimarrà centrale in tutta la storia del pensiero occidentale, dalla Scolastica ad Heidegger nel Novecento.

I classici

Nel V secolo a.C. si assistette ad un mutamento nell'oggetto della riflessione filosofica: all'interesse per la natura si sostituì un'attenzione maggiore verso le problematiche che riguardano l'uomo. L'agire morale, se il bene e il male siano relativi, la possibilità per l'essere umano di accedere alla verità, il rapporto natura/cultura: questi ed altri furono gli argomenti all'attenzione, sebbene con impostazioni differenti, sia dei sofisti che di Socrate. L'importanza di quest'ultimo per la successiva storia della filosofia fu fondamentale: con lui si acquisì piena consapevolezza della peculiarità del metodo di indagine filosofica (maieutica), e la ricerca della verità venne intesa come la riscoperta di una conoscenza già posseduta, universalmente valida ma dimenticata.

Le scuole filosofiche immediatamente successive alla morte del filosofo - scuola megarica, cirenaica, cinica e platonica - costituirono tutte uno sforzo interpretativo degli insegnamenti socratici. Se per le prime tre si trattò di elaborazioni minori, per Platone il socratismo fu un punto di partenza per una rielaborazione globale, nel primo grande sistema filosofico, di tutte le problematiche trattate dai pensatori precedenti. Conciliando Parmenide ed Eraclito, Platone sostenne da un lato che tutta la realtà fenomenica «scorre» in un continuo mutamento; e che al contempo però essa tende a costituirsi non a caso, ma secondo forme atemporali che sembrano preesisterle. Questo era un punto che in particolare l'atomismo di Democrito non aveva saputo spiegare, ossia perché la materia si aggreghi sempre in un certo modo, per formare ad esempio ora un cavallo, ora un elefante. Dietro ogni animale deve pertanto esistere un'idea, cioè una «forma» precostituita per ogni tipo, spirituale e non materiale. In queste forme eterne ed innate risiede non solo l'Essere di Parmenide, ma anche l'origine di ogni nostra conoscenza. Ad esse Platone ricondurrà ogni teoria sull'etica e la politica.

Con Aristotele, discepolo di Platone, la filosofia greca arrivò infine alla sua piena maturità: in lui la distinzione tra le particolarità accidentali da un lato, e le cause spirituali dall'altro in grado di guidare il perenne fluire dei fenomeni, diventa condizione della possibilità stessa di costruire scienza.3 La trasformazione di un uovo in una gallina ad esempio non può essere il risultato di semplici combinazioni fortuite della materia.4 A differenza di Platone, però, ogni organismo deve avere in se stesso, e non in un'idea a parte, le leggi del proprio costituirsi. La metafisica, scienza teoretica per eccellenza, sarà allora la disciplina che studia le cause responsabili dell'evoluzione della natura, ricercandone le essenze immutabili e universali. Le altre opere di Aristotele trattano analogamente dalla fisica alla politica, dalla logica alla botanica, prestando attenzione alla specificità dei diversi campi del sapere, ma conferendo al tutto un'organicità di pensiero che segnò il trionfo della razionalità greca. Da ciò l'importanza del filosofo per la cultura occidentale in senso ampio.

L'ellenismo

 Dopo Aristotele avrà quindi inizio il periodo ellenistico, in cui la cultura greca si fonderà con quella latina. Durante questo periodo si svilupparono tre principali correnti filosofiche: l'epicureismo, lo stoicismo, e il neoplatonismo. Rispetto alle altre correnti, il neoplatonismo sembrò concentrare ancora di più l'indagine sulla condizione umana e sulle possibilità date al singolo di trascendere il mondo quotidiano, mostrandone la contingenza. Il pensiero neoplatonico, il cui maggiore esponente fu Plotino, si proponeva così di essere un cammino di liberazione per l'uomo. Come molti altri platonici, Plotino pose uno scarto tra il mondo sensibile, sede dell'oscurità e della divisione, e il cosmo noetico, che è la vera realtà, prima manifestazione dell'essere e sede dell'Intelletto, generato a sua volta da un principio ineffabile (indicato da Plotino con il nome di Uno o Bene), e coglibile solo con un contatto di natura a-razionale chiamato epafé o henosis. L'Anima infine percorre l'universo plotiniano dal cosmo noetico al mondo materiale, verso cui essa discende per prendersene cura. La discesa dell'anima si trasforma per l'uomo in una caduta, causata dalla falsa credenza che scambia il mondo sensibile per la vera realtà, e dall'oblio della natura noetica di ciascuno di noi. La filosofia ha dunque il compito di riunire l'uomo alla sua patria intelligibile. Questa concezione dell'universo, e questo valore salvifico della filosofia sarà ripresa in tutte le forme che acquisirà dopo Plotino la filosofia neoplatonica.

Filosofia medievale

 La filosofia medievale costituisce un imponente ripensamento dell'intera tradizione classica sotto la spinta delle domande poste dalle tre grandi religioni monoteiste.

La patristica

 In Europa la filosofia medievale fu anticipata dal pensiero patristico, sviluppatosi in seguito alla diffusione del Cristianesimo all'interno dell'impero romano, e il cui maggiore esponente fu Agostino d'Ippona: questi divenne un vescovo neoplatonico, e conciliò la filosofia greca con la fede cristiana. Secondo Agostino ci sono dei limiti oltre i quali la ragione non può andare, ma se Dio illuminerà la nostra anima con la fede riuscirà placare la nostra sete di conoscenza. E affermò che il male è soltanto "assenza" di Dio, dovuto alla disobbedienza umana. A causa del peccato originale nessun uomo è degno della salvezza, ma Dio può scegliere in anticipo chi salvare; ciò non toglie che noi possediamo comunque un libero arbitrio.

La scolastica

 A partire dall'anno Mille è particolarmente significativa la nascita della filosofia scolastica, alla quale diede un contributo fondamentale Tommaso d'Aquino. Secondo Tommaso non c'è contraddizione tra fede e ragione, per cui spesso la filosofia può giungere alle stesse verità contenute nella Bibbia; egli conciliò pertanto la rivelazione cristiana con la dottrina di Aristotele. Quest'ultimo, partendo dallo studio della natura, dell'intelletto e della logica, aveva sviluppato delle conoscenze sempre valide e universali, facilmente assimilabili dalla teologia cristiana: ad esempio il passaggio dalla potenza all'atto è una scala ascendente che va dalle piante e dagli animali agli uomini, fino agli angeli e a Dio. Costoro hanno una conoscenza intuitiva, che permette loro di sapere immediatamente ciò a cui noi invece dobbiamo arrivare tramite l'esercizio della ragione.

Da alcuni punti di vista il Medioevo termina quando la fede si separa dalla ragione, quando metafisica e teologia diventano discipline distinte.

Gli altri nomi più importanti del periodo medievale sono Avicenna e Averroè in ambito islamico, Mosè Maimonide in ambito ebraico, Pietro Abelardo, Bonaventura da Bagnoregio e Duns Scoto in ambito cristiano.

Filosofia moderna

La filosofia moderna si estende dal 1400 fino al 1800 circa; essa ebbe inizio con la filosofia rinascimentale, che vide una rinascita del neoplatonismo e del pensiero di Plotino, identificato allora interamente con quello di Platone; in esso erano presenti inoltre concetti propri dell'aristotelismo. Tra gli esponenti di spicco del neoplatonismo vi fu in Germania Nicola Cusano, che rielaborò una teologia negativa su basi mistiche, affermando che Dio è il fondamento della razionalità, ma di Lui possiamo avere solo una conoscenza intuitiva perché la Verità non è qualcosa da possedere ma da cui si viene posseduti; mentre in Italia abbiamo Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. In un tale rinnovato clima culturale riprese vigore una disciplina emblematica di questo periodo: l'alchimia, che funse per certi aspetti da apripista alla chimica e alla scienza moderna. Cultore dell'alchimia fu in particolare Giordano Bruno, che anticipò per via filosofica le scoperte dell'attuale astronomia, introducendo il concetto di infinito in rottura con la visione geocentrica dell'universo. Sarà poi con Galileo Galilei che si suole far nascere ufficialmente la scienza moderna. 

Già dalla seconda metà del Cinquecento il neoplatonismo cominciò tuttavia a declinare, in favore di un naturalismo e un razionalismo concepiti in maniera maggiormente autonoma e meccanica. Nel Seicento Cartesio sviluppò una prima forma di metodo razionale, che pur rifacendosi al concetto teologico di Dio, se ne serviva non per annullare il pensiero nel senso tradizionale della teologia negativa in favore di una dimensione mistica e intuitiva del sapere, ma al contrario per dare consistenza e oggettività al pensiero umano; fu così che elaborò il cogito ergo sum, in virtù del quale l'essere risulta sottomesso al pensiero, e la verità concepita come oggetto da possedere. Nel tentativo di fondare un'autonomia della ragione, egli si servì di Dio non come fine ma come mezzo, cadendo però agli occhi dei contemporanei in un dualismo circolare: partendo dal pensiero logico giungeva alla dimostrazione di Dio, sulla quale però si basava a sua volta per giustificare lo stesso pensiero logico. La posizione di Cartesio ricevette per questo le critiche di Blaise Pascal, fautore di un ritorno alla tradizione agostiniana; Pascal fu inoltre anticipatore di un certo esistenzialismo cristiano, che respingeva le pretese della ragione di potersi fondare da sola. Anche l'olandese Spinoza si propose di rimediare agli errori di Cartesio, ponendo l'intuizione al di sopra del pensiero razionale; in tal modo egli poté ricondurre ad un unico principio, cioè un'unica sostanza, il dualismo che Cartesio aveva postulato tra res cogitans e res extensa. L'integrità della razionalità veniva così ripristinata identificando il pensiero con l'essere, e persino Dio con la Natura stessa. Un tale panteismo non significava tuttavia materialismo, poiché Spinoza postulò sempre la precedenza di Dio e dello Spirito sulla natura, concepita mai come autonoma o autoponentesi da sola.

Un pensiero autenticamente materialista cominciò invece a prodursi in Inghilterra, sempre nel Seicento, dando luogo a una riproposizione del meccanicismo democriteo, in virtù del quale i fenomeni naturali sarebbero interamente riconducibili a leggi meccaniche di causa-effetto. A questa teoria aderirono in primo luogo Thomas Hobbes, e in seguito soprattutto Isaac Newton (determinismo). Sempre in Inghilterra si assistette in contemporanea alla nascita dell'empirismo, secondo il quale la conoscenza non deriva da idee innate nell'intelletto e accessibili per via intuitiva, bensì unicamente dai sensi. In tal modo veniva riproposta una separazione netta tra l'essere e il pensiero, ovvero tra l'esperienza del dato da una parte, e la mente umana dall'altro che ne risulta "plasmata" in maniera simile a un mastice. L'essere venne cioè identificato con la verificabilità: ciò che non è verificabile, sperimentabile positivamente, non ha valore, né può conferire validità oggettiva al pensiero umano; era l'opposto della metafisica classica. Il maggior esponente dell'empirismo anglosassone fu John Locke. All'inizio del Settecento aderì a questa corrente anche Berkeley, che cercò di ricondurre l'esperienza sensibile ad un principio spirituale (Dio), affermando che esse est percipi, cioè l'esperienza sensibile è persino creatrice dell'essere. Fu infine lo scozzese David Hume a portare l'empirismo alle sue estreme conseguenze, sostenendo che neppure l'esperienza sensibile può conferire validità oggettiva al pensiero umano, trattandosi di due piani completamente separati: secondo Hume, ciò che generalmente si reputa fondato perché razionale, è frutto invece di un istinto di abitudine che non ha alcun legame con la realtà.

L'empirismo anglosassone si era sviluppato parallelamente alla corrente continentale del razionalismo, al quale, dopo Spinoza, aderì Leibnitz nel Settecento. Secondo Leibnitz, ognuno di noi è una monade slegata da tutto il resto; ma a differenza di Hume egli credeva nel fondamento oggettivo della razionalità, essendo tutte le monadi coordinate da Dio. Sul finire del Settecento Immanuel Kant ritenne però in parte fondata l'obiezione humiana, e decise così di sottoporre la ragione a vaglio critico, tramite la Critica della ragion pura. La riflessione kantiana si inserì nella cornice dell'illuminismo che andava nel frattempo sviluppandosi in Francia, e i cui maggiori esponenti furono Voltaire, Rousseau, e Montesquieu. Per risolvere le contrapposizioni tra razionalisti ed empiristi, Kant attuò una rivoluzione copernicana del pensiero, affermando che se da un lato il razionalismo non è autonomo ma ha bisogno dell'esperienza per aspirare ad una conoscenza oggettiva, dall'altro è l'esperienza sensibile ad essere modellata dalla ragione e non viceversa. Ma la grandezza di Kant risiedette soprattutto nella Critica della ragion pratica per l'importanza attribuita al sentimento morale, fondando sulla ragione anche l'agire etico: la legge morale che la ragion pratica si dà, e a cui questa spontaneamente ubbidisce, diventa per Kant garanzia universale e necessaria di libertà, dell'immortalità dell'anima, e dell'esistenza di Dio, concetti preclusi invece alla pura ragione.

Filosofia del XIX secolo

 La filosofia del XIX secolo, che viene spesso trattata come un periodo a sé stante, è stata dominata dalla filosofia post-kantiana dell'idealismo tedesco: il primo esponente di questa corrente, Fichte, cercò di dare maggiore coerenza al criticismo di Kant unificando ragion pura e ragion pratica, in quanto originate dal medesimo principio: l'Io. Il soggetto, secondo Fichte, non si limita a modellare l'esperienza, ma crea l'oggetto stesso dell'esperienza; trattandosi però di una creazione inconscia, che l'Io non riconosce come tale, egli salvava in tal modo anche il punto di vista realistico del criticismo. Nella cornice dell'idealismo Fichte fu tuttavia una meteora, soppiantato ben presto da Friedrich Schelling che mostrò maggiore interesse per il non-io, per l'oggetto posto dall'io (la natura), conciliando sotto certi aspetti l'idealismo critico fichtiano col razionalismo di Spinoza; ma come Fichte egli postulava pur sempre un'unione immediata di soggetto e oggetto, afferrabile solo a un livello intuitivo.

Anche Schelling fu una meteora, venendo ben presto soppiantato da Hegel, che affermò invece un'unione mediata di soggetto e oggetto, dunque non più uniti indissolubilmente. Hegel ripropose in un certo senso il ragionamento circolare di Cartesio, sostenendo che il divenire logico della storia, scaturito dall'Assoluto, serve alla fine a rendere ragione dell'Assoluto stesso. Egli sovvertì la logica sequenziale (quella aristotelica di non contraddizione), affermando la supremazia della razionalità sull'intuizione, e identificando ogni principio col suo contrario: «ciò che è reale è razionale» fu la summa del pensiero hegeliano. La logica formale per Hegel funge solo da avvio del processo, dopodiché il fine della filosofia coincide col mezzo da essa utilizzato, cioè la dialettica: questa non serve più a ricondurre a una dimensione mistica e di annullamento del pensiero, ma diventa fine a se stessa.

L'eredità hegeliana venne raccolta da Karl Marx, il quale vide in essa un sostanziale materialismo, mascherato esteriormente da idealismo. Si propose quindi di togliere da Hegel la sua "patina mistica", sostituendo l'Assoluto con la Storia. La dialettica marxiana prende così il nome di materialismo dialettico, in base al quale la molla che muove la storia è rappresentata dalla reciproca interazione di due princìpi contrapposti: in Hegel erano la ragione e la realtà, in Marx diventano la struttura (economica) e la sovrastruttura (culturale). Si trattava anche qui di un'unità mediata, composta cioè da due realtà distinte che alla fine della storia troveranno comunque conciliazione. Marx fu un filosofo della prassi, che trasformò la filosofia hegeliana in un impegno sociale di cambiamento del mondo.

Altri importanti pensatori del XIX secolo furono infine John Stuart Mill, filosofo britannico; Ralph Waldo Emerson, esponente del trascendentalismo americano; Søren Kierkegaard, fondatore dell'esistenzialismo, che criticò il sistema hegeliano ravvisandovi l'incapacità di comprendere come nella storia operino principi inconciliabili e non mediabili dalla ragione; e Friedrich Nietzsche, teorico del superuomo, che accusò i valori della religione e della metafisica occidentali di essere portatori di un sostanziale nichilismo.

Filosofia contemporanea

Nella filosofia contemporanea si è creata una certa divergenza tra i filosofi del continente europeo e quelli anglosassoni (sostanzialmente inglesi ed americani), nonostante molti di essi traessero spunti da quella fucina di idee che fu il Circolo di Vienna all'inizio del XX secolo. La filosofia anglosassone ha avuto un approccio più utilitaristico, che ha portato tra l'altro alla filosofia analitica. La filosofia del continente europeo ha mantenuto una maggiore varietà di filoni, restando più legata a impostazioni di tipo ontologico e gnoseologico, ritrovando allo stesso tempo una maggiore vicinanza con le filosofie orientali.
    •     La cosiddetta filosofia analitica, con Bertrand Russell, George E. Moore e Ludwig Wittgenstein, si sviluppò soprattutto a  Oxford e Cambridge, dove si riunirono anche gli empiristi logici emigrati dalla Germania e dall'Austria (ad esempio Rudolf Carnap) e altri studiosi americani (come Willard Van Orman Quine, Donald Davidson e Saul Kripke), o comunque di lingua inglese (per esempio Alfred J. Ayer).
    •     In Europa continentale (specialmente in Germania ed in Francia), i fenomenologisti tedeschi Edmund Husserl e Martin Heidegger aprirono la strada, presto seguiti da Jean-Paul Sartre e altri esistenzialisti, a tutta una varietà di scuole che portarono al postmodernismo (vedi anche Filosofia continentale).

Bibliografia

    •    Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Milano, Paravia, 2000

    •    G. Granata, Filosofia, vol.  I,  II, e  III, Milano, Alpha Test, 2001

    •    Battista Mondin, Storia della metafisica, vol.  I,  II, e  III, Bologna, ESD, 1998

    •    Ugo e Annamaria Perone, Giovanni Ferretti, Claudio Ciancio, Storia del pensiero filosofico, Torino, SEI, 1975

    •    Giovanni Reale, Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, La Scuola, 1985 ISBN 88-350-7647-1

    •    Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, Bompiani,  2004

    •    Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1996

    •    Franco Volpi,  Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Mondadori, 2000



Filosofia antica


I filosofi


VI secolo a.C.

 La filosofia occidentale nasce nelle colonie marinare fondate dai Greci nel loro moto di espansione verso l'Asia Minore e l'Italia meridionale.  

    •     I milesi: Talete, Anassimandro, Anassimene

    •    Pitagora e la scuola pitagorica

    •    Senofane

V secolo a.C.

    •    Eraclito

    •    Parmenide e la scuola eleatica

    •    Zenone di Elea

    •    Empedocle

    •    Anassagora

    •    Protagora, Gorgia e la sofistica

    •    Socrate

    •    Democrito, Leucippo e l'atomismo

    •    Sofistica

IV secolo a.C.

    •    Platone e l'Accademia

    •    Aristotele e il Liceo

    •    Pirrone e lo scetticismo

    •     Il Cinismo

III secolo a.C.

    •    Epicuro

    •    Zenone di Cizio e la stoa

II secolo a.C.

    •    Carneade

    •    Panezio

I secolo a.C.

    •    Posidonio

    •    Cicerone

    •    Lucrezio

    •    Enesidemo

I secolo

    •    Filone di Alessandria

    •    Seneca

    •    Agrippa

II secolo

    •    Plutarco

    •    Epitteto

    •    Marco Aurelio (121 - 180)

III secolo

    •    Clemente e Origene

    •    Plotino e il neoplatonismo

    •    Sesto Empirico

IV secolo

    •    Giamblico

V secolo

    •    Agostino

    •    Proclo

    •    Dionigi pseudo-Areopagita



Presocratici

Con l'espressione "filosofia presocratica" si designa, comunemente e a partire dalla fine XVIII secolo1, la filosofia greca precedente a Socrate. Essa include tuttavia anche quelle scuole contemporanee di Socrate che non furono da lui influenzate.

Storia

 Gli sforzi dei presocratici furono rivolti all'indagine del fondamento ultimo e della natura essenziale del mondo. Essi ricercarono il principio (arché) delle cose e il metodo della loro origine e della loro scomparsa. I presocratici – le cui opere sopravvivono oggi esclusivamente sotto forma di frammenti – sottolinearono l'unità razionale di tutte le cose e rifiutarono le spiegazioni mitologiche del mondo. La nostra conoscenza relativa a questi filosofi deriva dai resoconti effettuati da autori successivi (specialmente Aristotele, Plutarco, Diogene Laerzio, Stobeo e Simplicio) e dai primi teologi (specialmente Clemente Alessandrino e Ippolito di Roma).

I pensatori presocratici presentarono un discorso relativo ad ambiti fondamentali della ricerca filosofica quali l'essere e il cosmo, la materia primaria dell'universo, la struttura e la funzione dell'anima umana, i principi basilare che regolano i fenomeni percepibili, la conoscenza e la moralità umana.  

Scuola di Mileto

I primi filosofi presocratici giunsero da Mileto sulla costa occidentale dell'Anatolia. Talete è ritenuto il primo presocratico e il padre della filosofia greca. Egli affermò che l'acqua è la base di tutte le cose. Colui che per primo compose testi filosofici fu invece Anassimandro, che assunse come principio fondamentale una sostanza indefinita, illimitata e senza qualità (ápeiron), al di fuori della quale si differenziano le opposizioni primarie (caldo e freddo, umido e secco). Più giovane dei precedenti fu Anassimene, che identificò l'arché nell'aria, concependo quest'ultima mutata, dall'ispessimento e dall'assottigliamento, in fuoco, vento, nuvole, acqua e terra.  

Scuola pitagorica

Un altro presocratico fu Pitagora, il quale, considerando il mondo come un'armonia perfetta, dipendente dal numero, tentò di indurre gli uomini a condurre una vita parimenti armoniosa. La sua dottrina fu accolta e ampliata da un vasto seguito di seguaci (i pitagorici), che si riunirono presso la sua scuola nel sud d'Italia, a Crotone. Tra i suoi seguaci sono inclusi Filolao, Alcmeone di Crotone e Archita.

Scuola di Efeso

Altro presocratico di rilievo, Eraclito affermò che, in natura, tutte le cose sono in uno stato di flusso perpetuo, collegate da una struttura logica che egli definì con il termine logos. Secondo Eraclito, il fuoco, uno dei quattro elementi classici, stimola e concretizza questo modello eterno. Dal fuoco tutte le cose traggono origine e ad esso ritornano in un processo di cicli eterni.

Scuola di Elea

La scuola di Elea pose in rilievo la dottrina dell'Uno. Senofane dichiarò che Dio è l'unità eterna che permea l'universo e lo governa attraverso il Suo pensiero. Ancora, Parmenide di Elea introdusse un concetto di Essere unico, immobile, eterno, ingenerato, immortale e indivisibile. La dottrina parmenidea fu difesa dal discepolo Zenone, che polemizzò contro l'opinione comune che vede nelle cose il molteplice, il divenire e il cambiamento. Zenone propose una serie di celebri paradossi, assai dibattuti dai filosofi successivi, per cercare di dimostrare che il supporre che vi è qualche mutamento o molteplicità conduce a contraddizioni. Un altro esponente di rilievo di questa scuola fu Melisso di Samo.

Pluralisti

Recuperando la visione eleatica per cui l'Essere è necessariamente, Empedocle pervenne a una riformulazione della stessa. Da un lato egli mantenne salda l'idea della natura immutabile della sostanza, dall'altro identificò una pluralità di tali sostanze, vale a dire i quattro elementi classici: la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco. Secondo Empedocle, il mondo è edificato da queste sostanze attraverso due forze motrici ideali, l'amore in quanto causa di unione e il conflitto in quanto causa di separazione.

Scuola atomista

Tra i presocratici si annoverano anche Leucippo e Democrito, gli ideatori del primo sistema filosofico esplicitamente materialista. Tale sistema è la dottrina degli atomi, piccoli corpi primari numericamente indefiniti, indivisibili e imperituri, qualitativamente simili ma distinti per forma. Muovendosi eternamente attraverso il vuoto infinito, essi si scontrano e si uniscono generando così oggetti che differiscono secondo la varietà, il numero, la dimensione, la forma e la disposizione degli atomi che li compongono.

Sofistica

I sofisti dichiararono che il pensiero si basa esclusivamente sulle apprensioni dei sensi e sull'impressione soggettiva e che, di conseguenza, non abbiamo altri criteri comportamentali al di fuori delle convenzioni per il singolo. Specializzati nella retorica, i sofisti erano più educatori professionisti che filosofi. La causa del loro sviluppo fu lo speciale bisogno dell'epoca di un nuovo tipo di istruzione per le classi elevate. Importanti sofisti furono Protagora, Gorgia, Ippia e Prodico.

Dottrina

Spesso risulta difficile definire esattamente il pensiero dei filosofi presocratici così come ricostruire le argomentazioni che essi utilizzarono a sostegno delle loro teorie. Analoga sorte è toccata alle loro opere, andate perse nel corso dei secoli. Ciò che rimane dei loro scritti sono solo le citazioni di alcuni filosofi e storici antichi oltre a qualche raro frammento salvatosi dall'oblio.

In generale, i filosofi presocratici rigettarono le tradizionali interpretazioni mitologiche dei fenomeni a favore di spiegazioni più razionali attinenti allo studio della natura, sebbene queste fossero a volte collegate a concezioni religiose della tradizione orfica ed esoterica. Essi si chiedevano in particolare:

    •     Qual è l'origine (arché) delle cose?

    •     Qual è l'elemento primario, o la sostanza, di tutte le cose?  

    •     Come possiamo spiegare la molteplicità delle cose che esistono in natura?  

    •     Che rapporto intercorre tra unità e molteplicità, o tra essere e divenire?

Benché quasi tutte le soluzioni cosmologiche dei primi pensatori greci siano state in seguito in parte superate o corrette da riflessioni più complesse, grazie a strumenti di ricerca più potenti e sofisticati che hanno permesso conoscenze scientifiche più approfondite e metodiche, la filosofia non ha mai smesso di interrogarsi sulle questioni da essi sollevate.

Denominazioni diverse

Durante l'antichità classica, i filosofi presocratici erano detti physiologoi, studiosi della natura che Diogene Laerzio divide in due gruppi, quello ionico e quello italiota, guidati rispettivamente da Anassimandro e da Pitagora.

La classificazione "presocratici", intesa come un gruppo eterogeneo di filosofi cronologicamente precedenti Socrate, è stata da alcuni storici della filosofia abbandonata 2 a favore della denominazione di "presofisti". Infatti molti "presocratici", da Parmenide in  poi furono contemporanei di Socrate quando questi aveva già elaborato una filosofia matura.3 Nei presocratici cioè non dovrebbero essere compresi anche i sofisti che concettualmente segnano uno spartiacque dai primi spostando la speculazione dai piani ontologico e cosmologico a quelli antropologico ed etico. Quindi sono quest'ultimi i più vicini nel tempo e nel pensiero a Socrate che condivide con loro l'abbandono della riflessione filosofica sulla natura e l'interesse per i problemi dell'uomo.45

Un'altra denominazione che è stata proposta per accomunare i filosofi della natura è quella di ilozoisti (dal greco hýle = "materia" + zòon = "vivente").6 propria cioè di coloro che concepiscono la natura come un tutto animato e vivente.7 Si tratta in effetti di una concezione tipica di tutti i primi pensatori ionici 8 ma che viene estesa anche ad autori posteriori come, ad esempio, i filosofi della natura rinascimentali.   

Negli ilozoisti non mancano accenni ai problemi e al mondo dell'uomo ma sono del tutto secondari. Dopo questi sino alla comparsa dei sofisti, si sviluppano dottrine che non costituiscono un gruppo omogeneo ma sono differenti per temi e interessi speculativi tutti però diretti ad indagare la realtà.

Quindi la storia della filosofia sino all'avvento di Socrate andrebbe divisa in  

    •    presofisti:

         ilozoisti, gli Jonici di Mileto: Talete, Anassimandro e Anassimene (Scuola di Mileto);

         i Pitagorici: Pitagora e seguaci (Scuola pitagorica);

         gli Eraclitei: Eraclito e seguaci (Scuola di Efeso);

         gli Eleati: Parmenide e seguaci (Scuola eleatica);

         i Pluralisti: Empedocle, Anassagora;

         i Democritei: Leucippo, Democrito 9

    •    Sofisti

    •    Socrate


Bibliografia

    •    I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano: Bompiani, 2006.

    •     Giovanni Casertano, I Presocratici, Carocci, 2009 ISBN 88-430-4923-2

    •    Giorgio Colli, La nascita della filosofia. Adelphi, Milano, 1975, ISBN 9788845901812

    •    Giorgio Colli, La sapienza greca I - Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma. Adelphi, Milano, 1977, ISBN 9788845907616

    •    Giorgio Colli, La sapienza greca II - Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito. Adelphi, Milano, 1978, ISBN 9788845908934

    •    Giorgio Colli, La sapienza greca III - Eraclito. Adelphi, Milano, 1980, ISBN 9788845909832

    •    Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze 1961

    •     Maria Michela Sassi, La costruzione del discorso filosofico nell'età dei Presocratici, Scuola Normale Superiore, 2006 ISBN 88-7642-180-7

    •     James Warren, I Presocratici, Einaudi, 2009 ISBN 88-06-19750-9

    •    Martin Litchfield West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993


Sofistica

 La Sofistica è una corrente filosofica sviluppatasi in Grecia, e ad Atene in particolare, a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., la quale, in polemica con la filosofia della scuola eleatica e avvalendosi del metodo dialettico di Zenone di Elea, pone al centro della sua riflessione l'uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. Non si trattò di una vera e propria scuola né di un movimento omogeneo, ma fu estremamente variegata al suo interno: i suoi esponenti (detti appunto sofisti), seppur accomunati dalla professione di «maestro di virtù», si interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo ognuno a conclusioni differenti e a volte tra loro contrastanti. Tra questi emerse, distaccandosene, la figura di Socrate.

Etimologia

 Anticamente il termine σοφιστής (sophistés, sapiente4) era sinonimo di σοφός (sophòs, saggio) e si riferiva ad un uomo esperto conoscitore di tecniche particolari e dotato di un'ampia cultura. A partire dal V secolo, invece, si chiamarono «sofisti» quegli intellettuali che facevano professione di sapienza e la insegnavano dietro compenso: quest'ultimo fatto, che alla mentalità del tempo appariva scandaloso, portò a giudicare negativamente questa corrente. Nell'antichità, il termine era spesso posto in antitesi con la parola «filosofia», intesa come ricerca del sapere, che presuppone socraticamente il fatto di non possedere alcun sapere. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti, interessati al successo e ai soldi, più che alla verità. Il termine mantiene anche nel linguaggio corrente un carattere negativo: con «sofismi» si intendono discorsi ingannevoli basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. Solo a partire dal XIX secolo la Sofistica è stata rivalutata, e oggi è riconosciuta come un momento fondamentale della filosofia antica.

Contesto storico-culturale

Lo sviluppo della Sofistica ad Atene è legato a un insieme di fattori culturali, economici e politico-sociali. Con la sconfitta dei Persiani a Salamina nel 480 a.C. le poleis greche affermarono la propria autonomia, e la loro potenza si ampliò progressivamente nel corso dei successivi cinquant’anni di pace (la cosiddetta Pentecontaetia). In particolare, a primeggiare su tutte furono le città rivali di Sparta e Atene: la prima espanse la propria influenza su quasi tutto il Peloponneso attraverso un’ampia rete di alleanze, mentre Atene, membro di primo piano della Lega delio-attica, con l’avvento di Pericle finì con l’assumerne il comando. Con il potere politico ed economico crebbe però anche l’ostilità tra le due città, e il desiderio di supremazia sull’intera Grecia portò al disastro della Guerra del Peloponneso (430-404 a.C.).

Pericle

Pericle, leader carismatico della fazione democratica, governò Atene per circa un trentennio, dal 461 al 429 a.C., portando la città al suo massimo splendore. Egli fece trasferire il tesoro della Lega delio-attica da Delfi ad Atene, e trasformò il volto della città con un imponente piano di riforma architettonica (simbolo del potere dell’epoca sono gli edifici dell’Acropoli: il Partenone, l’Eretteo, i Propilei); inoltre, si intensificarono i rapporti con le altre città, attraverso alleanze e scambi commerciali. Fu proprio questo nuovo clima di pace a favorire l’affermarsi della Sofistica, poiché permise ai sofisti, «maestri di virtù» itineranti, di spostarsi di città in città, seguendo le rotte commerciali. Visitando luoghi con tradizioni e ordinamenti politici differenti, talvolta varcando addirittura i confini dell’Ellade, essi iniziarono ad interrogarsi sul valore intrinseco delle leggi e della morale, giungendo ad un sostanziale relativismo etico che riconosceva il valore delle norme morali solo in relazione alle usanze della città in cui ci si trova ad operare: la stessa areté (virtù) da loro insegnata si riduceva all’insieme delle norme e delle convenzioni riconosciute valide dai cittadini, alle quali il retore si deve adeguare per avere successo e buona fama.

L’età di Pericle fu dunque al tempo stesso l’età dello splendore e della crisi della polis, poiché coincise con la crisi dei valori tradizionali, di cui i sofisti furono protagonisti; come scrive Mario Untersteiner, la Sofistica è «l’espressione naturale di una coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria, e perciò tragica, sia la realtà». Il primo interesse dei sofisti è la rottura con la tradizione giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole basate sulla forza dell'autorità e del mito (e per questo motivo sono talvolta guardati come "precursori dell'Illuminismo"), a cui veniva contrapposta una morale flessibile, basata sulla retorica. D’altra parte, la stessa retorica che essi insegnavano aveva un’enorme importanza per la vita civile nel regime democratico dell’epoca, il quale riconosceva a tutti i cittadini l’uguaglianza giuridica (isonomia) e la libertà di parola durante l’assemblea pubblica (parresia).

I sofisti

 I sofisti erano maestri di virtù che si facevano pagare per i propri insegnamenti. Per questo motivo essi furono aspramente criticati dai loro contemporanei, soprattutto da Socrate, Platone e Aristotele, ed erano offensivamente chiamati «prostituti della cultura».

Ironicamente, i sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura (paideia), intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma come metodo di formazione di un individuo nell'ambito di un popolo o di un contesto sociale.. Essi riscossero successo soprattutto presso i ceti altolocati.

La figura del sofista, come persona che si guadagna da vivere vendendo il proprio sapere,  si pone come precursore dell'educatore e dell'insegnante professionista. Argomento centrale del loro insegnamento è la retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche.

I sofisti, a differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e alla ricerca dell'arché originario, ma si concentrano sulla vita umana, diventando così i primi filosofi morali. Vengono distinte due generazioni di sofisti:

    •     Sofisti della prima generazione: Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia

    •     Sofisti della seconda generazione: solitamente allievi dei primi, sono a loro volta distinguibili in:

    •     Sofisti politici: Antifonte, Crizia, Trasimaco, Licofrone, Callicle, Alcidamante, Polo, l'Anonimo di Giamblico

    •     Sofisti della physis, si interessano del rapporto natura-uomo, spesso conducendo studi naturalistici: Antifonte, (Ippia)

    •    Eristi, portano all'esasperazione il metodo dialettico: Eutidemo e Dionisodoro, Eubulide di Mileto

    •     Altri: Seniade di Corinto, l'anonimo autore dei Dissoi logoi

Stando alle fonti, pare che anche il filosofo Aristippo sia stato un sofista prima di incontrare Socrate e unirsi a lui; in particolare pare fosse allievo di Protagora e sappiamo per certo che diede lezioni di eloquenza a pagamento. A questo proposito si racconta un aneddoto: protagonisti sono Aristippo e il padre di un suo alunno, il quale, contestando il prezzo troppo alto della retta annuale, gli avrebbe detto: «Mille dracme? Ma io con mille dracme ci compro uno schiavo!», e Aristippo avrebbe risposto: «E tu compralo questo schiavo, cosi ne avrai due in casa, questo e tuo figlio!». A quanto pare Aristippo praticava tariffe differenziate in base alle capacità degli allievi, così che se uno di questi aveva la sfortuna di essere poco dotato la sua tariffa aumentava vertiginosamente, mentre se al contrario era particolarmente brillante e intuitivo la tariffa ammontava a poco più di 1 dracma, praticamente gratis.

Caratteri generali della Sofistica

La Sofistica, come detto, fu un movimento disomogeneo, e ogni sofista differiva dagli altri per interessi e posizioni personali. Tuttavia, è possibile riconoscere in questi autori alcuni caratteri comuni.

    •    Centralità dell’uomo. I sofisti si interessarono prevalentemente di problematiche umane ed antropologiche, tanto che gli studiosi parlano di antropocentrismo sofistico. Essi approfondirono i temi legati alla vita dell'uomo, che venne analizzata soprattutto dal punto di vista gnoseologico (ciò che l'uomo può conoscere e ciò che non può conoscere), etico (ciò che è bene e ciò che è male) e politico (il problema dello Stato e della giustizia). L’essere umano veniva considerato a partire dalla sua condizione di individuo posto all’interno di una comunità, caratterizzata da determinati valori culturali, morali, religiosi e via dicendo. Essi insegnavano pertanto a osservare formalmente le leggi e le tradizioni della polis, così da diventare cittadini rispettati e di successo – quindi virtuosi.

    •    Rottura con la “fisiologia” presocratica. Come conseguenza del punto precedente, i sofisti in genere trascurarono le discipline naturalistiche e scientifiche, che invece erano state tenute in grande considerazione dai filosofi precedenti. Per questa ragione alcuni studiosi hanno definito "cosmologica" la filosofia precedente ed "umanistico" o "antropologico" il pensiero sofistico. In realtà, va precisato che tale generalizzazione è per certi versi limitativa, poiché ad essa fanno eccezione i casi di Ippia di Elide (che, mirando ad un sapere enciclopedico, coltivò studi inerenti a vari campi scientifici, tra cui matematica, geometria e astronomia) e Antifonte (il quale, studioso dei testi ippocratici, fu esperto di anatomia umana ed embriologia).

    •    Relativismo ed empirismo. I sofisti concepivano la verità come una forma di conoscenza sempre e comunque relativa al soggetto che la produce e al suo rapporto con l'esperienza. Non esiste un'unica verità, poiché essa si frantuma in una miriade di opinioni soggettive, le quali, proprio in quanto relative, finiscono per essere considerate comunque valide ed equivalenti: si parla pertanto di relativismo gnoseologico. Questo relativismo investe tutti gli ambiti della conoscenza, dall'etica alla politica, dalla religione alle scienze della natura.

    •    Dialettica e retorica. Le tecniche dialettiche dell'argomentare (cioè dimostrare, attraverso passaggi logici rigorosi, la verità di una tesi) e del confutare (cioè dimostrare logicamente la falsità dell'antitesi, l'affermazione contraria alla tesi) erano già state utilizzate da Zenone all’interno della scuola eleatica, ma fu soprattutto con i sofisti che esse si affermarono e si affinarono. La dialettica divenne una disciplina filosofica essenziale e influenzò profondamente la retorica, ponendo l'accento sull'aspetto persuasivo dei discorsi, fino a scadere nell'eristica.

Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno voluto vedere nel movimento sofistico una sorta di “illuminismo greco” ante litteram, in quanto i miti e le credenze tradizionali vennero criticati e sostituiti con nozioni razionali: in altre parole la Sofistica avrebbe in un certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel movimento culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo appunto.

L'insegnamento

Con la comparsa dei sofisti nascono nuovi luoghi deputati all'insegnamento: le case dei cittadini più ricchi,18 le palestre pubbliche e le piazze, le quali includevano dei portici in cui i maestri potevano passeggiare con i loro discepoli o sedere in banchi dove potevano discutere. In genere, la scelta del luogo in cui tenere lezione era legata al tipo di "sapienza" professata: Socrate, ad esempio, scelse la piazza pubblica per mostrare la sua disponibilità verso tutti i cittadini e il disinteresse per il denaro – e lo stesso faranno i cinici in epoca successiva – mentre gli accademici, i peripatetici e gli stoici preferiranno luoghi attrezzati con strumenti scientifici e biblioteche. D'altra parte, va ricordato ancora una volta che la Sofistica non fu una scuola filosofica, bensì un movimento caratterizzato da un ampio e variegato dibattito interno.

Capisaldi dell'insegnamento sofistico sono:

    •    L'insegnabilità della virtù: essendo i sofisti "maestri di virtù", il loro insegnamento si basava sulle strategie per conseguirla, con fini eminentemente utilitaristici; non essendo infatti possibile conoscere il Bene in sé, l'educazione era volta a diffondere i valori più convenienti alla vita civile dell'individuo. Per questo motivo, essi si rivolsero non solo agli aristocratici, ma anche ai ceti emergenti che aspiravano al successo.

    •    La retorica: i sofisti non furono degli scienziati, poiché non limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica; piuttosto, per loro era importante il metodo di comunicazione, e per apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica e l'eristica: la prima consiste nell'arte di saper argomentare, la seconda nel saper vincere in una discussione. Il loro insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla morale si occuparono di problemi di diritto, ponendo la questione dell'esistenza o meno del diritto naturale (physis) e del suo rapporto col diritto positivo (nomos).

Per quanto riguarda le leggi e le norme i sofisti, spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha diverse regole e leggi. Ciò fece sorgere in loro domande quali:

    •    Ci sono regole uguali per tutti?
 In genere i sofisti propendono per il no, cioè per il relativismo etico.

    •    Vi è una cultura superiore alle altre?
Porre la domanda già equivale ad una critica delle tradizioni e ad una propensione per il relativismo culturale.

La Seconda sofistica

Dopo il successo del V secolo a.C., nel secolo successivo la Sofistica vide un progressivo ridimensionamento della propria importanza, soprattutto a causa delle già menzionate critiche rivolte ai sofisti dai filosofi Platone e Aristotele, e dalle loro scuole. Tuttavia, a partire dall'inizio del II secolo d.C. (quindi a distanza di circa 400 anni) si assiste, in piena età imperiale, ad una rinascita della Sofistica, grazie a un movimento filosofico-letterario definito da Filostrato Seconda sofistica (detta anche Nuova sofistica o Neosofistica, per differenziarla da quella antica). Diversamente dalla Sofistica del V secolo, però, la Seconda sofistica abbandona i temi di interesse filosofico ed etico (come la divinità, la virtù e via dicendo), per occuparsi esclusivamente di oratoria e retorica. La Nuova sofistica si presenta così subito come un movimento di impronta essenzialmente letteraria, orientato allo studio e all'esercizio dell'oratoria e ben distante dall'impegno politico e culturale dei sofisti dell'età di Pericle. I nuovi sofisti mirano all'affermazione personale e al successo pubblico, cercando (eccetto che in rari casi) di ingraziarsi la simpatia e i favori dei potenti; la loro produzione letteraria, improntata alla ricercatezza stilistica secondo lo stile del cosiddetto asianesimo, spazia attraverso vari generi: dialoghi, trattati, opere satiriche, novelle, fino a ben più leggere opere di intrattenimento, brani in cui veniva ostentata la propria bravura retorica.

Tra i vari autori di lingua greca che rientrano in questo fenomeno letterario, i più importanti sono:

    •    Dione Crisostomo («dalla bocca d'oro»), vissuto tra I e II secolo, ricoprì varie cariche politiche e svolse la propria attività di retore e insegnante in Bitinia e a Roma, dove però fu condannato all'esilio;

    •    Erode Attico, tra i più importanti e rinomati, ricoprì vari incarichi nell'amministrazione pubblica romana, tra cui il consolato del 143;

    •    Elio Aristide, allievo di Erode Attico, famoso soprattutto per le opere di onirocritica e per la sua devozione al dio Asclepio;

    •    Luciano di Samosata, uomo vicino alla famiglia imperiale romana (dinastia degli Antonini), fu autore di vari scritti sui più disparati argomenti, nonché modello di purismo linguistico;

    •    Flavio Filostrato, membro di una famiglia di celebri retori e sofisti, fu tra i più potenti letterati alla corte dei Severi.

Lungi dal concludersi con la fine del II secolo, la Seconda sofistica perdurò ancora nei secoli successivi. Tratti tipici di questo movimento sono rintracciabili in autori greci del IV secolo come Imerio, Libanio, Temistio e Sinesio, per giungere infine alla Scuola di Gaza (V secolo).


Bibliografia

Edizioni dei frammenti

 I frammenti e le testimonianze sui sofisti sono raccolte in Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di Hermann Diels e Walther Kranz (19526). In traduzione italiana sono consultabili:

    •    I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari: Laterza 1979.

    •    I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner e A.M. Battegazore, Firenze: La Nuova Italia, 1949-1962 (nuova edizione: Milano: Bompiani 2009, con introduzione di G. Reale).

    •    I sofisti, a cura di M. Bonazzi, pref. di F. Trabattoni, Milano: BUR, 2007

    •    I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano: Bompiani, 2006.


Bibliografia secondaria

    •     Mauro Bonazzi, I sofisti, Roma: Carocci, 2007.

    •     W.K.C. Guthrie, The Sophists, Cambridge: Cambridge University Press, 1969.

    •     George B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna: Il Mulino, 1988

    •    M. Isnardi Parente, Sofistica e democrazia antica, Firenze: Sansoni, 1977.

    •    W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Firenze, La nuova Italia 1959, (nuova edizione con un'introduzione di Giovanni Reale, Bompiani: Milano 2003.

    •    H.-I. Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità, Roma: Studium, 1966.

    •    E. Paci, Storia del pensiero presocratico, Roma: Edizioni Radio Italiana, 1957.

    •    A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Bari: Laterza, 1988.

    •    G. Reale, Il pensiero antico, Milano: Vita e Pensiero, 2001.

    •    Mario Untersteiner, I sofisti, Milano: Bruno Mondadori 19962.

    •     Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Volume A, Tomo 1, Paravia Bruno Mondadori, Torino 1999


Socrate


«Sembra dunque che per questo particolare io sia più saggio di quest'uomo, poiché non m'illudo di sapere ciò che non so!»

(Platone, Apologia di Socrate, 6)


Socrate (in greco antico Σωκράτης, traslitterato in Sōkrátēs; Atene, 470 a.C./469 a.C.2 – Atene, 399 a.C.) è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale.

Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d'indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (ἔλεγχος, "confutazione") applicandolo prevalentemente all'esame in comune (εξεταζειν, exetazein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale.

Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il primo martire occidentale della libertà di pensiero.

Le fonti sulla vita

 È ben noto il fatto che Socrate non abbia lasciato alcuno scritto. Ricaviamo quindi il pensiero di Socrate dalle opere dei suoi discepoli, tra cui spicca soprattutto il sopraccitato Platone che fu per lungo tempo uno di essi e che condivise, negli scritti giovanili, il pensiero del maestro, a tal punto che risulta difficile distinguere il pensiero socratico da quello platonico, che acquisì poi una maggiore originalità solo nella maturità e nella vecchiaia.

Un'altra fonte della vita e del pensiero di Socrate è rappresentata dalle opere cosiddette socratiche (Apologia di Socrate (Aπολογία Σωκράτους), Simposio (Συμπόσιον), Detti memorabili di Socrate (Πομνευμονεύματα Σωκράτους)) dello storico Senofonte discepolo di Socrate  che la storiografia ottocentesca ha apprezzato per le notizie sulla vita del maestro mentre quella novecentesca le ha considerate di scarso interesse soprattutto se confrontate alle opere platoniche. Dalle opere di Senofonte dedicate al maestro complessivamente l’immagine di Socrate che emergerebbe sarebbe quella di un uomo virtuoso e morigerato, cittadino modello, timorato degli dei, instancabile nel predicare la virtù e nell’esortare i giovani all’obbedienza verso i genitori e alle leggi dello Stato. «La critica più recente guarda tuttavia con maggiore equilibrio agli scritti senofontei, riconoscendogli chiarezza e coerenza; la figura di Socrate che se ne ricava spicca per il carattere morale e una certa forma di ascetismo. Molto spazio viene dedicato all’intellettualismo socratico e alle nozioni di bene e di virtù, nonché alla dialettica del maestro...»

Dalle opere socratiche di Senofonte complessivamente l’immagine di Socrate che emerge è quella di un uomo virtuoso e morigerato, cittadino modello, timorato degli dei, instancabile nel predicare la virtù e nell’esortare i giovani all’obbedienza verso i genitori e alle leggi dello Stato.

Un'altra testimonianza la troviamo ne Le nuvole, commedia di Aristofane dove Socrate viene rappresentato come veniva visto da alcuni ad Atene e cioè come un pedante seccatore perso nelle sue discussioni astratte e campate in aria. Aristofane infatti mostra Socrate dentro una cesta che cala dalle nuvole mentre è tutto intento a delle ricerche strambe e ridicole, come calcolare quanto è lungo il salto della pulce, o quale sia l'origine del ronzio delle zanzare. Aristofane vuole evidentemente fare una caricatura di queste ricerche naturalistiche che egli impropriamente attribuisce a Socrate, e anche avvertire che chi si dedica allo studio della natura in genere è un ateo, che rigetta la religione tradizionale, nella sua commedia ridicolmente sostituita dal culto delle Nuvole.

Testimone del pensiero socratico è Aristotele che però risulta poco attendibile poiché egli tende a esporre il pensiero dei filosofi precedenti interpretandolo secondo il suo personale punto di vista, operando distorsioni e fraintendimenti sui concetti originali. Aristotele infatti, presenta la dottrina socratica come incentrata, in un primo tentativo fallito, nell'individuare la definizione del concetto. A questo, secondo Aristotele, mirava la ricerca che si esprimeva nel continuo interrogare (ti estì "che cos'è?") che Socrate effettuava nel dialogo: la definizione precisa della cosa di cui si stava parlando. In particolare Aristotele attribuiva a Socrate la scoperta del metodo della definizione e induzione, che considerava l'essenza del metodo scientifico. Stranamente però, Aristotele affermava pure che tale metodo non fosse adatto all'etica. Socrate invece avrebbe erroneamente applicato questo suo metodo all'esame dei concetti morali fondamentali del tempo, come ad esempio le virtù di pietà, saggezza, temperanza, coraggio, e di giustizia.

Probabilmente Socrate frequentò il gruppo degli amici di Pericle e conobbe le dottrine dei filosofi naturalisti Ionici di cui apprezzava in particolare Anassimandro, fattogli conoscere da Archelao. Nel 454 a.C. essendo presenti ad Atene Parmenide e Zenone di Elea, Socrate ebbe modo di conoscere la dottrina degli eleati come pure fu in rapporti con i sofisti Protagora, Gorgia e Prodico.

Si sa che fu molto interessato al pensiero di Anassagora ma se ne allontanò per la teoria del Nous ("Mente") che metteva ordine nel caos primigenio degli infiniti semi. Secondo alcuni interpreti Socrate pensava che questo principio ordinatore dovesse essere identificato con il sommo principio del Bene, un principio morale alla base dell'universo, ma quando invece si accorse che per Anassagora il Nous doveva invece rappresentare un principio fisico, una forza materiale, ne fu deluso e abbandonò la sua dottrina.

Biografia

Il periodo storico in cui visse Socrate è caratterizzato da due date fondamentali: il 469 a.C. e il 404 a.C. La prima data, quella della sua nascita, segna la definitiva vittoria dei Greci sui Persiani (battaglia dell'Eurimedonte). La seconda si riferisce a quando all'età dell'oro di Pericle seguirà, dopo il 404 con la vittoria spartana, l'avvento del governo dei Trenta Tiranni. La vita di Socrate si svolge dunque nel periodo della maggiore potenza ateniese ma anche del suo declino.

Il padre di Socrate, Sofronisco, fu uno scultore del demo di Alopece, ed è possibile che trasmise tale mestiere al giovane figlio, anche se nessuna testimonianza gli attribuisce alcun mestiere: in tal senso, secondo Diogene Laerzio, opera di Socrate sarebbero state le Cariti, vestite, sull'Acropoli di Atene. Sua madre, Fenarete, che aveva già avuto un figlio di nome Patrocle da un precedente matrimonio con Cheredemo  sarebbe stata una levatrice.

Probabilmente Socrate era di famiglia benestante, di origini aristocratiche: nei dialoghi platonici non risulta che egli esercitasse un qualsiasi lavoro e del resto sappiamo che egli combatté come oplita nella battaglia di Potidea, e in quelle di Delio e di Anfipoli. È riportato nel dialogo Simposio di Platone che Socrate fu decorato per il suo coraggio. In un caso, si racconta, rimase al fianco di Alcibiade ferito, salvandogli probabilmente la vita. Durante queste campagne di guerra dimostrò di essere straordinariamente resistente, marciando in inverno senza scarpe né mantello.

Nel 406 come membro del Consiglio dei Cinquecento (Bulé), Socrate fece parte della Pritania quando i generali della Battaglia delle Arginuse furono accusati di non aver soccorso i feriti in mare e di non aver seppellito i morti per inseguire le navi spartane. Socrate ricopriva la carica di Epistate ed unico nell'assemblea si oppose alla richiesta illegale di un processo collettivo contro i generali. Nonostante pressioni e minacce bloccò il procedimento fino alla conclusione del suo mandato quando infine sei generali ritornati ad Atene furono condannati a morte.

Nel 404, i Trenta Tiranni ordinarono a Socrate e ad altri quattro cittadini di arrestare il democratico Leonzio di Salamina. Socrate si oppose all'ordine e la sua morte fu evitata solo dalla successiva caduta dei Tiranni.

Socrate è descritto da Platone come un uomo avanti negli anni e piuttosto brutto, e aggiunge anche che era come quelle teche apribili, installate di solito ai quadrivi, raffiguranti spesso un satiro che custodivano all'interno la statuetta di un dio. Questo pare quindi fosse l'aspetto di Socrate, fisicamente simile a un satiro, e tuttavia sorprendentemente buono nell'animo, per chi si soffermava a discutere con lui.

Diogene Laerzio riferisce che, secondo alcuni antichi, Socrate avrebbe collaborato con Euripide alla composizione delle tragedie, ispirando in esse temi profondi di riflessione.

Socrate fu sposato con Santippe, che gli diede tre figli: Lampsaco, Sofronisco e Menesseno. Tuttavia, secondo Aristotele e Plutarco, due di questi li avrebbe avuti da una concubina di nome Mirto). Santippe ebbe fama di donna insopportabile e bisbetica. Socrate stesso attestò che avendo imparato a vivere con lei era divenuto ormai capace di adattarsi a qualsiasi altro essere umano, esattamente come un domatore che avesse imparato a domare cavalli selvaggi, si sarebbe trovato a suo agio con tutti. Egli d'altra parte era talmente preso dalle proprie ricerche filosofiche al punto da trascurare ogni altro aspetto pratico della vita, tra cui anche l'affetto della moglie, finendo per condurre un'esistenza quasi vagabonda. Socrate viene anche rappresentato come un assiduo partecipante a simposi, intento a bere e a discutere. Fu un bevitore leggendario, soprattutto per la capacità di tollerare bene l'alcool al punto che quando il resto della compagnia era ormai completamente ubriaca egli era l'unico a sembrare sobrio.

L'Atene di Socrate

Socrate visse dunque durante un periodo di transizione, dall'apice del potere di Atene fino alla sua sconfitta per mano di Sparta e alla sua coalizione nella guerra del Peloponneso (404). Dopo la sconfitta s'insediò ad Atene un regime oligarchico e filospartano guidato da Crizia, un nobile sofista negatore della religione. Dopo appena un anno, il governo dei Trenta tiranni decadde e s'instaurò un governo democratico conservatore formato da esiliati politici, guidato da Trasibulo. Egli giudicò Socrate un nemico politico per i rapporti che aveva avuto con Alcibiade, suo scapestrato discepolo e presunto amante, accusato di avere tradito Atene per Sparta.

Il nuovo regime democratico voleva riportare la città allo splendore dell'età di Pericle instaurando un clima di pacificazione generale: infatti non perseguitò, com'era abitudine, i nemici del partito avverso ma concesse un'amnistia. Si voleva tornare a creare in Atene una compattezza e solidarietà sociale riproponendo ai cittadini gli antichi ideali e i principi morali che avevano fatto grande Atene. Ma nella città si diffondeva l'insegnamento, seguito con entusiasmo da molti, specie giovani, dei sofisti i quali invece esercitavano una critica corrosiva di ogni principio e verità che si volesse dare per costituita dalla religione o dalla tradizione.

La dottrina socratica

 Molti studiosi di storia della filosofia concordano nell'attribuire a Socrate la nascita di quel peculiare modo di pensare che ha consentito l'origine e lo sviluppo della riflessione astratta e razionale, che sarà il fulcro portante di tutta la filosofia greca successiva. Il primo a sviluppare questa interpretazione della dottrina socratica fu Aristotele che attribuì a Socrate la scoperta del metodo della definizione e induzione, che egli considerava uno, ma non l'unico, degli assi portanti del metodo scientifico.

Sapere di non sapere

Paradossale fondamento del pensiero socratico è il "sapere di non sapere", un'ignoranza intesa come consapevolezza di non conoscenza definitiva, che diventa però movente fondamentale del desiderio di conoscere. La figura del filosofo secondo Socrate è completamente opposta a quella del saccente, ovvero del sofista che si ritiene e si presenta come sapiente, perlomeno di una sapienza tecnica come quella della retorica.

Le fonti storiche che ci sono pervenute descrivono Socrate come un personaggio animato da una grande sete di verità e di sapere, che però sembravano continuamente sfuggirgli. Egli diceva di essersi convinto così di non sapere, ma proprio per questo di essere più sapiente degli altri.

Nell'Apologia di Socrate ci viene descritto come egli abbia preso coscienza di ciò a partire da un singolare episodio. Un suo amico, Cherefonte, aveva chiesto alla Pizia, la sacerdotessa dell'oracolo di Apollo a Delfi, chi fosse l'uomo più sapiente e questa aveva risposto che era Socrate. Egli sapeva di non essere il più sapiente e quindi volle dimostrare come l'oracolo si fosse sbagliato andando a dialogare con quelli che avevano fama di essere molto sapienti, in particolare i politici.

Ma alla fine del confronto, racconta Socrate, questi, messi di fronte alle proprie contraddizioni (l'aporia socratica) e inadeguatezze, provarono stupore e smarrimento, apparendo per quello che erano: dei presuntuosi ignoranti che non sapevano di essere tali. «Allora capii, dice Socrate, che veramente io ero il più sapiente perché ero l'unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante. In seguito quegli uomini, che erano coloro che governavano la città, messi di fronte alla loro pochezza presero ad odiare Socrate».

«Ecco perché ancora oggi io vo d'intorno investigando e ricercando...se ci sia alcuno...che io possa ritenere sapiente; e poiché sembrami che non ci sia nessuno, io vengo così in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno».

Egli quindi "investigando e ricercando" conferma l'oracolo del dio, mostrando così l'insufficienza della classe politica dirigente. Da qui le accuse dei suoi avversari: egli avrebbe suscitato la contestazione giovanile insegnando con l'uso critico della ragione a rifiutare tutto ciò che si vuole imporre per la forza della tradizione o per una valenza religiosa. Socrate in realtà (sempre secondo la testimonianza di Platone) non intendeva affatto contestare la religione tradizionale, né corrompere i giovani incitandoli alla sovversione.

La scoperta dell'anima umana

 Secondo l'interpretazione data da John Burnet (1863-1928), Alfred Edward Taylor (1869-1945), Werner Jaeger, anche se non condivisa da tutti, Socrate fu di fatto il primo filosofo occidentale a porre in risalto il carattere personale dell'anima umana.

È l'anima, infatti, a costituire la vera essenza dell'uomo. Sebbene la tradizione orfica e pitagorica avessero già identificato l'uomo con la sua anima, in Socrate questa parola risuona in forma del tutto nuova e si carica di significati antropologici ed etici:

«Tu, ottimo uomo, poiché sei ateniese, cittadino della Polis più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, per guadagnarne il più possibile, e della fama e dell'onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità, e della tua anima, perché diventi il più possibile buona?»

(Apologia di Socrate, traduzione di Giovanni Reale, Rusconi, 1993)

 Mentre gli Orfici e i Pitagorici consideravano l'anima ancora alla stregua di un demone divino, Socrate la fa coincidere con l'io, con la coscienza pensante di ognuno, di cui egli si propone come maestro e curatore. Non sono i sensi ad esaurire l'identità di un essere umano, come insegnavano i sofisti, l'uomo non è corpo ma anche ragione, conoscenza intellettiva, che occorre rivolgere ad indagare la propria essenza. Non solo Platone in diversi passi dei suoi dialoghi, ma anche la cosiddetta tradizione "indiretta" testimoniano come Socrate, al contrario dei sofisti, riconducesse la cura dell'anima alla conoscenza dell'intima natura umana nel senso su indicato.

In proposito è stato rilevato:

«È da notare che troviamo questa concezione dell'anima, come sede dell'intelligenza normale e del carattere, diffusa nella letteratura della generazione immediatamente posteriore alla morte di Socrate; essa è comune a Isocrate, Platone, Senofonte; non può quindi essere la scoperta di nessuno di loro. Ma è del tutto o quasi assente dalla letteratura delle epoche precedenti. Deve perciò avere avuto origine con qualche contemporaneo di Socrate, ma non conosciamo nessun pensatore contemporaneo al quale essa possa essere attribuita all'infuori di Socrate, il quale nelle pagine sia di Platone che di Senofonte la professa costantemente.»

(Taylor, Socrate, cit. in F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997)

Giannantoni ha contestato questi esiti, in particolare la dottrina dell'anima andrebbe riportata esclusivamente al pensiero platonico secondo la cosiddetta interpretazione "evolutiva" della filosofia platonica, che però è piuttosto antiquata e messa già in crisi dal nuovo paradigma interpretativo della scuola di Tubinga, cioè l’idea che nel suo lungo itinerario filosofico Platone avesse sviluppato e mutato, anche profondamente, il suo pensiero, passando gradatamente da una fase giovanile di preponderante impegno apologetico nei confronti di Socrate, di difesa della sua memoria e di riflessione appassionata sulla sua eredità filosofica, a una fase di progressivo distacco dal maestro (la fase della cosiddetta "crisi del socratismo"), fino alla conquista della sua piena maturità e originalità, caratterizzata dalla dottrina delle idee, dalla dottrina della natura e del destino dell’anima umana e dalla costruzione del suo grande edificio filosofico ed etico-politico».

Occorrerebbe cioè constatare «...il riconoscimento nell’attività di Platone, di una fase letteraria giovanile, alla quale venivano fatti risalire quei dialoghi (Ippia minore, Liside, Carmide, Lachete, Protagora, Eutifrone, Apologia e Critone) nei quali manca ogni riferimento alla dottrina delle idee, qualsiasi indagine di filosofia della natura e di antropologia, non compare la dottrina dell’immortalità dell’anima e ci si limita a indagini morali, considerate tradizionalmente più proprie del Socrate storico».

L'Apologia di Socrate resta comunque, secondo Reale, la testimonianza più attendibile in favore della tesi che vede Socrate come lo scopritore del concetto occidentale di anima:

«Per sostenere questa tesi basterebbe il documento della sola Apologia di Socrate. E che l'Apologia sia non una invenzione di Platone, ma un documento con precisi fondamenti storici è facilmente dimostrabile.[...] Il messaggio che nell'Apologia viene presentato come specifico messaggio filosofico di Socrate è, appunto, quello del nuovo concetto di anima con la connessa esortazione alla «cura dell'anima».»

(G. Reale, introduzione a Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. XVI.)

Il Demone/Dáimon (Δαίμων) socratico

Socrate affermava di credere, oltre agli dèi riconosciuti dalla polis, anche in una particolare divinità minore, appartenente alla mitologia tradizionale, che egli indicava con il nome di dáimōn. Il dáimon per Socrate non aveva il significato anche negativo che altri autori greci classici evidenzieranno ma era un essere divino inferiore agli dèi ma superiore agli uomini che possiamo intendere anche con il termine genio. Socrate si diceva tormentato da questa voce interiore che si faceva sentire non tanto per indicargli come pensare e agire, ma piuttosto per dissuaderlo dal compiere una certa azione. Socrate stesso dice di esser continuamente spinto da questa entità a discutere, confrontarsi, e ricercare la verità morale (Kant avrebbe successivamente paragonato questo principio "divino" all'imperativo categorico, alla coscienza morale dell'uomo).

Conosci te stesso

 Il motto "ΓΝΩΘΙ ΣEΑΥΤΟN" ("Γνῶθι σεαυτόν" - Gnòthi seautòn, «Conosci te stesso»), risalente alla tradizione religiosa di Delfi, voleva significare, nella sua laconica brevità, la caratteristica dell'antica sapienza greca: quella dei sette sapienti. Il significato originario, dedotto da alcune formule a noi pervenute (Nulla di troppo, Ottima è la misura, Non desiderare l'impossibile), era quello di voler ammonire a conoscere i propri limiti, «conosci chi sei e non presumere di essere di più»; era dunque una esortazione a non cadere negli eccessi, a non offendere la divinità pretendendo di essere come il dio. Del resto tutta la tradizione antica mostra come l'ideale del saggio, colui che possiede la sophrosyne ("saggezza"), sia quello di conseguire la moderazione e di rifuggire il suo opposto: la tracotanza e la superbia (ὕβρις, Hýbris).

La maieutica

Il termine maieutica viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne). Letteralmente, sta per "l'arte della levatrice" (o "dell'ostetrica"), ma l'espressione designa il metodo socratico così come è esposto da Platone nel Teeteto. L'arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice, il mestiere di sua madre: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della parola come facevano i sofisti. Parte integrante di questo metodo è il ricorso a battute brevi (brachilogia) in opposizione ai lunghi discorsi (macrologia) del metodo retorico dei sofisti.

Differenze con i sofisti

 Socrate, a differenza dei sofisti, mirava a convincere l'interlocutore non ricorrendo ad argomenti retorici e suggestivi, ma sulla base di argomenti razionali. Socrate si presenta così come una persona anticonformista, che in opposizione alle convinzioni della folla rifugge il consenso e l'omologazione: garanzia di verità è per lui non la condivisione irriflessa, ma la ragione che porta alla reciproca persuasione.

Si è detto inoltre come egli non lasciò niente di scritto della sua filosofia perché pensava che la parola scritta fosse come il bronzo che percosso dà sempre lo stesso suono. Lo scritto non risponde alle domande e alle obiezioni dell'interlocutore, ma interrogato dà sempre la stessa risposta. Per questo i dialoghi socratici appaiono spesso "inconcludenti", nel senso non che girano a vuoto, ma piuttosto che non chiudono la discussione, perché la conclusione rimane sempre aperta, pronta ad essere rimessa nuovamente in discussione.

Come è stato evidenziato tuttavia, la filosofia stessa di Socrate segna il passaggio da un tipo di cultura orale, basata sulla tradizione mimetico-poetica, ad una mentalità di tipo concettuale-dialettico, preludio di un'alfabetizzazione maggiormente diffusa. Socrate è ancora l'ultimo rappresentante della cultura orale, ma in lui già si avvertirebbe l'esigenza di un sapere astratto e definitivo, da esprimere in forma scritta, esigenza che sarà fatta propria da Platone che d'altra parte conserverà nello scritto filosofico la forma dialogica che svanirà nelle opere della vecchiaia dove il dialogo sarà semplicemente quello dell'anima con se stessa. Lo stesso Platone d'altronde affermava che la sua filosofia va ricercata altrove rispetto ai suoi scritti.

Il fatto che Socrate preferisse il discorso orale a quello scritto è il motivo per cui egli era stato confuso con i sofisti. Secondo Platone è questa una delle colpe di Socrate: lui che era vero sapiente si dichiarava ignorante e i sofisti, veri ignoranti, facevano professione di sapienza. In questo modo il maestro contribuiva a confondere il vero ruolo della filosofia ed egli stesso al processo, pur avendo rifiutato l'aiuto di un celebre "avvocato" sofista, per l'abitudine di dialogare con chiunque in strada e nei più diversi luoghi, era stato ritenuto dagli ateniesi un sofista.

Maestro della paideia

 È pur vero che Socrate come i sofisti metteva in discussione un certo modo di intendere l'ideale educativo della paideia, ma con intenti del tutto opposti: i sofisti con lo scopo di dissolverlo, Socrate invece con lo scopo di tutelarlo.

La paideia esaltava lo spirito di cittadinanza e di appartenenza costituendolo come elemento fondamentale alla base dell'ordinamento politico-giuridico delle città greche. L'identità dell'individuo era pressoché inglobata da quell'insieme di norme e valori che costituivano l'identità del popolo stesso: per questo più che un procedimento educativo o di socializzazione potrebbe essere definito come processo di uniformazione all'ethos politico.

La dottrina dei sofisti si poneva contro questa omologazione della paideia, da essi giudicata "conservatrice" e prevaricatrice; essi miravano perciò a contestarne la verità, tramite l'arte della retorica e a far apparire vero ciò che a loro conveniva, prevalendo con la parola sull'altro e ad annullare qualsiasi valore di verità e giustizia sostituendovi il proprio egoistico interesse. Socrate invece voleva piuttosto verificare e smascherare se sotto quell'ideale educativo non vi fosse quello di addormentare le coscienze critiche a scopi di potere personale.

Ed è così che la scoperta socratica dell'anima umana assume toni decisamente educativi e morali.41 Secondo Platone, infatti, Socrate è l'unico che intende correttamente il senso della politica, come capacità di rendere migliori i cittadini. Socrate li esorta a occuparsi, più che delle cose della città, della città stessa. In lui c'è pertanto uno stretto legame tra filosofia e politica, che in Platone diventerà esplicito, ma in Socrate già affiora come esigenza di anteporre sempre il bene della città e il rispetto delle leggi agli egoismi dei singoli.

«Questo, vedete, è il comandamento che mi viene da Dio. E sono convinto che la mia patria debba annoverare fra i benefici più grandi questa mia dedizione al volere divino. Tutta la mia attività, lo sapete, è questa: vado in giro cercando di persuadere giovani e vecchi a non pensare al fisico, al denaro con tanto appassionato interesse. Oh! pensate piuttosto all'anima: cercate che l'anima possa divenir buona, perfetta.»

(Apologia di Socrate, 29 d - 30 b, trad. di E. Turolla, Milano-Roma 1953)

Brachilogia ed ironia

 D'altra parte è vero che anche lui esaltava la parola, ma, al contrario dei sofisti che usavano il monologo e che praticamente parlavano da soli, il suo discorrere era un dià logos, una parola che attraversava i due interlocutori. Mentre i sofisti infatti miravano ad abbindolare l'interlocutore usando il macròs logos, il grande e lungo discorso che non dava spazio alle obiezioni, Socrate invece dialogava con brevi domande e risposte - la cosiddetta brachilogia (letteralmente "breve dialogare") socratica - proprio per dare la possibilità di intervenire e obiettare ad un interlocutore che egli rispettava per le sue opinioni.

Un'altra caratteristica del dialogo socratico, che lo distingueva dal discorso torrentizio dei sofisti, era il continuo domandare di Socrate su quello che stava affermando l'interlocutore; sembrava quasi che egli andasse alla ricerca di una precisa definizione dell'oggetto del dialogo. «Ti estì» ,"che cos'è" [quello di cui parli]?

È questa l'ironia di Socrate che, per non demotivare l'interlocutore e per fare in modo che egli senza imposizioni si convinca, finge di non sapere quale sarà la conclusione del dialogo, accetta le tesi dell'interlocutore e le prende in considerazione, portandola poi ai limiti dell'assurdo in modo che l'interlocutore stesso si renda conto che la propria tesi non è corretta. Chi dialoga con Socrate tenterà varie volte di dare una risposta precisa ma alla fine si arrenderà e sarà costretto a confessare la sua ignoranza. Proprio questo sin da principio sapeva e voleva Socrate: la sua non era fastidiosa pedanteria ma il voler dimostrare che la presunta sapienza dell'interlocutore fosse in realtà ignoranza.

Le accuse politiche

«[…] questo ha sotto scritto e giurato Meleto di Meleto, Pitteo, contro Socrate di Sofronisco, Alopecense. Socrate è colpevole di non riconoscere come Dei quelli tradizionali della città, ma di introdurre Divinità nuove; ed è anche colpevole di corrompere i giovani. Pena: la morte»

(lettera d'accusa contro Socrate presentata da Meleto in Diogene Laerzio, Vita e dottrine dei filosofi, II, 5, 40.)

Il continuo dialogare di Socrate, attorniato da giovani affascinati dalla sua dottrina e da importanti personaggi, nelle strade e piazze della città fece sì che egli venisse scambiato per un sofista dedito ad attaccare imprudentemente e direttamente i politici. Il filosofo, infatti, dialogando con loro dimostrò come la loro vantata sapienza in realtà non esistesse. Socrate venne quindi ritenuto un pericoloso nemico politico che contestava i tradizionali valori cittadini.

Per questo Socrate, che aveva attraversato indenne i regimi politici precedenti, che era rimasto sempre ad Atene e che non aveva mai accettato incarichi politici, fu accusato e messo sotto processo, dal quale poi sarebbe derivata la sua condanna a morte.

Causa materiale del processo furono due esponenti di rilievo del regime democratico, Anito e Licone, i quali, servendosi di un prestanome, Meleto, un giovane ambizioso, fallito letterato, accusarono il filosofo di:

    •     corrompere i giovani insegnando dottrine che propugnavano il disordine sociale;

    •     non credere negli dei della città e tentare di introdurne di nuovi.

L'accusa di "ateismo", che rientrava in quella di "empietà" (ἀσέβεια - asebia), condannato da un decreto di Diopeithes all'incirca nel 430 a.C., fu evidentemente un pretesto giuridico per un processo politico, poiché l'ateismo era sì ufficialmente riprovato e condannato ma tollerato e ignorato se affermato privatamente46  Poiché la religione e la cittadinanza erano ritenute un tutt'uno, accusando Socrate di ateismo lo si incolpò di avere cospirato contro le istituzioni e l'ordine pubblico. D'altra parte Socrate non aveva mai negato l'esistenza degli dei della città ed eluse facilmente l'accusa sostenendo di credere in un dáimon, creatura minore figlia delle divinità tradizionali.

Lisia si offrì di difendere Socrate, ma egli rifiutò probabilmente perché non voleva confondersi con i sofisti e preferì difendersi da solo. Descritto da Platone nella celebre Apologia di Socrate, il processo evidenziò due elementi:

    •     che da chi non lo conosce, Socrate è stato confuso con i sofisti considerati corruttori morali dei giovani e

    •     che egli era odiato dai politici.

Riguardo all'accusa di corrompere i giovani essa va spiegata col fatto che Socrate era stato maestro di Crizia e di Alcibiade, due personaggi che nell'Atene della restaurazione democratica godevano di pessima fama. Crizia era stato il capo dei Trenta tiranni e Alcibiade, per sfuggire al processo che gli era stato intentato, aveva tradito Atene ed era passato a Sparta, combattendo contro la propria patria. Furono tali rapporti di educatore che ebbe con questi due personaggi a porre le basi dell'accusa di corrompere i giovani.

Oggi la critica più attenta ha dimostrato che il processo e la morte di Socrate non furono un avvenimento incomprensibile rivolto contro un uomo, apparentemente trascurabile e non pericoloso per il regime democratico, che voleva ricostruire un'unità politica e spirituale all'interno della città. Uno studioso inglese scrive infatti che fu principalmente «la diffidenza suscitata dai rapporti di Socrate con i "traditori" che spinse i capi della restaurata democrazia a sottoporlo a processo nel 400-399. Alcibiade e Crizia erano morti entrambi, ma i democratici non si sentivano al sicuro finché l'uomo che s'immaginava avesse ispirato i loro tradimenti esercitava ancora influenza sulla vita pubblica» (E. Taylor, Socrate, Londra, 1951, trad. it. Firenze 1952).

Il processo

 Il processo si tenne nel 399 a.C. innanzi a una giuria di 501 cittadini di Atene, e – com'era da aspettarsi per una figura come quella di Socrate - fu atipico: egli si difese contestando le basi del processo, anziché lanciarsi in una lunga e pregevole difesa o portando in tribunale la sua famiglia per impietosire i giudici, come di solito si faceva. Fu riconosciuto colpevole per uno stretto margine di voti - appena trenta49.  Dopodiché, come previsto dalle leggi dell'Agorà, sia Socrate che Meleto dovettero proporre una pena per i reati di cui l'imputato era stato accusato. Socrate sfidò i giudici proponendo loro di essere mantenuto a spese della collettività nel Pritaneo, poiché riteneva che anche a lui dovesse essere riconosciuto l'onore dei benefattori della città, avendo insegnato ai giovani la scienza del bene e del male. Poi consentì di farsi multare - seppur di una somma ridicola (una mina d'argento dapprima, cioè tutto quello che egli possedeva; trenta mine poi, sotto pressione dei suoi seguaci, che si fecero garanti per lui). Meleto chiese invece la morte.

Furono messe ai voti le proposte: con ampia maggioranza - 360 voti a favore contro 140 contrari - gli ateniesi, più per l'impossibilità di punire Socrate, multandolo di una somma così ridicola, che per effettiva volontà di condannarlo a morte, accolsero la proposta di Meleto e lo condannarono a morire mediante l'assunzione di cicuta. Era pratica diffusa autoesiliarsi dalla città pur di sfuggire alla sentenza di morte, ed era probabilmente su questo che contavano gli stessi accusatori. Socrate dunque intenzionalmente irritò i giudici, che non erano in realtà mal disposti verso di lui. Ma perché lo fece? Socrate in effetti aveva già deciso di non andare in esilio, in quanto anche fuori di Atene avrebbe persistito nella sua attività: dialogare con i giovani e mettere in discussione tutto quello che si vuol far credere verità certa. «Perciò, - sostenne Socrate, - mi ritroverò a rivivere la stessa situazione che mi ha portato alla condanna: qualcuno dei parenti dei miei giovani discepoli si irriterà della mia ricerca della verità e mi accuserà». Del resto egli non temeva la morte, che nessuno sa se sia o no un male, ma la preferiva all'esilio, questo sì un male sicuro.

Accettazione della condanna

 Come racconta Platone nel dialogo del Critone, Socrate, pur sapendo di essere stato condannato ingiustamente, una volta in carcere rifiutò le proposte di fuga dei suoi discepoli, che avevano organizzato la sua evasione corrompendo i carcerieri. Ma Socrate non sfuggirà alla sua condanna poiché «è meglio subire ingiustizia piuttosto che farla», egli accetterà la morte che d'altra parte non è un male perché o è un sonno senza sogni, oppure darà la possibilità di visitare un mondo migliore dove, dice Socrate, s'incontreranno interlocutori migliori con cui dialogare. Quindi egli continuerà persino nel mondo dell'aldilà a professare quel principio a cui si è attenuto in tutta la sua vita: il dialogo.

Si pone a questo punto uno dei temi più dibattuti della questione socratica: il rapporto tra Socrate e le leggi: perché Socrate accetta l'ingiusta condanna?

La morte di Socrate

«È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio.»

(Platone, Apologia di Socrate)

 La morte di Socrate ci viene dettagliatamente descritta da Platone, che tuttavia non era presente alla fine del maestro, nel dialogo del Fedone. Socrate trascorre serenamente, secondo le sue abitudini, la sua ultima giornata in compagnia dei suoi amici e discepoli, dialogando di filosofia come aveva sempre fatto, e in particolare affrontando il problema dell'immortalità dell'anima e del destino dell'uomo nell'aldilà.

Quindi Socrate si reca in una stanza a lavarsi per evitare alle donne il fastidio di accudire al suo cadavere. Tornato nella cella, dopo aver salutato i suoi tre figlioli (Sofronisco, dal nome del nonno, Lamprocle e il piccolo Menesseno) e le donne di casa, li invita ad andarsene. Scende il silenzio nella prigione sino a quando giunge il messo degli Undici ad annunciare a quel singolare prigioniero, così diverso dagli altri, come egli dice, per la sua gentilezza, mitezza e bontà, che è giunto il tempo di morire. L'amico Critone vorrebbe che il maestro, come hanno sempre fatto gli altri condannati a morte, rimandasse ancora l'ultima ora poiché non è ancora il tramonto, il tempo stabilito dalla condanna, ma Socrate:

«Un sonno senza sogni» (Platone, Apologia di Socrate)

«È naturale che costoro facciano così perché credono d'aver qualcosa da guadagnare...[io] credo di non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi [il veleno], se non di rendermi ridicolo a' miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c'è più niente da risparmiare...»

Giunto il carceriere incaricato della somministrazione della cicuta Socrate si rivolge a lui, poiché in questo "dialogo" è lui il più "sapiente", chiedendogli che cosa si deve fare e se si può libare a un qualche dio. Il boia risponde che basta bere il veleno che è della giusta quantità per morire e non è quindi possibile usarne una parte per onorare gli dei. Socrate allora dice che si limiterà a pregare la divinità perché gli assicuri un felice trapasso e, così detto, beve la pozione. Gli amici a questo punto si abbandonano alla disperazione ma Socrate li rimprovera facendo, lui che sta morendo, a loro coraggio:

«Che stranezza è mai questa, o amici, Non per altra ragione io feci allontanare le donne perché non commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito dire che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù dunque state quieti e siate forti55»

 Il paralizzarsi e il raffreddarsi delle membra, divenute insensibili, dai piedi verso il torace, segnala il progressivo avanzare del veleno:

«E ormai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì - perché s'era coperto - e disse, e fu l'ultima volta che udimmo la sua voce: «O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non dimenticatevene!»»

 Queste ultime parole di Socrate morente hanno dato luogo a varie interpretazioni da parte degli studiosi: quella più semplice e diffusa è che egli, che non vuole lasciare debiti irrisolti né con gli uomini né con gli dei, prega Critone di ringraziare per suo conto il dio Asclepio (l'Esculapio per i romani) per avergli reso la morte indolore.

Altri ritengono, come Friedrich Nietzsche, che Socrate ringrazi il dio della medicina per averlo guarito dalla malattia del vivere:

«Queste ridicole e terribili "ultime parole" significano per chi ha orecchie: «O Critone, la vita è una malattia!»»

 Coerente con questa interpretazione è lo stesso mito di Asclepio, che narra come questi avesse guarito un morto resuscitandolo, attirandosi per l'atto sacrilego l'ira di Zeus che lo fulminò riducendolo in cenere..

Interpreti moderni, rifacendosi allo stesso racconto della morte di Socrate, avanzano l'ipotesi che con queste parole egli voglia ingraziarsi il dio perché guarisca il suo discepolo Platone che all'inizio del dialogo è descritto come ammalato; altri ancora che Socrate preghi il dio che lo risani dal disonore subìto per la condanna come corruttore e empio da parte degli ateniesi. In vero però Socrate non dice "devo" ma "dobbiamo", riferendosi quindi a più persone, un gallo ad Asclepio. Del plurale dobbiamo fornisce un'interpretazione, ripresa anche da Michel Foucault (1926-1984), Georges Dumézil (1898–1986)63 secondo il quale Critone e Socrate stesso devono il gallo ad Asclepio perché, grazie ad un provvidenziale sogno, sono guariti da un delirio delle loro menti quello che suggeriva, soprattutto a Critone, di far fuggire Socrate dal carcere sottraendosi alle Leggi.

Alcuni autori, mettendo da parte ogni sottigliezza ermeneutica, sostengono che le ultime parole di Socrate non siano altro che il delirio senza senso a causa del veleno di un moribondo.

Franz Cumont sostiene che non sia casuale il riferimento di Socrate al gallo, in quanto questo animale, sacro ad Asclepio, nel mito greco, aveva il potere di scongiurare, allontanare o annullare influssi maligni anche oltre la morte.

Infine altri autori ritengono che Socrate voglia ringraziare il dio per l'ultima giornata trascorsa, come quelle di tutta la sua vita, in rasserenanti ragionamenti filosofici.

Discepoli

 Fra i discepoli di Socrate più importanti vi fu  Platone, che fu a sua volta maestro di Aristotele che formerà con i primi due quel trio composto dai pensatori tra i più influenti della storia della filosofia occidentale. Anche se non rinomato come Platone, tra gli allievi di Socrate vi fu Antistene, che fu maestro di Diogene di Sinope e che riprese il tema del dubbio socratico facendone il fulcro della corrente dei cinici, dalla quale nacque, con Zenone di Cizio, lo stoicismo che annoverava tra i suoi membri Cicerone, Seneca e Marco Aurelio. Anche Aristippo, allievo di Socrate, sviluppò la concezione socratica dell'eudemonia che venne rielaborata e sviluppata ulteriormente da Epicuro e dalla sua scuola degli epicurei.

La "questione socratica"

 Di Socrate, Kierkegaard, sosteneva che l'unica cosa certa era che fosse esistito mentre altri studiosi, poiché Socrate non lasciò alcuna testimonianza scritta, dubitarono della sua effettiva esistenza.

Come per la cosiddetta "questione omerica" è stata posta così una "questione socratica", riferita non solo al suo pensiero ma anche alle notizie della sua vita, su cui si sono cimentati diversi autori: Olof Gigon,; H. Maier, Francesco Adorno, J. Brun, Gregory Vlastos, Jan Patočka, Giovanni Reale.


Bibliografia

Bibliografia essenziale

    •     Francesco Adorno, Introduzione a Socrate, Laterza, Bari, 1999

    •    Guido Calogero, Erasmo, Socrate e il Nuovo Testamento, Accademia Naz. dei Lincei, 1972

    •     Ubaldo Esposito, Il processo a Socrate, Chegai, 2002

    •     Franco Ferrari (a cura di), Socrate tra personaggio e mito, Milano, BUR Rizzoli, 2007

    •    Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia Antica, Donzelli, Roma 1996

    •     Antonio Gargano, I sofisti, Socrate, Platone, La Città del Sole, 1996

    •     Gabriele Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, edizione postuma a cura di B. Centrone, Bibliopolis, 2005

    •     Walter Otto, Socrate e l'uomo greco, Roma, Marinotti, 2005

    •     Giovanni Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano, 2000

    •     Giovanni Reale, Socrate, Rizzoli, Milano, 2001

    •     Antonio Ruffino, Socrate: l'uomo e i tempi, Liguori, Napoli, 1972

    •     Alfred Edward Taylor, Socrate, Londra, 1951, trad. it. Firenze 1952

    •     Gregory Vlastos, Studi socratici, Vita e Pensiero, Milano 2003

    •     Gregory Vlastos, Socrate il filosofo dell'ironia complessa, La Nuova Italia, Firenze 1998


Bibliografia d'approfondimento

    •     Francesca Alesse, La Stoa e la tradizione socratica, Bibliopolis, 2000

    •     Filippo Bartolone, Socrate. L'origine dell'intellettualismo dalla crisi della libertà, Vita e Pensiero, 1999

    •     Jean Brun, Socrate, Xenia, 1995

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    •     Francesco Calvo, Cercare l'uomo. Socrate, Platone, Aristotele, Marietti, Genova, 1990

    •     Jean-Joël Duhot, Socrate o il risveglio della coscienza, Edizioni Borla, 2000

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Platone


   Platone (in greco antico Πλάτων, traslitterato in Plátōn; Atene, 428 a.C./427 a.C. – Atene, 348 a.C./347 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Assieme al suo maestro Socrate e al suo allievo Aristotele ha posto le basi del pensiero filosofico occidentale.


Biografia
 Nacque ad Atene da genitori aristocratici: il padre Aristone, che vantava tra i suoi antenati Codro, l'ultimo leggendario re di Atene, gli impose il nome del nonno, cioè Aristocle; la madre, Perittione, secondo Diogene Laerzio, discendeva dal famoso legislatore Solone.
La sua data di nascita viene fissata da Apollodoro di Atene, nella sua Cronologia, all'ottantottesima Olimpiade, nel settimo giorno del mese di Targellione, ossia alla fine di maggio del 428 a.C. Ebbe due fratelli, Adimanto e Glaucone, citati nella sua Repubblica, e una sorella, Potone, madre di Speusippo, futuro allievo e successore, alla sua morte, alla direzione dell'Accademia di Atene.
Fu un altro Aristone, un lottatore di Argo, suo maestro di ginnastica, a chiamarlo per la larghezza (dal greco πλατύς, platýs, che significa "ampio") delle spalle "Platone", che praticava infatti il pancrazio, una sorta di lotta o pugilato.
Altri danno del nome un'altra derivazione, come l'ampiezza della fronte o la maestà dello stile letterario. Diogene Laerzio, riferendosi ad Apuleio, a Olimpiodoro e a Eliano, informa che avrebbe coltivato la pittura e la poesia, scrivendo ditirambi, liriche e tragedie, che avrebbero avuto in seguito, insieme ai mimi, un'importanza fondamentale per la scrittura dei suoi dialoghi.

I viaggi e l'incontro con Socrate
 Frequentò l'eracliteo Cratilo e il parmenideo Ermogene, ma non è certo se la notizia sia reale o se voglia giustificare la sua successiva dottrina, influenzata sotto diversi aspetti dal pensiero dei suoi due grandi predecessori, Eraclito e Parmenide, da lui considerati gli autentici fondatori della filosofia.
Avrebbe partecipato a tre spedizioni militari, durante la guerra del Peloponneso, a Tanagra, a Corinto e a Delio, dal 409 a.C. al 407 a.C., anno in cui, conosciuto Socrate, avrebbe distrutto tutte le sue composizioni poetiche per dedicarsi completamente alla filosofia.
Fondamentale il suo incontro con Socrate che, dopo la parentesi del governo, oligarchico e filo-spartano, dei Trenta tiranni, del quale faceva parte lo zio di Platone Crizia, fu accusato dal nuovo governo democratico di empietà e di corruzione dei giovani e condannato a morte nel 399 a.C.
Dopo la morte del maestro sarebbe andato a Megara insieme con altri allievi di Socrate, poi a Cirene, frequentando il matematico Teodoro di Cirene e ancora in Italia, dai pitagorici Filolao ed Eurito. Di qui, si sarebbe recato in Egitto, dove i sacerdoti l'avrebbero guarito da una malattia. Ma la fondatezza della notizia di questi viaggi è molto dubbia.

I primi dialoghi

 A partire dal 395 a.C. Platone dovrebbe aver iniziato a scrivere i primi dialoghi, nei quali affronta il problema culturale rappresentato dalla figura di Socrate e la funzione dei sofisti: nascono così, in un possibile ordine cronologico:

    •    l'Apologia di Socrate, che tuttavia non è un dialogo;

    •    il Critone, in cui Socrate discute la legittimità delle leggi;

    •    lo Ione, in cui Socrate con il gusto dello scherzo dialoga sul significato di Arte umana e Arte divina con un attore, il rapsodo, che interpreta o è posseduto dalla Poesia;

    •    l'Eutifrone;

    •    il Carmide;

    •    il Lachete;

    •    il Liside;

    •    l'Alcibiade primo;

    •    l'Alcibiade secondo (queste due attribuzioni a Platone sono tuttavia discusse);

    •    l'Ippia maggiore;

    •    l'Ippia minore;

    •    il Menesseno;

    •    il Protagora;

    •    il Gorgia.

Il primo viaggio a Siracusa

 Certo è invece che Platone, intorno al 388 a.C., dopo aver conosciuto il pitagorico Archita, governatore di Taranto, sia stato a Siracusa, governata da Dionigi I, dove strinse amicizia col cognato del tiranno, Dione, che guardò con favore ai programmi politici di Platone. Ma opposto fu l'atteggiamento di Dionigi che costrinse Platone ad abbandonare Siracusa per Atene; fatto sbarcare nell'isola di Egina, nemica di Atene, vi venne fatto prigioniero e reso schiavo; per sua fortuna, il socratico Anniceride di Cirene lo riscattò. Ma anche quest'episodio, narrato con varianti da Diogene Laerzio, è molto dubbio.

La fondazione dell'Accademia

 Nel 387 a.C. Platone è ad Atene; acquistato un parco dedicato ad Academo, vi fonda una scuola che intitola Accademia in onore dell'eroe e la consacra ad Apollo e alle Muse. Sull'esempio opposto a quello della scuola fondata da Isocrate nel 391 a.C. e basata sull'insegnamento della retorica, la scuola di Platone ha le sue radici nella scienza e nel metodo da essa derivato, la dialettica; per questo motivo, l'insegnamento si svolge attraverso dibattiti, a cui partecipano gli stessi allievi, diretti da Platone o dagli allievi più anziani, e conferenze tenute da illustri personaggi di passaggio ad Atene.

In vent'anni, dalla creazione dell'Accademia al 367 a.C., Platone scrive i dialoghi in cui si sforza di determinare le condizioni che permettono la fondazione della scienza; tali sono:  

    •    il Clitofonte (tuttavia di incerta attribuzione);

    •    il Menone;

    •    il Fedone;

    •    l'Eutidemo;

    •    il Simposio;

    •    la Repubblica;

    •    il Cratilo;

    •    il Fedro.

Il secondo viaggio a Siracusa

 Nel 364 a.C., poco prima dell'arrivo di Aristotele nell'Accademia, Platone è a Siracusa, invitato da Dione che, con la morte di Dionigi il Vecchio e la successione al potere di suo nipote Dionigi il Giovane, conta di poter attuare le riforme impedite dal precedente tiranno. Ma i contrasti con Dionigi, che sospetta nello zio intenzioni di ribellione, portano all'esilio di Dione: Platone può tuttavia rimanere a Siracusa come consigliere di Dionigi e coltivare i suoi progetti di trasformazione istituzionale dello Stato siracusano.

Nel 365 a.C. Siracusa è in guerra e Platone torna ad Atene, con la promessa di poter tornare a Siracusa alla fine della guerra insieme con Dione. Ad Atene scrive il Parmenide, il Teeteto, e il Sofista.

Il terzo viaggio in Sicilia

 Nel 361 a.C. Platone compie il suo terzo e ultimo viaggio in Sicilia. Non c'è però Dione, verso il quale Dionigi manifesta un'aperta ostilità; i tentativi di Platone di difendere l'amico portano alla rottura dei rapporti con il tiranno siracusano che arriva a imprigionare il filosofo. Liberato grazie all'intervento di Archita, il pitagorico stratega e tiranno di Taranto, amico di entrambi, nel 360 a.C. Platone può ripartire per Atene. Lo stesso Platone racconta così quegli avvenimenti:

«...Sembra che Archita si sia recato presso Dionisio; perché io, prima di ripartire avevo unito Archita e i Tarantini in rapporti di ospitalità e di amicizia con Dionisio... E così con un terzo invito Dionisio mi mandò una trireme per agevolarmi il viaggio, e insieme mandò un amico di Archita, Archedemo, che egli riteneva fosse il più apprezzato da me tra quei di Sicilia, e altri Siciliani a me noti...  Altre lettere poi mi giungevano da parte di Archita e dei Tarantini, che facevano grandi elogi dello zelo filosofico di Dionisio, e anche avvertivano che, se non fossi andato subito, avrei causato la completa rottura di quell'amicizia che io avevo creato tra loro e Dionisio, e che era di grande importanza politica... Mi metto dunque in viaggio... con molto timore e con previsioni nient'affatto liete...  Vennero allora molti a trovarmi; e tra gli altri, alcuni sottufficiali addetti alle galere, che erano Ateniesi, miei concittadini; essi mi riferivano che calunnie circolavano su di me fra i peltasti, e che alcuni minacciavano, se riuscivano a cogliermi, di sopprimermi. Escogito allora qualche mezzo di salvezza: mando ad avvertire Archita e gli altri amici di Taranto in che condizione mi trovo. E quelli, colto un pretesto per un'ambasceria, mandano uno dei loro, Lamisco, con una nave e trenta rematori. Costui, appena giunto, intercede per me presso Dionisio, dicendogli che io volevo partire e nient'altro che partire; Dionisio accondiscese e mi lasciò andare, dandomi i mezzi per il viaggio.»

Durante il viaggio Platone sbarca a Olimpia per incontrare per l'ultima volta Dione. Questi progettava una guerra contro Dionigi, dalla quale Platone cercò invano di dissuaderlo: nel 357 a.C. riuscirà a impadronirsi del potere a Siracusa ma vi sarà ucciso tre anni dopo.

Ad Atene Platone scrisse le ultime opere:

    •    il Timeo;

    •    il Crizia;

    •    il Politico;

    •    il Filebo;

    •    le Leggi.


Morì nel 347 a.C. e la guida dell'Accademia venne assunta dal nipote Speusippo. La scuola sopravviverà fino al 529 d.C., anno in cui venne definitivamente chiusa da Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua attività.

Opere

 Di Platone sono pervenute tutte le 36 opere: 34 sono dialoghi; una, l'Apologia di Socrate, riporta una ricostruzione letterario filosofica dell'autodifesa pronunciata da Socrate davanti ai giudici, mentre l'ultima è una raccolta di tredici lettere.

La superiorità del discorso orale

 Platone si avvale del dialogo perché lo ritiene l'unico strumento in grado di riportare l'argomento alla concretezza storica di un dibattito fra persone e di mettere in luce il carattere di ricerca della filosofia, elemento chiave del suo pensiero. Egli vuole inoltre evidenziare col ricorso al dialogo la superiorità del discorso orale rispetto allo scritto. Certo la parola scritta è più precisa e meditata rispetto all'oralità, ma mentre questa permette un immediato scambio di opinioni sul tema in discussione quella scritta interrogata non risponde.

In genere, si suole riunire i dialoghi platonici in vari gruppi. Secondo una linea interpretativa piuttosto datata, i primi dialoghi sarebbero caratterizzati dalla viva influenza di Socrate (primo gruppo); quelli della maturità in cui avrebbe sviluppato la teoria delle idee (secondo gruppo); e l'ultimo periodo quando sentì l'urgenza di difendere la propria concezione dagli attacchi alla sua filosofia, attuando una profonda autocritica della teoria delle idee (terzo gruppo). Secondo il nuovo paradigma interpretativo introdotto dalla scuola di Tubinga e di Milano, invece, i dialoghi platonici, al di là dello stile in evoluzione, presentano una coerenza sistematica di fondo, dove la dottrina delle idee, per quanto importante, non costituisce più la parte fondamentale del mondo sovrasensibile. Lo stile, che imita fedelmente la peculiarità del dialogo socratico, muta notevolmente da un periodo all'altro: nei periodi giovanili si hanno interventi brevi e briosi che danno vivacità al dibattito; negli ultimi, invece, vi sono interventi lunghi, che danno all'opera il carattere di un trattato e non di un dibattito, trattandosi piuttosto di un dialogo dell'anima con se stessa, ma senza giungere mai a esporre compiutamente la propria dottrina in forma di scienza assoluta. La rinuncia, come già in Socrate, a comunicare in forma scritta il nucleo della propria dottrina porterebbe per di più a pensare che non solo la scrittura, ma anche l'oralità non fosse per Platone in grado di trasmetterla.

In genere il protagonista dei dialoghi è Socrate; soltanto negli ultimi dialoghi costui assume una parte secondaria, fino a scomparire del tutto nell'Epinomide e nelle Leggi. La caratteristica di questi dialoghi è che il soggetto principale che dà il titolo all'opera è solito discorrere molto più dell'interlocutore a cui si rivolge, il quale si limita solamente a confermare o disapprovare quello che il protagonista espone.

Ordinamento in tetralogie

 Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro; i dialoghi di sicura attribuzione sono indicati in grassetto per distinguerli dagli spuri:

      1.      Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone

      2.      Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico

      3.      Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro

      4.      Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti

      5.      Teage, Carmide, Lachete, Liside

      6.      Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone

      7.      Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno

      8.      Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia

      9.      Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere

Altre opere spurie sono:

Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.22

Ordinamento in trilogie

 Una diversa, e più antica classificazione risale ad Aristofane di Bisanzio (III secolo a.C.), che ordinò le opere platoniche in cinque trilogie:

      1.      Repubblica, Timeo, Crizia

      2.      Sofista, Politico, Cratilo

      3.      Leggi, Minosse, Epinomide

      4.      Teeteto, Eutifrone, Apologia di Socrate

      5.      Critone, Fedone, Lettere


Pensiero

Filosofia e politica

 Quella che in termini storici possiamo chiamare "filosofia platonica" – ovvero il corpus di idee e di testi che definiscono la tradizione storica del pensiero platonico – è sorta dalla riflessione sulla politica. Come scrive Alexandre Koyré: «tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate».

Occorre tuttavia distinguere la "riflessione sulla politica" dall'"attività politica". Non è certo in quest'ultima accezione che dobbiamo intendere la centralità della politica nel pensiero di Platone. Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII del suo epistolario, proprio la rinuncia alla politica attiva segna la scelta per la filosofia, intesa però come impegno "civile". La riflessione sulla politica diventa, in altre parole, riflessione sul concetto di giustizia, e dalla riflessione su questo concetto sorge un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'Uomo come membro organicamente appartenente alla polis.

Fin dalle prime fasi di questa riflessione, appare chiaro che per il filosofo ateniese risolvere il problema della giustizia significa affrontare il problema della conoscenza. Da qui la necessità di intendere la genesi del "mondo delle idee" come frutto di un impegno "politico" più complessivo e profondo.

Il problema Socrate

 La capacità di agire secondo giustizia presuppone, socraticamente, la conoscenza di che cosa è il bene. Solo questo sapere contraddistingue il filosofo come tale, poiché chi compie il male lo fa per ignoranza. Ad Atene c'era molta confusione sulla figura del filosofo, ed in un certo senso lo stesso Socrate aveva alimentato questa confusione: presentandosi infatti come colui che sapeva di non sapere, professava una falsa ignoranza che nascondeva una vera sapienza. Egli si confondeva così con i sofisti, i quali dicevano di sapere ma in effetti non sapevano, perché non credevano nella verità.

Per dirimere questa confusione, per Platone era necessario andare oltre Socrate, delineando con chiarezza i criteri che distinguono il filosofo dal sofista: mentre il primo ricerca i principi della verità, senza la presunzione di possederla, il secondo si lascia guidare dall'opinione, facendone l'unico parametro valido della conoscenza.

L'altro problema legato alla figura di Socrate è la sua condanna a morte, cioè il fatto che sia stato trattato come un criminale pur essendo «il più giusto» tra gli uomini. Ciò significò per Platone dover constatare che tra filosofia e vita politica esisteva quell'incompatibilità già conosciuta da Socrate che nella Apologia accenna alla quasi ineluttabilità della sua condanna da parte dei politici e rifiuta la proposta di andare in esilio. Compito dei filosofi è allora quello di fare in modo che la filosofia non sia in contrasto con lo stato, dove non accada più che un giusto sia condannato a morte.

Il tema era connesso alla convinzione che la filosofia fosse inutile: per molti Ateniesi Socrate è quello rappresentato ne Le nuvole, commedia di Aristofane come un pedante seccatore perso nelle sue discussioni astratte e campate in aria. In un brano del Gorgia il sofista Callicle, dice che la filosofia tutt'al più può essere praticata dai giovani che, inesperti della vita, si possono abbandonare ai discorsi campati in aria; quando però un uomo anziano, come Socrate, perde il suo tempo a discutere di problemi astratti, questo è degno di essere preso a bastonate.

Platone invece dimostra che la filosofia ha un radicamento storico, essa cioè affonda le sue radici nella storia, nella realtà quotidiana e questo si vede da chi sono gli interlocutori di Socrate e cioè politici come Alcibiade, filosofi come Parmenide, artisti come Aristofane. Socrate quindi è perfettamente inserito nel dibattito culturale del suo tempo e i suoi dialoghi riguardano problemi reali ed universali. Così Socrate, pur non sembrando, fa politica tanto da venire condannato e morire per accuse politiche.

C'è quindi uno stretto legame tra il filosofo e la politica; Socrate però non l'ha mai fatto capire, pur anteponendo sempre il bene della città agli egoismi dei singoli. Per uscire dall'equivoco, occorre indicare esplicitamente quali siano le radici di questo legame, che ancora una volta consistono nella conoscenza della virtù, e nei criteri per distinguerla dalle opinioni e dalle strumentalizzazioni personali. Secondo alcune interpretazioni per Platone la conoscenza del bene non concerne l'enumerazione di singoli esempi di virtù, bensì la definizione di cosa sia la virtù in se stessa. «L'unicità della virtù è una delle principali tesi socratiche: nei dialoghi giovanili Platone difende e corrobora questa tesi analizzando il contenuto di alcune delle virtù tenute in più alta considerazione nel mondo greco» Sulla unicità della virtù in Socrate diversi autori non concordano attribuendo questa concezione alla sola filosofia platonica.

La dottrina della conoscenza: le Idee

 La gnoseologia di Platone, messa a punto in vari dialoghi come il Menone, il Fedone, ed il Teeteto, deve combattere contro l'opinione che sostiene che la ricerca della conoscenza sia impossibile. La tesi era stata sostenuta dagli eristi, i quali basavano questo loro insegnamento sulla base di due assunti:

      1.      se non si conosce ciò che si cerca, qualora lo si sia trovato, non lo si riconoscerà come l'obiettivo da raggiungere;

      2.      se si conosce già quel che si cerca, la ricerca non ha senso.

Il problema viene superato da Platone ammettendo che l'oggetto della ricerca è solo parzialmente sconosciuto all'uomo, il quale, dopo averlo contemplato prima della nascita, lo ha in qualche modo "dimenticato" nel fondo della sua anima. La meta del suo cercare è dunque un sapere già presente ma nascosto in lui, che la filosofia dovrà risvegliare con la reminiscenza o «anamnesi» (anàmnesis), concetto su cui Platone fonda il convincimento che l'apprendere è un ricordare.

Tale dottrina si rifà alla credenza religiosa propria dell'orfismo e del pitagorismo secondo cui quando il corpo muore l'anima, essendo immortale, trasmigra in un altro corpo. Platone sfrutta tale mito fondendolo con l'assunto fondamentale che esistano delle Idee che hanno caratteristiche opposte agli enti fenomenici: sono incorruttibili, ingenerate, eterne ed immutabili. Queste Idee albergano nell'iperuranio, mondo soprasensibile e che è parzialmente visibile alle anime una volta slegate dai loro corpi.

L'Idea, traducibile più correttamente con «forma», è dunque il vero oggetto della conoscenza: ma essa non è soltanto il fondamento gnoseologico della realtà, ossia la causa che ci permette di pensare il mondo, bensì ne costituisce anche il fondamento ontologico, essendo il motivo che fa essere il mondo. Le idee rappresentano l'eterno Vero, l'eterno Buono e l'eterno Bello, a cui si contrappone la dimensione vana e transitoria dei fenomeni sensibili.

Come viene spiegato nel Fedro, dopo la morte le anime diventano simili a cocchi alati che procedono in schiere dietro ai carri degli dèi: in questa loro processione alcune riescono, più distintamente di altre, a scorgere le Idee che appaiono attraverso uno squarcio tra le nuvole, diaframma obbligato tra il mondo sensibile e quello soprasensibile. Quando le anime precipitano nei corpi, reincarnandosi, dimenticano la loro visione delle idee e, prigioniere dei sensi, sono portate a identificare la realtà col mondo sensibile. L'opera del filosofo dialettico, che ha saputo vedere le idee meglio degli altri, è quella di riportare all'anima la memoria del mondo delle idee, attraverso il dare e ricevere discorso, dialogando con l'anima e persuadendola della verità. La dottrina dell'apprendere come ricordare riconduce immediatamente alla cura dell'anima professata da Socrate: la conoscenza è, di fatto, un conoscere meglio se stessi, riportando alla luce dell'intelletto ciò che l'anima ha dimenticato nel momento della reincarnazione; l'idea è quindi in un certo senso corrispettiva del dàimon socratico.

Una conseguenza della reminiscenza è l'innatismo della conoscenza: tutto il sapere è già presente, in forma latente, nella nostra anima. A tal proposito i sensi svolgono comunque una funzione importante per Platone, poiché offrono lo spunto per aiutarci a ridestarlo. L'esperienza serve però solo da stimolo; la vera conoscenza deve essere fondata universalmente sulla noesis, e su di essa deve poggiare ogni tecnica particolare, che è invece il luogo della praxis. L'errore contro cui Platone combatte, rappresentato dalla cultura sofista, consiste nel basare la conoscenza sulla sensazione. Al contrario, solo l'anima, e non i sensi, può conoscere l'aspetto "vero" di ogni realtà.

I quattro stadi della conoscenza

      1.      L'immaginazione (eikasìa), dominio delle ombre e delle superstizioni

      2.      Gli oggetti sensibili, che danno origine alle false credenze (pìstis)

      3.      Le verità geometriche e matematiche, proprie della ragione discorsiva (diànoia)

      4.      Le idee intelligibili, raggiungibili solo per via speculativa e intuitiva (nòesis)

 La dottrina platonica è inoltre spesso oggetto di fraintendimenti. Di fatto, come Platone stesso suggerisce in numerosi passi, è impossibile recuperare completamente la conoscenza del mondo delle Idee anche per il filosofo. La conoscenza perfetta di queste è propria solo degli dèi, che le osservano sempre. La conoscenza umana, nella sua forma migliore, è sempre filo-sofia, ossia amore del sapere, inesausta ricerca della verità. Ciò suggerisce una frattura "sofistica" all'interno del pensiero platonico: per quanto l'uomo si sforzi, il raggiungimento della verità assoluta è impossibile, perché confinata nel cielo iperuranio e dunque assolutamente inconoscibile. La parola, che è lo strumento utilizzato dal filosofo dialettico per persuadere le anime della verità e dell'esistenza delle idee, non rispecchia che parzialmente la realtà ultrasensibile, che è irriproducibile e non presentabile.

Per fare un esempio, è come se un insegnante, che pure ha presente come è fatto un triangolo, cercasse di spiegarlo ai suoi allievi senza poterglielo esibire o far vedere alla lavagna. Può forse persuadere loro di com'è fatto all'incirca un triangolo, ma la conoscenza degli alunni rimarrà comunque lontana da coloro che lo sanno rappresentare correttamente. La conoscenza del mondo delle idee dunque può essere solo intuita, mai comunicata; per conoscerla nel modo meno confutabile possibile ci si può basare al massimo sull'uso dei lògoi, ossia dei discorsi, ragionamenti in forma di dialogo svolti attorno a tali argomenti.

L'opera di ricerca filosofica deve limitarsi così al persuadere le anime, in maniera simile alla maieutica socratica. Qui Platone fa esplicito riferimento alla metafora della seconda navigazione: con questo termine i greci indicavano la navigazione a remi, più faticosa di quella a vela (prima navigazione) e usata in caso di necessità (come la mancanza di vento). La seconda navigazione consiste proprio nell'uso dei lògoi, che presuppongono una frattura radicale tra il pensiero-parola, e la realtà. Platone, ben lungi dall'essere il filosofo della scienza forte e dottrinaria che per molti anni gli è stata erroneamente attribuita, ha scoperto, di fatto, l'impossibilità di raggiungere una verità piena ed incontrovertibile.

La più compiuta teoria platonica della conoscenza, esposta nel dialogo Repubblica ed altrimenti nota come teoria della linea, è quindi rappresentabile col seguente schema:

 conoscenza sensibile o opinione (δόξα) 

 immaginazione (εικασία)

 credenza (πίστις)

 conoscenza intelligibile o scienza (επιστήμη)

 pensiero discorsivo (διάνοια)

 intellezione (νόησις)

Solo la conoscenza intelligibile, cioè concettuale, assicura un sapere vero e universale; l'opinione invece, fondata sui due stadi inferiori del conoscere, è portata a confondere la verità con la sua immagine. Platone polemizza in proposito contro il materialismo di Democrito, secondo cui erano gli atomi, entità materiali fisse, a determinare la formazione o la distruzione degli elementi. Secondo Platone non ci sono in natura princìpi (o arché) ultimi e indivisibili: tutta la realtà fenomenica «scorre» in un continuo mutamento; al contempo però essa tende a costituirsi secondo forme atemporali che sembrano preesisterle. Proprio questo è il punto di cui Democrito non aveva saputo rendere ragione, ossia del perché la materia si aggreghi sempre in un certo modo, per formare ad esempio ora un cavallo, ora un elefante. Ciò evidentemente è possibile perché dietro ogni animale deve esistere un'idea, cioè una «forma» precostituita per ogni tipo, spirituale e non materiale.

L'Idea è inoltre ciò che consente a Platone di conciliare il dualismo filosofico venutosi a creare tra Parmenide ed Eraclito: nelle idee risiede infatti la dimensione ontologica dell'Essere parmenideo, ma esse forniscono anche, in virtù della loro molteplicità, una spiegazione al divenire eracliteo che domina i fenomeni naturali, al quale Platone cercava una motivazione razionale che non lo riducesse a semplice illusione come aveva fatto Parmenide.

La funzione del mito

 Oltre al dialogo, una caratteristica peculiare di Platone nella sua esposizione della dottrina delle idee consiste nella reintroduzione, con la sua opera, del mito, quale forma di conoscenza tradizional-popolare che, cronologicamente, precedeva di molto la nascita della filosofia greca.

Platone ha un atteggiamento diversificato nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato in quanto utile, e anzi necessario, alla comprensione. Il mito va infatti inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso. Esso ha una funzione allegorica e didascalica, presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il significato di un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne comprensibili i problemi, e creando nel lettore una nuova tensione intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della riflessione.

Il mito ha così una doppia funzione: da un lato è un semplice espediente didattico-espositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le sue dottrine. Dall'altro è un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non può andare, diventando un vero e proprio strumento di verità, una "via alternativa" al solo pensiero filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare unitariamente gli argomenti. Il mito è il momento in cui Platone esprime la bellezza della verità filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure sensibili, e di fronte alla quale i discorsi razionali risultano insufficienti.

Le scienze rappresentano un sapere inferiore perché, pur trattandosi di argomentazioni necessarie e dimostrate, vivono di ipotesi. Classico esempio è la costruzione dei teoremi di geometria, basati su ipotesi e tesi, che Euclide raccolse e sistematizzò poco più d'un secolo dopo, e che erano parte di una tradizione tramandata oralmente. Se il mito pecca di scarso senso del rigore, e la scienza di incapacità di elevazione, entrambi però, in mancanza di una conoscenza migliore, hanno una loro dignità. L'unica forma di sapere che il filosofo non può mai accettare è la doxa, il mondo dell'opinione mutevole e transitoria.

I racconti mitici platonici toccano le questioni fondamentali dell'esistenza umana, come la morte, l'immortalità dell'anima, la conoscenza, l'origine del mondo, e le collegano strettamente ai temi e ai discorsi logico-critici, a cui il filosofo affida il compito di produrre una conoscenza e una rappresentazione vere della realtà.

I miti che si possono riscontrare nell'opera platonica sono approssimativamente i seguenti:

      1.       Mito dell'insoddisfazione del dissoluto

      2.       Mito di Gige

      3.       Mito dell'uomo-marionetta

      4.      Mito di Aristofane o dell'androgino

      5.      Mito della nobile menzogna

      6.      Mito della nascita di Eros

      7.       Mito dell'età dell'oro

      8.       Mito di Epimeteo e Prometeo

      9.      Mito di Theuth

      10.       Mito dei cicli cosmici

      11.       Mito di Atlantide

      12.       Mito del governo divino

      13.      Mito della caverna

      14.       Mito della reminiscenza

      15.       Mito del giudizio delle anime

      16.       Mito dell'immortalità dell'anima

      17.      Mito di Er

      18.      Mito del carro e dell'auriga

      19.       Mito del ciclo delle incarnazioni

      20.       Mito del Demiurgo

      21.       Mito dell'anima del mondo

      22.       Mito delle specie mortali

      23.       Mito della provvidenza divina

Tra i racconti platonici degni di nota per la loro ispirazione sono generalmente annoverati anche quello sulle forme di conoscenza o «la linea», e «il mistero dell'amore» sulla gerarchia del bello.

La filosofia come Eros (filosofia)Eros

Eros, demone dell'Amore

 È proprio per spiegare l'umano desiderio di conoscenza che Platone ricorre a un celebre mito, quello di Eros, dio greco dell'Amore e della forza, figlio di Poros e Penia, cioè di Risorsa e Povertà. Il filosofo, secondo Platone, è mosso da una tensione verso la verità con lo stesso desiderio d'amore che attrae due esseri umani.

Per la sua caratteristica di essere principio unificante del molteplice, la peculiarità di eros consiste essenzialmente nella sua ambiguità, ovvero nell'aspirazione alla verità assoluta e disinteressata (ecco la sua abbondanza); ma al contempo nel suo essere costretto a vagare nelle tenebre dell'ignoranza (la sua povertà).  La contrapposizione tra verità e ignoranza viene sentita da Platone, come già dal suo maestro Socrate, come una profonda lacerazione, fonte di continua irrequietezza e insoddisfazione.

Si desidera infatti soltanto quello che non si ha, e l'uomo tende ad una sapienza della quale si ricorda vagamente, ma di cui in realtà è povero. Si può notare come la ricerca di questa sapienza muova dalla stessa consapevolezza socratica del «sapere di non sapere». Platone aggiunge che l'uomo non desidererebbe con tanta forza una tale verità se non l'avesse mai vista, se non fosse certo che esiste. In tal senso, non solo si desidera quel che non si ha, ma di più si può affermare: si desidera soltanto ciò che non si ha più, che si è perso.

Per Platone vale l'ideale della kalokagathìa (dal greco kalòs kài agathòs), ossia «bellezza e bontà». Tutto ciò che è bello (kalòs) è anche vero e buono (agathòs), e viceversa. La bellezza delle idee che attira l'amore intellettuale del filosofo perciò è anche il bene dell'uomo. Il fine della vita umana diventa la visione delle idee e la contemplazione di Dio.

Tale contemplazione è sempre imperfetta nella dimensione del mondo sensibile, dominata dalla materia che, in quanto priva di essere, è un semplice non-essere. L'uomo si trova a metà strada tra questi due estremi: mentre le idee sono in sé e per sé, come realtà indipendente e assoluta (ab-soluta), appunto perché "sciolta da" ogni altra, non essendo relative ad altro da sé, l'uomo invece è calato nell'esistenza (da ex-sistentia, "essere fuori"). L'esistenza per Platone è una dimensione ontologica che non ha l'essere in proprio, ma esiste solo in quanto è subordinata ad un essere superiore; egli la paragona ad un ponte sospeso tra essere e non essere. L'uomo è dilaniato così da una duplice natura: da un lato avverte il richiamo del mondo iperuranio, in cui risiede la dimensione più vera dell'Essere, eterna, immutabile, e incorruttibile, ma dall'altro il suo essere è inevitabilmente soggetto alla contingenza, al divenire, e alla morte (non-essere).

Questa duplicità umana è vissuta dallo stesso Platone ora in maniera più ottimista, ora con toni decisamente più pessimisti. Da ciò deriva il disprezzo dei platonici per il corpo: Platone più volte nei dialoghi gioca con l'assonanza di parole sèma/sòma, ossia "tomba"/"corpo": il corpo come tomba dell'anima.

L'ontologia

 Il tema della frattura interiore dell'uomo porta a domandare: su che cosa si fondano, e che rapporto hanno le idee con gli oggetti della conoscenza sensibile? La risposta a questa domanda costituisce la cosiddetta ontologia platonica.

 Il testo fondativo di questo aspetto del pensiero platonico è senza dubbio il celebre mito della caverna del libro VII de La Repubblica. In esso, il mondo sensibile è presentato come immagine evanescente e imperfetta del mondo delle idee, inteso invece come "mondo vero" e fondamento di tutto ciò che è. Platone stesso fornisce l'interpretazione dell'allegoria: lo schiavo che viene liberato dalla caverna rappresenta l'anima, che si libera dai vincoli corporei mediante la conoscenza. Gli elementi del mondo esterno rappresentano le idee, mentre gli oggetti dentro la caverna (e le immagini di questi proiettate sulla parete) non sono che le loro copie imperfette. Il sole, che permette di riconoscere l'aspetto vero della realtà, è simbolo dell'idea del Bene, l'idea suprema in vista della quale l'intero mondo delle idee è costituito e al quale essa conferisce la sua unità.

Una conferma di tale impostazione ontologica del reale è data nel mito narrato nel dialogo Fedro, attraverso l'immagine della faticosa salita dell'anima al cielo iperuranio delle idee, così descritte: «essenze incolori, informi e intangibili, contemplabili solo dall'intelletto (...) essenze che sono scaturigine della vera scienza».

Per testimoniare l'essere delle idee, Platone porta l'esempio delle figure geometriche, dei solidi platonici da lui stesso scoperti, dei triangoli e dei cerchi. In natura non esiste un cerchio o un quadrato perfetto, che pur ogni individuo conosce sapendone calcolare area e perimetro. Una tale capacità è dovuta al fatto che l'intelletto vede al di là del sensibile un'idea di cerchio e quadrato che non si trova nel mondo esteriore.

Esemplificazione delle "idee" platoniche.

 Soltanto nelle idee quindi si trova la dimora dell'Essere, che è una dimensione trascendente rispetto a quella della semplice esistenza. L'ontologia platonica si presenta così come "dualistica", comprensiva cioè di due piani concettuali, quello delle realtà sensibili e quello delle idee, tra i quali esiste una differenza ontologica, incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. L'unico rapporto possibile tra il piano dei fenomeni e quello delle idee è quello "mimetico" (mimesis): ogni realtà sensibile (ente) ha il suo modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra i due livelli resta quello che può compiere l'anima umana, elevandosi attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale. Platone, come già accennato, si rifà alla concezione orfica pitagorica dell'anima, ove questa infatti è scissa in due parti: la prima, mortale, che muore insieme al corpo, e la seconda, immortale, che secondo Pitagora si reincarna in altri corpi.

Ontologia e dialettica

 Come conciliare la differenza tra mondo sensibile e intelligibile e tuttavia la loro corrispondenza? Come partecipano tra loro i due piani della realtà? A queste domande è chiamata a rispondere la dialettica.

Il problema è legato storicamente alla presenza di Aristotele nell'Accademia, durante gli anni della tarda maturità platonica. È infatti presumibile che da un certo momento la critica aristotelica all'ontologia della differenza abbia costretto il vecchio maestro a rivedere criticamente le sue originali concezioni in funzione di un maggior "realismo" logico della teoria delle idee. In altri termini, la domanda è: se il mondo delle idee e quello empirico si contrappongono – essere e non-essere – che senso ha porre l'idea come causa della realtà apparente? Non sarebbe più coerente concludere, come già aveva fatto Parmenide, che esiste solo il mondo delle idee, riducendo il mondo della natura a pura illusione?

La prima soluzione che Platone aveva cercato a questa aporia era stata la teoria della partecipazione (mèthexis): le entità particolari parteciperebbero ognuna dell'idea corrispondente.

In una seconda fase, il filosofo aveva proposto come si è visto la teoria dell'imitazione (mimesis), secondo la quale gli enti naturali sarebbero imitazioni della loro rispettiva idea. A tal proposito Platone introdurrà nel Timeo, dialogo della vecchiaia, la figura del Demiurgo proprio per attribuirgli il ruolo di mediatore tra le due dimensioni.75 Il Demiurgo è un semi-dio che vitalizza il cosmo attraverso un'Anima del mondo, plasmando la chora, una materia già esistente ma sottoposta al caos, allo scopo di darle una forma sul modello delle Idee.

L'Essere secondo Parmenide: chiuso e incompatibile con il non-essere

L'Essere secondo Platone: gerarchicamente strutturato secondo passaggi graduali che vanno da un minimo a un massimo

 Entrambe le risposte però mantenevano aperte molte e complesse contraddizioni di carattere logico. In una terza fase Platone mette allora in discussione una delle basi parmenidee della sua ontologia, quella dell'immobilità dell'essere, attuando quello che lui chiama un «parricidio», ritenendosi egli filosoficamente "figlio" di Parmenide. Ora infatti il mondo delle idee assume l'aspetto di un sistema complesso, in cui trovano posto i concetti di diversità e molteplicità. Più che di una contrapposizione tra idea e realtà, entra in gioco il principio della divisione (diairesis) del mondo intelligibile, che consente di collegare dialetticamente ogni realtà empirica al suo principio sommo. Ciascuna idea si articola con quelle ad essa subordinate (più particolari) e sovraordinate (più generali), secondo regole dialettiche di somiglianza e comunanza (generi, specie); in cima a tutte sta l'idea del Bene. In questa ipotesi teorica entra in gioco la possibilità dell'errore: esso consiste nella determinazione di connessioni arbitrarie tra generi e specie, non rispettose delle loro relazioni logiche. Viene inoltre profondamente modificato il concetto stesso di "non-essere": esso non è più il "nulla", ma viene a costituirsi come il "diverso", come un'altra modalità dell'essere. In altri termini, ora anche il non-essere in certo qual modo è, perché non è più radicalmente contrapposto all'essere, ma esiste in senso relativo (relativo cioè agli enti sensibili). Il non-essere esiste come "corrosione" o decremento della bellezza originaria delle idee iper-uraniche calate nella materia per dare forma agli elementi, in un sinolo o unità di materia e forma, come dirà Aristotele; unione che si decomporrà poi con la morte o distruzione dei singoli enti.

La diairesi non elimina, naturalmente, il carattere trascendente delle idee, ma avvicina maggiormente il metodo dialettico alle possibilità conoscitive del metodo scientifico. Platone si vede costretto a postulare una tale gerarchia o suddivisione della realtà ontologica anche per rispondere al problema sorto con Parmenide, da lui definito «terribile e venerando», circa l'impossibilità di oggettivare l'Essere, al quale, secondo il filosofo eleata, non si poteva attribuire nessun predicato. In tal modo però diventava impossibile conoscere l'Essere, e in ultima analisi pensarlo: una condizione che secondo Platone equivaleva di fatto al non-essere, del quale pure, a rigore, nulla si può dire.

Nel Sofista, pertanto, Platone postula cinque generi sommi (essere, identico, diverso, stasi e movimento) a cui tutte le idee possono essere subordinate; la conciliazione di unità, molteplicità, staticità e movimento è detto «rapporto di comunanza» (koinonìa).

Una notevole difficoltà che s'incontra studiando gli ultimi dialoghi di Platone (Parmenide, Sofista, Teeteto) è la definizione di dialettica che Platone non dà mai. Nella Repubblica Platone ne parla come il metodo più efficace per raggiungere la verità. Nel Fedro si trova che la dialettica è un “processo di unificazione e moltiplicazione”: partendo cioè da un'analisi di certi fenomeni, si tratta di unificarli sotto un unico genere; mentre all'opposto la dialettica si occupa anche di dividere un genere in tutte le specie che comprende sotto di sé. Possiamo forse dire che l'Idea è di fatto un'unità del molteplice, che racchiude ed assume in sé la caratteristica principale propria di alcuni esseri: si pensi ad esempio all'idea del bello che unifica in sé tutte le varie realtà belle.

Nel Parmenide Platone dà una dimostrazione di come lavora la dialettica all'interno del discorso: si tratta di trovare tutte le risposte possibili ad una domanda; poi, con un procedimento falsificatorio, si procederà nel confutare ad una ad una le risposte date, sulla base di certi principi; la risposta che non è falsificata dal procedimento è meno confutabile delle altre e dunque risulta più vera delle altre, mai però vera in senso assoluto. Si potrebbe obiettare a questo punto che tale applicazione della dialettica non corrisponde alla pseudo-definizione datane da Platone nel Fedro. Tale obiezione si rafforza tenendo conto che nel Filebo Platone riformula una nuova concezione. Nel dialogo infatti Socrate è impegnato a definire che cosa sia il piacere. Anzitutto i piaceri sono tanti oppure è solo uno? Filebo non sa rispondere, ed allora Socrate pronuncia la famosa frase secondo cui «i molti sono Uno e l'Uno è molti».

Cosa significa quest'asserzione? Semplicemente ribadisce un principio proprio delle Idee, ossia quella di essere uniche e perfette, eppure, nel contempo, di riflettersi nella molteplicità del sensibile. La metodologia più coerente dell'applicazione della dialettica è probabilmente quella esposta nel Sofista: si tratta del metodo dicotomico. All'interno di una domanda si tratta di isolare il concetto che si vuole definire; nell'attribuire questo concetto ad una classe più ampia nella quale siamo certi sia compreso il concetto medesimo; quindi nel suddividere tale classe in due parti, più piccole, per vedere in quale delle due sottoclassi è ancora compreso il concetto da trovare, e così via, suddividendo finché non troviamo più nulla da dividere e, dunque, la definizione trovata è proprio quella del concetto che volevamo spiegare. Pur presentandosi come scienza (epistème), la dialettica, è bene ribadirlo, è solo un procedimento rigoroso, che però non riesce mai ad arrivare alla verità (sempre per il fatto che si serve dei lògoi). Si può dire allora che la scienza presentata da Platone non è certo quella a cui cercherà di approdare ad esempio Cartesio nel Seicento, o in seguito Hegel. Da notare come anche Aristotele, nonostante le sue critiche a Platone, collocava i princìpi primi al di sopra del ragionamento dimostrativo sillogista, giudicandoli raggiungibili solo attraverso l'intuizione intellettuale.

Lo Stato filosofico

 Il dualismo che Platone aveva teorizzato tra verità e apparenza, anima e corpo, si riflette anche nella concezione politica. Come la sapienza è distinta dall'ignoranza, così anche i filosofi vanno distinti da coloro che sono rimasti fermi ad una conoscenza puramente sensibile del mondo.

Uno Stato che assegni ai suoi cittadini funzioni incompatibili col livello di sapienza da essi raggiunto diventa disarmonico e rischia facilmente di degenerare. Si può notare qui come Platone interpreti la società in analogia ad un organismo vivente. Il compito di far rispettare l'armonia tra le parti spetta a coloro che più hanno saputo recuperare la reminiscenza dell'idea del Bene: i filosofi. Costoro hanno dunque il compito di governare. La loro funzione è identica a quella che nell'anima umana, secondo la tripartizione platonica, spetta all'anima razionale: la coordinazione e il governo delle altre due, l'intellettiva e la concupisciente. Nel mito del carro e dell'auriga l'anima razionale è infatti assimilata a un cocchiere che deve sapere bene indirizzare i due cavalli a lui sottomessi, affinché il carro proceda rettamente. Una sana organizzazione dello Stato è dunque il riflesso dell'organicità dell'anima umana, a cui i filosofi sono preposti. L'anima irascibile o volitiva, simboleggiata dal cavallo bianco, diventa virtuosa quando è caratterizzata da coraggio e audacia: essa trova il suo corrispettivo nella classe dei guerrieri, che hanno il compito di difendere la città. L'anima concupiscibile, simboleggiata dal cavallo nero, è rappresentata infine dagli artigiani e i commercianti, che devono sapere sviluppare la virtù della temperanza; costoro sono più portati al lavoro produttivo.

«…noi pensiamo di modellare una polis felice non prendendo pochi individui separatamente e rendendoli tali, ma considerandola nella sua interezza.»

(Platone, Repubblica, IV, 420c)

Quando ogni classe conduce al meglio il proprio compito, ognuno nella sua autonomia, lo Stato ne risulta armonicamente beneficiato. La concezione politica di Platone si fonda quindi su un forte senso della giustizia, che d'altronde aveva ispirato tutta la sua dottrina delle idee. La preoccupazione di Platone tra l'altro è la stessa che aveva animato il suo maestro Socrate quando lo aveva spinto a fare opera di maieutica presso i suoi concittadini, e nasce da una sostanziale sfiducia verso i metodi politici vigenti nella sua epoca: questi sono responsabili, secondo Platone, di curare solo gli aspetti esteriori e transitori dell'individuo, trascurando l'interiorità dell'anima.

Affinché la classe dei governanti e dei guerrieri non si faccia distrarre da interessi terreni e personali, essi sono chiamati a mettere in comune ogni proprietà; i loro figli analogamente non dovranno appartenere alle rispettive famiglie, ma sarà la collettività a prendersi cura di loro. Sono inoltre disapprovate da Platone le usanze educative del suo tempo basate sulle espressioni artistiche come la poesia o la musica, perché invece di proporre esempi di moralità si limitano a una sterile imitazione del mondo sensibile, già a sua volta imitante l'idea. Nel suo Stato filosofico non c'è neppure bisogno di leggi positive: ogni individuo infatti non deve rispondere a comandi impartiti dall'esterno, ma obbedire alla sua propria attitudine interiore. In virtù di quest'ultima, le tre classi-funzione della città platonica sono dinamiche, e non vengono assegnate alla nascita: è solo durante l'educazione selettiva che si arriva a stabilire quale ruolo ogni individuo sia più adatto a svolgere, poiché, come Platone spiega nel mito delle stirpi, ognuno possiede un'indole che indirizza l'individuo ad uno solo dei tre percorsi.

Stato

Corpo

Anima

Virtù corrispondente

Governanti

Testa

Razionale

Sapienza

Guerrieri

Torace

Volitiva

Coraggio

Artigiani

Addome

Concupiscibile

Temperanza

 Il rapporto esistente fra le tre parti dell'uomo e quelle dello Stato

Il modello educativo di Platone (paidèia) si basa sulla selezione per tappe: il giovane è sottoposto ad una prima istruzione da parte dello Stato comprendente, oltre alla ginnastica e al combattimento (ossia l'esercizio del corpo), anche la musica (ossia l'esercizio dello spirito) purché esprima davvero l'amore per il Bello ideale e non per le bellezze sensibili. L'istruzione tuttavia non va imposta con la forza «poiché un uomo libero dev'essere libero anche nella conquista del sapere».80 Se l'educando si dimostra all'altezza, egli viene privilegiato ed educato alla matematica, col fine di diventare stratega, e all'astronomia, disciplina solo teorica il cui fine è elevare l'animo. Tra i migliori infine vengono scelti coloro che, per diventare buoni governanti, intraprenderanno lo studio della filosofia e della dialettica, la massima scienza. Non essendoci differenze esteriori di nascita, anche le donne sono chiamate, ognuna secondo la propria inclinazione, ad assolvere le stesse funzioni degli uomini, comprese la guerra e il governo, avendo i loro stessi diritti-doveri.

«…non c'è nessuna attività di coloro che amministrano la città che sia della donna in quanto donna, né dell'uomo in quanto uomo, ma le nature sono disseminate in entrambi gli esseri, e la donna partecipa secondo natura di tutte le attività, e alla pari l'uomo di tutte.»

(Platone, Repubblica, V, 455d)

L'educazione dei giovani cittadini consente così di costruire una civiltà armonica in grado di prevenire le forme degenerative della timocrazia, della plutocrazia e della democrazia, che sfociano tutte inevitabilmente nel peggiore dei governi: la tirannide.

Lo Stato ideale tracciato da Platone è stato oggetto di alcune critiche; si è parlato in proposito di comunismo platonico, presumendo di vedere in esso un'anticipazione della società egualitaria prospettata da Marx. Quello di Platone è tuttavia un comunismo etico, non sociale, che propone l'abolizione della proprietà, ma solo per le classi superiori; la distinzione stessa tra le classi viene mantenuta. Margherita Isnardi Parente parla in proposito di comunismo morale dei governanti, non di popolo, ristretto cioè a pochi.81 Lo stesso Marx rimproverava a Platone di avere ideato uno stato diviso in rigide caste, unendosi alle critiche di coloro che ravvisano nella sua utopia un carattere aristocratico. Occorre anche qui precisare tuttavia che l'aristocrazia platonica è del tutto diversa da quella tradizionale fondata sulla stirpe sociale. I "migliori" che Platone chiama a governare infatti sono aristocratici in un senso intellettuale: non per un diritto acquisito con la nascita, ma secondo criteri morali rinvenibili in chiunque.

Le dottrine non scritte: l'Uno e la Diade

«Su queste cose non c'è un mio scritto, né ci sarà mai. In effetti la conoscenza della verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dall'anima e da se stessa si alimenta.»

(Platone, Lettera VII, 341 C 5 - D 2)

Come suggerisce il contenuto della Lettera VII, e secondo quanto si è accennato in più punti, Platone avrebbe omesso nei suoi scritti di parlare di alcune questioni della massima importanza.82 Alcuni esponenti della cosiddetta scuola di Tubinga (tra gli altri Hans Joachim Krämer, Konrad Gaiser e Thomas Alexander Szlezák) e dell'Università Cattolica di Milano (Giovanni Reale) sostengono che effettivamente una parte rilevante delle teorie platoniche non sia mai stata messa per iscritto, e tuttavia ritengono di poter ricavare, da alcuni accenni sparsi nei dialoghi e da alcune considerazioni polemiche presenti nella Metafisica di Aristotele (Libri I, XIII e XIV), le linee di fondo delle cosiddette "dottrine non scritte".83 Secondo le suddette scuole, dunque, la filosofia di Platone non si esaurirebbe nei suoi scritti ma, anzi, parte di essa potrebbe essere recuperata facendo ricorso alla cosiddetta "tradizione indiretta".

Tale critica all'esegesi dell'opera platonica procede lungo un percorso storico che aveva visto la modernità, soprattutto con Friedrich Schleiermacher (1768-1834),84 manifestare la convinzione che gli scritti di Platone contenessero in maniera esaustiva le sue dottrine, rigettando così l'interpretazione allegorica delle sue opere compiuta dagli autori medioplatonici e neoplatonici.

Ma già Friedrich Nietzsche aveva individuato la contraddizione tra la tesi di Schleiermacher e le affermazioni del filosofo ateniese contenute nel Fedro. Secondo Nietzsche, lo scritto ha per Platone il solo scopo di far richiamare alla memoria degli allievi le conoscenze già apprese oralmente all'interno dell'Accademia.

In seguito Heinrich Gomperz (1873-1942)86 partendo da un'interpretazione del passo 341 c. della lettera VII di Platone, sostenne che una piena comprensione dell'opera di Platone poteva avvenire solo attraverso le testimonianze indirette:

«Il sistema filosofico di Platone non viene espressamente sviluppato nei dialoghi, ma si trova solamente, almeno a partire dalla Repubblica, dietro di essi. Questo sistema è un sistema di deduzione, e precisamente dualistico, poiché esso conduce "tutte le cose" a due fattori originari essenzialmente diversi fra loro.»

(Heinrich Gomperz, Op.cit., citato in Giovanni Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle "dottrine non scritte", Bompiani, Milano 2008, pagg. 48-9)

Negli anni venti Hans-Georg Gadamer (1900-2002) scopriva anche lui le "dottrine non scritte" anche se le riteneva basilari unicamente per la comprensione della matematica in Platone.

Il primo autore che ha affrontato organicamente la nuova interpretazione di Platone è stato comunque Hans Joachim Krämer con il suo Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone contestualmente tradotto in italiano da Giovanni Reale88 nel 1982 per la casa editrice milanese Vita e Pensiero.

Dopo Krämer, ed altri autori della scuola di Tubinga, è intervenuto lo stesso Giovanni Reale che ha applicato a questa nuova interpretazione i canoni epistemologici di Thomas Kuhn ritenendo il lavoro di Tubinga come un "nuovo paradigma ermeneutico".

Un'analisi del testo di Fedro (276A, 276E, 277B) unitamente alla Lettera VII sono per questi studiosi più che sufficienti a dimostrare l'autotestimonianza dello stesso Platone del fatto che il filosofo non affida e non comunica tutto il suo insegnamento sui "rotoli di carta" ma soprattutto quelli di maggior valore li redige direttamente negli animi degli uomini in grado di comprenderli.

Questi insegnamenti "non scritti" sono per questi autori il cuore delle dottrine platoniche e, facendo leva sulla testimonianza di Aristotele e dei suoi commentatori Alessandro di Afrodisia e Simplicio, ritengono che per Platone l'intera realtà, non solo quella sensibile ma anche del mondo delle Idee, sia il risultato di due Principi primi: l'Uno e la Diade.89 Tale concezione, di tipo pitagorico, intende l'Uno (il «Bene» dei dialoghi) come tutto ciò che unitario e positivo, mentre la Diade, ovvero il mondo delle differenze e della molteplicità, genera il disordine.

È evidente che questo nuovo paradigma interpretativo del pensiero di Platone non intende più il mondo delle Idee come la dimensione ontologica primaria, ma restringe questa condizione ai soli Principi primi. Le Idee "procedono" da quei due Principi partecipando dell'unità e distinguendosene per difetto o per eccesso; le stesse Idee quindi entrano in relazione con la materia e generano gli enti sensibili, che partecipano dell'Idea corrispondente e se ne differenziano secondo la Diade, sempre per eccesso o per difetto.

Ne consegue che le stesse Idee sarebbero "generate", forse ab aeterno; il bene, poi, nel mondo sensibile, dove non può esservi unità, ma solo molteplicità, consiste nell'armonia delle parti, come si evince anche dai dialoghi.

La fortuna di Platone

 Secondo alcuni autori la filosofia platonica costituisce una tappa fondamentale dell'intera storia della filosofia occidentale che si riconosce di lui debitrice. Come disse Ralph Waldo Emerson:  

«In lui trovate ciò che avete già trovato in Omero, ora maturato in pensiero, il poeta convertito in filosofo, con vene di saggezza musicale più elevate di quelle raggiunte da Omero; come se Omero fosse il giovane e Platone l'uomo finito; eppure con la non minore sicurezza di un canto ardito e perfetto, quando ha cura di avvalersene; e con alcune corde d'arpa prese da un più alto cielo. Egli contiene il futuro, pur essendo uscito dal passato. In Platone esplorate l'Europa moderna nelle sue cause e nella sua semente, il tutto in un pensiero che la storia d'Europa incarna o dovrà ancora incarnare.»

Sempre a questo proposito, Alfred North Whitehead ha sostenuto che «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone».

Il platonismo matematico

 Il fatto che Platone, nell'ampiezza dei suoi interessi etici e metafisici, abbia assunto i numeri e le forme geometriche come enti reali ha indotto matematici moderni a condividerne il realismo relativo alla matematica e ai suoi oggetti. Si tratta della corrente chiamata "platonista" della matematica, che vede aderirvi anche matematici di indirizzo filosofico non platonico, come Bertrand Russell e Kurt Gödel.

Secondo alcuni autori perciò si deve a Platone e alla sua scuola anche lo sviluppo della matematica e la fondazione del pensiero scientifico.

Bibliografia

 Per un quadro completo sulla bibliografia relativa a Platone si può consultare:

    •     L. Brisson, La bibliografia platonica dal 2001 al 2009

Opere edite

    •    Omnia Platonis Opera, Venise, 1513.

    •    Platonis omnia Opera cum commentariis Procli in Timaeum et Politica, Bale, 1534.

    •    Platonis Opera quae extant omnia, ex nova Joan. Serrani interpretatione, perpetuis ejusdem notis illustrata, 3 volumi, Paris, H. Estienne, 1578.

    •     Plato, Opera Recognovit brevique adnotatione critica instruxit I. Burnet, Oxford, Clarendon Press 1906-7 e ristampe (5 volumi).

    •    Platonis Opera Recognovit brevique adnotatione critica instruxerunt E. A Duke, W. F. Hicken, W. S. M. Nicoll, D. B. Robinson, J. C. G. Strachan – vol. I (Eutyphro, Apologia, Crito, Phaedo, Cratylus, Theaetetus, Sophista, Politicus) - New York, Oxford University Press 1995 (revisione dell'edizione Burnet).

Traduzioni italiane

    •    Platone, Fedone, a cura di Manara Valgimigli, Laterza, Bari 1949

    •    Platone, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1982-1984 (9 voll.)

    •    Platone, Dialoghi, a cura di G. Cambiano e F. Adorno, Utet, Torino 1995-2008 (5 voll.)

    •    Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 1997 ISBN 88-18-22018-7

    •     Platone, Minosse o della legge, a cura di Ciro Sbailò, Liberilibri, Macerata 2002.

    •    Platone, La verità, traduz. e note di Emidio Martini, Lorenzo Barbera editore, Siena 2006 ISBN 88-7899-103-1

    •    Platone, Dialoghi, versione di Francesco Acri a cura di Carlo Carena (con Appendice di Mario Vegetti, Quindici lezioni su Platone), Mondadori, Milano 2008

    •    Platone, Tutte le opere, a cura di E.V. Maltese, Newton Compton, Roma 1995, 20092

Studi

    •    F. Adorno, Due tipi di "discorso" in Platone: mito e logos, Firenze 1996

    •    F. Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Roma-Bari 2005 ISBN 88-420-1427-3

    •    M. Bontempelli, F. Bentivoglio, Platone e i preplatonici, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli 2011 ISBN 978-88-905957-3-8

    •    A. Bortolotti, La religione nel pensiero di Platone: dai primi dialoghi al Fedro, Firenze 1986 ISBN 88-222-3664-5

    •    A. Bortolotti, La religione nel pensiero di Platone: dalla Repubblica agli ultimi scritti, Firenze 1991 ISBN 88-222-3834-6

    •    G. Cambiano, Platone e le tecniche, Einaudi, Torino 1971 (poi: Laterza, Roma-Bari 1991)

    •     The Cambridge Companion to Plato, edited by R. Kraut, Cambridge 1992

    •    G. Casertano, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Napoli 1996

    •    G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, Milano 1991

    •    G. Compagnino, Metafisica dell'immagine. Platone e il linguaggio della poesia fra magia e retorica, in «Quaderni Catanesi di studi classici e medievali», 1 (1979), pp. 159–216; 2 (1979), pp. 499–538; 3 (1980), pp. 137–176

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Aristotele

«’l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia.»

(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, IV, 131-132.1)

Aristotele. Dettaglio dalla Scuola di Atene di Raffaello Sanzio (1509).

Aristotele (in greco antico Ἀριστοτέλης, traslitterato in Aristotéles; Stagira, 384 a.C. o 383 a.C.2 – Calcide, 322 a.C.) è stato un filosofo, scienziato e logico greco antico, noto come il "filosofo dell'immanenza".

Discepolo di Platone, è considerato una delle menti filosofiche più innovative, prolifiche e influenti del mondo antico occidentale per la vastità dei suoi campi di conoscenza; fu stimato per secoli come l'emblema dell'uomo sapiente e come precursore di scoperte.

Il significato del nome

 Aristotele, il cui nome deriva dall'unione di ἀριστὀς (aristos) "migliore" e τὲλος (telos) "fine", alla lettera può intendersi con il significato di "il fine migliore", oppure, in senso più ampio, «che giungerà ottimamente alla fine». Una tradizione riferisce come vero nome del filosofo quello di Aristocle di Messene, che sarebbe stato l'autentico maestro di Alessandro Magno. Giovanni Reale sulla base di un'ampia documentazione esclude la validità di questa teoria.

Biografia

Aristotele nacque nel 384/3 a.C. a Stagira, l'attuale Stavro, città macedone nella penisola Calcidica, situata sulla costa nord-orientale della Grecia, a circa 55 chilometri a est dell'odierna Salonicco.

Si dice che il padre, Nicomaco, sia vissuto presso Aminta, re dei Macedoni, prestandogli i servigi di medico e di amico. Aristotele, come figlio del medico reale, doveva pertanto risiedere nella capitale del Regno di Macedonia, Pella. Fu probabilmente per l'attività di assistenza al lavoro del padre che Aristotele fu avviato alla conoscenza della fisica e della biologia, aiutandolo nelle dissezioni anatomiche.5

Secondo gli studiosi la biografia di Aristotele può essere suddivisa in tre periodi.6
Il primo periodo ebbe inizio quando, rimasto orfano in tenera età, dovette trasferirsi dal tutore Prosseno ad Atarneo, cittadina dell'Asia Minore nella regione della Misia situata nel nord-ovest dell'attuale Turchia, di fronte all'isola di Lesbo. Prosseno, verso il 367 a.C., lo mandò ad Atene per studiare nell'Accademia fondata da Platone circa vent'anni prima, dove rimarrà fino alla morte del suo maestro. Aristotele non fu dunque mai un cittadino di Atene, ma un meteco.

Quando il diciassettenne Aristotele entra nell'Accademia, Platone è a Siracusa da un anno, su invito di Dione, parente di Dionigi I, e tornerà ad Atene solo nel 364 a.C.; in questi anni, secondo l'impostazione didattica dell'Accademia, Aristotele dovette iniziare con lo studio della matematica, per passare tre anni dopo alla dialettica.

A reggere la scuola è Eudosso di Cnido, uno scienziato che dovette molto influenzare il giovane studente che, molti anni dopo, nell'Etica Nicomachea scriverà che i ragionamenti di Eudosso «avean acquistato fede più per la virtù dei suoi costumi che per se stessi: appariva di un'insolita temperanza, sembrando ragionare, nell'identificare il bene col piacere, non perché amante del piacere, ma perché pensava che la cosa stesse veramente così».

L'abbandono dell'Accademia

 Il secondo periodo ha inizio quando nel 347 a.C. muore Platone e alla direzione dell'Accademia, più per motivi economici che per meriti riconosciuti, viene chiamato Speusippo, nipote del grande filosofo ateniese. Aristotele, che evidentemente doveva ritenersi più degno di costui, lascia la scuola insieme con Senocrate, altro pretendente alla guida dell'Accademia, per ritornare ad Atarneo, dove aveva trascorso l'adolescenza, invitato da Ermia, allora tiranno della città. Ermia era stato già da lui conosciuto ai tempi dell'Accademia, ed era poi riuscito con un rovesciamento politico a diventare successore di Eubulo, signore di Atarneo, e ad impossessarsi di Asso. Nella corte di Ermia Aristotele ritrova altri due ex allievi di Platone, Erasto e Coristo. Nello stesso anno tutti e quattro si trasferiscono ad Asso, divenuta intanto la nuova sede della corte, dove fondano una scuola che Aristotele battezza come unica vera scuola platonica. Ad essa aderiscono anche il figlio di Coristo, Neleo, e il futuro successore di Aristotele nella scuola di Atene, Teofrasto, suo brillante allievo.

Nel 344 a.C., su invito dello stesso Teofrasto, Aristotele va a Mitilene, sull'isola di Lesbo, dove fonda un'altra scuola, anch'essa battezzata come la sola aderente ai canoni platonici. V'insegna fino al 342, anno in cui è chiamato a Pella, in Macedonia dal re Filippo II perché faccia da precettore al figlio Alessandro Magno. Aristotele svolgerà questo incarico per circa tre anni, fino a quando Alessandro non sarà chiamato a partecipare alle spedizioni militari del padre. Non sappiamo molto dell'educazione che Aristotele impartisce ad Alessandro ma si suppone che le lezioni si basassero prevalentemente sui fondamenti della cultura greca (a partire da Omero) facendo così di Alessandro un uomo greco per gli ideali trasmessigli, ma anche soprattutto sulla politica, dato il destino che attendeva Alessandro. È inoltre possibile che durante questo incarico Aristotele abbia concepito il progetto di una grande raccolta di Costituzioni.

La fondazione del Peripato

 Quando nel 340 a.C. Alessandro diviene reggente del regno di Macedonia, cominciando anche ad avvicinarsi alla cultura orientale, il suo maestro Aristotele, che è intanto rimasto vedovo e convive con la giovane Erpillide da cui ha avuto il figlio Nicomaco, nell'ultimo periodo della sua vita torna forse a Stagira e, intorno al 335 a.C., si trasferisce ad Atene, dove in un pubblico ginnasio, detto Liceo perché sacro ad Apollo Licio, fonda una sua famosissima e celebrata scuola, chiamata Peripato - passeggiata, dall'uso istituito dallo Stagirita di insegnare passeggiando nel giardino che la circonda. Probabilmente non è Aristotele ad acquistare la scuola; egli l'affitta perché per la città di Atene egli era uno straniero e non aveva diritto di proprietà. La scuola viene inoltre finanziata dallo stesso Alessandro. Aristotele promuove attività di ricerca nella città di Atene soprattutto per quanto riguarda materie scientifiche quali zoologia, botanica, astronomia.

Riguardo alla scuola abbiamo notizie vaghe; comunque sappiamo per certo che gli alunni erano chiamati per dieci giorni a dirigere la scuola in prima persona: Aristotele ci teneva a istruire i suoi allievi a questo ruolo. Inoltre i pasti venivano consumati in comune secondo un'usanza dei pitagorici e ogni mese si organizzava un simposio filosofico con giudizio (iudicio) guidato dalla saggezza del maestro. Le lezioni si svolgevano di mattina; di pomeriggio e di sera invece Aristotele teneva, sempre nella scuola, delle conferenze aperte al pubblico; le materie erano appunto di interesse pubblico quindi politica e retorica, ad esempio, ma non materie astratte come la metafisica e la logica.

Nel 323 a.C. muore Alessandro Magno e ad Atene si manifestano i mai sopiti odii  antimacedoni; Aristotele, guardato con ostilità per il suo legame con la corte macedone, è accusato di empietà: lascia allora Atene e con la famiglia si rifugia a Calcide in Eubea, la città materna, dove muore l'anno dopo.

Il testamento

 Diogene Laerzio riporta il testamento di Aristotele:

«Andrà senz'altro bene, ma qualora capitasse qualcosa, Aristotele ha steso le seguenti disposizioni: tutore di tutti, sotto ogni aspetto, dev'essere Antipatro; però, Aristomene, Timarco, Ipparco, Diotele e Teofrasto, se è possibile, si prendano cura dei figli, di Erpillide [la sua convivente] e delle cose da me lasciate, fino all'arrivo di Nicanore. E al momento giusto, mia figlia [Piziade] sia data in sposa a Nicanore [...] Se invece Teofrasto vorrà prendersi cura di mia figlia, allora sia padrone lui [...]

I tutori e Nicanore, ricordandosi di me, si prendano cura anche di Erpillide, sotto ogni aspetto e anche se vorrà risposarsi, in modo che non sia data in sposa indegnamente, visto che è stata premurosa con me. In particolare, le vengano dati, oltre a quello che ha già ottenuto, anche un tallero d'argento e tre schiave, quelle che vuole, la schiava che già ha e lo schiavo Pirro. E se vorrà abitare a Calcide, le sia data la casa per gli ospiti vicino al giardino; se invece vorrà stare a Stagira, le sia data la mia casa paterna [...]

Sia libera Ambracide e le si diano, alle nozze di mia figlia, cinquecento dracme e la giovane serva che già possiede [...] Sia liberato Ticone quando mia figlia si dovesse sposare, e così anche Filone, Olimpione e il suo ragazzino. Non vendano nessuno dei giovani schiavi che attualmente mi servono, ma siano impiegati; una volta dell'età giusta, siano liberati, se lo meritano [...]

Ovunque sia costruita la mia tomba, là siano portate e deposte le ossa di Piziade, come lei stessa ordinò; dedichino poi anche da parte di Nicanore, se sarà ancora vivo - come ho pregato a suo favore - statue di pietra alte quattro cubiti a Zeus Salvatore e ad Atena Salvatrice a Stagira».

Le opere

 Degli scritti di Aristotele si sogliono distinguere le opere giovanili, a cui egli cominciò a lavorare già nel 364 a.C., da quelle della maturità.

Gli scritti giovanili

A questo gruppo appartengono le seguenti opere: Grillo, Sulle idee, Sul Bene, Eudemo, Protreptico e De philosophia.

Il Grillo o Sulla retorica

 Intorno al 360 a.C. il giovane Aristotele scrive la sua prima opera intitolata Grillo o Sulla retorica; in reazione a una serie di scritti di elogio - composti da alcuni retori ateniesi, fra i quali Isocrate, per celebrare Grillo, figlio di Senofonte, morto nel 362 a.C. nella battaglia di Mantinea - lo Stagirita polemizzava contro la retorica come mezzo per agire sugli affetti, sulla parte irrazionale dell'anima. Già Platone, nel Gorgia, aveva sostenuto che la retorica non era un'arte, né una scienza, ma semplicemente una εμπειρία (empeirìa), una pratica persuasiva che può avere successo solo sugli ignoranti. Il successo del Grillo nell'Accademia procurò ad Aristotele l'incarico di tenere un corso di retorica, nel quale, seguendo il Fedro platonico, sostenne che la retorica doveva fondarsi sulla dialettica. A tal proposito si è tramandato negli anni che egli esordì nella prima lezione con la frase: «È cosa turpe tacere e lasciar parlare Isocrate».

Sulle Idee

 Scritto poco dopo il Grillo, il trattato Sulle Idee è andato perduto tranne pochi frammenti, trasmessi da Alessandro d'Afrodisia. Vi si affrontava la difficoltà di intendere il rapporto tra idee e cose, concepito da Platone come partecipazione delle cose alle idee, che da esse sono tuttavia separate.

Eudosso sosteneva che tra le idee e le cose non ci fosse né separazione, né partecipazione, bensì mixis, mescolanza: le idee e le cose sono mescolate tra loro. Aristotele non accetta la teoria eudossiana, che non risolve il problema, ma critica anche la teoria platonica della separazione, delle cui aporie lo stesso Platone era del resto ben consapevole, come mostra il suo dialogo Parmenide. Per Aristotele il principio di tutte le cose non risiede nelle idee trascendenti, ma nelle loro "forme" immanenti.

Sul Bene

 Nel tentativo di superare un'altra difficoltà contenuta nella teoria delle idee, le quali, essendo molteplici, hanno bisogno secondo Platone di essere giustificate da un principio unitario, Platone introdusse i principi dell'Uno (identificato con il Bene) e della Diade (il grande e il piccolo); il primo ha la funzione di principio formale e il secondo ha la funzione di principio materiale.

È probabile che le conclusioni del trattato aristotelico Sul Bene, scritto intorno al 358 a.C. e del quale rimangono pochi frammenti, fossero quelle esposte nella matura Metafisica:10 «Platone chiamò idee gli esseri diversi da quelli sensibili e disse che di tutte le cose sensibili si parla in dipendenza dalle idee e secondo le idee: infatti le cose molteplici che hanno lo stesso nome delle idee esistono per partecipazione [...] ma che cosa fosse la partecipazione o l'imitazione delle idee è un problema che Platone e i pitagorici lasciarono aperto. Inoltre Platone dice che oltre alle cose sensibili e alle idee esistono le cose matematiche, che sono intermedie e differiscono dalle cose sensibili perché sono eterne e immobili, e differiscono dalle idee per il fatto che ce ne sono molte simili tra loro, mentre ciascuna idea è unica in sé [...]. Come principi, Platone poneva la Diade, cioè il grande e il piccolo, come materia, e poneva l'Uno come sostanza; dal grande e dal piccolo, per partecipazione all'Uno, si costituiscono le idee, che sono i numeri che nascono da quei principi [...] Platone sosteneva una tesi vicina a quella dei Pitagorici, e si poneva sulle loro posizioni, quando diceva che i numeri sono la causa della sostanza delle altre cose [...] egli ricorre soltanto a due cause, l'essenza e la causa materiale, perché le idee sono la causa dell'essenza delle altre cose, mentre l'Uno è causa dell'essenza delle idee».

Aristotele respinse dunque già nel primo periodo della sua formazione la teoria delle idee nella lunga elaborazione fatta da Platone, ma dalla meditazione su di essa trasse la personale dottrina della causa formale e della causa materiale.

L'Eudemo o Sull'anima (Aristotele)Sull'anima

 Nel 354 a.C., alla morte in guerra, presso Siracusa, dell'amico e compagno di studi Eudemo di Cipro, Aristotele scrisse, in forma consolatoria e non speculativa, un altro dialogo, pervenuto in frammenti, l'Eudemo o Sull'anima, nel quale, prendendo a modello il Fedone platonico, sosterrebbe la tesi dell'immortalità dell'anima razionale, come indicato nella forma pur problematica della posteriore Metafisica: «Se rimanga qualche cosa dopo l'individuo, è una questione ancora da esaminare. In alcuni casi, nulla impedisce che qualcosa rimanga: per esempio, l'anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma solo la parte intellettuale; perché è forse impossibile che tutta l'anima sussista anche dopo».

Per l'Aristotele maturo, l'anima non è un'idea ma una sostanza informante il corpo: nell'Eudemo è invece netta l'opposizione fra anima e corpo, sicché lo Jaeger la considerava dimostrazione dell'adesione completa del giovane Aristotele al platonismo; i sostenitori della precoce presa di distanza dello Stagirita da Platone intendono invece questa dichiarata opposizione come dipendente dall'intento consolatorio del dialogo, nel quale Aristotele avrebbe volutamente accentuato il destino ultraterreno dell'anima.

In ogni caso, i frammenti dell'Eudemo non permettono di dedurre un'adesione alle dottrine platoniche delle idee separate dagli oggetti sensibili e della conoscenza fondata sulla reminiscenza.

Il Protreptico

 Il Protreptico o Esortazione alla filosofia, conosciuto dalle numerose citazioni contenute nell'opera di eguale titolo di Giamblico, dedicato a Temisone, re di una città di Cipro, dovette essere scritto intorno al 350 a.C.

Il Protreptico è un'esortazione alla filosofia, essendo questa il più grande dei beni, dal momento che ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé. Aristotele individua nell'essere umano la divisione fra anima e corpo: «una parte di noi è l'anima e una parte è il corpo, l'una comanda e l'altra è comandata, l'una si serve dell'altra e l'altra sottostà come uno strumento [...] Nell'anima ciò che comanda e giudica per noi è la ragione, mentre il resto ubbidisce e per natura è comandato [...] dunque l'anima è migliore del corpo, essendo più adatta al comando, e di questa è migliore la parte che possiede ragione e pensiero», una divisione non vista come opposizione, come nell'Eudemo, ma come collaborazione: il corpo è lo strumento dell'agire dell'anima, della parte razionale dell'anima.

«Delle cose che sono generate, alcune sono generate dall'intelligenza e dall'arte, per esempio, la casa e la nave; altre sono generate non per arte ma per natura: degli esseri viventi e delle piante, infatti, la causa è la natura e per natura sono generate tutte le cose di tal specie; altre però sono generate anche per caso, e sono tutte quelle non generate né per arte, né per natura, né da necessità, e tutte queste cose, molto numerose, noi diciamo che sono generate per caso». Non vi è finalità nel caso ma vi è nell'arte e nella natura: la natura è l'ordine tendente a un fine, e il fine dell'uomo è la conoscenza.

La filosofia è sia buona che utile, ma la bontà va privilegiata rispetto all'utilità: «alcune cose, senza le quali è impossibile vivere, le amiamo in vista di qualcosa di diverso da esse: e queste bisogna chiamarle necessarie e cause concomitanti; altre invece le amiamo per se stesse, anche se non ne consegua nulla di diverso, e queste dobbiamo chiamarle propriamente beni [...] Sarebbe quindi del tutto ridicolo cercare di ogni cosa un'utilità diversa dalla cosa stessa, e domandare: "Che cosa ci è giovevole? Che cosa ci è utile?". Colui che ponesse queste domande non assomiglierebbe in nulla a uno che conosce ciò che è bello e buono né a uno che sappia riconoscere che cosa è causa e che cosa è concomitante». È una polemica, questa, contro le posizioni di Isocrate che, nel suo Antidosis, scritto contro l'Aristotele del Grillo, attaccava una conoscenza che fosse priva di utilità pratica. Inoltre quest'opera, essendo certamente datata, è fondamentale per gli studi storiografici in quanto ci consente di creare un abbozzo cronologico di alcuni libri della Metafisica in base alla presenza (o meno) in essi di temi già trattati nel Protreptico. Del resto, che fare filosofia sia per Aristotele comunque necessario lo dimostra il fatto che «chi pensa sia necessario filosofare, deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloquio».

Il De philosophia

 Il De Philosophia, pervenuto in frammenti, fu scritto intorno al 355 a.C. e si divide in tre libri: nel primo Aristotele definisce filosofia la conoscenza dei principi della realtà; nel secondo critica la dottrina platonica delle idee e delle idee-numeri; nel terzo espone la sua teologia.

 Ribadisce la non trascendenza delle idee e nega le idee-numero o numeri ideali, introdotti dal tardo Platone: «se le idee sono un'altra specie di numero, non matematico, non potremmo averne alcuna comprensione; chi, fra noi, comprende un tipo di numero diverso?». È Cicerone a citare, criticamente, il terzo libro del De philosophia: «Aristotele nel terzo libro della sua opera Della filosofia confonde molte cose dissentendo dal suo maestro Platone. Ora infatti attribuisce tutta la divinità a una mente, ora dice che il mondo stesso è dio, ora prepone al mondo un altro essere e gli affida il compito di reggere e governare il moto del mondo per mezzo di certe rivoluzioni e moti retrogradi, talora dice che dio è l'etere, non comprendendo che il cielo è una parte di quel mondo che altrove ha designato come potere divino».

La dimostrazione della necessità e dell'immutabilità di Dio è fornita dalla testimonianza di Simplicio: «dove c'è un meglio, c'è anche un ottimo: poiché, fra ciò che esiste, c'è una realtà superiore a un'altra, esisterà di conseguenza una realtà perfetta, che dovrà essere la potenza divina [...] e ne deduce la sua immutabilità».13 Puro pensiero e immutabile, Dio non può creare il mondo, che è anch'esso eterno, come riporta Cicerone:14 «il mondo non ha mai avuto origine, poiché non vi è stato alcun inizio, per il sopravvenire di una nuova decisione, di un'opera così eccellente» e attesta anche la concezione della divinità degli astri: «Le stelle poi occupano la zona eterea. E poiché questa è la più sottile di tutte ed è sempre in movimento e sempre mantiene la sua forza vitale, è necessario che quell'essere vivente che vi nasca sia di prontissima sensibilità e di prontissimo movimento. Per la qual cosa, dal momento che sono gli astri a nascere nell'etere, è logico che in essi siano insite sensibilità e intelligenza. Dal che risulta che gli astri devono essere ritenuti nel numero delle divinità».

Le opere della maturità

 Della produzione filosofica aristotelica più matura ci sono giunti solo gli scritti composti per il suo insegnamento nel Peripato, detti libri acroamatici (in greco: "ciò che si ascolta") o esoterici; oltre a questi, come esposto in precedenza, Aristotele aveva scritto e pubblicato, durante la sua precedente permanenza nell'Accademia di Platone, anche dei dialoghi destinati al pubblico, per questo motivo detti essoterici, che sono però pervenuti in frammenti. Questi dialoghi giovanili furono letti e discussi dai commentatori fino al VI secolo d.C.

A seguito della chiusura dell'Accademia ateniese ordinata nel 529 da Giustiniano e alla diaspora di quegli accademici, queste opere si dispersero e furono dimenticate, mentre di Aristotele rimasero solo i trattati esoterici; questi, a loro volta, erano stati dimenticati a lungo dopo la morte del Maestro fino ad essere ritrovati, alla fine del II secolo a.C., da un bibliofilo ateniese, Apellicone di Teo, in una cantina appartenente agli eredi di Neleo, figlio di Corisco, entrambi seguaci di Aristotele nella scuola di Asso. Apellicone li acquistò, portandoli ad Atene, e qui Silla li sequestrò nel saccheggio di Atene dell'84 a.C., portandoli quindi a Roma, dove furono ordinati e pubblicati da Andronico da Rodi.

L'insieme di queste opere può essere ordinato per argomenti omogenei:

    •    Logica scritti raccolti successivamente nel titolo complessivo di Organon - in greco, "strumento" - comprendenti:

      1.       Le categorie (un libro)

      2.       Sull'interpretazione (un libro)

      3.       Analitici primi (due libri)

      4.       Analitici secondi (due libri)

      5.       Topici (otto libri)

      6.       Elenchi sofistici (un libro)


    •    Metafisica15 (quattordici libri)

    •    Fisica (otto libri) con scritti correlati:

      1.       Sul cielo (quattro libri)

      2.       Sulla generazione e corruzione (due libri)

      3.       Sulle meteore (quattro libri)

      4.       Storia degli animali (un libro)

      5.       Sulle parti degli animali (un libro)

      6.       Sulla generazione degli animali (un libro)

      7.       Sulle migrazioni degli animali (un libro)

      8.       Sul movimento degli animali (un libro)


    •    Sull'anima (tre libri) con scritti correlati:

      1.       Sensazione e sensibile (un libro)

      2.       Memoria e reminiscenza (un libro)

      3.       Il sonno (un libro)

      4.       I sogni (un libro)

      5.       La divinazione mediante i sogni (un libro)

      6.       Lunghezza e brevità della vita (un libro)

      7.       Giovinezza e vecchiaia (un libro)

      8.       La respirazione (un libro)


    •     Etica, comprendente

      1.      Etica Nicomachea (dieci libri)

      2.      Etica Eudemia (sei libri)

      3.       Grande etica (due libri)


    •    Politica (otto libri) correlata alla

      1.      Costituzione degli Ateniesi


    •    Retorica (tre libri)

    •    Poetica, incompiuta.


Apocrifi

 Ad Aristotele erano anche attribuiti i Problemi e Le Audizioni Meravigliose che la filologia moderna non riconosce come suoi.

Nei Problemi il Filosofo si chiede: come mai sedendosi vicino al fuoco viene da fare pipì? La sua risposta è, come al solito, acutissima: perché il fuoco scioglie le cose solide. È chiaro che, se avesse ragione, allontanandosi dal fuoco dovrebbe anche passare la voglia. Un altro dei Problemi è: come mai soffiando sulle mani queste si scaldano, mentre soffiando sulla zuppa questa si raffredda? Anche qui la risposta è magistrale: Perché quando soffi sulla minestra, tieni la bocca quasi chiusa, in modo tale che il calore dell'aria rimane dentro la bocca e quel poco che esce fuori evapora subito per la violenza del soffio. Le Audizioni Meravigliose contengono fatti che ancora oggi la scienza non sa spiegare: ad esempio, sull'isola di Creta, le capre ferite dai cacciatori si cibano di un'erba, chiamata Dittamo, che subito fa uscire la freccia e sana la ferita18.

La filosofia: scienza delle cause e ricerca delle essenze

 La filosofia di Aristotele muove dalla stessa esigenza platonica di ricercare un princìpio eterno e immutabile che spieghi il modo in cui avvengono i mutamenti della natura. Come il suo maestro Platone, Aristotele ha ben presente la contrapposizione filosofica venutasi a creare tra Parmenide ed Eraclito; anche lui pertanto si propone di conciliare le loro rispettive posizioni di pensiero: l'Essere statico del primo con l'incessante divenire del secondo. Per cui tutto muta in natura, tutto «scorre», ma non a caso: seguendo sempre certi schemi o regole fisse.

A differenza di Platone, tuttavia, Aristotele ritiene che le forme in grado di guidare la materia non si trovino al di fuori di essa: non ha senso secondo lui sdoppiare gli enti per cercare poi di riconciliarli in qualche modo; ogni realtà invece deve avere in se stessa, e non in cielo, le leggi del proprio costituirsi.

Il fatto che tutti i fenomeni naturali siano soggetti a costante mutamento significa per Aristotele che nella materia è sempre insita la possibilità di raggiungere una forma precisa. Compito della filosofia è proprio quello di scoprire le cause che determinano il perché un oggetto tenda ad evolversi in un certo modo e non diversamente. Aristotele parla in proposito di quattro cause, che sono le seguenti:

      1.      causa formale: consiste nelle qualità specifiche dell'oggetto stesso, nella sua essenza;

      2.      causa materiale: la materia è il sostrato senza cui l'oggetto non esisterebbe;

      3.      causa efficiente: è l'agente che determina operativamente il mutamento;

      4.      causa finale: la più importante di tutte, in virtù della quale esiste un'intenzionalità nella natura; è lo scopo per cui una certa realtà esiste.

La scienza delle cause consente di affrontare in maniera più sistematica e razionale il problema dell'Essere e delle sue possibili determinazioni, sorto la prima volta con Parmenide. Quest'ultimo aveva detto dell'Essere soltanto che è, e non può non essere, ma non aveva aggiunto cosa esso sia, lasciandolo senza un predicato. Ne risultava un concetto evanescente, che rischiava di venir confuso col non-essere. Aristotele con la sua ontologia si propone allora di mostrare che l'essere è determinato in una molteplicità di attributi, che lo rendono multilaterale pur nella sua unità.

Ontologia e metafisica

 L'ontologia, in quanto metafisica (secondo la terminologia introdotta da Andronico di Rodi), è la "filosofia prima" aristotelica, che ha come suo primario oggetto di indagine l'essere in quanto tale, e solo in via subordinata l'ente (dal greco ὄντος, genitivo di ὤν, essente). "In quanto tale" significa a prescindere dai suoi aspetti accidentali, e quindi in maniera scientifica. Solo di ciò che permane come sostrato fisso e immutabile, infatti, si può avere una conoscenza sempre valida e universale, a differenza degli enti soggetti a generazione e corruzione, ragion per cui «del particolare non si dà scienza».

Per conoscere gli enti occorrerà dunque fare sempre riferimento all'Essere; Aristotele intende per ente tutto ciò che esiste, nel senso che deve ad altro la propria sussistenza, a differenza dell'Essere che invece è in sé e per sé: mentre l'Essere è uno, gli enti non sono tutti uguali. Per il filosofo essi hanno vari significati: l'ente è un "pòllachos legòmenon" (dal greco πόλλακος λεγόμενον), ossia si può «dire in molti modi». Ente sarà ad esempio un uomo, così come il suo colore della pelle.

Introducendo gli enti, Aristotele cerca di risolvere il problema ontologico di conciliare l'essere parmenideo col divenire di Eraclito, facendo dell'ente un sinolo indivisibile di materia e forma: come già accennato, infatti, la materia possiede un suo modo specifico di evolversi, ha in sé una possibilità che essa tende a mettere in atto. Ogni mutamento della natura è quindi un passaggio dalla potenza alla realtà, in virtù di un'entelechia, di una ragione interna che struttura e fa evolvere ogni organismo secondo leggi sue proprie. Cercando di superare il dualismo di Platone in seno all'essere, Aristotele sostiene così l'immanenza dell'universale. La sua soluzione tuttavia risente fortemente dell'impostazione platonica, perché, come già il suo predecessore, anche lui concepisce l'essere in forma gerarchica: per cui da un lato vi è l'Essere eterno e immutabile, identificato con la vera realtà, che basta a se stesso in quanto perfettamente realizzato; dall'altro vi è l'essere in potenza, proprio degli enti, che per costoro è soltanto la possibilità di attuare se stessi, di realizzare la loro forma in atto, la loro essenza. Anche il non-essere quindi in qualche modo è, almeno come poter-essere. E il divenire consiste propriamente in questo perenne passaggio verso l'essere in atto.

La Sostanza: prima e seconda

 Il genere sommo di cui il filosofo si occupa maggiormente è quello di sostanza, classificata in sostanza prima e sostanza seconda. La prima è relativa ad un singolo essere, un determinato uomo, un certo animale o una pianta, ossia tutto ciò che ha sussistenza autonoma. La sostanza seconda invece è costituita da sostantivi generici che determinano un oggetto in un certo modo, è la risposta a "che cos'è" quell'oggetto, ti estì (dal greco τί ἐστί), specificando meglio la sostanza prima. Nella frase «il Sole è un astro» ad esempio, Sole, nome proprio e specifico di una stella, è sostanza prima, mentre astro, nome generico che ne specifica l'essenza o la natura, è sostanza seconda. Di fatto, se si prescinde dall'aspetto materiale, la sostanza è sinonimo di essenza (οὐσία, usìa). Ogni realtà può essere detta che "è" in quanto esprime la sostanza. Un altro termine utilizzato per indicarla è sinolo di materia e forma.

 Nonostante le molteplici valenze che assumono gli enti, tutti richiamano inevitabilmente in un modo o nell'altro il concetto di sostanza, termine introdotto da Aristotele per indicare ciò che è in sé e per sé, e che per essere non ha bisogno di esistere. La sostanza è uno dei dieci predicamenti dell'essere, ossia di quelle dieci categorie entro cui classificare gli enti sulla base della loro differenza. Esse sono: sostanza, qualità, quantità, dove, quando, relazione, agire, subire, avere, giacere.

Le dieci categorie possono anche essere definite generi massimi, poiché permettono la completa classificazione degli enti. Non vanno confuse con i cinque generi sommi platonici, perché se Platone cercava categorie universali cui partecipassero tutte le idee, Aristotele cerca categorie cui gli enti partecipino in base alla loro diversità: non esiste infatti una categoria a cui tutti gli enti tangibili partecipino, proprio perché il suo scopo non è quello della reductio ad unum o omologazione (far confluire tutti gli oggetti di studio in un unico grande calderone).

A differenza della sostanza, le nove rimanenti categorie si devono invece definire "accidenti" in quanto non hanno vita indipendente, ma esistono solo nel momento in cui ineriscono alla sostanza. Il giallo, per esempio, non è un ente autonomo come un uomo. Perciò nella frase «il Sole è giallo», Sole è sempre sostanza prima, mentre giallo è accidente della sostanza, appartenente alla categoria della qualità.

Lo stesso filosofo afferma quanto sia inutile ogni scienza che si occupi di enti dotati delle medesime caratteristiche: la matematica studia gli enti astratti deducibili solo con l'astrazione (in numeri), la fisica gli elementi naturali della physis (greco φύσις), l'ontologia, invece, studia gli enti. Ma in base a che cosa gli enti sono accomunati? Non certo il fatto di esistere, perché, come già detto, il filosofo nega a priori l'esistenza di una categoria che collochi in sé tutti gli enti (la categoria dell'essere che, infatti, li accomunerebbe tutti). Il termine ente è comunque una parola ambigua, proprio come "salutare". Esso vuol dire sano o indicare l'azione del cordiale saluto, tutto comunque richiama allo stesso concetto di salute.

Teologia

 Soltanto l'essere in atto fa sì che un ente in potenza possa evolversi; l'argomento ontologico diventa così teologico per passare alla dimostrazione della necessità dell'essere in atto. Si è visto come il movimento sia originato dalle quattro cause. Ogni oggetto è mosso da un altro, questo da un altro ancora, e così via a ritroso, ma alla fine della catena deve esistere un motore immobile, cioè Dio: "motore" perché è la meta finale a cui tutto tende, "immobile" perché causa incausata, essendo già realizzato in sé stesso come «atto puro».

Tutti gli enti risentono della sua forza d'attrazione perché l'essenza, che in costoro è ancora qualcosa di potenziale, in Lui giunge a coincidere con l'esistenza, cioè è tradotta definitivamente in atto: il Suo essere non è più una possibilità, ma una necessità. In Lui tutto è compiuto perfettamente, e non v'è nessuna traccia del divenire, perché questo è appunto solo un passaggio. Non vi è neppure l'imperfezione della materia che continua invece a sussistere negli enti inferiori, i quali sono ancora una mescolanza, un insieme non coincidente di essenza ed esistenza, di potenza ed atto, di materia e forma.

«Il primo motore dunque è un essere necessariamente esistente, e in quanto la sua esistenza è necessaria si identifica col bene, e sotto tale profilo è principio. […] Se, pertanto, Dio è sempre in uno stato di beatitudine, che noi conosciamo solo qualche volta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore essa deve essere oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio, è appunto, in tale stato!»

(Aristotele, Metafisica XII (Λ), 1072, b 9-30)

Come nell'Essere di Parmenide, Dio è pienezza della sostanza e quindi pensiero puro. Per Aristotele infatti la migliore delle azioni è quella legata all'attività noetica, non essendo soggetta alla corruzione del divenire.26 Ma cosa pensa Dio? Evidentemente il pensiero più alto e cioè se stesso. La sua caratteristica principale è dunque la contemplazione autocosciente, fine a sé stessa, intesa come «pensiero di pensiero».

Gnoseologia

 Nell'ambito della filosofia della conoscenza, Aristotele sembra rivalutare l'importanza dell'esperienza sensibile, e tuttavia, al pari di Platone, mantiene fermo il presupposto secondo cui l'intelletto umano non si limita a recepire passivamente le impressioni sensoriali, ma svolge un ruolo attivo che gli consente di andare oltre le particolarità transitorie degli oggetti e di coglierne le cause.

Esistono vari gradi del conoscere: secondo Aristotele all'inizio non ci sono idee innate nella nostra mente; questa rimane vuota se non percepiamo qualcosa attraverso i sensi. Ciò tuttavia non vuol dire che l'essere umano non abbia delle capacità innate di ordinare le conoscenze, raggruppandole in diverse classi e riuscendo a penetrare l'essenza propria di ciascuna di esse, con le quali stabilisce una corrispondenza.

Al livello più basso c'è la sensazione, che ha per oggetto entità particolari. La sensazione in potenza può sentire di tutto, ma solo nel momento in cui mette in atto una percezione specifica avviene il «sentire di sentire», che appartiene al cosiddetto senso «comune». La sensazione in atto rende attuale lo stesso oggetto percepito, ad esempio è l'udito a dare vita al suono, facendolo passare all'essere. Al grado successivo interviene la fantasia, facoltà dell'anima, che ha la capacità di rappresentare gli oggetti non più presenti ai sensi, producendo le immagini: queste vengono ricevute dall'intelletto potenziale, per essere poi, in seguito a vari filtri, conservate dalla memoria, da cui nasce la generalizzazione dell'esperienza. Anche l'intelletto potenziale ha bisogno a sua volta di una realtà già in atto per potersi attivare. Ecco dunque che la conoscenza deve culminare infine con un trascendente intelletto attivo, che superando la potenza sappia vedere l'essenza in atto, ossia la forma. Questo passaggio supremo è reso possibile dall'intuizione (nous), la quale presuppone che la mente umana sia capace di pensare se stessa, ovvero sia dotata di consapevolezza e libertà; solo così essa può riuscire ad "astrarre" l'universale dalle realtà empiriche. L'approdo dal particolare all'universale, inizialmente avviato tramite i sensi dall'epagoghè (termine traducibile impropriamente con induzione) non possiede infatti nessun carattere di necessità o di consequenzialità logica, dato che la logica di Aristotele, a differenza di quella moderna, è solo deduttiva.29 L'induzione per lui funge unicamente da stimolo, o sollecitazione, di un processo definitorio che comporta alla fine un'esperienza di tipo contemplativo:

«Non si può dire che il definire qualcosa consista nello sviluppare un'induzione attraverso i singoli casi manifesti, stabilendo cioè che l'oggetto nella sua totalità deve comportarsi in un certo modo […] Chi sviluppa un'induzione, infatti, non prova cos'è un oggetto, ma mostra che esso è, oppure che non è. In realtà, non si proverà certo l'essenza con la sensazione, né la si mostrerà con un dito.»

(Aristotele, Analitici secondi II, 7, 92a-92b)

La conoscenza noetica che ne risulterà consiste quindi nella corrispondenza tra realtà e intelletto: come la sensazione s'identifica con ciò che è sentito, così l'intelletto attivo o agente (indicato col termine nùs poietikòs)31 coincide con la verità del suo stesso oggetto, implicando una componente divina in grado di farlo passare all'atto, per cui ad esempio un libro è un oggetto in potenza, che diventa un libro in atto solo quando viene pensato.

Logica

 Distinta dall'intelletto (nous) è la Logica, conoscenza dianoetica  del pensiero discorsivo (diànoia), che Aristotele teorizza nella forma rigorosamente deduttiva del sillogismo:35 mentre l'intuizione (νούς) fornisce le verità supreme della conoscenza, la logica ne trae soltanto delle conclusioni formalmente corrette, scendendo dall'universale al particolare.

Il termine propriamente utilizzato da Aristotele, infatti, non è logica ma analitica, ("analisi" dal greco ἀνάλυσις - analysis- derivato di ἀναλύω - analyo) che vuol dire appunto "scomporre, risolvere nei suoi elementi", per indicare la risoluzione di un'asserzione nei suoi elementi costitutivi. In tal senso non è propriamente una scienza quanto uno strumento: non rientra né tra le scienze poetiche, né tra quelle pratiche né tra quelle teoretiche.39 Oggi la filosofia considera la logica come una scienza a se stante priva di contenuto ontologico, per Aristotele invece è una prima fondamentale facoltà, propedeutica a tutte le altre scienze,40 che si occupa della struttura dell'oggetto, ossia dell'essere, in virtù della necessaria corrispondenza tra le forme del pensiero (analitica) e quelle della realtà (metafisica): una corrispondenza già data dal nous o intelletto, che la logica si limita a scomporre nelle sue parti.

Alla logica aristotelica fu successivamente attribuito anche il termine di "Organon" (strumento) che le venne assegnato per la prima volta da Andronico di Rodi (I secolo a.C.) e ripreso da Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.)41 che lo riferì agli scritti aristotelici che hanno come tema l'Analitica.

Analitici primi e Analitici posteriori

 Negli Analitici primi, prima parte della Logica, Aristotele espone le leggi che la guidano: non dimostrabili ma intuibili con un atto immediato,42 sono il principio di identità, per il quale A = A, e quello di non-contraddizione, per cui A ≠ non-A.

Il sillogismo è un ragionamento concatenato che, partendo da due premesse di carattere generale, una "maggiore" e una "minore", giunge ad una conclusione coerente su un piano particolare. Sia le premesse che la conclusione sono proposizioni espresse nella forma soggetto-predicato. Un esempio di sillogismo è il seguente:

      1.       Tutti gli uomini sono mortali;

      2.       Socrate è uomo;

      3.       dunque Socrate è mortale.

Attraverso il sillogismo, la logica permette di ordinare in gruppi o categorie tutto ciò che si trova in natura, a condizione però di partire da premesse vere e certe: i sillogismi infatti di per sé non danno nessuna garanzia di verità. Questo perché i princìpi primi, da cui il ragionamento prende le mosse, non possono essere a loro volta dimostrati, dato che proprio da essi deve scaturire la dimostrazione; solo l'intuizione intellettuale, opera dell'intelletto attivo, può dare loro un fondamento oggettivo e universale, tramite quel processo conoscitivo sovra-razionale, che partendo come si è visto dall'epagoghé, culmina nell'astrazione dell'essenza. Da questa poi la logica trarrà soltanto delle conseguenze coerenti da un punto di vista formale, facendo ricorso ai giudizi predicativi che corrispondono alle dieci categorie dell'essere.

Dialettica

 Mentre la logica o analitica studia la deduzione a partire da premesse vere, la dialettica in Aristotele è semplicemente la tecnica con la quale uscire vittoriosi da una discussione. Questo successo, che non esclude comunque un effettivo raggiungimento della verità, deriva dal prevalere con la propria tesi su quella sostenuta dall'avversario, nel rispetto di premesse su cui ci si è messi d'accordo prima dell'inizio del confronto: difatti la confutazione, l'aver ottenuto ragione e quindi l'aver vinto, si basava proprio sul portare l'interlocutore ad autocontraddirsi, mostrando dunque come la sua tesi, se sviluppata, avrebbe condotto a risultati illogici nei confronti delle premesse iniziali, considerate vere da entrambi. Certo era necessario che le premesse fossero considerate vere dal pubblico che assisteva al confronto, pertanto non di rado si sceglieva di accordarsi su premesse che fossero ritenute vere dai membri più influenti della società, così che essi potessero influenzare anche l'opinione altrui. La tecnica dialettica necessitava di un'ottima conoscenza delle parole e dei modi di unirle in proposizioni e, ancora, in periodi, pertanto il filosofo postula alcune teorie, quali quella della proposizione e quella del sillogismo, che permettono di capire come debba funzionare nei vari casi la parola. Prima di queste teorie, si sofferma sulla spiegazione dell'esistenza di parole univoche ed equivoche, ovvero da uno o più significato: deve essere la loro conoscenza accurata il primo necessario requisito per l'esperto di dialettica.

Teoria della proposizione

 Una proposizione è un insieme di termini (o parole) i quali danno vita a un'affermazione, un giudizio. Questo può essere vero o falso, in base al riscontro con la realtà, mentre i singoli termini di per sé non possono essere veri o falsi se considerati da soli. Neppure tutte le proposizioni però rientrano nella dimensione del vero o falso: preghiere, invocazioni, ordini, sono destinati all'ambito poetico e di questi Aristotele non si occupa. Egli invece si occupa delle frasi a cui sole può essere riconosciuta la possibilità di essere vere o false, chiamandole categoriche, o dichiarative, o apofantiche. Le proposizioni categoriche possono avere qualità affermativa o negativa, e quantità universale (quando il soggetto è un genere e vi sono inclusi tutti gli appartenenti) particolare (si fa riferimento solo a una parte degli enti di un genere) o singolari (il soggetto è un individuo singolo), in base alla maggiore o minore generalità del soggetto. Aristotele non si preoccupa delle proposizioni singolari, soffermandosi solo sulle proposizioni affermative e negative, universali e particolari. Combinando questi tipi di proposizioni, risultano esserci quattro tipi di proposizioni-modello per il filosofo:

    •     universale affermativa,

    •     universale negativa,

    •     particolare affermativa,

    •     particolare negativa.

L'Etica

«La dignità non consiste nel possedere onori ma nella coscienza di meritarli.»

(Aristotele)

 L'etica di cui tratta Aristotele attiene alla sfera del comportamento (dal greco ethos), ossia alla condotta da tenere per poter vivere un'esistenza felice. Coerentemente con la sua impostazione filosofica, l'atteggiamento più corretto è quello che realizza l'essenza di ognuno. Ne consegue l'identificazione di essere e valore: quanto più un ente realizza la propria ragion d'essere, tanto più esso vale. L'uomo in particolare realizza se stesso praticando tre forme di vita: quella edonistica, incentrata sulla cura del corpo, quella politica, basata sul rapporto sociale con gli altri, e infine la via teoretica, situata al di sopra delle altre, che ha come scopo la conoscenza contemplativa della verità.

Le tre modalità di condotta vanno comunque integrate fra loro, senza privilegiare l'una a discapito dell'altra. L'uomo infatti deve saper sviluppare e assecondare armonicamente tutte e tre le potenzialità dell'anima che contraddistinguono il proprio essere o entelechia, e da Aristotele identificate con:

    •     l'anima vegetativa, comune anche alle piante e agli animali, che attiene ai processi nutritivi e riproduttivi;

    •     l'anima sensitiva, comune agli animali, che attiene alle passioni e ai desideri;

    •     l'anima razionale, che appartiene soltanto all'uomo, e consiste nell'esercizio dell'intelletto.

Sulla base di questa tripartizione,48 Aristotele individua il piacere e la salute come scopo finale dell'anima vegetativa, risultante dall'equilibrio tra gli eccessi opposti, evitando ad esempio di mangiare troppo, o troppo poco. All'anima sensitiva egli assegna invece le cosiddette virtù etiche,49 che sono abitudini di comportamento acquisite allenando la ragione a dominare sugli impulsi, attraverso la ricerca del «giusto mezzo» fra estreme passioni:50 ad esempio il coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà. Essendo l'uomo un «animale sociale», l'equilibrio è ciò che deve guidare i suoi rapporti con gli altri; questi devono essere improntati al giusto riconoscimento degli onori e del prestigio derivanti dall'esercizio delle cariche pubbliche. Le diverse virtù etiche sono quindi tutte riassunte dalla virtù della giustizia.

 Virtù etiche

 Virtù dianoetiche

    •    Giustizia

    •    Coraggio

    •    Temperanza

    •    Liberalità

    •    Magnificenza

    •    Magnanimità

    •    Mansuetudine


    •    Virtù calcolative

    •    Arte

    •    Prudenza


    •    Virtù scientifiche

    •    Sapienza

    •    Scienza

    •    Intelligenza


All'anima razionale infine Aristotele assegna le cosiddette virtù dianoetiche, suddivise in calcolative e scientifiche. Le facoltà calcolative hanno una finalità pratica, sono strumenti in vista di qualcos'altro: l'arte (tèchne) ha un fine produttivo, la saggezza o prudenza (phrònesis) serve a dirigere le virtù etiche, oltre a guidare l'azione politica. Se queste virtù vanno perseguite in vista di un bene più alto, alla fine tuttavia deve pur sussistere un bene da perseguire per sé stesso. Le facoltà scientifiche, mirando alla conoscenza disinteressata della verità, non si prefiggono appunto nessun altro obiettivo al di fuori della sapienza in sé (sophìa). A questa virtù suprema concorrono le due facoltà conoscitive della gnoseologia: la scienza (epistème), che è la capacità della logica di compiere dimostrazioni; e l'intelligenza (nùs), che fornisce i princìpi primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni. Aristotele introduce così una concezione della sapienza intesa come "stile di vita" slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno, mettendo in atto un sapere che non serve a nulla, ma proprio per questo non dovrà piegarsi a nessuna servitù: un sapere assolutamente libero. La contemplazione della verità è quindi un'attività fine a sé stessa, nella quale consiste propriamente la felicità (eudaimonìa), ed è quella che distingue l'uomo dagli altri animali rendendolo più simile a Dio, già definito da Aristotele come «pensiero di pensiero», pura riflessione autosufficiente che nulla deve ricercare al di fuori di sé.

«Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana.»

(Aristotele, Etica Nicomachea, X.7, 1177 b30-31)

La politica

 L'etica di Aristotele, che pone l'accento sul «giusto mezzo» come via maestra per diventare persone felici e armoniche, segue da vicino i dettami della scienza medica greca, basata similmente sull'equilibrio e la moderazione. Allo stesso modo, le tre possibili forme politiche dello Stato (monarchia, aristocrazia, e politeia) devono guardarsi dall'estremismo delle loro rispettive degenerazioni: tirannide, oligarchia e democrazia (o oclocrazia). La politeia è realisticamente la migliore fra le tre costituzioni perché, facendo leva sul ceto medio benestante, è più incline alla misura e alla stabilità: essa prende il meglio della democrazia e dell'oligarchia, pervenendo ad una loro commistione. Nella politeia infatti  le cariche pubbliche sono elettive, come nell’oligarchia, ma indipendenti dal censo, come nella democrazia. Quest'ultima invece è un governo dei poveri che, in quanto tali, possono portare a scompaginare lo Stato per cercare di sottrarre ai ricchi i loro beni. Dal momento che la massa dei cittadini è solitamente costituita dai meno abbienti, la democrazia si identifica con l'oclocrazia.

Il concetto di Philia

 Nell'ottavo e nel nono libro dell'Etica Nicomachea Aristotele tratta anche del concetto d'amicizia (in greco philìa, φιλία). Il filosofo comincia facendo l'analisi dei diversi fondamenti dell'amicizia: l'utile, il piacere e il bene; da questi derivano le tre tipologie d'amicizia: quella di utilità, di piacere, e di virtù. L'amicizia di utilità è tipica dei vecchi, quella di piacere degli uomini maturi e dei giovani; gli amici in queste due tipologie non si amano di per se stessi ma solamente per i vantaggi che traggono dal loro legame: per tale motivo questi tipi di amicizia, basandosi sui bisogni e desideri umani, che sono volubili, si creano e si dissolvono con facilità. L'unica vera amicizia è quella di virtù, stabile perché si fonda sul bene, caratteristica degli uomini buoni. L'amicizia di virtù presuppone due condizioni fondamentali: l'uguaglianza fra gli amici (a livello di intelligenza, ricchezza, educazione ecc.) e la consuetudine di vita. L'amicizia si distingue dalla benevolenza, che può non essere corrisposta, e dall'amore, perché nell'amore entrano in gioco fattori istintuali. Aristotele tuttavia non esclude che un rapporto d'amore possa trasformarsi poi in una vera e propria amicizia. La philia aristotelica esprime quindi il legame tra amicizia e reciprocità, fondato sul riconoscimento dei meriti e sul reciproco desiderio del bene per l'altro.

L'arte

 L'arte, per Aristotele, è mimesi o imitazione, e non è negativa, come in Platone, ma significa essere creativi come lo è la natura. L'arte è un'attività che, lungi dal riprodurre passivamente la parvenza della realtà, quasi la ricrea secondo una nuova dimensione: è la dimensione del possibile e del verosimile. Sotto questo punto di vista, l'arte è una forma di conoscenza non logica ma simbolica. Rappresenta l'analogo della scienza: lo storico scrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere.

Cosmologia

I quattro elementi e le loro relazioni

 Aristotele tratta nelle sue opere (in particolare nella Fisica) della conformazione dell'universo. Aristotele propone un modello geocentrico, che pone cioè la Terra al centro dell'universo.

Secondo Aristotele, la Terra è formata da quattro elementi: la terra, l'aria, il fuoco e l'acqua. Le varie composizioni degli elementi costituiscono tutto ciò che si trova nel mondo. Ogni elemento possiede due delle quattro qualità (o «attributi») della materia:

    •     il secco (terra e fuoco),

    •     l'umido (aria ed acqua),

    •     il freddo (acqua e terra),

    •     il caldo (fuoco e aria).

Ogni elemento ha la tendenza a rimanere o a tornare nel proprio luogo naturale, che per la terra e l'acqua è il basso, mentre per l'aria e il fuoco è l'alto. La Terra come pianeta, quindi, non può che stare al centro dell'universo, poiché è formata dai due elementi tendenti al basso, e il "basso assoluto" è proprio il centro dell'universo.

Riguardo a ciò che si trova oltre la Terra, Aristotele lo riteneva composto di un quinto elemento (o essenza): l'etere. L'etere, che non esiste sulla Terra, sarebbe privo di massa, invisibile e, soprattutto, eterno ed inalterabile: queste due ultime caratteristiche sanciscono un confine tra i luoghi sub-lunari del mutamento (la Terra) e i luoghi immutabili (il cosmo).

Aristotele riteneva che i corpi celesti si muovessero su sfere concentriche (in numero di cinquantacinque, ventidue in più delle 33 di Callippo). Oltre la Terra per lui vi erano, in ordine, la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, il cielo delle stelle fisse e, infine, il primo mobile, che metteva tutte le altre sfere in movimento, e della cui natura peraltro Aristotele ebbe qualche difficoltà a dare una definizione precisa. Esso risulta mosso direttamente dalla causa prima, identificabile con la divinità suprema (mentre le altre divinità risiedevano all'interno del cosmo), in una maniera tuttavia non meccanica o causale, dato che Dio, essendo «atto puro», è assolutamente immobile, oltre ad essere privo di materia e quindi non localizzabile da nessuna parte. Il primo mobile piuttosto si muove per un desiderio di natura intellettiva, cioè tende a Dio come propria causa finale. Cercando dunque di imitare la sua perfetta immobilità, esso è contraddistinto dal moto più regolare e uniforme che ci sia: quello circolare.

Aristotele era convinto dell'unicità e della finitezza dell'universo: l'unicità perché se esistesse un altro universo sarebbe composto sostanzialmente dei medesimi elementi del nostro, i quali tenderebbero, per i luoghi naturali, ad avvicinarsi al nostro fino a ricongiungersi completamente con esso, ciò che prova l'unicità del nostro universo; la finitezza perché in uno spazio infinito non potrebbe esistere alcun centro, ciò che contravverrebbe alla teoria dei luoghi naturali.

Biologia

 Aristotele ha fondato la biologia come scienza empirica, compiendo un importante salto di qualità (almeno stando alle fonti che ci sono rimaste) nell'accuratezza e nella completezza descrittiva delle forme viventi, e soprattutto introducendo importanti schemi concettuali che si sono conservati nei secoli successivi.

L'Historia animalium contiene la descrizione di 581 specie diverse, osservate per lo più durante la permanenza in Asia Minore e a Lesbo. Questi dati biologici vengono organizzati e classificati nel De partibus animalium, nel quale vengono introdotti concetti fondamentali come quello di viviparità e oviparità, e sono impiegati criteri di classificazione delle specie in base all'habitat o a precise caratteristiche anatomiche, che sono in gran parte rimasti inalterati fino a Linneo. Un altrettanto importante conquista intellettuale è lo studio sistematico di quella che oggi chiamiamo anatomia comparata, che permette ad esempio ad Aristotele di classificare Delfini e Balene tra i mammiferi (essendo essi dotati di polmoni e non di branchie come i pesci).

Il De generatione animalium si occupa del modo in cui gli animali si riproducono. In quest'opera la generazione viene interpretata come trasmissione della forma (di cui è portatore il seme maschile) alla materia (rappresentata dal sangue mestruale femminile). Secondo Aristotele le specie sono eterne ed immutabili, e la riproduzione non determina mai cambiamenti nella sostanza, ma solo negli accidenti dei nuovi individui. Molto interessante è lo studio che Aristotele compie sugli embrioni, grazie al quale egli comprende che essi non si sviluppano attraverso la crescita di organi già tutti presenti fin dal concepimento, ma con la progressiva aggiunta di nuove strutture vitali.

Alcuni limiti della biologia aristotelica (come la generale sottovalutazione del ruolo del cervello, che Aristotele credeva destinato a raffreddare il sangue) furono superati con la scoperta, avvenuta in epoca ellenistica, del sistema nervoso, in molti altri casi un superamento della biologia aristotelica si è avuto solo nel Settecento. Alcune delle sue osservazioni in ambito zoologico tuttavia sono state confermate solo nel XIX secolo.

Sulle donne

 L'analisi aristotelica della procreazione descrive un elemento maschile attivo e "animante" che porta la vita ad un inerte e passivo elemento femminile. Sulla base di ciò, e in forza della visione del filosofo relativa alle abilità della donna, al suo temperamento e al suo ruolo nella società, Aristotele è stato considerato un misogino da alcuni critici femministi contemporanei. Lo Stagirita è stato inoltre accusato dai femministi di essere un notevole ideologo storico del patriarcato, del sessismo e dell'ineguaglianza.

Aristotele, tuttavia, non faceva che rispecchiare in toto l'immagine della donna nella cultura greca, consegnata alla vita domestica ed esclusa dallo spazio pubblico. D'altra parte, Aristotele ha attribuito lo stesso peso alla felicità delle donne e a quella degli uomini. Nella sua Retorica commentò che una società non può essere felice, se anche la donna non lo è: in luoghi come Sparta, dove la sorte delle donne è spiacevole, ci può essere solo, nella società, una felicità dimezzata.

La fortuna di Aristotele

 La fortuna di Aristotele in Occidente si deve, tra le altre cose, al fatto che è stato lui a fondare e ordinare le diverse forme di conoscenza, creando i presupposti e i paradigmi dei linguaggi specialistici che vengono usati ancora oggi in campo scientifico. Mirando a creare un sistema globale del pensiero, furono di importanza basilare le sue formulazioni sulla fisica e sulla metafisica, sulla teologia, sull'ontologia, sulla matematica, sulla poetica, sul teatro, sull'arte, sulla musica, sulla logica, sulla retorica, sulla politica e sui governi, sull'etica, sulla grammatica, sull'oratoria e sulla dialettica, sulla linguistica, sulla biologia e sulla zoologia.

Come pochi altri filosofi Aristotele ha avuto larga influenza su diversi pensatori delle epoche successive, che ammirarono il suo genio e analizzarono profondamente i suoi concetti: auctoritas metafisica nella Scolastica di Tommaso d'Aquino, oltre che nella tradizione islamica ed ebraica del Medioevo, il pensiero di Aristotele venne spesso ripreso nel Rinascimento. Anche Dante Alighieri lo ricorda nella Divina Commedia:

«Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno.»

Giungendo a influenzare gli studi di molti grandi filosofi del Novecento, gli elementi dell'aristotelismo sono oggetto di studio attivo ancora oggi, continuando a improntare di sé diversi aspetti della teologia cristiana. La filosofia del secondo Novecento ha inoltre sottolineato, con autori come Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, Alasdair MacIntyre o Philippa Ruth Foot, l'importanza per il dibattito odierno dell'impostazione etica di Aristotele, soprattutto per gli sviluppi che le furono dati da Tommaso d'Aquino.

Bibliografia

Edizione di riferimento delle citazioni delle opere aristoteliche:

    •    August Immanuel Bekker, Aristotelis Opera, G. Reimer, Berlino 1831-1870, 5 voll.

    •     ristampa a cura di Olof Gigon, De Gruyter, Berlino 1960-1961

Edizione dei testi di Laerzio e Cicerone citati:

    •    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Bompiani, Milano 2006 ISBN 88-452-3301-4

    •    Cicerone, Tuscolane, Milano, 1996 ISBN 88-17-17100-X

    •     Cicerone, La natura divina, Milano, 1998 ISBN 88-17-16828-9

Traduzioni italiane

    •    Opere, a cura di G. Giannantoni, 4 voll., Bari: Laterza, 1973.

    •    La Metafisica, a cura di G. Reale, Milano: Rusconi, 19782.

    •    Metafisica, a cura di C. A. Viano, Torino: UTET 2005 ISBN 88-02-07171-3.

    •    Fisica, a cura di R. Radice, Milano: Bompiani, 2011.

    •    Le categorie, a cura di M. Zanatta, Milano: BUR Rizzoli, 1989.

    •    De interpretatione, a cura di A. Zadro, Napoli: Loffredo, 1999.

    •    Analitici primi, a cura di M. Mignucci, Napoli: 0Loffredo, 1969.

    •    Analitici secondi, Organon IV. A cura di M. Mignucci, Bari: Laterza, 2007.

    •    Topici, a cura di A. Zadro, Loffredo, Napoli 1974.

    •    Le confutazioni sofistiche, Organon VI. A cura di P. Fait, Bari: Laterza, 2007.

    •    L'anima, introduzione, traduzione, note e apparati di Giancarlo Movia, testo greco a fronte, Milano: Rusconi, 19982.

    •    Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano: Rusconi, 1979.

    •    La poetica, a cura di C. Gavallotti, Milano: Valla-Mondadori, 1974.

    •    Retorica, a cura di Marco Dorati, Milano: Mondadori, 1996.

    •    La politica, a cura di C. Viano, Torino; UTET, 1966.

    •    Opere biologiche, a cura di M. Vegetti e D. Lanza, Torino: UTET, 1972.

    •    Trattato sul cosmo per Alessandro, a cura di G. Reale, Napoli: Loffredo, 1974 (l'attribuzione di quest'opera ad Aristotele è dubbia).

Letteratura critica

    •     AA. VV., Aristotele. Perché la metafisica, a cura di G. Reale e A. Bausola, Vita e Pensiero, Milano 1994

    •    Enrico Berti, La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova 1962

    •     Enrico Berti, Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, Padova 1977 ISBN 88-452-3272-7

    •     Enrico Berti, Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997

    •    Guido Calogero, I fondamenti della logica aristotelica [1927], La Nuova Italia, Firenze 1968

    •     Giuseppe Cambiano e Luciana Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, LED Edizioni Universitarie, Milano 1993 ISBN 88-7916-035-4

    •     Ingemar Düring, Aristotele, trad. it., Mursia, Milano 1976

    •     M. Frede, G. Patzig, Il libro Z della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 2001 ISBN 978-88-343-0738-0

    •     Armando Girotti, La filosofia di Aristotele, dal platonismo all'autonomia, Polaris, Faenza 1996

    •    George Grote, Aristotele, edito da A. Bain e G. Croom Robertsan, Londra 1872

    •     Terence Irwin, I principi primi di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996

    •    Alberto Jori, Aristotele, Mondadori, Milano 2003 ISBN 88-424-9737-1

    •    Margherita Isnardi Parente, Studi sull'accademia platonica antica, Olschki, Firenze 1979 ISBN 88-222-2848-2

    •    Werner Jaeger, Aristotele, Sansoni, Firenze 1935

    •    Jonathan Lear, Aristotle: the desire to understand, Cambridge University Press, 1988

    •     Walter Leszl, Il «De Ideis» di Aristotele e la teoria platonica delle idee, Olschki, Firenze 1975 ISBN 88-222-2204-0

    •    Giovanni Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1991

    •     Giovanni Reale,  Il concetto di "filosofia prima" e l’unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1994 ISBN 88-343-0554-X

    •     Giovanni Reale, Guida alla lettura della «Metafisica» di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2007 ISBN 88-8420-524-7

    •     Roberto Radice (a cura di), La "Metafisica" di Aristotele nel XX secolo: bibliografia ragionata e sistematica, Milano, Vita e Pensiero, 1997

    •     William David Ross, Aristotele, Milano: Feltrinelli, 1982


Epicureismo

 L'epicureismo è la filosofia della scuola di Epicuro.  Il termine ha nella storiografia filosofica due significati sovrapponibili ma non coincidenti. Da un lato esso sta ad indicare "la filosofia originaria di Epicuro", da un altro "la storia dei pensatori che, dalla sua enunciazione dal IV secolo a.C. al presente, si sono rifatti ad Epicuro": in altre parole, nel primo significa "il pensiero di Epicuro", nel secondo "la storia del pensiero dei seguaci di Epicuro", ed è questo il significato prevalente.

Epicuro

 La dottrina epicurea, di ispirazione atomista, s'innesta nel clima culturale ed etico dell'ellenismo che dopo la delusione politica seguita alla caduta della democrazia ateniese «subordina tutta la ricerca filosofica all'esigenza di garantire all'uomo la tranquillità dello spirito».1

Sul raggiungimento di questo obiettivo Epicuro fonda il suo pensiero su tre principi:

      1.      «il sensismo, cioè il principio per il quale la sensazione è il criterio della verità e il criterio del bene (il quale ultimo s'identifica perciò col piacere);

      2.      l'atomismo per il quale Epicuro spiegava la formazione e il mutamento delle cose mediante l'unirsi e il disunirsi degli atomi e la nascita delle sensazioni come l'azione di strati di atomi, provenienti dalle cose, sugli atomi dell'anima;

      3.      il semi-ateismo per il quale Epicuro riteneva che gli dèi esistono sì, ma non hanno alcuna parte nella formazione e nel governo del mondo.» 2


Dottrine

 Precisato quanto sopra, non è inopportuno incominciare a parlare di epicureismo considerandolo nel primo significato, per ricordare quali siano i fondamenti del pensiero del suo fondatore e le sue tesi principali. L'epicureismo, o filosofia del "giardino" è la dottrina filosofica di Epicuro. Il secondo nome deriva dal luogo, una casa con giardino appena fuori da Atene, dove egli dal 306 a.C. impartiva lezioni ai suoi discepoli. La sua filosofia si basa sull'atomismo pur discostandosi da Democrito e sull'eudemonismo intendendo con ciò la ricerca del piacere in modo diverso da come la concepiva Aristippo, allievo di Socrate.

Egli riprende la teoria degli atomi traendone conclusioni di tipo etico capaci di liberare l'uomo da alcune delle sue paure primordiali, come quella della morte. Ritiene che il criterio della verità sia la conoscenza sensibile, ovvero solo i sensi sono veri ed infallibili. Grazie alle impronte che le cose sensibili lasciano nell'anima l'uomo è in grado di formulare dei pregiudizi che però non sempre corrispondono alla verità.

La filosofia dei quattro farmaci (quadrifarmaco)

 Gli Epicurei, in primis il romano Lucrezio, il più noto dei seguaci di Epicuro (degli altri rimangono pochi frammenti filosofici, mentre di Lucrezio un intero poema), vedono nella filosofia la via d'accesso alla felicità, dove per felicità s'intende l'atarassia (liberazione dalle paure e dai turbamenti), contingentemente al raggiungimento del piacere. La filosofia, quindi, ha uno scopo pratico nella vita degli uomini; essa è uno strumento il cui fine è la felicità:

Metrodoro di Lampsaco, uno dei discepoli di Epicuro

«È vano il discorso di quel filosofo che non curi qualche male dell'animo umano. (Epicuro)»

Su questa convinzione, la ricerca scientifica atta all'investigazione delle cause del mondo naturale ha lo stesso fine della filosofia:

    •    Liberare gli uomini dal timore degli dèi, dimostrando che per la loro natura perfetta, essi non si curino delle faccende degli uomini (esseri imperfetti);

    •    Liberare gli uomini dal timore della morte dimostrando che essa non è nulla per l’uomo dal momento che "quando ci siamo noi, non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo noi";

    •    Dimostrare l’accessibilità del limite del piacere, ossia la facile raggiungibilità del piacere stesso;

    •    Dimostrare la lontananza del limite del male, cioè la provvisorietà e la brevità del dolore. Epicuro infatti divide il dolore in due tipi: quello sordo, con cui si convive, e quello acuto, che passa in fretta.

Le tre prospettive fondamentali dell'epicureismo

 Epicuro segue la tripartizione della filosofia in: logica o «canonica», fisica ed etica.

Il sensismo e la canonica

 Questa è la logica che tenta di dare un criterio di verità, un canone, cioè una regola che serve all’uomo per orientarsi nella ricerca del piacere. Essa è dunque la teoria della conoscenza. Criterio della verità è costituito dalle sensazioni, dalle anticipazioni e dalle emozioni. Le sensazioni costituiscono il primo criterio di verità perché derivano dalla verità stessa. Le sensazioni, infatti, si formano dalle immagini (in greco εὶδολα) delle cose e queste si creano da un flusso costituito di atomi che si staccano dalle cose stesse (simulacra). Le sensazioni, dunque, derivano direttamente dalle cose e ne sono parte. Dunque sono vere. Il sensismo è il principio per il quale la sensazione è criterio di verità e, quindi, di bene (che poi si identifica con il piacere).

La moltitudine di sensazioni ripetute formano i concetti o anticipazioni, che sono gli schemi della nostra mente e fungono da riassunto mnemonico delle esperienze mentali e da anticipazioni di quelle future. I concetti, dal momento che derivano dalle sensazioni (primo criterio di verità) costituiscono, insieme ad esse, il criterio fondamentale della verità. Facciamo un esempio: un bambino deve imparare che cosa sia il fuoco la prima volta che lo sente. Impara dunque la sensazione del caldo, di pericolo e di paura. Dopo che avrà visto più fuochi, e li avrà “sentiti” tutte le volte, imparandoli a memoria, non solo non avrà più bisogno di sentirlo tutte le volte direttamente, perché ne avrà introiettato il concetto, ma potrà anche anticiparlo.

L’emozione consiste nel dolore e nel piacere e costituisce la norma per la condotta pratica della vita. Questa, pur non rientrando nel campo della logica, costituisce il terzo criterio della verità.  

Secondo gli epicurei, le sensazioni ed i concetti non possono essere fonti di errori perché non possono essere confermate da una sensazione/concetto omogenei, né da una sensazione/concetto che li confuti provenendo da un altro oggetto. L’opinione (la δοξα) invece è confermata come vera se confermata dalle testimonianze dei sensi. In questo meccanismo il ragionamento si trova ad essere in stretta connessione con i fenomeni percepiti e ha lo scopo di estendere la conoscenza anche a ciò risulta in un primo ordine di considerazioni oscuro alla sensazione stessa.

L'atomismo e la fisica

 La fisica secondo glibibbmistica democritea, e meccanicistica perché si avvale esclusivamente del principio del movimento dei corpi per spiegare tutto ciò che è fisico. Viene escluso, quindi, ogni possibile principio di finalismo. Ne deriva che tutto ciò che esiste, per gli epicurei, non può che essere corpo, dal momento che solo il corpo può agire o subire un’azione. Il vuoto (unico “non corpo”) è considerato necessario al movimento dei corpi, ma proprio per la sua natura incorporea è passivo, non agisce, non subisce. Come Democrito, gli epicurei ritengono che nel vuoto, infinito, vi siano corpi minuscoli e indivisibili che muovendosi si urtano, unendosi o dividendosi.

Unione di corpi è la vita, disgregazione di corpi è la morte. Al fine di ribadire l’idea del carattere accidentale e casuale dell’universo, Epicuro introdusse il concetto di clinamen, ovvero la possibilità degli atomi di deviare la direzione della loro caduta, dando vita così a nuove combinazioni; il clinamen motiva lo scontro tra atomi, che altrimenti non avverrebbe poiché secondo Epicuro le particelle, aventi tutte lo stesso peso, cadono dall'alto verso il basso alla stessa velocità e dunque in mancanza di una deviazione non si incontrerebbero mai; da questo segue che la direzione dei corpi non rispetta nessun disegno finalistico, ma è determinata unicamente dalla necessità intrinseca alla materia di muoversi.

Il semi-ateismo e l'etica

 Altro principio fondamentale degli epicurei è la convinzione che gli dèi esistano, ma non si preoccupino minimamente dell'andamento delle cose terrene, né abbiano la minima intenzione di governare il mondo materiale. Essi si trovano negli intermundia (gli spazi che si trovano tra i molti mondi esistenti), ma esistono certamente, poiché, avendone l'uomo l'immagine mentale, ricollegandosi al criterio di verità epicureo della prolessi, è necessario appunto, affinché ci sia questa rappresentazione nella mente umana, che gli dèi esistano; inoltre, essi sono antropomorfi, perché la forma dell'uomo, secondo gli epicurei, è la più perfetta e razionale. In questa posizione, l'anima si trova ad essere un composto materiale di atomi che si diffondono nel corpo. Gli atomi dell'anima hanno una forma differente dagli altri, sono più sottili e rotondi.

Per gli epicurei la felicità è piacere e il piacere può essere in movimento (gioia) o stabile (assenza di dolore). Soltanto la totale assenza di dolore (aponia) e di turbamento (atarassia) sono eticamente accettabili e dunque costituiscono la vera felicità. Queste si raggiungono solo se si seguono quelli che gli epicurei definiscono "bisogni naturali" (per esempio, il nutrirsi). La limitazione qualitativa e quantitativa dei piaceri è il problema stesso della virtù etica, in quanto segno evidente della condizione umana. Proprio per questo i piaceri si dividono in naturali necessari (come, per esempio, il mangiare), naturali non necessari (come il mangiare troppo) e vani, cioè né naturali né necessari (ad esempio, l'arricchirsi): i primi devono essere assecondati, i secondi possono essere concessi ogni tanto, mentre i terzi devono essere assolutamente evitati.

Epicurei

    •    Alceo e Filisco

    •    Amafinio

    •    Apollodoro

    •    Basilide

    •    Carneisco

    •    Cazio

    •    Cavalcante dei Cavalcanti

    •    Colote di Lampsaco

    •    Demetrio di Laconia

    •    Diogene di Enoanda

    •    Diogene di Tarso

    •    Dionisio di Lamptrai

    •    Epicuro

    •    Ermarco di Mitilene

    •    Fedro

    •    Filodemo di Gadara

    •    Filonide di Laodicea

    •    Idomeneo di Lampsaco

    •    Leonteo di Lampsaco

    •    Leonzione

    •    Lucrezio

    •    Metrodoro di Lampsaco

    •    Patrone

    •    Polieno di Lampsaco

    •    Polistrato

    •    Rabirio

    •    Siro

    •    Temista di Lampsaco

    •    Tito Albucio


Bibliografia

    •     Francesco Verde, Epicuro, Roma, Carocci 2013.



Stoicismo

Lo stoicismo è una corrente filosofica e spirituale fondata intorno al 300 a.C.1 ad Atene da Zenone di Cizio, con un forte orientamento etico. Tale filosofia prende il suo nome dalla Stoà Pecìle o «portico dipinto» (in greco στοὰ  ποικίλη, Stoà poikíle) dove Zenone impartiva le sue lezioni. Gli stoici sostennero le virtù dell'autocontrollo e del distacco dalle cose terrene, portate all'estremo nell'ideale dell'atarassia, come mezzi per raggiungere l'integrità morale e intellettuale. Nell'ideale stoico è il dominio sulle passioni o apatìa che permette allo spirito il raggiungimento della saggezza. Riuscire è un compito individuale, e scaturisce dalla capacità del saggio di disfarsi delle idee e dei condizionamenti che la società in cui vive gli ha impresso. Lo stoico tuttavia non disprezza la compagnia degli altri uomini e l'aiuto ai più bisognosi è una pratica raccomandata.

Lo stoicismo fu abbracciato da numerosi filosofi e uomini di stato, sia greci che romani, fondendosi presso quest'ultimi con le tradizionali virtù romane di dignità e portamento. Il disprezzo per le ricchezze e la gloria mondana la resero una filosofia adottata sia da imperatori (come Marco Aurelio, autore dei Colloqui con se stesso) che da schiavi (come il liberto Epitteto). Cleante, Crisippo, Seneca, Catone, Anneo Cornuto e Persio furono importanti personalità della scuola stoica, alla quale si ispirò anche Cicerone.2

Origini e fasi

 Lo stoicismo nasce ad Atene dove Zenone di Cizio impartiva le sue lezioni, nella zona del portico affrescato dell'agorà (la Stoà Poikìle), da cui, come abbiamo detto, questa corrente di pensiero prende il nome. Le lezioni si tenevano sotto questi portici dipinti, poiché Zenone, non essendo ateniese ma un fenicio di Cipro, non aveva la possibilità di possedere una propria abitazione. La fase originaria di tale scuola di pensiero è detta Stoicismo antico.

Più tardi, a partire dall'introduzione di questa dottrina a Roma da parte di Panezio di Rodi, ha inizio il periodo dello Stoicismo medio. Si differenzia dal precedente per il suo carattere eclettico, in quanto influenzato sia dal platonismo che dall'aristotelismo e dall'epicureismo.

Infine, abbiamo il cosiddetto Stoicismo nuovo o romano, che abbandona la tendenza eclettica cercando di tornare alle origini.

Zenone di Cizio

 Il seguente schema mostra lo sviluppo cronologico delle varie fasi dello stoicismo e i personaggi più rappresentativi di ognuna di esse:

    •    Antico (III a.C.-II a.C.):

    •    Zenone di Cizio

    •    Cleante

    •    Crisippo

     

    •    Medio (II secolo-I a.C.):

    •    Panezio

    •    Posidonio

    •    Cicerone (parzialmente)



    •    Nuovo o romano (I d.C.-III d.C.):

    •    Seneca

    •    Plinio il Vecchio

    •    Epitteto

    •    Marco Aurelio


Dottrina stoica

 Gli stoici dividevano la filosofia in tre discipline: la logica, che si occupa del procedimento del conoscere; la fisica, che si occupa dell'oggetto del conoscere; l'etica, che si occupa della condotta conforme alla natura razionale dell'oggetto. Essi portavano un esempio: la logica è il recinto che delimita il terreno, la fisica l'albero e l'etica è il frutto.

Logica

 La logica per gli stoici, a differenza di quanto avveniva nel pensiero greco precedente, non è solo uno strumento al servizio della metafisica, ma si pone come disciplina autonoma rispetto agli altri campi di indagine; essa comprendeva, oltre alla gnoseologia e alla dialettica, anche la retorica. Per "logica" infatti gli stoici intendevano non solo le regole formali del pensiero che si conformano correttamente al Lògos, ma anche quei costrutti del linguaggio con cui i pensieri vengono espressi. Non a caso Lògos può significare sia ragione che discorso; oggetto della logica quindi sono proprio i lògoi, ossia i ragionamenti espressi in forma di proposizioni (lektà).

In maniera simile alla gnoseologia aristotelica, per gli stoici il criterio supremo della verità è l'evidenza, che consente di riconoscere la validità dei princìpi-guida della logica. L'evidenza si basa in particolare sull'assenso (synkatáthesis) che la mente dà alla rappresentazione di un dato fenomeno. A differenza quindi della dottrina epicurea, la conoscenza non si fonda sulla semplice sensazione (àistesis), né sull'impressione che questa provoca nell'anima (phantasía): entrambe infatti, per via della loro instabilità, non potrebbero dare alle proposizioni il carattere di scienza che invece è necessario per poter distinguere correttamente il vero dal falso.

Nel processo conoscitivo concorrono dunque due elementi:

    •     uno attivo, heghemonikòn, che consiste nelle anticipazioni mentali, cioè previsioni basate su conoscenze già acquisite, ma in grado di avere un ruolo di guida;

    •     e uno passivo, hypàrchon, che è appunto il semplice dato sensibile.

Mentre tuttavia per Zenone di Cizio l'evidenza-assenso riguardava unicamente la coscienza interiore di sé stessi o autocoscienza (oikeiosis) soltanto nella quale può aversi conformità alla legge universale del Lògos, con Cleante essa diventa comprensiva (kataleptikè) anche dei piani ontologici della realtà esterna, perché il Lògos che muove il pensiero razionale dell'uomo è in fondo lo stesso situato a fondamento dell'universo.

A partire dall'evidenza catalettica, che garantisce così la corrispondenza con la realtà, si struttura quindi la dialettica stoica, che comporta un ampliamento di indagine del sillogismo aristotelico, che viene ora inteso in un senso non solo deduttivo, ma anche ipotetico. Questo nuovo approccio consente di valutare un ragionamento in riferimento ad un evento reale, sulla base di un insieme di proposizioni legate tra loro da operatori logici (proposizioni complesse).5

Ad esempio, se in un ragionamento una o più premesse (lèmmata) vengono legate ad una premessa addizionale, si giunge a delle conclusioni (epiphorá),6 come nella seguente frase: «Se è giorno c'è luce; ma è giorno; dunque c'è luce». Questa può essere formalizzata in: «Se p allora q; ma p; dunque q», ovvero  ((p→q)∧p)→q). Il seguente schema esemplifica le varie tipologie di proposizioni a seconda dell'operatore logico utilizzato:

TIPO

Connettore logico

Equivalente nella logica contemporanea

Esempio



Proposizione condizionale

SE



p→q

"Se è giorno, c'è luce"

Proposizione sub-condizionale

POICHÉ



(p→q)∧p

"Poiché è giorno, c'è luce"

Proposizione congiuntiva

E



p∧q

"Si è fatto giorno e c'è luce"

Proposizione disgiuntiva

O (esclusiva)



(p∨q)∧ ~

(p∧q)

"O è giorno, o è notte"

Mediante lo studio dei connettori logici, gli Stoici hanno dato vita a quella particolare disciplina che oggi è altrimenti conosciuta come logica proposizionale.

Il linguaggio in cui si esprime questa logica tuttavia non era per gli Stoici qualcosa di convenzionale, ma doveva rispondere al più alto compito dell'uomo, che consisteva nella contemplazione della verità, abbracciandola nella sua totalità. Scopo finale della gnoseologia stoica era infatti quello di rappresentarsi il corretto articolarsi del Lògos nel mondo, di coglierne cioè la struttura razionale, in vista dell'agire virtuoso (katòrthoma).7

Fisica

 Sebbene tutto il sistema fosse subordinato all'etica, questa si fondava a sua volta su un principio che ha origine nella fisica.

La fisica stoica deriva dalla concezione eraclitea del fuoco come forza produttiva e ragione ordinatrice del mondo. Da questo fuoco artigiano (πύρ τεχνικόν) si genera l'universo, il quale, in certi periodi determinati di tempo, si distrugge per tornare a rinascere dal fuoco in una nuova palingenesi, ristabilendosi ogni volta nel suo stato originario. Per questo motivo si è soliti parlare di un eterno ritorno (apocatastasi)8 che si produce ciclicamente sotto forma di conflitto universale, attraverso una conflagrazione o ecpirosi (εκπύρωσις). Ogni periodo che si produce dal fuoco e culmina nella sua distruzione attraverso il fuoco stesso è definito diakosmesis (διακόσμησις).

«La ricostituzione del tutto avverrà non una, ma più volte, o meglio le stesse realtà si ricostituiranno all'infinito e senza limite. E gli dèi, non essendo soggetti alla distruzione, ma succedendo ad ogni ciclo, conoscono perciò tutto quanto avverrà nei cicli successivi, perché non vi sarà nulla di diverso rispetto a ciò che è accaduto in precedenza.»

(Arnim, SVF, II, fr. 625)

Tale ordinamento è retto da una ragione (Λόγος) universale. Questa può essere intesa come un movimento incausato, eterno, inarrestabile, immanente, che pervade qualunque forma di essere, dal più semplice ed infimo fino al più grande e complesso, vivente e non vivente. Dalla sua azione scaturiscono due principi in cui il mondo risulta suddiviso: uno attivo, chiamato in vari modi (appunto logos, o Zeus, soffio, natura), ed uno passivo, che è la materialità delle cose.

Già Aristotele aveva affermato che la materia non potrebbe sussistere senza una forma, e quindi senza un Dio che, in quanto atto puro, è la causa del suo strutturarsi in un certo modo. Gli Stoici tuttavia eliminano ogni dualismo tra l'essere in potenza e l'essere in atto, sostenendo che Dio non sarebbe perfetto se la materia fosse ancora, in qualche modo, indipendente da Lui. Dio pertanto non solo produce le forme, ma rappresenta anche la materia stessa, l'elemento passivo che viene plasmato da quello attivo. Ciò significa che il Logos non è semplice corporeità, ma è la radice di ogni corporeità (lògos spermatikòs). Dio è un Pensiero che, nel pensare se stesso, pensa e crea anche l'universo, in un'unità inscindibile di spirito e materia.

Questo spirito o pneuma, che è riscaldato dal fuoco, raffreddandosi dà quindi origine all'acqua, e infine all'elemento solido (terra): sono i quattro elementi che compongono l'universo. Un altro termine utilizzato per indicare il soffio vitale che pone ordine nella materia inerte è «Anima del mondo», ripreso in particolare dal Timeo di Platone; in virtù di questo princìpio tutto l'universo risulta concepito come un unico grande organismo, regolato da intime connessioni (sympathèia) fra le sue parti. Esso è un tutto omogeneo, nel quale non ci sono zone vuote; contro Epicuro, gli stoici affermano la fluidità e penetrabilità dei corpi e, di conseguenza, la tesi per cui non tutto è materia: così, in maniera simile a quanto sosterrà Plotino, l'essere non esaurisce il «tutto». L'espressione comprensiva utilizzata dagli stoici per indicare sia gli enti che gli incorporei è ti, il «qualcosa», contrapposto al niente.9

L'ordine presente all'interno del cosmo è inoltre qualcosa di necessario: una necessità che non è da intendersi meccanicamente alla maniera degli atomisti, bensì in un'ottica finalistica. Nulla infatti avviene per caso: è il Fato, o il Destino, a guidare gli eventi. E poiché tutto accade secondo ragione, il Logos divino è anche Provvidenza (prònoia), in quanto predispone la realtà in base a criteri di giustizia, orientandola verso un fine prestabilito. La fisica stoica aderisce pertanto alla convinzione giusnaturalista che esista un diritto di natura, al quale è giusto conformarsi, e di cui le diverse legislazioni dei singoli Stati sono solo imperfette imitazioni.

«Il vivere secondo natura è vivere secondo virtù, cioè secondo la natura singola e la natura dell'universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l'universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell'universo.»

(Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi, VII, 88)

Etica

L'etica stoica si fonda sul principio che l'uomo è partecipe del lógos e portatore di una "scintilla" di fuoco eterno. L'essere umano è l'unica creatura, fra tutti i viventi, nel quale il Lògos si rispecchia perfettamente: egli è pertanto un microcosmo, una totalità nel quale tutto l'universo è riprodotto.

La virtù consiste nel vivere in modo conforme (ομολογία) alla natura del mondo, secondo il princìpio di conservazione (oikeiosis). Mentre gli animali tendono a preservare se stessi obbedendo agli impulsi, gli uomini devono scegliere sempre quel che conviene alla nostra natura di esseri razionali. Il princìpio-guida della condotta quindi non può essere la ricerca del piacere come sostengono gli epicurei:

«Il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono.»

(Arnim, SVF, III, 178)

Seneca

 La guida dell'azione va invece ricercata, ancora una volta, nel princìpio attivo dell'anima (heghemonikòn), al quale deve sottostare quello passivo (pàthos). Sono le passioni infatti che impediscono l'adeguamento della condotta umana alla razionalità. Raggiungendo lo stato di dominio sulle passioni o apatia (απάθεια), ciò che poteva apparire come male e dolore si rivela come un elemento positivo e necessario; anche la malattia e la morte quindi vanno accettate. Si tratta di un'etica del dovere riassunta da Epitteto nel celebre motto «ανέχoυ καί απέχoυ» («sopporta e astieniti»), non tanto come invito a sopportare il dolore e astenersi dai piaceri, ma ad accogliere serenamente quel che riserva il destino evitando però di farsi coinvolgere emotivamente.

Questo è anche il senso della famosa metafora stoica che paragona la relazione uomo-Universo a quella di un cane legato ad un carro. Il cane ha due possibilità: seguire armoniosamente la marcia del carro o resisterle. La strada da percorrere sarà la stessa in entrambi i casi; ma se ci si adegua all'andatura del carro, il tragitto sarà armonioso. Se, al contrario, si oppone resistenza, la nostra andatura sarà tortuosa, poiché saremo trascinati dal carro contro la nostra volontà. L'idea centrale di questa metafora è espressa in modo sintetico e preciso da Seneca, quando sostiene: «Ducunt volentem fata, nolentem trahunt» («Il destino guida chi lo accetta, e trascina chi è riluttante»).

Gli stoici e il suicidio

 Avendo imparato che i mali sono tali solo in apparenza, lo stoico può anche accettare il suicidio come atto conclusivo del compito riservatogli dal destino, purché sia appunto una scelta deliberata e non dettata da un impulso momentaneo. Dev'essere perciò un atto razionalmente giustificato: secondo Seneca, ad esempio, anche se il saggio deve giovare allo stato (res publica minor), il suo servigio non può arrivare fino a compromettere la sua stessa integrità morale, per salvare la quale egli dev'essere pronto all'extrema ratio del suicidio. Lui stesso si tolse la vita in seguito alla condanna a morte da parte di Nerone. La vita non è, infatti, come la saggezza e la virtù, cioè un bene di cui nessuno ci può privare; la vita è piuttosto come la ricchezza, gli onori, o gli affetti: uno di quei beni, cioè, che il saggio deve essere pronto a restituire quando la sorte li chieda indietro. Tra gli stoici che scelsero il suicidio vi furono Catone Uticense, per protesta contro Cesare; il suo genero Marco Giunio Bruto, uno dei cesaricidi, per evitare di cadere vivo nelle mani di Ottaviano e Marco Antonio; secondo alcuni lo stesso Zenone di Cizio.

La saggezza

 La saggezza stoica consiste nella capacità di raggiungere la felicità, ed è per questo incentrata sull'atarassia, o imperturbabilità dell'animo, concetto derivante in gran parte dalla scuola cinica. Ad essa si approda innanzitutto diventando padroni di sé stessi. Secondo gli stoici, la volontà del saggio aderisce perfettamente al suo dovere (kathèkon), obbedendo a una forza che non agisce esteriormente su di lui, bensì dall'interno. Egli vuole quel che deve, e deve quel che la sua stessa ragione gli impone. Lo stoicismo non è dunque una sorta di esercizio forzato di vita, perché tutto, nell’esistenza del saggio, scorre pacificamente.

E poiché il Bene consiste nel vivere secondo il Lògos, il male è solo ciò che in apparenza vi si oppone. Ne risultano così tre tipologie di azioni:

      1.       quelle dettate dalla ragione, come il rispetto per i genitori, gli amici e la patria;

      2.       quelle contrarie al dovere, e quindi da evitare, in quanto irrazionali ed emotive;

      3.       quelle «indifferenti» sia al bene che al male (adiáphora), come ad esempio sollevare una pagliuzza, o tenere una penna.

È in quest'ultima categoria che però rientrano di fatto anche tutte quelle azioni in grado di determinare salute, ricchezza, potere, schiavitù, ignominia, ecc. Queste qualità per gli stoici non hanno importanza, perché non esistono beni intermedi: la felicità o l'infelicità dipendono unicamente da noi, non possono essere il risultato di una mediazione. Da qui la netta contrapposizione: o si è sapienti, o si è stolti, tutto il resto è indifferente.13 Nessuno, di conseguenza, è schiavo per natura, l'essere umano è assolutamente libero di approdare alla saggezza, mentre schiavo è soltanto colui che si fa dominare dalle passioni.

Avendo fiducia di come tutto sia regolato necessariamente dal Λόγος, il saggio è tale in quanto abbandona il punto di vista relativo dell’io individuale per assumere un punto di vista assoluto, una visione della realtà sub specie aeternitatis. Al punto culminante del suo complesso itinerario spirituale, reso possibile dalla filosofia, egli approda così ad un'unione mistica e ascetica con il tutto.14 Logica, fisica ed etica vanno pensati proprio come una scala che conduce verso la contemplazione finale. E l’etica, il cui frutto è la virtù, rappresenta l’ultimo gradino: si recupera in tal modo da Socrate la concezione intellettuale dell'etica, per cui il Bene è uno solo, e scaturisce dall'unico vero sapere.

Attivismo politico

Essendo spirito e materia uniti indissolubilmente, la saggezza dagli Stoici non è concepita come un'attività puramente intellettuale, ma anche propedeutica all'agire. Il concetto di apatia, che a molti potrebbe apparire come una sorta di stolta indifferenza, e che oggi ha assunto un connotato per lo più negativo, è al contrario il risultato della virtù che si attua in aderenza alle leggi del Lògos. Solo compiendo il proprio dovere, infatti, l'uomo può identificarsi con esso, diventando ciò che egli da sempre è. A differenza dei cinici, dunque, fra i doveri principali degli uomini, in quanto esseri razionali, vi è soprattutto la politica. Questa nuova forma di attivismo fu introdotta in particolare quando alcuni esponenti della media-stoà, come Panezio, entrarono in contatto con l'ambiente romano. Fu così che numerosi stoici dell'antichità divennero attivi statisti, dediti all'esercizio del bene pubblico. In loro si avverte soprattutto una dimensione cosmopolita, che scaturisce da quel sentimento di compassione e partecipazione agli eventi del mondo proprio della sympathèia, ossia dell'intima connessione esistente tra la sfera dell'uomo e quella dell'Anima cosmica: essi sono sudditi di una patria universale, non c'è avvenimento che non li riguardi.

L'«indifferenza stoica» del primo periodo venne perciò modificata: in maniera maggiormente simile a quanto affermava Aristotele nella sua Etica Nicomachea, se i mali o i beni materiali sono indifferenti per il raggiungimento della virtù, non per questo è da ignorare tutto ciò che può dare un prezioso contributo in tal senso: esistono anche beni che, se di per sé non danno la felicità, sono però preferibili (proegména) rispetto ad altri. Questo mutamento di prospettiva avvenne quando Panezio si rese conto che l'ideale stoico della saggezza poteva apparire vuoto e astratto, rischiando di mettere in crisi l'intera dottrina dell'etica. Diogene Laerzio riferisce in proposito:

«Panezio e Posidonio sostengono che la virtù non è sufficiente, ma occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza.»

(Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi, VII, 128)

Sarà invece con la nuova Stoà che verrà recuperata una concezione dell'etica nuovamente rigorosa sul modello di quella antica, pur mantenendo delle notevoli tendenze al cosmopolitismo e al filantropismo. Cicerone parla di humanitas, sentimento di benevolenza e solidarietà disinteressata verso i suoi simili. Epitteto affermerà di sentire tutti gli uomini come suoi fratelli, essendo al pari di lui ugualmente figli dello stesso Lògos.15

Bibliografia

    •    Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani 2006

    •    Margherita Isnardi Parente, Introduzione allo stoicismo ellenistico, Laterza 2004

    •     Mario Mignucci, Il significato della logica stoica, Pàtron, Bologna 1965

    •     Jean-Joël Duhot, Epitteto e la saggezza stoica, trad. a cura di P. Brugnoli, Borla edizioni, 1999

    •    Pierre Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai "Pensieri" di Marco Aurelio, Vita e Pensiero, Milano 1996

    •     Francesca Alesse, La stoa e la tradizione socratica, Bibliopolis, 2000

    •     Roberto Radice, Oikeiosis. Ricerche sul fondamento del pensiero stoico e sulla sua genesi, introduzione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 2000 ISBN 88-343-0516-7

    •     Jean Brun, Lo stoicismo, trad. a cura di L. Salomoni, Xenia, 1998

    •     Giuseppe Giliberti, Cosmopolis. Politica e diritto nella tradizione cinico-stoica, Studio LFA, 2002

    •     Anna Maria Ioppolo, Aristone di Chio e lo stoicismo antico, Napoli, Bibliopolis, 1980

    •     Michele Alessandrelli, Il problema del lekton nello Stoicismo antico. Origine e statuto di una nozione controversa, Firenze, Olschki, 2013

Testi

    •     Hans Von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsia 1903 (abbreviato in SVF)

    •     R. Radice (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti secondo la raccolta di Hans Von Arnim, Rusconi editore, Milano 1998 ISBN 88-18-22035-7

    •     M. Isnardi Parente (a cura di), Stoici antichi, Utet, Torino 1989, 2 voll.

    •    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, testo greco a fronte, a cura di Giovanni Reale con la collaborazione di Giuseppe Girgenti e Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano 2005

    •    Lucio Anneo Seneca, Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, a cura di G. Reale, Bompiani, 2000 ISBN 978-88-452-9073-2

    •    Epitteto, Tutte le opere. Testo greco a fronte, a cura di G. Reale e C. Cassanmagnago, Bompiani, 2009 ISBN 88-452-6399-1

    •    Marco Aurelio, Colloqui con se stesso. Testo greco a fronte, a cura di N. Gardini, Medusa edizioni, 2005 ISBN 88-7698-015-6


Scetticismo filosofico

Lo scetticismo è una posizione epistemologica che nega la possibilità di raggiungere, con la conoscenza, la verità.

L'origine del termine scetticismo è nella parola greca σκέψις (sképsis), che significa "ricerca", "dubbio", e ha la stessa radice del verbo sképtesthai che significa "osservare attentamente", e quindi "esaminare".

Lo scettico è colui che nega la possibilità di conoscere la verità.  Più in dettaglio sul piano gnoseologico, pur non negando di possedere l'idea della cosa pensata, lo scettico dubita che il pensiero della realtà sia una rappresentazione attendibile della realtà stessa, poiché la conoscenza si basa sui sensi che danno percezioni ingannevoli e mutabili nel tempo.1

La presenza dello scetticismo segna tutta la storia della filosofia occidentale.  Esso, infatti, esprime un'istanza tipica dell'essere umano: la sua perenne insoddisfazione di fronte al proprio conoscere.  Lo scetticismo può essere definito - in modo molto generico - come il momento di dissoluzione di un dogmatismo: in quanto atteggiamento di risposta, perciò, l'ipotesi scettica di volta in volta si adegua al dogmatismo cui fa riferimento.

La storia del pensiero occidentale è continuamente segnata da questa oscillazione tra affermazione dogmatica e reazione scettica:

    •    Parmenide → sofisti,

    •    Platone-Aristotele → lo scetticismo classico pirroniano,

    •    Filosofia cristiana scolastica → Ockham-Montaigne,

    •    Descartes → Hume,

    •    Kant → Schulze (che vedeva nel noumeno un principio dogmatico),

    •    Idealismo → Esistenzialismo.


Lo scetticismo ellenistico

Le origini dello scetticismo classico si collocano nella Grecia del IV secolo a.C.  Una tradizione accademica ormai consolidata suddivide lo scetticismo in tre periodi:2

      1.      pirronismo,

      2.      scetticismo della Media Accademia,

      3.      neoscetticismo, o scetticismo fenomenista.


Pirronismo

 Il pirronismo deriva la sua denominazione da Pirrone di Elide (360-275 a.C.) e fa capo a lui e al suo discepolo Timone di Fliunte (circa 320 a.C. - circa 230 a.C.). La corrente filosofica, che si sviluppa tra la seconda metà del IV secolo a.C. e il III secolo a.C., afferma l'impossibilità di conoscere una realtà sempre contingente e mutevole; al saggio, perciò, non resta che l'aphasia, restare come muto e rinunciare ad ogni affermazione qualificante.

Poiché in queste condizioni non esiste conoscenza ne consegue che anche il comportamento pratico, che discende dal sapere, dovrà basarsi sull'assenza di ogni specifica azione conseguendo così l'atarassia 3, l'imperturbabilità, il non farsi coinvolgere in passioni e sentimenti.  Il saggio in questo modo raggiungerà la felicità che è il fine di ogni percorso filosofico.

Lo scetticismo di Pirrone sorgeva dalla sua stessa esperienza esistenziale, dalla sua vita.  Pirrone, infatti, aveva seguito Alessandro Magno in Oriente, dove poté incontrare popoli con altri valori, altri criteri di vita: come si poteva dare ragione agli uni piuttosto che agli altri? È inoltre possibile che, proprio in Oriente, Pirrone fosse venuto a contatto con forme di pensiero che teorizzavano la vanità di ogni conoscenza (Māyā).

Lo scetticismo finì così per riempire la vita stessa di Pirrone. Il filosofo visse con coerenza il proprio essere scettico: non lasciò teorie scritte e organizzate; dimostrò che la vita ha un senso anche senza che abbia alla sua base qualcosa che si reputa come verità (è lo sconvolgimento della ricerca della physis e del collegamento physis-areté dell'intellettualismo socratico-platonico-aristotelico).  Se l'essere umano non è in grado di cogliere la physis, lo scetticismo diventa esso stesso uno stile di vita, dando così un significato all'esistenza umana.

«La sua vita fu coerente con la sua dottrina. Lasciava andare ogni cosa per il suo verso e non prendeva alcuna precauzione, ma si mostrava indifferente verso ogni pericolo che gli occorreva, fossero carri o precipizi o cani, e assolutamente nulla concedeva all'arbitrio dei sensi. Ma, secondo la testimonianza di Antigono di Caristo, erano i suoi amici, che solevano sempre accompagnarlo, a trarlo in salvezza dai pericoli»

(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 62)

Pirrone, come riporta il suo discepolo Timone, citato a sua volta da Eusebio di Cesarea, affermava che chi vuole essere felice deve considerare:
 - quale sia la natura delle cose,
 - come noi dobbiamo disporci di fronte ad esse,
 - quali siano le conseguenze di questa disposizione.

Rispetto al primo problema, Pirrone afferma che le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili e indiscriminabili.  Ma ad essere indifferenti sono le cose in sé stesse, oppure è così che si presentano a noi a causa dei nostri strumenti conoscitivi inadeguati?  Molto probabilmente Pirrone deve essere interpretato nel primo senso: come uno che sa che le cose sono in sé indifferenti, immisurabili e indiscriminabili, come uno che sia riuscito a conoscere in qualche modo la natura del divino e del bene e di fronte a questa esperienza, che non si può verbalizzare o concettualizzare, gli enti perdono di significato e di spessore.

Si tratta, quindi, di uno scetticismo "relativo", non assoluto (non a caso Cicerone metteva Pirrone tra i filosofi dogmatici): una verità assoluta viene colta, ma è incomunicabile. La disposizione corretta di fronte alle cose è dunque quella di un distacco teoretico e pratico.  Conseguenze sono proprio l'aphasia (a livello teoretico, l'atteggiamento scettico più coerente) e l'atarassia (a livello pratico: pace interiore come conseguenza dell'indifferenza)

Lo scetticismo è perciò un'ipotesi gnoseologica di carattere autolimitativo e pragmatico, che guarda alla realtà e ne trae i pochi elementi certi ed utili per impostare un orizzonte anti-dottrinario e condurre la propria esistenza in modo imperturbabile e indifferente alle emozioni della contingenza.

Ciò non comporta affatto la negazione dell'esistenza stessa del mondo reale, ma piuttosto che le teorie su di esso non possono pretendere di spiegarne la natura profonda. Così anche «Timone, discepolo di Pirrone, è convinto che l'indifferenza assoluta di fronte a tutte le cose porti all'afasia e all'imperturbabilità. Cioè alla felicità.»

Scetticismo nella Media Accademia

 In questa sua seconda stagione, lo scetticismo si muove verso posizioni più radicali: i filosofi che difendono questa posizione si fanno sostenitori dell'inesistenza di ogni principio di conoscenza o verità, e rivolgono tutto il proprio impegno a combattere il dogmatismo, in specie quello sostenuto dagli stoici.

Il problema della conoscenza

 L'unico atteggiamento del saggio deve essere quello della epoché, della sospensione del giudizio, ossia l'astensione da un determinato giudizio o valutazione qualora non risultino disponibili sufficienti elementi per formulare il giudizio stesso, sino a giungere al radicale rifiuto della catalessi, cioè dell'assenso a qualsiasi pronunciamento della ragione a proposito della realtà.

Uno dei principali esponenti dello scetticismo della Media Accademia fu Arcesilao, che negava la possibilità di qualsiasi conoscenza vera come sostenevano gli stoici, secondo i quali noi riceviamo dagli oggetti una sensazione, che produce una rappresentazione alla quale l'uomo dà razionalmente il suo assenso (catalessi). Arcesilao contestava questa concezione degli stoici poiché la rappresentazione si origina da un evento sensibile, per sua natura contingente, a cui la catalessi si applica in modo automatico e acritico.

Carneade allargò la critica di Arcesilao a tutti i sistemi filosofici, non solo a quello stoico: non esiste alcun criterio assoluto di verità, né la via empirica, né la via razionale, né l'unione delle due.

Il problema morale

 Se però secondo lo scetticismo alla ragione non è data la possibilità di conoscere il vero come potrà essa guidare i comportamenti morali dell'uomo? Per l'etica stoica, il saggio conosce la verità e si comporta di conseguenza, e per la massa di coloro che non riescono a raggiungere personalmente la verità la guida da seguire sarà quella del dovere, imposto dalla società e dalle tradizioni morali.

Per Arcesilao il comportamento morale non è dettato da sicuri motivi razionali ma solo su ciò che appare "ragionevole", "plausibile".  Noi umani non siamo in grado di dare fondamento ad un'etica: l'etica stessa si impone, senza motivare razionalmente ciò che prescrive di mettere in atto.

Gli stessi principi di non assolutezza guidano la morale secondo Carneade che la fonda sul πιθανόν (pithanòn, "persuasivo"), sul "probabile":

    •    l'uomo deve seguire quei giudizi, quelle rappresentazioni, che sembrano avere qualche probabilità di essere vere (senza cercarne la verità in assoluto);

    •    tra questi giudizi, bisogna scegliere quell'unico che appaia probabile e che non sia contraddetto dall'insieme degli altri giudizi.

Quindi, anche se non si può fondare l'etica su una base di affermazioni "assolutamente vere", le scelte non possono essere fatte a caso: il probabilismo diventa così l'esito etico dello scetticismo.

La fine di ogni certezza

 Gli scettici del periodo centrale dell'Ellenismo, inoltre, sembrano prendere coscienza che dalla estremizzazione del dubbio non può sfuggire neanche lo scetticismo stesso: anche ciò che sostiene lo scettico ricade sotto il dubbio radicale, come facevano notare gli stessi Arcesilao e Carneade, i quali affermavano che alla fine non potevano avere nessun principio di certezza, neppure i principi da essi stessi assunti come guide dell'azione pratica (la "ragionevolezza" secondo Arcesilao, e il "persuasivo" secondo Carneade).

Neanche questi criteri dell'azione pratica, quindi, hanno un valore di certezza dogmatica o sono in grado di farci conseguire con certezza la felicità ma comunque possono facilitare il nostro agire indicandoci ciò che è opportuno e utile fare, così come risulta dalla constatazione di un gran numero di casi nei quali quei criteri proposti dallo scetticismo sono stati efficaci.

Neoscetticismo

Enesidemo di Cnosso (ca 80 a.C. – circa 10 a.C.), Agrippa (vissuto nella seconda metà del I secolo d.C.) e Sesto Empirico (II secolo) sono gli esponenti di un ulteriore sviluppo dello scetticismo antico.

Nel loro scetticismo radicale, questi pensatori affermano che nulla può essere conosciuto in modo certo, né mediante la sensazione, né mediante il pensiero. Ambedue i filosofi  elencarono una serie di tropi, (trópoi, "modi"), argomenti fondamentali, obiezioni per dimostrare ai dogmatici la necessità di sospendere il giudizio su ogni questione.

Secondo Enesidemo, le condizioni per una conoscenza vera sarebbero tre:
 - che esista una certa stabilità dell'essere, in grado di fondare i primi principi,
 - che esista il legame causa-effetto,
 - che sia possibile una inferenza metafenomenica (che cioè sia possibile andare oltre ciò che appare, per cogliere qualcosa d'altro, di cui ciò che appare sarebbe "simbolo".

Enesidemo vuole smantellare questi tre presupposti:

    •    Non c'è stabilità dell'essere: l'essere, così come io lo vedo, è e non è, continuamente cambia; se non si dà stabilità dell'essere, non sono attendibili i principi logici fondamentali di identità, non contraddizione e tertium non datur;

    •    Proprio nei suoi tropi Enesidemo mostra come non sia possibile sostenere la validità del principio di causalità;

    •    Enesidemo si oppone, infine, alla convinzione che ciò che appare sia segno, simbolo, apertura a qualcosa che sia "altro" da sé.

Nel suo esplicito scetticismo, anche Sesto Empirico  afferma che noi non conosciamo le cose in sé, ma soltanto le sensazioni colte dall'intelletto che "velano", piuttosto che rivelare, gli oggetti stessi, e tutto ciò che conosciamo sono le nostre impressioni.  Anche l'elaborazione delle conoscenze, propria dell'intelletto, è solo elaborazioni di impressioni, e pertanto resta una conoscenza soggettiva.

Evidentemente, lo scetticismo è sempre a rischio di una deriva nella contraddittorietà, soprattutto ogni volta che si pone come verità un'affermazione auto-confutante come «Non esiste alcuna verità. Questa affermazione è vera».  Uno scetticismo assoluto e coerente, dunque, è impossibile, perché si ridurrebbe al silenzio.

La negazione radicale della verità, tuttavia, non deve essere intesa come una affermazione indiscutibilmente vera, cosa che contraddirebbe lo stesso principio scettico, bensì come una negazione che nega, oltre che il proprio contenuto, anche se stessa: negando cioè qualsiasi pretesa di dare a questa stessa negazione un valore assoluto e dogmatico.

Come diceva Sesto Empirico le formulazioni scettiche  

«...si possono annullare da se stesse: circoscrivendo se stesse con le cose di cui si dicono; così le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma espellono anche se stesse insieme con gli umori.»

(Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I, 206)

In questo modo lo scettico può recuperare la sua "sanità" quasi per caso, come accadde al pittore Apelle:

«Dicono infatti che egli, avendo dipinto un cavallo e desiderando raffigurare nel quadro la schiuma della bocca del cavallo, ebbe così poco successo, che rinunciò e gettò contro l'immagine la spugna in cui detergeva i colori del pennello: e dicono anche che questa, una volta venuta a contatto con il cavallo, produsse una rappresentazione della schiuma. Anche gli scettici, dunque, speravano di impadronirsi dell'imperturbabilità dirimendo l'anomalia degli eventi sia fenomenici che mentali, ma, non essendo in grado di riuscirci, sospesero il giudizio; e a questa loro sospensione seguì casualmente l'imperturbabilità, come ombra a corpo.»

(Sesto Empirico, Schizzi pirroniani I,19-35)

Lo scetticismo moderno

 Lo scetticismo nel pensiero moderno assume toni meno radicali di quello antico, negatore di ogni possibilità di apprendere la verità, asserendo semplicemente che il sapere è necessariamente collegato alla singola coscienza individuale e come questa risenta delle particolari caratteristiche del soggetto.

Riguardo alla religiosità lo scetticismo moderno si riferisce a una civiltà che non è più quella pagana, con una "religiosità debole", ma cristiana, ma a quella ormai caratterizzata da una "religiosità forte" ma indeterminata. Ciò significa che nello scetticismo dell'età moderna si mette in dubbio la possibilità di conoscere la verità sulla causalità secondaria (cause fisiche o biologiche, processi fisico-chimici o chimico-biologici) ma la casualità primaria, Dio, è "data" e riconosciuta. In altre parole ad esempio Montaigne e Hume 11 sono scettici su tutto ma non sull'esistenza di un Dio anche se per il filosofo inglese il politeismo può avere valore identico al monoteismo.

«L'ateismo è infatti una proposizione quasi contro natura e mostruosa, difficile anche e malagevole a fissarsi nell'animo umano per insolente e sregolato che questo possa essere: se ne sono visti molto per la vanità e per l'orgoglio di esprimere opinioni non comuni e riformatrici del mondo affettarne la professione per darsi tono...13»

Montaigne

 Nel periodo rinascimentale Montaigne (1533 - 1592) nella sua opera Apologia di Raimondo di Sebonda riprende il tema scettico della illusorietà di una verità che non può basarsi su una impossibile pretesa corrispondenza tra i concetti costanti nella loro struttura e i dati sensoriali sempre diversi e mutevoli. Di conseguenza, sostiene Montaigne, non esistono leggi universali che possano dare la stessa immutabile visione della realtà.

Nell'ambito dell'autocoscienza invece, poiché vi è una perfetta coincidenza dell'io con sé stesso, si possono costituire leggi morali permanenti e identiche per tutti allo stesso modo, mentre sono destinate a mutare sia le leggi del diritto positivo che le norme religiose.

Cartesio

 Un motivo che sostiene la scelta scettica sono gli errori, a cui la nostra conoscenza è sempre esposta.  René Descartes parla proprio della fallacia dei sensi e della liceità del dubbio, persino di fronte ai giudizi matematici o alla stessa esistenza di un mondo esterno.

Hume

David Hume (1711-1776) stesso si definiva scettico ma non pirroniano. Ma il suo è uno scetticismo moderato diverso da quello tradizionale: è assente infatti la sospensione del giudizio e vi si sostiene la necessità di avere dei principi soggettivi della verità che possano guidare la vita pratica degli uomini.

Quella di Hume è più un'analisi razionale di ciò che la ragione può sapere, dei limiti in cui le pretese della ragione devono confinarsi: la ragione quindi diventa allo stesso tempo imputato, giudice e giuria. Lo scetticismo di Hume consiste nel considerare la conoscenza qualcosa di soltanto probabile e non certo, benché provenga dall'esperienza, che il filosofo riteneva essere l'unica fonte della conoscenza.

Così, sebbene gran parte della conoscenza fenomenica si riduca soltanto ad una conoscenza probabile, Hume inserisce anche un campo di conoscenze certe, ovvero quelle matematiche, che sono indipendenti da ciò che realmente esiste e frutto soltanto di processi mentali.

Hume solca quindi soltanto dei confini alle pretese della ragione, sebbene molto drastici: il principio di causalità, l'esistenza del mondo esterno a noi, l'io e molti altri aspetti del mondo che fino a quel momento parevano ovvi e scontati vengono declassati a semplici "abitudini" e "credenze". Abitudini necessarie però alla vita umana.

Hegel

 Mentre quindi lo scetticismo moderno afferma l'impossibilità per la ragione di cogliere nei dati sensibili un contenuto di verità, ma nello stesso tempo riconosce degli elementi di verità all'interno della coscienza sensibile, per cui le sensazioni in se stesse possono essere prese come vere, lo scetticismo antico, pur riconoscendo la soggettività di ogni conoscenza, nega, sia alla ragione che alla sensibilità, ogni possibilità di cogliere la verità.

Un dubbio radicale quello degli antichi tale che da porsi come «negatività cosciente e universale; come cosciente, essa dimostra, come universale, estende a tutto la sua non verità dell'oggettivo»

Lo stesso Hegel (1770-1831) però evidenzia nella radicalità del dubbio scettico la sua positività: riprendendo per un certo verso la posizione kantiana sullo scetticismo di Hume, egli osserva infatti come pur negando ogni validità alla verità oggettiva lo scetticismo non si deve considerare come «il più pericoloso avversario della filosofia» poiché proprio esso contribuisce al progresso del pensiero filosofico avvertendolo della contingenza della realtà ed evitandogli di cadere nel "sonno" kantiano del dogmatismo.



Bibliografia

          Testi

    •    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Testo greco a fronte, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2005 (Libro IX).

    •     Antonio Russo (a cura di), Scettici antichi Torino, UTET, 1978.


          Studi

    •     Jonathan Barnes, Aspetti dello scetticismo antico, Napoli, La Città del Sole, 1996.

    •     Giovanni Bonacina, Filosofia ellenistica e cultura moderna. Epicureismo, stoicismo e scetticismo da Bayle a Hegel, Firenze, Le Lettere, 1996.

    •     Mauro Bonazzi, Academici e Platonici. Il dibattito antico sullo scetticismo di Platone, Mlano, Led, 2003.

    •     Maria Lorenza Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Torino, Einaudi, 2003.

    •    Mario Dal Pra, Lo scetticismo greco, Bari, Laterza 1989.

    •     Mario De Caro ed Emidio Spinelli (a cura di), Scetticismo. Una vicenda filosofica, Roma, Carocci, 2007.

    •     Marcello Gigante, Scetticismo ed epicureismo, Napoli, Bibliopolis, 2006.

    •     Anna Maria Ioppolo, La testimonianza di Sesto Empirico sull'Accademia scettica, Napoli, Bibliopolis, 2009.

    •     Ettore Lojacono, Spigolature sullo scetticismo. La sua manifestazione all'inizio della modernità, prima dell'uso di Sesto Empirico. I sicari di Aristotele Saonara, Il Prato, 2011.

    •     Gianni Paganini, Scepsi moderna. Interpretazioni dello scetticismo da Charron a Hume, Cosenza, Busento, 1991.

    •     Richard H. Popkin, Storia dello scetticismo, (da Savonarola a Bayle), Milano, Bruno Mondadori, 2008 (traduzione della seconda edizione).

    •    Giovanni Reale, Il dubbio di Pirrone. Ipotesi sullo scetticismo, Saonara, Il Prato, 2009.

    •     Emidio Spinelli, Enesidemo e la corporeità del tempo, in Il concetto di tempo, a cura di Giovanni Casertano, Atti del XXXIII Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, Napoli, Loffredo, 1997.

    •     Emidio Spinelli, Istanze anti-metafisiche nel pirronismo antico. Enesidemo, Sesto Empirico e il concetto di causa, in G. Movia, Alessandro di Afrodisia e la “Metafisica” di Aristotele, Milano, Vita e Pensiero, 2003.


Filosofia medievale

La filosofia medievale costituisce un imponente ripensamento dell'intera tradizione classica sotto la spinta delle domande poste dalle tre grandi religioni monoteiste.

La patristica

 In Europa la diffusione del Cristianesimo all'interno dell'Impero romano segnò la fine della filosofia ellenistica e l'inizio della Patristica, dalla quale si svilupperà la filosofia medievale.

La Basilica di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna: l'effetto di luce dei mosaici e la smaterializzazione dello spazio evidenziano il prevalere dell'Idea sulla materia.

 La Patristica, cioè il pensiero dei antichi padri della Chiesa, rappresentò il primo tentativo di fusione fra la tradizione ebraica e la filosofia greca, di cui costoro cercarono di assimilare profondamente il senso del logos, concetto chiave della filosofia greca, in particolare di quella stoica e neoplatonica: logos significava la ragione e il fondamento universale del mondo,2 in virtù del quale la realtà terrena veniva ricondotta ad un principio intellettivo ideale, in cui risiederebbe la vera dimensione dell'essere. Soprattutto in Plotino, l'ultimo dei grandi filosofi greci, si avvertiva il tema della trascendenza dell'Idea platonica, da lui concepita come la forza spirituale che plasma gli organismi viventi secondo un progetto prestabilito.

Se i primi cristiani accolsero con accenti diversi la filosofia pagana, senza identificare automaticamente i suoi sistemi di pensiero con il messaggio evangelico, e anzi con una certa coscienza critica che in Tertulliano si tramuta in aperta diffidenza,3 Giustino fu invece tra i primi a identificare il Cristo incarnato con il logos dei greci, termine che egli trovava adoperato nel prologo di Giovanni.

A ogni modo, almeno fino al 200, la patristica si dedicò essenzialmente alla difesa del cristianesimo contro i suoi avversari. Tra costoro vi erano i cosiddetti "padri Apologisti". Solo in seguito cominciarono invece a sorgere i primi grandi sistemi di filosofia. Un importante contributo in tal senso venne da Clemente Alessandrino; come Giustino, anche Clemente arrivò a sostenere che Dio aveva dato la filosofia ai Greci «come un Testamento loro proprio».4 Per lui la tradizione filosofica greca, quasi al pari della Legge mosaica per gli Ebrei, è ambito di "rivelazione": sono due rivoli che in definitiva vanno verso lo stesso Logos.

Agostino d'Ippona

 Il maggiore esponente della Patristica fu quindi Agostino di Ippona: questi divenne un vescovo neoplatonico, e conciliò la filosofia greca con la fede cristiana riprendendo da Plotino il tema delle tre nature o ipostasi divine (Uno, Intelletto e Anima) e identificandole con le tre Persone della Trinità cristiana (Padre, Figlio e Spirito Santo), ma concependo il loro rapporto di processione non più in senso degradante, ma in un'ottica di parità-consustanzialità.5 Secondo Agostino ci sono dei limiti oltre i quali la ragione non può andare, ma se Dio illuminerà la nostra anima con la fede riuscirà placare la nostra sete di conoscenza. Agostino riprese da Plotino anche la concezione del  male come semplice "assenza" di Dio: esso è dovuto perciò alla disobbedienza umana. A causa del peccato originale nessun uomo è degno della salvezza, ma Dio può scegliere in anticipo chi salvare; ciò non toglie che noi possediamo comunque un libero arbitrio.

Con Agostino emerse tuttavia, su questo punto, una differenza peculiare della filosofia cristiana rispetto a quella greca, nella quale era certamente presente l'idea della contrapposizione tra bene e male, ma era assente la nozione del peccato, per cui non c'era una visione lineare della storia come percorso di riscatto verso la salvezza. Agostino invece ebbe presente come la lotta tra bene e male si svolge soprattutto nella storia. Ciò comportò anche una riabilitazione della dimensione terrena rispetto al giudizio negativo che ne aveva dato il platonismo. Ora anche il mondo e gli enti corporei hanno un loro valore e significato, in quanto frutti dell'amore di Dio. Si tratta di un Dio vivo e Personale che sceglie volontariamente di entrare nella storia umana.  All'amore ascensivo tipico delleros greco, Agostino affiancò pertanto l'amore discensivo di Dio per le sue creature, proprio dellagape cristiano.

Benedetto da Norcia

 La valorizzazione della storia e dell'esistenza terrena portò nel V secolo ad una novità rispetto ai  modelli orientali incentrati sull'esperienza mistica, e cioè alla nascita dell'attività monastica istituita da Benedetto da Norcia, autore della celebre regola «prega e lavora»: il lavoro manuale divenne un elemento importante nel percorso di salvezza del cristiano. Accanto alla vita spirituale c'è anche la vita quotidiana: si affaccia così per la prima volta l'idea del progresso, di un'evoluzione universale a cui ognuno è chiamato a contribuire, e che sarà un elemento centrale di tutta la filosofia medievale.

L'opera dei benedettini risultò tanto più importante anche per le ore dedicate allo studio: il loro lavoro di copiatura di testi antichi, non solo religiosi, ma anche scientifici e letterari, salvò infatti numerose opere dell'età greca e romana che poterono così attraversare i secoli e giungere all'età moderna. Il sapere allora diffuso dai monasteri e dalle abbazie poté inoltre facilmente ottenere il monopolio sull'insegnamento anche a seguito della definitiva chiusura dell'Accademia di Atene nel 529 ad opera di Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua attività.

Boezio

Scoto Eriugena

 Dal V al VIII secolo vi fu quindi l'ultimo sviluppo della Patristica, che consistette più che altro nella rielaborazione di dottrine già formulate, ma in parte anche in nuove riflessioni. Tra i più originali vi fu Boezio, ritenuto uno dei precursori della scolastica e della disputa sugli universali, riguardante la definizione delle essenze attribuibili a generi e specie universali. Boezio suddivise la filosofia in tre tipi di esseri: gli intellettibili, che sono gli esseri immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei sensi, come Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si occupa è propriamente la teologia. Gli intelligibili invece sono gli intellettibili calati nelle realtà materiali, le quali vengono percepite dai sensi pur essendo sempre concepibili dall'intelletto. E infine la natura, oggetto della fisica, studiata da sette discipline che saranno suddivise in trivium e quadrivium.

Nello Pseudo-Dionigi l'Areopagita si trova invece la prima esplicita distinzione tra teologia negativa e teologia affermativa: mentre quest'ultima arriva a Dio tramite un progressivo accrescimento di tutte le qualità finite di ogni singolo oggetto, la prima al contrario procede per decrescita e diminuzione fino ad eliminare ogni contenuto dalla mente, poiché Dio, essendo superiore a tutte le realtà possibili e immaginabili, non è identificabile con nessuna di esse. Si notano in lui gli influssi del neoplatonismo agostiniano.

Anche l'irlandese Scoto Eriugena, teologo di epoca carolingia e autore del Periphyseon (o De divisione naturae), riprese la riflessione tipicamente agostiniana sul rapporto dualistico e complementare tra fede e ragione che in Dio necessariamente coincidono, risolvendolo in un cerchio; privilegiando la via negativa, egli vedeva Dio come superiore sia all'essere che al non-essere, come il punto in cui il dualismo della realtà si ricompone in unità. Egli seguì pertanto l'interpretazione di Dionigi l'Areopagita, del quale tradusse in latino il Corpus Areopagiticum, e del quale ribadì la concezione che le idee platoniche sussistono nel Verbo ma non coincidono con esso: sono infatti opera del Padre. Ritenendo gli universali ante rem, Scoto Eriugena prese quindi posizione a favore del realismo estremo nella disputa sugli universali.

L'aristotelismo arabo ed ebraico

 Mentre in Europa si diffondeva il platonismo, durante tutto il Medioevo gli arabi avevano mantenuto viva la tradizione filosofica facente capo ad Aristotele, con commenti e traduzioni del filosofo greco, e sviluppando interessi per le scienze naturali. Si trattava di un aristotelismo penetrato in Medio Oriente attraverso l'interpretazione che ne aveva dato in epoca ellenistica Alessandro di Afrodisia, mescolato con motivi giudaici, cristiani, e soprattutto neoplatonici. In questo sincretismo di culture, favorito dall'espansione araba verso l'Occidente, fiorirono nuovi centri come Bagdad, Granada, Cordova, e Palermo.

Tra le figure più importanti dell'ambito islamico, che cercarono di conciliare l'adesione al Corano con le esigenze della ragione, vi furono Al-Kindi, Al-Farabi, Ibn Bajjah, Avicenna, e Averroè. Avicenna in particolare fu anche medico, autore di un Canone della medicina e del Libro della Guarigione, nei quali si proponeva di far guarire l'anima dall'ignoranza. Influenzato da Plotino, sostenne che il mondo non è creato nel tempo, ma originato per emanazione dall'Uno, secondo un processo di concause che vede Dio generare indirettamente i livelli astrali inferiori, l'ultimo dei quali è l'aristotelico Intelletto Attivo, da lui associato alla Luna. Pur essendone partecipi, i singoli uomini possiedono soltanto un intelletto potenziale.

Averroè

 Averroè invece presuppone che il mondo esista per l'azione diretta di Dio, ma sempre in un contesto fuori dal tempo. Sostenne in forma neoplatonica e con un certo panteismo una corrispondenza tra le Sfere Celesti e la Terra, ma a differenza di Avicenna separò anche l'Intelletto passivo dalle singole anime umane: per lui l'attività intellettiva, sia agente che potenziale, è unica e identica in tutti gli uomini, e non coincide con nessuno di essi. Sottoponendo a critica tutta la conoscenza, sottolineò come la percezione sensibile abbia bisogno dell'Intelletto Agente per elevarsi all'astrazione, senza il quale essa produce saperi variabili da uomo a uomo. In soccorso deve quindi giungere la religione, che si affianca alla ricerca filosofica riservata invece a pochi. La doppia verità, concetto attribuito erroneamente a lui, è in realtà una semplificazione della sua dottrina, che anzi ebbe presente come le verità di fede e di ragione debbano costituire un'unica sola verità, conoscibile dai più semplici tramite la rivelazione e i sentimenti, e dai filosofi cui spetta invece il compito di riflettere scientificamente sui dogmi religiosi presenti in forma allegorica nel Corano. Tra le numerose opere di Averroè, che spaziano nei campi più svariati, la più imponente fu il Commentario alle opere di Aristotele, che lo rese noto nell'Europa cristiana.

In ambito ebraico, invece, si era avuto già con Filone di Alessandria (I secolo d.C.) un primo tentativo di conciliare la Legge mosaica con la filosofia platonica, tentativo tuttavia che aveva avuto maggior seguito presso i primi cristiani. Sarà con Avicebron, e poi con Mosè Maimonide, che si ha un effettivo confronto tra la fede ebraica e il retaggio culturale greco. Maimonide incentrò la sua riflessione su alcuni princìpi fermi riguardanti l'esistenza di Dio e la sua immortalità. Egli si servì dell'aristotelismo, influenzato anche nel suo caso da numerosi concetti neoplatonici, per conciliare la fede nella Torah e nel Talmud con forme razionali di speculazione filosofica, sostenendo la trascendenza di Dio, la libera volontà umana e divina, e l'origine creazionistica del mondo, ma negando come Averroè l'immortalità dell'anima individuale.

La scolastica

 A partire dall'anno Mille è particolarmente significativa la nascita della filosofia scolastica, così chiamata dall'istituzione delle scholae, ossia di un sistema scolastico-educativo diffuso in tutta Europa, e che garantiva una sostanziale uniformità di insegnamento. Le origini della scolastica si possono rintracciare già in Carlo Magno, il quale, dando avvio alla "rinascita carolingia" aveva fondato ad Aquisgrana intorno al 794 la Schola palatina, per favorire l'istruzione delle genti e la diffusione del sapere servendosi dei monaci benedettini. Gli insegnamenti erano divisi in due rami:

    •     l'arte del trivio (il complesso delle materie letterarie);

    •     l'arte del quadrivio (il complesso delle materie scientifiche).

Con l'Admonitio Generalis Carlo Magno aveva quindi cercato di formare un metodo di studio che fosse praticato in tutto il Sacro Romano Impero. Gradatamente si sviluppò così un tipo di insegnamento detto scolastico, che prenderà sempre più a distinguersi dall'ambiente monastico in cui era nato, sviluppando una forma di sapere più autonoma.

Anselmo d'Aosta

Padre della Scolastica è comunque considerato l'abate benedettino Anselmo d'Aosta,9 poi divenuto arcivescovo di Canterbury, che cercò una convergenza tra fede e ragione nel solco della tradizione platonica e agostiniana. Le sue due opere principali vertono sull'argomento ontologico dell'esistenza di Dio, che nel Monologion viene da lui trattato a posteriori partendo dalla considerazione che, se qualcosa esiste, occorre ammettere un Essere supremo come principio della catena ontologica che lo rende possibile. Nel Proslogion, invece, Anselmo espone una prova a priori, in base alla quale Dio è l'Ente massimo di cui non si può pensare nulla di più grande; chi nega che a questo concetto dell'intelletto corrisponda una realtà, necessariamente si contraddice, perché allora si potrebbe pensare che l'Ente massimo sia minore di qualcosa ancora più grande che abbia anche l'esistenza.10

Anselmo fu un sostenitore della realtà degli universali come ante rem, cioè appunto a priori, precedenti l'esperienza. La sua posizione fu appoggiata da Guglielmo di Champeaux (esponente di un realismo oggi assimilabile più che altro all'idealismo)11, ma avversata da Roscellino, fautore invece di un nominalismo estremo con cui giungeva a sostenere che le tre Persone della Trinità fossero tre realtà fra loro distinte, per quanto identiche per il potere e la volontà: la loro comune essenza, la divinità, era dunque solo un nome, un flatus vocis. Roscellino fu per questo accusato di triteismo. Nella polemica si inserì anche Pietro Abelardo, più favorevole al concettualismo, dando luogo a una disputa che fu il tratto caratteristico della Scolastica, protraendosi per vari secoli.

L'evoluzione dei centri urbani, intanto, favorita da una concezione del lavoro rivolta alla costruzione del benessere comune e incentrata sull'opera della collettività, aveva portato alla Rinascita dell'anno Mille e poi a quella del XII secolo, durante le quali i filosofi medioevali andarono sempre più stabilire le proprie sedi nelle scuole annesse alle cattedrali, o nelle Università come quelle di Bologna e Parigi. Tra gli istituti di nuova formazione acquistò notevole prestigio la scuola di Chartres, che si richiamava al pensiero neoplatonico di Agostino d'Ippona e di Boezio. Nell'ambito della disputa sugli universali gli scolastici di Chartres sostennero che le idee sono del tutto a priori, essendo creature del Padre, mentre sul piano cosmologico seguirono l'interpretazione data da Calcidio al Timeo di Platone, identificando lo Spirito Santo con la platonica Anima del mondo, secondo la tesi fatta propria già da Abelardo. Ammettendo però l'immanenza dello spirito nella Natura, questa fu concepita come una totalità organica e indipendente, oggetto di studi separati rispetto alla teologia.

Bernardo di Chiaravalle

 Contemporaneamente, presero vita anche nuovi fermenti religiosi miranti a rinnovare la Chiesa, come la Congregazione dei monaci Cluniacensi sviluppatasi intorno all'anno Mille, o l'Ordine dei Monaci Cistercensi, che assunse notevole incremento e vigore grazie all'opera di Bernardo di Chiaravalle. Questi propose una via mistica alla speculazione filosofica: secondo Bernardo l'unico modo per giungere alla verità consiste nella pratica della contemplazione e della preghiera, e non nell'astratto ragionamento. A lui si contrappose Pietro Abelardo, il quale sosteneva invece che «non si può credere in nulla se prima non lo si è capito».12

Alberto Magno

Tommaso d'Aquino

 Agli inizi del Duecento nacquero altri due nuovi movimenti, uno fondato dallo spagnolo Domenico di Guzman, la cui predicazione di basava sull'efficacia degli argomenti e la forza della persuasione, l'altro da Francesco d'Assisi, che mirava invece a convertire tramite un esempio di vita umile, semplice, e in armonia con la natura. Questi movimenti si diffusero soprattutto nelle città e a contatto con le loro scuole che erano divenute i nuovi centri della cultura medievale.

Furono ad esempio due frati domenicani, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, a dare un contributo fondamentale allo sviluppo della filosofia scolastica. Autore di un imponente commento alla Metafisica di Aristotele, Alberto Magno fu tra i primi a recepire l'influsso dell'aristotelismo arabo all'interno del Cristianesimo, ridimensionando il ruolo che l'agostinismo aveva avuto fino allora, e provocando accese dispute quando alcuni concetti di derivazione averroistica (come la negazione dell'immortalità dell'anima o dell'origine creazionistica del mondo) sembravano porsi in contrasto con l'ortodossia cristiana. Egli introdusse allora una distinzione fra l'ambito della fede, di cui si occupa la teologia, e quello della scienza, in cui opera la ragione, pur cercando sempre un punto di incontro tra questi due campi. Alla fede assegnò Agostino come massima autorità, e alla scienza Aristotele, accolto però sempre da un punto di vista critico.13 Si può dire che Alberto Magno diede alla teologia cristiana la forma e il metodo che, sostanzialmente, si sono conservati fino ai giorni nostri. Uomo dotato di grande genio e cultura,14 visse con profonda devozione religiosa il suo impegno dottrinale.

Discepolo di Alberto fu Tommaso, il quale analogamente, di fronte all'avanzare dell'aristotelismo arabo che sembrava voler mettere in discussione i capisaldi della fede cristiana, mostrò che quest'ultima non aveva nulla da temere, perché le verità della ragione non possono essere in contrasto con quelle della Rivelazione, essendo entrambe emanazione dello stesso Dio. Secondo Tommaso dunque non c'è contraddizione tra fede e ragione, per cui spesso la filosofia può giungere alle stesse verità contenute nella Bibbia; per esempio, si può arrivare a conoscere l'esistenza di Dio sia attraverso la fede, sia attraverso la ragione e l'osservazione basata sui sensi.

 Come il suo maestro, anche Tommaso cercò di conciliare la rivelazione cristiana con la dottrina di Aristotele, il quale, partendo dallo studio della natura, dell'intelletto e della logica, aveva sviluppato delle conoscenze sempre valide e universali, facilmente assimilabili dalla teologia cristiana, dal momento che la verità oggettiva, come del resto insegnava lo stesso filosofo greco, è tale proprio in quanto rimane sempre uguale in ogni epoca e luogo. Così era ad esempio nelle scienze naturali, per le quali esisteva un perenne passaggio dalla potenza all'atto che strutturava gerarchicamente il mondo secondo una scala ascendente che va dalle piante agli animali, e da questi agli uomini, fino agli angeli e a Dio, che in quanto motore immobile dell'universo è responsabile di tutti i processi naturali. Le intelligenze angeliche hanno una conoscenza intuitiva e superiore, che permette loro di sapere immediatamente ciò a cui noi invece dobbiamo arrivare tramite l'esercizio della ragione.

L'opera fondamentale di Tommaso d'Aquino, la Summa Theologiae, fu da lui concepita alla stegua del processo di edificazione delle grandi cattedrali europee: come la teologia ha lo scopo di rendere trasparenti alla ragione i fondamenti della fede, così l'architettura, in particolare quella delle chiese romaniche del Duecento, diventò lo strumento collettivo per l'educazione del popolo e della sua partecipazione alla Verità rivelata.

Bonaventura da Bagnoregio

 Mentre Tommaso contribuiva così alla rinascita e alla diffusione dell'aristotelismo nell'Europa cristiana, il suo contemporaneo Bonaventura di Bagnoregio fu invece il maggiore esponente della corrente neoplatonica. Nella riflessione di Bonaventura, speculare sotto certi aspetti a quella di Tommaso, non si trovano monumentali architetture razionali, bensì il prevalere di un sentimento mistico ispirato alla religiosità di San Francesco d'Assisi. In lui permase centrale il tema agostiniano dell'illuminazione divina, sia pure riservato ai soli concetti spirituali. Secondo Bonaventura infatti, mentre la sensibilità è strumento opportuno per l'anima, che attraverso la realtà empirica giunge alla formazione dei concetti universali, per la conoscenza dei principi spirituali occorre l'illuminante grazia divina.16

La via dell'illuminazione è dunque quella che porta a cogliere le essenze eterne, e ad alcuni permette persino di accostarsi a Dio. L'illuminazione guida anche l'azione umana, in quanto solo essa determina la sinderesi, cioè la disposizione pratica al bene. Permane qui, com'è chiaro, il valore conoscitivo e morale del mondo ideale platonico ma il tutto è trasfigurato dall'esigenza religiosa della salita dell'uomo verso Dio.

Ruggero Bacone

 Mentre Tommaso e Bonaventura insegnarono soprattutto a Parigi, altre scuole crebbero di rinomanza, come quelle di Oxford e di Colonia. Il più importante maestro di Oxford fu Ruggero Bacone, che rifacendosi alla distinzione introdotta dagli aristotelici tra scienza e fede, individuò due diverse fonti della conoscenza: la ragione, la quale però si basa sempre su un sapere mediato, e l'intuizione, che invece attinge immediatamente al dato. Quest'ultimo può essere di natura mistica, se concerne le verità teologiche della Rivelazione, oppure sperimentale, se attinente alle verità del mondo naturale. La distinzione tra questi due ambiti, che fu anticipata nei suoi sviluppi anche dalla scuola di Chartres, tenderà col tempo ad accentuarsi sempre più.

La disputa sugli universali

 Grande dibattito suscitò all'interno della scolastica la cosiddetta disputa sugli universali, una questione, come già accennato, riguardante la natura dell'universale, ossia del predicato che viene assegnato a una molteplicità di enti. Quando ad esempio si afferma: «tutti gli esseri sono mortali», si attribuisce una caratteristica generale (un quid, cioè l'essere mortale) a delle realtà concrete e particolari. Qual è allora la natura di questo quid? Le risposte variarono nel tempo dando luogo a una disputa che attraversando i secoli, iniziando da Porfirio nel 300 circa fino a Guglielmo d'Ockham (1300) e oltre, fu all'origine per certi versi della filosofia moderna.

Le possibili risposte alla questione sono sintetizzabili nel compromesso elaborato da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, sostenitori del realismo moderato, secondo cui gli universalia sono:

    •    ante rem, cioè esistono prima della realtà, nella mente di Dio;

    •    in re, nel senso che gli universali entrano anche all'interno della realtà stessa, come sua essenza reale;

    •    post rem, quando gli universali diventano un prodotto reale della nostra mente, la quale svolge quindi una funzione autonoma nell'elaborazione dei concetti che non dipende dalla realtà.

Ai realisti, che affermavano l'esistenza oggettiva e indipendente dell'universale, si contrapposero i nominalisti, i quali invece negavano qualsiasi realtà all'universale che per essi è dunque un semplice nome, flatus vocis, essendo solamente post rem.

Gli ultimi sviluppi della scolastica

 Filosoficamente, il Medioevo si caratterizza per una grande fiducia nella ragione umana, ossia nella capacità di poter indagare i misteri della fede, in virtù del fatto che Dio nei Vangeli si presenta come Logos (cioè Principio Logico).

Duns Scoto

Guglielmo di Ockham

 La crisi di questa fiducia iniziò a partire dal Trecento, quando il filosofo scozzese Duns Scoto affermò che esiste un limite che non può essere esplorato dalla filosofia, e oltre il quale la ragione non può andare. Sollevando il problema dell'haecceitas, ossia dell'essenza che determina un particolare oggetto in un certo modo rendendolo "questo qui" (hic et nunc), Scoto sostenne che degli universali posti all'origine delle singole realtà non si può dire nulla, essendo impossibile stabilire il perché del loro essere così e non diversamente.

Pur aderendo al realismo, Duns Scoto sottolineò in tal modo l'aspetto apofatico e ignoto di Dio, rilevando l'esistenza di un limite intrinseco ad ogni sapere umano: se la logica vuole essere consistente, deve rinunciare a indagare ciò che per sua natura non può avere una risposta razionale. Egli affermava bensì, sulla scia di Parmenide, la necessità di essere dell'Essere, ma l'impossibilità di necessitarne il contenuto, di dargli cioè un predicato razionalmente giustificabile.

Scoto divenne un assertore della dottrina del volontarismo, secondo cui Dio sarebbe animato da una volontà incomprensibile e arbitraria, del tutto slegata da criteri razionali che altrimenti ne limiterebbero la libertà d'azione. Questa posizione ebbe come conseguenza un crescente fideismo, ossia una fiducia cieca in Dio, non motivata da argomenti.

Al fideismo aderì soprattutto Guglielmo di Ockham, esponente della corrente nominalista, all'interno della quale egli giunse a negare alla Chiesa il ruolo di mediazione tra Dio e gli uomini. Basandosi su una concezione riduzionista del sapere (all'origine del suo famoso rasoio), Occam criticò i concetti di causa e di sostanza, da lui giudicati metafisici, in favore di un approccio empirico alla conoscenza.

 Radicalizzando la posizione filosofica di Scoto, Occam affermò che Dio non ha creato il mondo per «intelletto e volontà» come sosteneva Tommaso d'Aquino, ma per sola volontà, e dunque in modo arbitrario, senza né regole né leggi. Come Dio, anche l'essere umano è del tutto libero, e solo questa libertà può fondare la moralità dell'uomo, la cui salvezza però non è frutto della predestinazione, né delle sue opere. È soltanto la volontà di Dio che determina, in modo del tutto inconoscibile, il destino del singolo essere umano.
Giovanni Buridano riprese inizialmente le tesi di Occam, cercando poi di conciliarle con la fisica aristotelica.

In Germania, intanto, Meister Eckhart poneva le basi della mistica speculativa tedesca, accentuando per parte sua il carattere misterioso e imperscrutabile di Dio, elaborando una teologia negativa radicalmente apofatica. Secondo Eckhart, Dio genera se stesso e il proprio Figlio negli uomini, in un atto creativo continuo e ininterrotto. Di qui il suo insegnamento rivolto alla cura dell'anima e della preghiera contemplativa.17

Affini al misticismo di Eckhart furono i toni utilizzati dall'anonimo autore inglese della Nube della non conoscenza, dove Dio è rappresentato «avvolto da nubi e tenebre» secondo un'immagine di derivazione biblica.18

La convinzione dell'inconoscibilità di Dio radicalizzò la separazione tra scienza e fede, mantenendo da un lato la valorizzazione dell'indagine naturale sul modello della scuola di Chartres, ma al contempo conducendo ad una fiducia cieca nel Creatore. L'accentuarsi della distanza tra la dimensione terrena e quella celeste-spirituale, che nel Trecento portò a un tale crescente fideismo, fu espressa dal Gotico nella sua forma estrema.

Filosofi medievali

Patristica

    •     Periodo  (200 - 900):

    •    Origene Adamantio

    •    Clemente Alessandrino

    •    Gregorio Nazianzeno

    •    Giustino

    •    Agostino

    •    Boezio

    •    Giovanni Scoto Eriugena

       

Filosofi arabi

    •     Periodo  (900 - 1250):

    •    al-Farabi

    •    Salomon ibn Gabirol

    •    Avicenna

    •    Averroè

     

Filosofi scolastici

    •     Prima scolastica (1000 - 1250):

    •    Pietro Abelardo

    •    Pietro Lombardo

    •    Gilbert de la Porrée

    •    Filippo il Cancelliere

    •    Anselmo d'Aosta


    •     Alta scolastica (1250 - 1350):

    •    Robert Grosseteste

    •    Roger Bacon

    •    Alberto Magno

    •    Tommaso d'Aquino

    •    Bonaventura

    •    Duns Scoto

    •    Radulphus Brito

    •    Guglielmo di Ockham

    •    Giovanni Buridano
  

    •     Tarda scolastica (1350 - 1500):

    •    Marsilio da Padova
  

Bibliografia

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    •     Giulio D'Onofrio, Storia del pensiero medievale, Roma, Città Nuova, 2011.

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    •     Angelo Marchesi, Dal "Logos"greco al "Logos" cristiano. Linee di sviluppo e tematiche ricorrenti, Parma, Zara, 1984.

    •     Paolo Rossi & Carlo Augusto Viano, Storia della filosofia: II. Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1994.

    •     Sofia Vanni Rovighi, Storia della filosofia medievale. Dalla patristica al secolo XIV, Milano, Vita e Pensiero, 2006.

    •     Cesare Vasoli, La filosofia medievale, Milano, Feltrinelli, 1961.

    •     Paul Vignaux, La filosofia nel Medioevo, trad. it. di M. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1990.



Filosofia rinascimentale

«Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio alla sede celeste, dove contempleremo beati l'eccellenza del genere nostro.»

(Marsilio Ficino, De immortalitate animarum)


La filosofia rinascimentale, che segna la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, si estende lungo tutto il Quattrocento e il Cinquecento.

Rinascita del Neoplatonismo

 Si è soliti tuttavia fare iniziare le prime istanze umanistiche, preludio del Rinascimento, con un autore trecentesco: Francesco Petrarca (1304-1374). In lui, primo tra i moderni, si avverte già il dissidio tra prospettiva religiosa medievale e riscoperta dell'uomo, propria dell'Umanesimo. Nel Petrarca si annuncia insomma quella che sarà una costante del successivo pensiero umanistico e poi rinascimentale, cioè il tentativo di conciliare Agostino, Cicerone, Platone, di tenere uniti pensiero cristiano, humanae litterae latine, e filosofia classica greca.

Da allora l'uomo divenne il centro di un'attenzione che la cultura precedente sembrava non avergli accordato, sicché il suo operare nel mondo iniziò ad acquisire un nuovo significato basato sull'ideale dell'homo faber.1 Dal rinnovato interesse per i classici emergerà inoltre una molteplicità di orientamenti culturali che porterà sostanzialmente a due tendenze di pensiero: una che si richiama ad Aristotele, interpretandolo però in chiave naturalistica, in antitesi al senso religioso con cui l'aveva letto San Tommaso; l'altra che si richiama a Platone e ai neoplatonici (Plotino in particolare), nella quale troviamo oltre al già citato Petrarca, anche Coluccio Salutati e Leonardo Bruni.

Fu però soprattutto quest'ultima, quella neoplatonica, a godere di una grande rinascita, dovuta sia a una forte polemica anti-aristotelica, che soleva dipingere Aristotele come un pensatore vetusto e pedante, sia grazie alla riunificazione tra le Chiese d'Oriente e d'Occidente (avvenuta nel 1438), che fece confluire un gran numero di intellettuali e dotti bizantini in Italia, specialmente a Firenze, i quali favorirono la riscoperta degli studi classici greci; il più noto di essi fu il maestro Pletone. L'immigrazione di studiosi orientali fu poi incentivata anche dalla caduta di Costantinopoli nel 1453. Una caratteristica dei filosofi rinascimentali era la loro tendenza a identificare il platonismo con il neoplatonismo, particolarità tipica di tutto l'Umanesimo e il Rinascimento. Solo nel XIX secolo si è saputo distinguere il pensiero di Platone da quello di Plotino; nel Quattrocento infatti si intendeva per platonismo una corrente filosofica complessa e molto composita, che non abbracciava solo Platone, ma anche neoplatonici come Agostino e Duns Scoto, oltre a tradizioni orfiche e pitagoriche. Lo stesso Aristotele vi era in fondo compreso; la polemica contro di lui era rivolta più che altro contro il naturalismo e un certo modo di intendere l'aristotelismo, specie quello delle scuole, per il resto di Platone e Aristotele si cercavano più le concordanze che le divergenze.

La riscoperta dei classici significò, tra l'altro, non tanto una semplice acquisizione degli antichi testi, quanto un diverso modo di leggerli, preoccupato di ricostruirli storicamente e di sottoporli a un vaglio critico rigoroso. Fu così che si diffuse la passione per la filologia, tendenza presente soprattutto nell'attività di Lorenzo Valla. Non si può trascurare neanche l'interesse per la pedagogia, mirante non a un'educazione professionale, ma a formare il giovane nella sua completezza, mediante uno sviluppo armonico di tutte le doti umane, sia fisiche che spirituali, facendo di ciascun individuo come un'opera d'arte, un tentativo compiuto di saper plasmare la propria vita come l'artista plasma la propria opera. Questo amore per il bello nasceva dal prevalere delle tendenze ideali collegate appunto al neoplatonismo. L'amore, la libertà, la sete di infinito, vennero esaltati come valori assoluti, in maniera simile a quanto avverrà nel Romanticismo. Inizialmente avverso al naturalismo, che appariva dimentico del vero valore dell'uomo, il neoplatonismo esaltava la bellezza dell'Idea, contrapposta alla bellezza sensibile, e alla quale giungere soltanto tramite il pensiero e i sensi più elevati. L'amore soprattutto veniva inteso platonicamente come una via per elevarsi alla perfezione e alla contemplazione di Dio. La purezza e la spiritualità erano pertanto le qualità che più si addicevano al vero amore.

Marsilio Ficino

I neoplatonici di maggior rilievo furono senza dubbio Nicola Cusano e Marsilio Ficino, i quali, alla precedente prospettiva medievale rivolta verso il Trascendente ed espressa nella sua forma estrema dal gotico, vi sostituirono una religiosità che guarda piuttosto al divino presente nell'uomo e nel mondo. Secondo Cusano l'individuo umano, pur essendo una piccola parte del mondo, è una totalità nel quale tutto l'universo risulta contratto. L'uomo è infatti immagine di Dio che è l'"implicatio" di tutto l'essere così come nell'unità numerica sono potenzialmente impliciti tutti i numeri, mentre l'Universo è invece l'"esplicatio" dell'Essere, ovvero l'esplicitazione di ciò che è presente in potenza nell'unità. L'uomo è pertanto un microcosmo, un dio umano. Cusano fu inoltre tra i primi a concepire l'universo, già nella prima metà del Quattrocento, senza limiti spaziali e quindi senza una circonferenza che lo delimiti.

Che non vi sia contrasto tra platonismo e cristianesimo era convinzione anche di Ficino, il quale concepì anzi il platonismo come una vera e propria preparazione alla fede, intitolando la sua opera più celebre Theologia platonica. Il tema dell'eros diventa in Ficino un motivo filosofico centrale: l'amore è il dilatarsi stesso di Dio nel mondo, la causa per cui Dio "si riversa" nel mondo, e per cui produce negli uomini il desiderio di ritornare a Lui. Al centro di questo processo circolare c'è dunque l'uomo, vera copula mundi, che tiene legati in sé gli estremi opposti dell'universo, e come in Cusano è specchio di quell'Uno (inteso plotinianamente) dal quale proviene tutta la realtà. Qui si nota tuttavia come Ficino usi il concetto platonico di Eros attribuendovi un significato cristiano, poiché, diversamente che in Platone, l'amore è per lui anzitutto attributo di Dio, movimento di Dio che scende verso il mondo, e non solo tensione irrequieta dell'anima umana che vuol salire verso di Lui. Ficino fu inoltre uno dei personaggi più attivi dell'Accademia Neoplatonica di Firenze, che divenne il centro propulsore del neoplatonismo rinascimentale: voluta da Cosimo de' Medici, essa era un cenacolo di filosofi e letterati fiorentini riuniti nella villa medicea di Careggi (presso Firenze), e voleva significare la riapertura dell'antica Accademia ateniese di Platone (che era stata chiusa nel 529 d.C.), per favorire la rinascita della dottrina del grande filosofo greco.

Un altro esponente di primo piano dell'Accademia platonica fu Pico della Mirandola, il quale tuttavia tentò di conciliare il neoplatonismo con l'aristotelismo e concezioni mistiche connesse alla cabala ebraica, congiungendoli in una linea di continuità secondo un ideale di concordia universale. Egli, nell'Oratio de hominis dignitate, attribuisce all'uomo la dignità di essere l'artefice del proprio destino. All'uomo infatti Dio offre il dono della libertà: mentre nelle altre creature tutto è stato già dato come qualità definita e stabile, all'uomo è concesso di farsi e inventarsi nelle forme da lui scelte.

Astrologia, alchimia e arti magiche

Anche il pensiero scientifico fu caratterizzato dall'influsso del Neoplatonismo, che fu determinante nell'anticipare quella visione di armonia dell'universo che ritroviamo nella rivoluzione scientifica attuata da Copernico, Keplero e Galilei. Secondo la concezione neoplatonica, infatti, l'universo è retto da un ordine armonico che si irradia in ogni sua parte ed è strutturato perciò in maniera concentrica. Non si tratta di un universo statico, ma in movimento: in esso prevale un equilibrio dinamico, simboleggiato dal cerchio e dalla sfera, viste come le figure più perfette in quanto espressione di massima sintesi tra forze centrifughe e centripete. A fondamento dell'ordine geometrico del cosmo è posto Dio, il quale lo governa attraverso un atto d'amore. Non è dunque una visione meccanica del mondo, bensì una concezione organica e unitaria in cui le leggi che regolano l'universo ricevono anima e vita dall'amore divino. Secondo l'astrologia rinascimentale esiste di conseguenza una corrispondenza tra le strutture della mente umana e le strutture reali dell'universo, ovvero tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura, in quanto generate dalla stessa intelligenza creatrice. Questo sarà il presupposto fondamentale di tutti i successivi sviluppi scientifici e tecnologici, espressamente formulato da Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico. La fiducia nell'astrologia, scaturita da una tale idea di corrispondenza tra fenomeni celesti e fenomeni terreni, si inserì tra l'altro nella tipica ottica rinascimentale volta ai fini pratici di azione nel mondo. Gli oroscopi infatti avevano il fine di leggere le circostanze in cui un'azione aveva la probabilità maggiore di riuscire: essi erano dunque al servizio di un uomo che guarda al futuro e intende intervenire attivamente nel corso degli eventi per mutarli.

Nell'ambito dell'astrologia riprese vigore anche una disciplina emblematica di questo periodo, cioè l'alchimia, favorita dal fatto che una delle tante opere riscoperte durante il Rinascimento fu il Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto che Cosimo de' Medici fece tradurre da Marsilio Ficino intorno al 1460. Forte era comunque l'influenza di scritti e autori arabi, i quali, facendo da mediatori, avevano consentito la ripresa di contatto con la tradizione alchemica greca già dal basso Medioevo. A differenza della prassi demonologica collegata con la credenza cristiana in spiriti buoni e cattivi, l'alchimia si proponeva di intervenire sulle sole forze naturali, facendo così da apripista alla chimica moderna. Essa si basava infatti sulla magia bianca che, diversamente dalla magia nera, consisteva nello studio empirico delle sostanze elementari e in esperimenti scientifici su di esse. L'alchimista ne cercava le proprietà lavorando all'incirca come un chimico, catalogandole, operando miscugli, servendosi di fornelli ed alambicchi che saranno poi gli strumenti principali utilizzati dalla chimica come la intendiamo oggi. Operando in quest'ambito Paracelso (1493-1541) diede ad esempio un notevole impulso alla farmacologia.

Scopo principale degli alchimisti era la ricerca della pietra filosofale, dalla quale si sarebbero potute trarre tre proprietà fondamentali: un elisir in grado di conferire l'Immortalità e di dare la panacea universale per qualsiasi malattia; l'"onniscienza" ovvero la consapevolezza del passato e del futuro, del bene e del male (simile alle qualità del frutto biblico dell'albero della Conoscenza); la possibilità infine di trasmutare i metalli in oro, la meno importante delle tre ma quella più ricercata dagli avidi e che ha colpito maggiormente l'immaginario popolare. Da questa deriva l'enorme potere di arricchimento detenuto dall'alchimista, che egli tuttavia era tenuto a usare per scopi strettamente umanitari, dovendo egli sviluppare un senso morale parallelo all'elaborazione della pietra e che costituiva anzi una condicio sine qua non per la riuscita finale del suo operare. La pietra filosofale non era tuttavia l'oggetto di semplici leggende o di visioni utopiche: l'oro infatti veniva utilizzato come catalizzatore nelle reazioni chimiche, ed era da sempre apprezzato essendo l'unico metallo conosciuto che restasse inalterabile nel tempo. La scienza contemporanea poi riuscirà effettivamente a trasformare in oro alcuni metalli, agendo a livello delle forze nucleari.

 La trasmutazione dei metalli in oro si inserisce nell'ottica evoluzionista tipica dei filosofi neoplatonici: essi pensavano infatti che tutta la creazione, corrottasi a causa del biblico peccato originale, tendesse a ritornare verso la perfezione originaria. Come l'uomo tende verso la divinizzazione, così i metalli mutavano verso l'oro, la forma più nobile della loro specie. Si cercava in un certo senso di risolvere la materia nello spirito; e contemporaneamente si operava anche all'inverso, facendo compiere a ritroso il cammino della natura, fino a poter ricostruire, ad esempio, una pianta dalle sue ceneri, o fabbricare sinteticamente l'uomo (l'homunculus), al di fuori delle vie naturali.

Insieme all'alchimia ricevettero grande impulso numerosi altri mestieri e discipline, come la chiromanzia, la numerologia, la matematica, la medicina, l'anatomia. Una caratteristica dei ricercatori rinascimentali era infatti la loro poliedricità: essi cioè erano soliti svolgere più attività diverse contemporaneamente, secondo l'ideale dell'uomo universale, incarnato ad esempio da Leonardo da Vinci (1452-1519), da molti considerato il primo scienziato in senso moderno. Nell'ambito della matematica e della geometria ricordiamo in particolare il tentativo di quadratura del cerchio da parte di Cusano, o la soluzione delle equazioni cubiche da parte di Tartaglia e il suo celebre Triangolo. La matematica era allora una materia affine alla numerologia, la quale si proponeva di interpretare la realtà in chiave simbolica ed ermetica ricollegandosi a dottrine neopitagoriche, esoteriche e cabbalistiche, ma anche la teologia, la filosofia e tutte le scienze venivano collegate tra loro, nel tentativo di coniugarle e di renderle parte di un unicum. L'ideale dei filosofi rinascimentali consisteva in definitiva nella ricerca di un sapere unitario, organico, coerente, che fungesse da raccordo di tutte le discipline e le conoscenze dello scibile umano, e soddisfacesse il bisogno di ricondurre e ritrovare la molteplicità nell'unità, la diversità nell'identità, la varietà nella totalità. Sarà il sogno anche degli idealisti romantici.

Neoplatonismo nell'arte

 Non solo la letteratura e le scienze, ma l'arte in generale viene avvertita come la via maestra per cogliere l'ideale neoplatonico di armonia e perfezione, come la forma più immediata di intuizione dell'assoluto,2 in accordo con i tre ideali platonici dell’eterno Vero, l’eterno Buono, e l’eterno Bello, triade raffigurata da Raffaello in tre dipinti nella Stanza della Segnatura ai Musei Vaticani (il secondo dei quali è la celebre Scuola di Atene).

Sono gli ideali che ritroviamo nella pittura, in particolare nel Botticelli che nella sua Venere esprime l'amore celeste e intelligibile messo in risalto dalla purezza del nudo; nella scultura, specialmente in Michelangelo, secondo cui l'artista assomiglia a Dio perché tenta di trasporre l’Idea nella materia così come Dio ha impiantato il Bello nel mondo fisico; nella musica (un'arte già rivalutata da Plotino), ad esempio in Franchino Gaffurio che sperimentò armonie e consonanze musicali basate sui rapporti numerici universali delle sfere celesti, ponendo le basi per lo sviluppo del canto polifonico; e in architettura dove si insegue il modello della città ideale (raffigurata in un dipinto attributo a Piero della Francesca), secondo i princìpi del classicismo. Una città che intendeva rifarsi a un simile modello fu ad esempio Urbino.

Una tipica figura umanista, che si sforzò di cogliere l'armonia e l'equilibrio di un mondo costruito attraverso l'attivo operare dell'uomo, è quella di Leon Battista Alberti (1404-1472). In lui non mancano però visioni pessimiste: egli avverte come l'equilibrio che si sta cercando appare fragile e continuamente minacciato.

Vitalismo cosmico

 Una costante della filosofia rinascimentale rimane la concezione vitalistica dell'universo e della natura, secondo cui ogni realtà, dalla più grande alla più minuta, risulta animata e popolata da presenze e da forze vitali.3 Tutto l'universo è concepito come un unico grande organismo. Secondo il neoplatonismo infatti, la natura è profondamente penetrata da energie spirituali, poiché, in virtù dell'identità di essere e pensiero, ogni oggetto è anche al tempo stesso soggetto; ogni realtà fa capo a un'idea in virtù della quale essa risulta animata da una vita autonoma e unitaria. Il principio che unifica il molteplice è l'anima del mondo, la quale permetteva di considerare organicamente congiunti tutti i diversi campi del reale, e con cui l'uomo forma un tutt'uno. Questa visione del cosmo, che sarà ripresa dagli idealisti romantici e in particolare da Schelling, viene ampiamente sviluppata da tre filosofi naturalisti dell'Italia meridionale: Bernardino Telesio, Giordano Bruno, e Tommaso Campanella. In loro il neoplatonismo, dopo esserne stato alquanto avverso, viene ora conciliato col naturalismo e il panteismo; e nonostante la loro polemica contro Aristotele, esso risulta profondamente legato alla problematica e ai procedimenti metodologici aristotelici.

 Con Telesio nasce una prima forma di metodologia scientifica, soprattutto nelle obiezioni che egli muove ad Aristotele. Telesio si propone di interpretare unitariamente tutta la realtà fisico-naturale, estendendo il campo della sua concezione naturalistica alla stessa vita intellettiva ed etica dell'uomo.

Bruno invece, oltre a dedicarsi alla magia, all'astrologia, e all'arte della  mnemotecnica, eredita da Cusano l'idea di infinità dell'universo, anticipando per via filosofica le scoperte scientifiche della moderna astronomia. Bruno infatti affermava non solo che Dio è presente nella natura (la quale è tutta viva, animata), ma anche che il cosmo è infinito e che esistono innumerevoli altri mondi, non limitandosi così al timido eliocentrismo copernicano, ma contrapponendo al geocentrismo medievale una concezione molto più radicale.  Personalità irruente, da allievo di Platone era convinto che la verità è tale solo quando trasforma radicalmente chi la possiede, quando cioè il pensiero si fa vita, e la filosofia diviene magia. Per far trionfare il divino che è in noi occorre dunque secondo Bruno un impeto razionale, non un'attività pacifica che spenga i sensi e la memoria, ma al contrario li acuisca: occorre cioè un eroico furore (un termine chiaramente ereditato dall'Eros platonico).

Tommaso Campanella, considerato uno dei filosofi più originali dell'epoca tardo-rinascimentale, ebbe una vita molto avventurosa e travagliata. Arrestato a Napoli nel 1599 con l'accusa di cospirazione ed eresia, riuscì a sfuggire alla pena capitale simulando la follia, ma venne condannato al carcere a vita. Durante i ventisette anni di detenzione compose le sue opere principali, tra cui La città del Sole (1602), progetto di una società ideale ispirato alla Repubblica di Platone. Tentò una conciliazione tra la tradizione tomista e quella agostiniana accordandole con una visione trinitaria dell'essere, e facendo inoltre della coscienza l'attributo fondamentale di ogni realtà (sensismo).

Correnti filosofiche, politiche, e religiose

 Il naturalismo non assunse solo le forme del tardo neoplatonismo, ma anche di altre correnti filosofiche e letterarie. A una concezione naturalistica dell'amore ispirata al modello boccacciano si rifecero ad esempio Poliziano e Lorenzo il Magnifico, che invitavano a godere i piaceri amorosi, o Lorenzo Valla che la colorò di significato religioso. Ma il naturalismo venne fatto proprio soprattutto dall'aristotelismo, che tuttavia si sviluppò esclusivamente all'interno degli ambienti accademici, anche se assunse tratti capaci di accomunarlo con le ricerche dei nuovi platonici. In seguito alla pubblicazione dei grandi commentari di Averroè, affiancati ben presto da quelli di Alessandro di Afrodisia, l'aristotelismo venne caratterizzato dalla disputa tra queste due interpretazioni, con averroisti da un lato e alessandrinisti dall'altro; il maggior rappresentante della scuola alessandrina fu Pietro Pomponazzi, figura di spicco dell'aristotelismo padovano. Altre correnti naturalistiche riemergenti furono l'epicureismo e lo stoicismo, alle quali aderì Montaigne: personaggio sui generis del Cinquecento, avverso alla nostalgia dei classici pur ponendo anche lui l'uomo al centro della sua attenzione, Montaigne finirà poi su posizioni scetticiste. Si tratta a ogni modo di correnti parallele al neoplatonismo, che rimase la tendenza preferita grazie al rinnovato fervore con cui venne rilanciato da parte di Cusano nell'Europa d'oltralpe, e dell'Accademia neoplatonica di Ficino in Italia.

La rivalutazione della figura dell'uomo favorì una presa di coscienza del suo ruolo e del suo senso di responsabilità anche all'interno della storia. Nel campo della filosofia politica il Cinquecento si inaugura così con due opere quasi contemporanee: Il Principe di Niccolò Machiavelli (1513) e L'Utopia di Tommaso Moro (1516). Il realismo di Machiavelli e l'utopismo di Moro, per la loro opposizione e diversità di intenti, possono essere assunti come i due poli fondamentali entro cui si svolge l'intera riflessione politica rinascimentale. Machiavelli in particolare può essere considerato il fondatore della teoria della "ragion di stato": al centro della sua ricerca c'è esclusivamente l'azione politica, dall'orizzonte della quale egli tende a escludere ogni altra considerazione religiosa, morale o filosofica. Il suo impegno finalizzato alla costruzione di un potere saldo ed efficiente  si inserisce nell'ideale rinascimentale di opporre la volontà e la responsabilità umana al dominio del caso e alle incognite della storia. Nella situazione politica italiana, divisa in tante signorie e anomala rispetto al resto d'Europa dove assistiamo invece alla formazione degli stati unitari e alla loro lenta trasformazione in stati assoluti, l'italiano Machiavelli fu paradossalmente un precursore del pensiero politico moderno.

L'ideale machiavellico di uno stato forte fu tuttavia respinto da Guicciardini, secondo cui il terreno politico rimaneva luogo di scontro di forze puramente individuali (di qui quel suo atteggiamento di affidarsi al proprio particulare, inteso come tornaconto e utile personale). Nella seconda metà del Cinquecento si assistette inoltre alla contrapposizione tra assolutisti (il più importante dei quali fu Jean Bodin), e i cosiddetti Monarcomachi, animati invece da un'irriducibile avversione al potere del re. Tra le filosofie politiche tardo-rinascimentali troviamo poi il giusnaturalismo dell'olandese Ugo Grozio (che affrontò tra l'altro problemi di diritto internazionale), e infine le utopie di Francesco Bacone e del già ricordato Campanella.

La concezione maggiormente individualistica dell'essere umano, comune peraltro a tutto l'Umanesimo, assunse una particolare importanza anche nella fede religiosa, dove mentre da un lato ci furono casi di paganesimo di ritorno, dall'altra assistiamo a un nuovo fervore della devozione cristiana. Il rapporto del singolo individuo con Dio divenne spesso più importante di quello con la Chiesa come istituzione. In questo panorama si inserisce la Riforma di Martin Lutero (1483-1546), di Calvino (1509-1564), e di Zwingli (1484-1531); ma anche all'interno del cattolicesimo vi furono numerose istanze di rinnovamento, si pensi ad esempio alle figure di Girolamo Savonarola (1452-1498), o di Erasmo da Rotterdam (1466-1536). Quest'ultimo in particolare polemizzò contro Lutero poiché vedeva nella sua negazione della libertà umana una posizione nettamente in contrasto con la mentalità umanista e rinascimentale.

Il Burdach, assertore di una sostanziale continuità fra Medioevo e Rinascimento, individua la genesi della rinascita religiosa rinascimentale già nelle aspirazioni mistico-religiose del Duecento italiano, presenti soprattutto nello spirito evangelico di San Francesco d'Assisi e nelle attese di Gioacchino da Fiore.4

Filosofi rinascimentali

    •    Giorgio Gemisto Pletone (1355-1452)

    •    Coluccio Salutati (1331-1406)

    •    Leonardo Bruni (1370-1444)

    •    Nicola Cusano (1401-1464)

    •    Lorenzo Valla (1407-1457)

    •    Leon Battista Alberti (1404-1472)

    •    Marsilio Ficino (1433-1499)

    •    Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494)

    •    Pietro Pomponazzi (1462-1524)

    •    Niccolò Machiavelli (1469-1527)

    •    Tommaso Moro (1478-1535)

    •    Francesco Guicciardini (1483-1540)

    •    Erasmo da Rotterdam (1466-1536)

    •    Charles de Bovelles (1479-1553)

    •    Martin Lutero (1483-1546)

    •    Bernardino Telesio (1509-1588)

    •    Giordano Bruno (1548-1600)

    •    Tommaso Campanella (1568-1639)

    •    Michel de Montaigne (1533-1592)

    •    Jean Bodin (1529-1596)

    •    Francesco Bacone (1561-1626)

Bibliografia

    •    Il neoplatonismo nel Rinascimento, a cura di Pietro Prini, Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma 1993.

    •    Ficino and Renaissance Neoplatonism, a cura di Konrad Eisenbichler e Olga Zorzi Pugliese, Dovehouse, Toronto 1986.

    •    J. Burckhardt, La civiltà del rinascimento in Italia, trad. it. a cura di E. Garin, Sansoni, Firenze 1952 (originale tedesco, Basilea 1860).

    •    M. Schiavone, Bibliografia critica generale. Umanesimo e rinascimento, in Grande antologia filosofica, vol. VI, Marzorati, Milano 1964.

    •    Eugenio Garin, Magia e Astrologia nella cultura del Rinascimento, in Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari 1954.

    •    A.-J. Festugière, La révélation d'Hermès Tismégiste, I: L'astrologie et les sciences occultes, Lecoffre, Parigi 1950.

    •    E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del rinascimento, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1974-1977 (originale tedesco, Teubner, Lipsia 1927).

    •    K. Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo, trad. it. a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1935 (originale tedesco, Berlino 1918).

    •    Eugenio Garin, La Cultura Filosofica del Rinascimento Italiano. Ricerche e Documenti, Sansoni, Firenze 1992.

    •    Cesare Catà, La Croce e l'Inconcepibile. Il pensiero di Nicola Cusano tra filosofia e predicazione, EUM, Macerata 2009.

    •    Cesare Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino, Bruno Mondadori editore, Milano 2002.

    •    Frances Amelia Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari 1998.



Illuminismo

«Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.»

(Immanuel Kant da Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, 1784)

L'illuminismo fu un movimento culturale e filosofico sviluppatosi approssimativamente nel secolo XVIII in Europa. Il termine illuminismo è passato a significare genericamente ogni forma di pensiero che voglia "illuminare" la mente degli uomini, ottenebrata dall'ignoranza e dalla superstizione, servendosi della critica della ragione e dell'apporto della scienza.1

Dipinto di Charles Gabriel Lemonnier rappresentante la lettura della tragedia di Voltaire, in quel tempo esiliato, L'orfano della Cina (1755), nel salotto di madame Geoffrin a Rue Saint-Honoré. I personaggi più noti riuniti intorno al busto di Voltaire sono Rousseau, Montesquieu, Diderot, d'Alembert, Buffon, Quesnay, Richelieu e Condillac.2

L'illuminismo come critica della ragione

Immanuel Kant

 In un senso più ampio si parla di "illuminismo" riferendolo anche al mondo greco antico nell'ambito, ad esempio, del pensiero dei sofisti3 autori di una critica corrosiva alle presunte leggi di origine divina e all'antropomorfismo religioso. Ugualmente illuministi ante litteram possono essere annoverati Democrito e gli atomisti, gli scettici e gli stoici e soprattutto Epicuro che vuole liberare l'uomo dalla paura, indotta dalla religione, degli dei e della morte.4

Erede della ragione, intesa nel senso di Locke, l'illuminismo vuole adattare alla filosofia il metodo della fisica newtoniana affidando alla ragione la determinazione tanto delle proprie possibilità che dei propri limiti, indipendentemente da ogni verità che si presenti come rivelata o innata.

La fede nella ragione, coniugandosi con il modello sperimentale della scienza newtoniana, sembrava rendere possibile la scoperta non solo delle leggi del mondo naturale, ma anche di quelle dello sviluppo sociale. Si pensò allora che, usando correttamente la ragione, sarebbe stato possibile un progresso indefinito della conoscenza, della tecnica e della morale: convinzione questa che verrà successivamente ripresa e rafforzata dalle dottrine positiviste.

Fin dagli inizi gli illuministi presuppongono che la gran parte degli uomini, pur essendo stati creati liberi dalla Natura («naturaliter maiorennes») si accontentino molto volentieri di rimanere "minorenni" per tutta la vita. Questa condizione è dovuta o a comoda pigrizia o a viltà, al non avere cioè il coraggio di cercare la verità. In ogni caso il risultato di questa non-scelta è la facilità per i più scaltri e per i detentori del potere di erigersi a guide di costoro: «Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che pensa per me...io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare...».5

Gli interessati tutori imprigionano dunque i vili e i pigri in una «carrozzina da bambini» paventando loro i rischi che si corrono a voler camminare da soli. Non s'impara a camminare senza cadere, ma questo li terrorizza, per cui rimarranno infanti per tutta la loro vita.6

L'illuminista dovrà tutelare l'uomo ammaestrandolo a diventare "maggiorenne" usando la propria ragione per liberarsi dalla credenza irriflessa nelle verità già date, siano esse quelle innate nel campo conoscitivo, siano quelle rivelate dalla religione.

La ragione rifiuterà tutto quello che non deriva da essa con il compito precipuo di stabilire i propri limiti: una ragione dunque programmaticamente finita e orgogliosa di essere tale poiché, in quell'ambito limitato, che è quello dell'esperienza, essa potrà conoscere la verità sino in fondo.

Questo avverrà applicando la critica della ragione, attraverso cioè l'analisi, la discussione, il dibattito nei confronti di quell'esperienza che non è soltanto il complesso dei fatti fisici ma anche di quelli storici e sociali:

«Dai principi delle scienze profane ai fondamenti della rivelazione, dalla metafisica ai problemi fondamentali del gusto, dalla musica alla morale, dalle controversie scolastiche dei teologi alle questioni economiche, dal diritto naturale a quello positivo, insomma ai problemi che ci riguardano più da vicino a quelli che ci toccano soltanto direttamente, tutto fu discusso, analizzato, dibattuto.7»

Il compito pedagogico dell'intellettuale

Jean-Jacques Rousseau

 Compito degli intellettuali illuministi, che si autodefiniscono philosophes, deve quindi essere il coraggioso uso della ragione:

«Ma quale limitazione è d'impedimento all'illuminismo? Quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo il pubblico uso della ragione… l'uso che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblico di lettori.89»

Questa la responsabilità dell'intellettuale di fronte alla società in cui vive: un compito pedagogico di liberazione dalla metafisica, dall'oscurantismo religioso, dalla tirannia della monarchia assoluta. Questo programma educativo secondo Jean-Jacques Rousseau significherà riportare l'uomo al suo iniziale stato di natura trasformandone la spontanea bontà della condizione naturale in una conquista consapevole e definitiva della sua razionalità. Poiché

 (FR) 
«Tout est bien sortant des mains de l'Auteur des choses, tout dégénère entre les mains de l'homme.»

 (IT) 
«Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo.10»

La ragione illuminista

 La definizione illuministica della ragione è ormai lontana da quella classica prevalentemente contemplativa: ora è concepita come funzionale e operativa: la sua validità cioè è dimostrata dai risultati pratici che essa consegue: la razionalità è valida se è in grado di spiegare e ordinare i fatti in base a leggi di ordine razionale. Ragione, natura, spontaneità coincidono nella visione illuministica nella convinzione che la natura stessa abbia dotato ogni uomo della istintiva capacità di comprendere che lo rende uguale a tutti gli altri a condizione che esso sia liberato dalla corruzione della superstizione e dell'ignoranza. L'uomo, liberato dalle incrostazioni del potere, userà correttamente e spontaneamente,(come secondo gli illuministi dimostrerebbe il comportamento naturale del cosiddetto "buon selvaggio") la sua ragione per procedere alla costruzione di uno Stato in cui le leggi, non più tiranniche, si fondino sul rispetto dei diritti naturali

Il mito del "buon selvaggio"

 Quello del "buon selvaggio" fu un mito basato sulla convinzione che l'uomo in origine fosse un "animale" buono e pacifico, solo successivamente corrotto dalla società e dal progresso. Nella cultura del Primitivismo del XVIII secolo, il "buon selvaggio" era considerato più lodevole, più autenticamente nobile dei prodotti dell'educazione civilizzata.

Nonostante l'espressione "buon selvaggio" fosse già comparsa nel 1672 in La conquista di Granada di John Dryden (1672), la rappresentazione idealizzata di un "gentiluomo della natura" fu ripresa dal Sentimentalismo del secolo successivo.

Il concetto di "buon selvaggio" incarna la convinzione che senza i freni della civilizzazione gli uomini siano essenzialmente buoni, le sue fondamenta giacciono nella dottrina della bontà degli esseri umani, espressa nel primo decennio del Settecento da Anthony Shaftesbury, che incitava un aspirante autore «a cercare quella semplicità dei modi, e quel comportamento innocente, che era spesso noto ai meri selvaggi; prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci.»11

Il mito del buon selvaggio fu alimentato dall'azione missionaria dei Gesuiti12, iniziata fin dal XVII secolo nelle loro reducciones del sud America, soprattutto nel Paraguay, consistente nella realizzazione di centri (reducciones de indios) per l'evangelizzazione delle popolazioni indigene allo scopo di creare una società con i benefici e le caratteristiche della cosiddetta società cristiana europea, però priva dei vizi e degli aspetti negativi. Gli indios apparivano specialmente adatti per questo progetto data la loro natura essenzialmente recettiva dell'educazione dei Gesuiti. Ma ciò che faceva pensare che essi incarnassero la primitiva bontà dell'uomo non civilizzato erano le loro naturali inclinazioni artistiche soprattutto per la musica.

Nell'illuminismo fu poi soprattutto Rousseau a propagandare la tesi del buon selvaggio, asserendo nel suo Contratto sociale che «l'uomo è nato libero e tuttavia ovunque è in catene». Voltaire gli rispose polemicamente con vena ironica che «a leggere il vostro libro vien voglia di camminare a quattro zampe, ma avendone sfortunatamente persa l'abitudine da più di sessant'anni mi è impossibile riprenderla ora».13

L'âge des lumières

 L'età dei lumi: con questa espressione, che mette in evidenza l'originalità e la caratteristica di rottura consapevole nei confronti del passato, si diffuse in Europa il nuovo movimento di pensiero degli illuministi francesi che in effetti affondava le sue radici nella cultura inglese. Voltaire, Montesquieu, Fontanelle riconoscevano infatti di essersi ispirati a quella filosofia inglese fondata sulla ragione empirica e sulla conoscenza scientifica, elementi essenziali del pensiero di Locke e di Newton e David Hume che risalivano a loro volta a quello di Francesco Bacone.14

Se l'illuminismo assunse prevalentemente un'impronta francese questo si deve alle particolari condizioni storiche della Francia del XVIII secolo. Lo sviluppo della borghesia durante il regno di Luigi XIV è assicurato dall'assolutismo monarchico ed è fondato sulla distinzione tra l'uomo privato e quello pubblico. Il suddito potrà fare i suoi affari ed esprimere una certa libertà di pensiero ma questa non dovrà mai entrare in conflitto con l'autorità del sovrano.

Alla borghesia evoluta, alla fronda nobiliare e al movimento ugonotto, che continuano nascostamente ad esercitare la loro critica, si aggiungono i nuovi finanzieri, creditori dello stato ma privi di potere politico che esprimono il loro dissenso nelle società segrete come quella della Massoneria. Quanto più repressa sarà la loro contestazione politica tanto più diverrà appariscente evidenziando così l'illuminismo francese che, rispetto a quello inglese, meno condizionato dal potere politico, diverrà il rappresentante dell'illuminismo in generale.

Madame Geoffrin

I salotti letterari

Una particolare funzione sociale e politica venne svolta nel "Siècle des Lumières" dai salotti letterari: una tradizione culturale già presente in Francia dai tempi di Luigi XIV quando ci si riuniva a intervalli regolari presso una signora di mondo nei «bureaux d’esprit».15

Gli incontri erano ora organizzati da altolocati membri dell'alta borghesia o dell'aristocrazia riformista francese che erano soliti invitare in casa loro intellettuali più o meno noti per conversare e dibattere temi d'attualità o argomenti particolarmente graditi all'anfitrione come accadeva nel salotto di Madame Geoffrin che invitava celebrità letterarie e filosofiche come Diderot, Marivaux, Grimm, Helvétius o nel salotto del barone d’Holbach, «le premier maître d’hôtel de la philosophie», (primo direttore dell'albergo della filosofia)16 nella cui casa si riunivano Diderot, d’Alembert, Helvétius, Marmontel, Raynal, Grimm, l’abate Galiani e altri filosofi. In genere nei salotti si leggevano opere giudicate politicamente eretiche dall'assolutismo monarchico o si discuteva di cosa stesse accadendo fuori del mondo salottiero.

In questo ambiente culturale svolgono un ruolo preminente le donne, le "salonnièries" (salottiere) alle quali il nuovo ideale egualitario illuminista offriva l'opportunità di collaborare, mostrando le proprie doti intellettuali, ad un progetto radicalmente riformista non più riservato a una cultura soltanto maschile.17

L'Encyclopédie e la diffusione del sapere



Per approfondire, vedi Encyclopédie.

Frontespizio dell' Encyclopédie, la monumentale opera simbolo del nuovo sapere dell'Illuminismo

 Emblema dell'illuminismo francese, assieme al pensiero di Voltaire, sarà la grandiosa opera dell'Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri che in 35 volumi, pubblicati dal 1751 al 1780, da un consistente gruppo di intellettuali sotto la direzione di Diderot e D'Alembert, diffonderà i principi illuministici non solo in Francia ma, attraverso numerose traduzioni, in tutta Europa.

L'opera si presenta come arditamente innovativa rispetto ai vecchi dizionari enciclopedici: essa vuole essere «un quadro generale degli sforzi dello spirito umano in tutti i generi e in tutti i secoli.»18 Oltre ad essere un'opera di informazione, l'Enciclopedia era quindi anche un'opera di propaganda, tramite la quale i suoi autori si proponevano di convincere il vasto pubblico della validità delle idee illuministe.

«Quest'opera produrrà certamente, col tempo, una rivoluzione negli animi ed io spero che i tiranni, gli oppressori, i fanatici e gli intolleranti non abbiano a trarne vantaggio. Avremo reso un servigio all'umanità.19»

Dalla direzione dell'opera D'Alembert fu costretto a ritirarsi nel 1759 in seguito al divieto di pubblicazione del Consiglio di Stato. Diderot continuerà la preparazione clandestina di altri volumi.

La pubblicazione dell'Encyclopédie incontrò infatti diversi ostacoli e resistenze da parte dell'aristocrazia intellettuale di corte, vicina alla Sorbona, e da parte della Chiesa cattolica: il governo francese ne bloccò per due volte la stampa e gli ultimi due volumi dovettero uscire clandestinamente. Ciò nonostante l'Enciclopedia fu interamente pubblicata negli anni fra il 1751 e il 1772, e ottenne un grande successo sia in Francia che nel resto d'Europa, dove il francese era ormai divenuto la lingua delle persone colte.

L'Enciclopedia si propone di eliminare dal sapere sino allora acquisito ogni connotazione non provata razionalmente e quindi ordinare con un criterio alfabetico le nostre conoscenze: questo compito

«consiste nel riunirle nel più piccolo spazio possibile, ponendo il filosofo al di sopra di questo vasto labirinto, in una prospettiva così elevata da poter considerare insieme le scienze e le arti principali, da poter vedere con un colpo d’occhio gli oggetti delle proprie speculazioni e le operazioni che può compiere su tali oggetti, e da poter distinguere i principali settori delle conoscenze umane, i punti che li separano e quelli che li uniscono, intravedendo anche, in qualche caso, i cammini segreti che li congiungono. [...]20»

 I criteri di compilazione risponderanno a questi punti principali: il metodo analitico per la filosofia sulla base dell'empirismo lockiano e il metodo della fisica newtoniana sulla base del pensiero baconiano da cui D'Alembert, riprendendone la tripartizione di memoria, ragione e immaginazione, vi fa corrispondere storia, filosofia e arte.21

Gli articoli dell'Enciclopedia trattano i più svariati argomenti con un tono ora rivoluzionario ora apparentemente ingenuo: si parla di tolleranza, di guerra, di progresso, di privilegi ma anche di calze, di cinesi...

Emergono dall'opera anche le nuove concezioni dell'economia con la glorificazione della macchina, del nuovo sistema industriale e le nuove teorie fisiocratiche che fondano la ricchezza di una nazione su i beni e i prodotti naturali cioè sull'agricoltura.



Per approfondire, vedi Fisiocrazia.

Voltaire

 Come banditore del nuovo sapere si affianca all'Enciclopedia l'opera di Voltaire che inizia la sua carriera letteraria come drammaturgo, poeta e autore di pamphlets (opuscoli satirici e polemici), saggi, satire e racconti brevi nei quali divulga la scienza e la filosofia della sua epoca. Il filosofo intrattiene inoltre una voluminosa corrispondenza con scrittori e sovrani europei.

Egli riprende tutti i temi tipici dell'illuminismo difendendoli con uno spirito caustico che non risparmia filosofi, clero e sovrani ma che non gli pone remore nell'accettare l'incarico di consigliere di Federico II di Prussia.

Voltaire crede nel progresso annunciato dall'illuminismo ma non è disposto a farne un dogma: «un giorno tutto andrà meglio ecco la nostra speranza; ogni cosa va bene, ecco la nostra illusione»; critica il pessimismo ma beffeggia l'ingenuo ottimismo di Leibniz22 Al fondo del pensiero di Voltaire vi è la concezione dell'uomo ormai padrone della natura e facitore di un mondo né ottimisticamente esaltato né pessimisticamente condannato come il peggiore dei mondi possibili: occorre «lasciare andare il mondo come va, perché, se tutto non è bene, tutto è passabile».23

La conoscenza

Jean Baptiste Le Rond d'Alembert

Lavoisier

 La conoscenza fondata sulle potenzialità interiori della stessa ragione si svolge nel campo del finito e del limitato secondo l'insegnamento di Locke. Occorrerà fornire quindi la ragione di un metodo oggettivo rappresentato dall'analisi matematica che faccia affidamento più all'aritmetica che alla geometria poiché quest'ultima, come si è visto in Cartesio, può portare a elaborazioni metafisiche sganciate da ogni esperienza.

L'aritmetica invece, è uno strumento di ricerca che deve necessariamente riferirsi all'esperienza fonte di ogni contenuto concreto. La stessa aritmetica permette di trovare tra i fatti analizzati dei principi invariabili e una legge:

«La ricerca ci conduce ben presto all'aritmetica, cioè alla scienza dei numeri. Essa non è altro che l'arte di trovare, in modo abbreviato, l'espressione di un rapporto unico che risulta dalla comparazione di vari altri.24»

Il discorso iniziato da Galilei e concluso da Newton arriva dunque a compimento con l'illuminismo che estende il metodo analitico dai fatti fisici a quelli sociali, etici e psichici, in breve, a tutta le realtà umana:

«Analizzare non è altro che osservare successivamente le qualità di un oggetto allo scopo di disporle nello spirito secondo l'ordine simultaneo in cui esistono...Nessun altro metodo può supplire all'analisi, né può spandere la stessa luce: di ciò avremo la prova ogni volta che vorremo studiare un oggetto un po' complicato. Non abbiamo inventato questo metodo; l'abbiamo semplicemente trovato, e non abbiamo a temere che esso ci inganni.25»

L'illuminista si dichiara nemico del sistema, inteso come la pretesa di definire una volta per tutte la realtà, partendo da principi fissi e determinati, com'era in Cartesio, ma adopera lo spirito sistematico iniziando dai fatti: un atteggiamento sistematico inteso come una ricerca razionale per la conoscenza dei fatti dopo averli analizzati rifiutando ogni impostazione aprioristica e arrivando alla definizione di leggi generali solo dopo l'accurato esame dei fatti stessi.

Denis Diderot

«Finché le cose sono soltanto nella nostra mente, esse sono nostre opinioni: esse cioè sono nozioni che possono essere vere o false, a cui si può consentire o che si può contraddire. Esse acquistano consistenza soltanto collegandosi agli oggetti esterni. Questo legame avviene in virtù di una catena ininterrotta di esperienze, oppure in virtù di una catena ininterrotta di ragionamenti connessi da un lato con l'osservazione e dall'altro con l'esperimento, oppure in virtù con una catena di esperimenti sparsi di luogo in luogo, in mezzo a determinati ragionamenti, come pesi disposti lungo un filo sospeso tra due estremità. Senza questi pesi il filo diverrebbe preda di qualsiasi agitazione che movesse l'aria.26»

Il mondo è una macchina che ha un ordinamento di leggi al suo interno che esclude qualsiasi teoria finalistica:

«Lo scienziato, la cui professione è quella di istruire e non già di edificare, lascerà da parte il perché, guardando solamente al come. Il come si trae dagli esseri, e il perché dal nostro intelletto...Quante idee assurde, quante false supposizioni, quante nozioni chimeriche si trovano negli inni che alcuni temerari difensori delle cause finali hanno osato comporre in onore del Creatore!27»

Il rifiuto di ogni metafisica e la visione naturalistica della realtà non comporta per gli illuministi una concezione materialista, che anzi in genere essi rifiutano28: «Voltaire non si sente l'animo di decidersi né per il materialismo né per lo spiritualismo. Egli ripete spesso:»

«Come non sappiamo che cosa sia uno spirito, così ignoriamo cosa sia un corpo.29»

Il materialismo infatti, secondo gli illuministi non è altro che un falso travestimento della vecchia metafisica che vuole offrire la facile spiegazione onnicomprensiva e totale dell'universo. Se essi sostengono talora il materialismo lo fanno per ragioni politiche e morali come polemica ed estrema protesta contro le imposizioni politiche e religiose del loro tempo. Solamente il D'Holbach sostiene in maniera convinta e scientifica la concezione materialistica30

la concezione della storia

Il barone Paul Henri Thiry d'Holbach

 Attraverso l'esame critico della storia, l'illuminista può riconoscere la continuità dell'opera della ragione e denunciare gli errori e le contraffazioni con cui erano state tramandate sino ad allora le vicende umane allo scopo di mantenere gli uomini nella superstizione e nell'ignoranza. Nella storia così come sinora veniva presentata

«si vedono gli errori e i pregiudizi susseguirsi via via e cacciare in bando la verità e la ragione.31»

Pierre Bayle per primo si dedicherà nel suo Dizionario storico e critico (1697) alla compilazione di una «raccolta degli errori e delle falsità» da cui deve essere epurata la storia come fino ad allora è stata presentata. Egli è un minuzioso e preciso raccoglitore di fatti attestati da documenti e testimonianze così numerose che Ernst Cassirer (1874–1945) lo considera il fondatore dell' acribia storica.

«[Lo storico] deve dimenticare che appartiene a un certo paese, che fu educato a una data fede, che deve riconoscenza a questo o a quello e che questi o quegli altri sono i suoi parenti o i suoi amici. Uno storico in quanto tale è come Melchisedec, senza padre, senza madre, senza genealogia. Se gli si domanda da dove viene deve rispondere...sono abitante del mondo; non sono al servizio dell'imperatore, né al servizio del re di Francia ma solo al servizio della verità...32»

Il criterio sommo dunque della ricerca, per lo storico neutrale, è quello di scoprire come vera storia quella che segna la vittoria della ragione sull'ignoranza e per questo dall'illuminismo viene condannato in blocco il medioevo come età di fanatismo e oscurantismo religioso mettendo da parte gli aspetti positivamente culturali di quel periodo.

Pierre Bayle

 La mutevolezza degli avvenimenti storici è solo apparente: al di là di queste differenze l'illuminista coglie il lento ma costante emergere sulla superstizione e l'errore l'elemento immutabile della ragione:

«Tutto ciò che deriva dalla natura umana si assomiglia da una parte all'altra dell'universo; invece tutto ciò che può dipendere dalla consuetudine è differente, e può risultare simile soltanto per caso...invece la natura ha diffuso l'unità stabilendo ovunque un piccolo numero di princìpi invariabili: così il fondamento è ovunque lo stesso, mentre la cultura produce frutti diversi.33»

 Per Lessing la storia, come ricerca della verità comincia solo con l'Illuminismo, tutto ciò che l'ha preceduta è una sorta di "pre-istoria".34

Sarà il romanticismo a rilevare nella concezione illuminista della storia la mancanza di una visione unitaria e concreta che originava dall'astrattezza del concetto astorico di ragione che da loro viene identificato con la pura e semplice naturalità. Gli illuministi, cioè, non colgono l'interdipendenza tra l'uso della ragione che opera nella storia e le vicende economiche, sociali e culturali che realmente si sviluppano nella storia; essi riportano ogni differenza o sviluppo nella storia all'opposizione ragione-ignoranza.

Politica

 Da questa visione della storia dove prevale la ragione naturale universale ed eterna emergono i temi politici della tolleranza, uguaglianza e libertà intesi come valori politici naturali ed universali.

Ma l'uguaglianza per gli illuministi non comporta uguaglianza sociale o politica: l'essenziale è che il sovrano rispetti i diritti naturali: è trascurabile che egli sia un sovrano assoluto. È vero che ogni uomo per natura è uguale agli altri ma questo non comporta la parità tra i cittadini:

«Poiché la natura è la stessa in tutti gli uomini, è chiaro che secondo il diritto naturale, ognuno deve stimare e trattare gli altri come esseri che gli sono naturalmente uguali, cioè che sono uomini esattamente come lui...Tuttavia non mi si faccia il torto di supporre che per spirito di fanatismo io approvi in uno stato la chimera dell'uguaglianza assoluta che potrebbe appena nascere in una repubblica ideale; conosco troppo la necessità delle differenze di condizioni, di gradi, di onori, di distinzioni, di prerogative, di subordinazioni che devono regnare in tutte le formazioni sociali, e aggiungo anzi che non esiste incompatibilità tra queste differenze e l'uguaglianza naturale o morale.35»

Busto di Montesquieu

 Così anche per il concetto della tolleranza l'illuminismo risente dei suoi limiti storici quando lo collega all'idea di emulazione e ai principi economici della libertà di scambio e della libera concorrenza:

«Entrate nella borsa di Londra, questo luogo ben più rispettabile di tante corti; vi troverete riuniti i rappresentanti di tutte le nazioni, in vista dell'utilità degli uomini. L'ebreo, il maomettano e il cristiano trattano tra loro come se appartenessero alla medesima religione, e qualificano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta. Il presbiteriano si fida dell'anabattista, e l'anglicano accoglie la promessa del quacquero.36»

La libertà e l'uguaglianza sono riconosciute per gli illuministi solo a coloro che sanno "bene usare" della ragione e se "per natura" ne sono incapaci è giusto che nella vita civile essi siano sottoposti a chi sa ben governare: il "popolo" che ha dimostrato di fare cattivo uso della ragione non conseguendo la proprietà privata va rispettato nella sua umanità ma va guidato dall'alto:

«come il cielo è distante dalla terra, così l'autentico spirito di uguaglianza è lontano dallo spirito di uguaglianza spinto all'estremo...Allora il popolo vuol far tutto da solo...e se non ci sarà più rispetto per gli anziani, non ce ne sarà per i padri; i mariti non otterranno più deferenza e i padroni non otterranno più sottomissione... Le donne, i bambini, gli schiavi non saranno più sottoposti a nessuno.37»

Jean-Antoine Caritat, marchese di Condorcet

 La semplice ragione non fa tutti uguali allo stesso modo: «è la proprietà che fa il cittadino»38

Le simpatie politiche degli illuministi sono rivolte alla monarchia costituzionale che per il suo carattere moderato dà garanzia di ordine e di pace favorendo l'uguaglianza oppure sono disposti a concedere fiducia anche al dispotismo illuminato:

«La democrazia e l'aristocrazia non sono degli stati liberi per loro natura. La libertà politica si trova solo negli stati moderati, ma essa non esiste sempre negli stati moderati, essa c'è soltanto quando non si abusa del potere.»

La Natura e la ragione uguale per tutti rendono gli uomini fratelli al di là di ogni differenza etnica o nazionale. La fratellanza si traduce nell'ideale politico del cosmopolitismo.

Quando però la parola cosmopolite fu immessa nel 1762 nel vocabolario dell'Accademia francese se ne dava una connotazione negativa39:

 (FR) 
«Celui qui n’adopte point de patrie. Un cosmopolite n’est pas un bon citoyen»

 (IT) 
«Colui che non si riferisce ad una patria. Un cosmopolita non è un buon cittadino»

 Il giudizio sul cosmopolitismo mutò radicalmente dopo gli avvenimenti della Rivoluzione francese e nell’edizione del vocabolario del 1798 appare scritto a proposito del termine cosmopolite:

 (FR) 
«Citoyen du monde. Il se dit de celui qui n’adopte pas de patrie. Un cosmopolite regarde l’univers comme sa patrie»

 (IT) 
«Cittadino del mondo. Il termine si riferisce a colui che non si riferisce a una patria. Un cosmopolita considera l'universo come la sua patria»

Cesare Beccaria

 Al di là dei limiti storici queste idee di libertà, uguaglianza tolleranza per merito degli illuministi divennero patrimonio comune della cultura della Francia che cercò di esprimerli nella Rivoluzione e poi di esportarle nel resto d'Europa.

Collegata alla visione illuministica della storia e alla fiducia nella ragione è l'idea fondamentale che il progresso dell'uomo, senza sottovalutare gli ostacoli posti dai diversi costumi e tradizioni, sia inarrestabile.

«Le nostre speranze sul futuro del genere umano possono venire riassunte in tre punti importanti: la distruzione delle diseguaglianze tra le nazioni, i progressi dell'uguaglianza all'interno di uno stesso popolo, ed infine il perfezionamento reale dell'uomo...Affrontando questi tre problemi troveremo - nell'esperienza passata e nell'osservazione dei progressi finora compiuti dalle scienze e dalla civiltà, nonché dall'analisi del cammino dello spirito umano e dello sviluppo delle sue facoltà - i motivi più forti per ritenere che la natura non ha posto alcun termine alle nostre speranze.40»

Gli illuministi, inoltre, criticarono pesantemente l'uso della tortura e della pena di morte portando a radicali riforme giudiziarie come quelle di Maria Teresa d'Austria e di Pietro Leopoldo. La principale opera in questo senso è il libro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, molto ammirato da Voltaire e Diderot.

Religione e morale

 Tipico del pensiero illuminista è il rifiuto di ogni religione rivelata e in particolare del Cristianesimo, ritenuto origine degli errori e della superstizione. Da qui la scelta del deismo come religione naturale e l'identificazione della religione con la morale.



Per approfondire, vedi Il deismo.

 Non considerando le posizioni materialistiche ed atee, come quelle dell'ultima fase del pensiero di Diderot, il deismo si ritrova nella maggior parte dei pensatori illuministi i quali, attraverso argomentazioni scientifiche, cercano di dimostrare l'esistenza di un Dio all'origine dell'universo. La meravigliosa macchina del cosmo fa infatti pensare che debba esserci come causa efficiente, non causa finale, un "eterno geometra":

«Quando mi rendo conto dell'ordine, della prodigiosa abilità delle leggi meccaniche e geometriche che governano l'universo, dei mezzi e dei fini innumerevoli di tutte le cose, sono preso dall'ammirazione e dal rispetto...Io ammetto così quest'intelligenza suprema senza temere che mi si possa far cambiare opinione...Ma dov'è quest'eterno geometra? Esiste in qualche luogo oppure dovunque, senza occupare uno spazio? Non ne so nulla.41»

Un Dio quindi che non interverrà più nella creazione dell'universo che egli «lascia andare come va» e che non interferisce nella storia dell'uomo che alla fine non sarà né condannato né premiato per le sue azioni.

La guida dell'uomo nella sua condotta morale diviene una religiosità laica, trasformazione della religione in morale naturale i cui precetti sono uguali per tutti gli uomini:

«Per religione naturale si devono intendere i principi morali comuni a tutto il genere umano.42»

«I doveri a cui siamo tutti tenuti nei confronti dei nostri simili appartengono essenzialmente ed unicamente al dominio della ragione, e pertanto sono uniformi presso tutti i popoli. La conoscenza di questi doveri costituisce ciò che si chiama morale e rappresenta uno degli oggetti più importanti a cui la ragione possa riferirsi ...43»

Tra i doveri naturali va annoverato il nuovo concetto rivoluzionario di tolleranza che viene spesso riferito alla vita economica applicando il concetto illuministico della ragione operativa, nel senso di giudicare la razionalità dai suoi risultati pratici:

«Se ognuno avesse la tolleranza che qui sostengo, in uno stato diviso tra dieci fedi religiose vi sarebbe la stessa concordia che sussiste in una città nella quale varie categorie di artigiani si sopportano reciprocamente, Il risultato sarebbe quello di una onesta emulazione a chi meglio riesce a segnalarsi per pietà, per buoni costumi, per coscienza.44»

Lo stesso valore di tolleranza non esclude che si possa professare la fede in una religione rivelata: questo però sarà consentito solo nell'ambito della morale privata e non in quello della morale pubblica:

«Reprimete con severità coloro che col pretesto della religione mirano a turbare la società, a fomentare sedizioni, a scuotere il giogo delle leggi; noi non siamo i loro apolegeti; ma non confondete con questi colpevoli coloro che vi chiedono solo la libertà di pensare, di professare il credo che giudicano migliore e che, per il resto, vivono da fedeli cittadini dello stato... Noi predichiamo la tolleranza pratica non quella speculativa, e si comprende a sufficienza la differenza che esiste tra il tollerare una religione e l'approvarla.45»

La soppressione della Compagnia di Gesù

 (FR) 
«Écrasez l'Infâme46»

 (IT) 
«Schiacciate l'infame»

(Voltaire)

 L'atteggiamento dell'Illuminismo nei confronti della religione cristiana e dei suoi rapporti col potere civile non furono uguali dappertutto: se in Inghilterra i problemi legati alla lotta contro l'assolutismo monarchico si erano già in parte risolti, seppure faticosamente, con l'editto di tolleranza del 1689, che poneva fine ufficialmente alle persecuzioni religiose e relegava la fede all'ambito soggettivo-individuale, nell'Europa continentale l'illuminismo «mantenne una dura avversione per la Chiesa Cattolica»47: «gli Stati cominciarono ad assumere un atteggiamento indipendente; si liberarono da ogni rispetto per la politica del Papato; rivendicarono per i loro affari interni, un'autonomia che concedeva alla curia un'influenza sempre minore, anche nelle questioni ecclesiastiche»48

«In questo clima intellettuale e politico non sorprende che la Compagnia di Gesù, tradizionale assertrice dei diritti della Chiesa e del Pontificato, si sia trovata esposta ad una violentissima campagna di accuse, (non esclusa quella di tramare contro lo Stato) ed abbia finito per essere travolta. All'anticlericalismo trionfante...si affiancarono le correnti giurisdizionalistiche che sostenevano l'urgenza di smantellare i secolari privilegi di cui godeva ancora la Chiesa: dal diritto d'asilo al foro ecclesiastico.49»

 I gesuiti, intransigenti difensori del primato papale, sulla spinta dei conflitti crescenti tra chiesa e stato, nonché di un'opinione pubblica che ne chiedeva l'annientamento, vennero espulsi da quasi tutti i paesi europei:50 «Cominciò nel 1759 il Portogallo seguito dalla Francia (1762), dalla Spagna (1769), da Napoli e da Parma signoreggiate da principi borbonici. Non fu estranea a questa misura, per quanto riguarda le colonie spagnole e portoghesi, l'avversione dei coloni per le reducciones de indios, i villaggi costruiti dai gesuiti per raccogliervi gli indigeni e salvarli dallo sfruttamento degli encomenderos.51»

Il papa Clemente XIV nel 1773 con il breve Dominus ac Redemptor risolse di sopprimere la Compagnia di Gesù.525354 «I beni dell'ordine furono incamerati e destinati, in gran parte, alla creazione di opere pubbliche gestite dallo Stato, che presero il posto delle scuole gestite dai Gesuiti.55». La compagnia tuttavia non scomparve del tutto in Europa, in quanto in Russia, Caterina la Grande, pur essendo molto sensibile allo spirito illuminista, rifiutò la delibazione papale e mantenne vivo l'ordine.

Le controversie con la Chiesa cattolica

L'Inquisizione

 Fu inoltre a seguito all'apertura del dibattito sulla religione e del suo ruolo nella società, che trovava un confronto con i pensatori giansenisti dell'epoca, che vennero scritti saggi critici sull'Inquisizione, come la "Storia generale dell'Inquisizione" di Pietro Tamburini56.

L'Inquisizione venne descritta come il luogo per eccellenza nel quale, tramite ripetuti crimini e torture, si esprimeva l'autentica ortodossia cattolica, spesso peraltro resa un tutt'uno con quella protestante.57

Voltaire nel suo Dizionario filosofico introduce la voce "Inquisizione" scrivendo:

«L'Inquisizione è, come si sa, un'invenzione mirabile e autenticamente cristiana per rendere più potenti il papa e i monaci e per rendere ipocrita un intero regno»

 e, dopo una disamina della storia dell'inquisizione termina commentando le procedure del tribunale dell'inquisizione:

«Si è imprigionati dietro la semplice denuncia delle persone più scellerate; un figlio può denunciare il padre, una donna il marito; non si è mai messi a confronto con i propri accusatori, i beni vengono confiscati a favore dei giudici: così almeno si è comportata l'Inquisizione fino ai giorni nostri. V'è in ciò qualcosa di divino, perché è incomprensibile che gli uomini abbiano sopportato con tanta pazienza questo giogo.58»

Secondo due storici revisionisti Edward Peters (1988)59 e Henry Kamen (1997)60 queste analisi, avrebbero operato uno stravolgimento dei dati storici sull'Inquisizione, distorsione che chiamano leggenda nera dell'Inquisizione o del "secolo dell'intolleranza". Questa stortura storica sarebbe stata opera di ambienti protestanti e, a seguire, illuministi, a partire almeno dal XVI secolo, con l'obiettivo di screditare l'immagine sia della Chiesa cattolica, sia dell'Impero spagnolo.

Diffusione dell'Illuminismo



Per approfondire, vedi Dispotismo illuminato, Illuminismo in Inghilterra, Illuminismo italiano, Illuminismo in Polonia, Illuminismo in Spagna, Haskalah e Illuminismo in Germania.

 L'Illuminismo fu anche un movimento profondamente cosmopolita: pensatori di nazionalità diverse si sentirono accomunati da una profonda unità d’intenti, mantenendo stretti contatti epistolari fra loro. Furono illuministi Pietro Verri, Cesare Beccaria e Mario Pagano in Italia, Halle, Wolff, Lessing in Germania, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson nelle colonie americane.

Durante la prima metà del XVIII secolo, molti tra i principali esponenti dell'Illuminismo furono perseguitati per i loro scritti o furono messi a tacere dalla censura governativa e dagli attacchi della Chiesa, ma negli ultimi decenni del secolo, il movimento si affermò in Europa ed ispirò la rivoluzione americana e successivamente quella francese.

Il successo delle nuove idee, sorretto dalla pubblicazione di riviste e libri e da nuovi esperimenti scientifici inaugurò una moda diffusa persino tra i nobili e il clero. Alcuni sovrani europei adottarono le idee e il linguaggio dell'Illuminismo. Gli illuministi, attratti dal concetto di filosofo-re che illumina il popolo dall'alto, guardarono con favore alla politica dei cosiddetti despoti illuminati, come Federico II di Prussia, Caterina II di Russia e Giuseppe II d'Austria.
 La Rivoluzione francese, specie nel periodo compreso tra il 1792 e il 1794, espressione dell'ala più rivoluzionaria dell'Illuminismo, che è stato definito come "radicale"61 pose fine alla diffusione pacifica, ma talvolta anche solo elitaria, dell’Illuminismo e, per i suoi episodi più sanguinosi, viene citata come motivo per esprimere una valutazione negativa sull'Illuminismo.

Letteratura critica

 Nell'800 l'illuminismo fu giudicato come un movimento di pensiero che aveva rivoluzionato il mondo: Hegel e Marx, pur avanzando critiche, considerano il pensiero illuminista come una conquista definitiva dell'umanità.

Hegel contesta però all'illuminismo il fatto di non aver colto il vero senso della storia dove veniva fatta agire una ragione astratta e non la realtà dello Spirito assoluto.

Marx esalta la critica illuminista della religione ma ne coglie i limiti legati alla classe borghese che l'ha espresso: esso infatti non ha colto i fondamenti economici del fatto storico.

Accese critiche vengono rivolte all'Illuminismo nel periodo della Restaurazione con autori come De Bonald e De Maistre che negano che l'essenza dell'uomo sia la ragione: vale invece per determinare l'uomo una conoscenza religiosa. Infatti la critica individualistica della ragione che pretende di capire la realtà sulla base di principi immanenti non è altro che l'eterna presunzione dell'umanità: peccato di orgoglio che Dio può punire come ha fatto con il periodo del Terrore in Francia.62

Lo storicismo tedesco giudica positivamente la concezione illuminista della storia63 e così anche l'illuminismo in genere come «una nuova visione del mondo».

Nel '900 Croce riprende l'interpretazione hegeliana dell'Illuminismo riconsiderandola nell'ambito del neoidealismo italiano64 mentre la scuola di Francoforte con Max Horkheimer, risentendo della tragica esperienza della seconda guerra mondiale, ritiene che la portata rivoluzionaria dell'illuminismo sia fallita nel momento in cui l'uomo, che aveva imparato a padroneggiare il mondo con la sua ragione, ne sia stato poi dominato nel senso che la ragione soggettiva operava ormai senza chiedersi a quali fini si indirizzava limitandosi a trovare solo i mezzi più adatti per soddisfare quegli obiettivi che la società nel suo complesso aveva già indicato.6566

Sulla linea dell'interpretazione marxista Lucien Goldmann rileva i limiti della concezione illuminista della storia ma esalta la funzione critica della ragione alla quale occorre rifarsi per una critica rivoluzionaria della società contemporanea.67

La scuola neo-kantiana di Marburgo evidenzia la positività della filosofia illuminista della conoscenza che scopre lo strumento del tutto nuovo della funzione critica della ragione nell'interpretazione dell'esperienza.68

Paul Hazard mette in luce nelle sue opere, attraverso l'esame di diversi aspetti, da quello filosofico a quello letterario e culturale, il grande merito dell'illuminismo nell'aver messo in crisi il vecchio mondo; d'altra parte sono da ascrivere all'illuminismo le contraddizioni, ereditate dall'età successiva, insite nei concetti di natura e di progresso.69

Un aspetto particolare dell'illuminismo è trattato da Reinhart Koselleck che descrive la nascita di questo movimento nell'ambito della situazione politica europea con una speciale attenzione alla Massoneria.70

Nell'ambito della letteratura critica cattolica sull'Illuminismo, sviluppatasi nella seconda metà del secolo XX, si sostiene come l'Illuminismo fosse caratterizzato dall'esaltazione di idee e principi (quali l'uguaglianza, la libertà, la fraternità) che sarebbero già stati storicamente proposti in Europa dal Cristianesimo e successivamente ripresi dagli illuministi e ripresentati avulsi dalla loro origine religiosa, se non addirittura in funzione anticristiana.

Joseph Ratzinger, futuro pontefice della Chiesa cattolica, scrive in proposito:



«Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in quell’Illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene.... In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede.



Ha sempre definito gli uomini,... creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio,... la stessa dignità.
 In questo senso l’Illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato.



[...] È stato ed è merito dell’Illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce.71»



Secondo lo storico cattolico del Medioevo Franco Cardini:

«Gli intellettuali dell'Enciclopedia, che già avevano avviato la demonizzazione delle Crociate, della civiltà medievale e che stavano gettando cumuli di calunnie sulla conquista delle Americhe da parte delle potenze cattoliche di Spagna e Portogallo, non si lasciarono sfuggire le opportunità che la vicenda legata a Galileo Galilei offriva in termini di polemica anticattolica: e quello che era, e poteva restare, un caso umano, ancorché doloroso e drammatico, fu trasformato in un caso - il caso Galileo appunto -, esemplare, nell'intenzione dei suoi formulatori, di una costitutiva inconciliabilità tra fede e ragione, tra religione e scienza, tra dogma e libertà di ricerca.72»

La visione della Chiesa e della stessa storia del cristianesimo in generale presentate dagli illuministi come un'epoca buia e irta di superstizioni sono state variamente contestate dalla letteratura critica d'ispirazione religiosa.737475

Si è anche sostenuto, in particolare da parte del filosofo Friedrich von Hayek, che diversi furono gli aspetti e le eredità dell'Illuminismo, e cioè che andrebbero distinte delle forme di Illuminismo autenticamente laiche e liberali, ispirate alla scuola anglo-sassone e kantiana, e altre invece di stampo totalitario e giacobino, di ascendenza francese.76

Quale sia oggi l'eredità dell'illuminismo percepibile nella società del XXI secolo è il tema trattato da Eugenio Scalfari nell'opera Attualità dell'illuminismo (ed. Laterza, 2001)77, una raccolta di tredici interventi tra i quali quelli di Umberto Eco, Umberto Galimberti, Norberto Bobbio, Lucio Villari e Gianni Vattimo che si possono riassumere nella considerazione che «l'illuminismo in quanto "sistema culturale" ha prodotto una cesura nella storia dell'Occidente cristiano, un taglio netto che ha determinato epocali cambiamenti materiali e di mentalità...ma esso ha anche evocato spettri e alimentato illusioni, suscitato conflitti e inasprito contrasti, non da ultimo proprio perché con l'affermazione dell'illuminismo si è imposto definitivamente il processo di secolarizzazione sociopolitica e di laicizzazione culturale della società europea»78 Nell'età contemporanea valgono quindi ancora

«Il tentativo di Montesquieu di difendere la libertà contro le incursioni del dispotismo, la campagna di Voltaire contro la perversione della giustizia, il sostegno di Rousseau per i diritti dei diseredati, il dubitare di ogni autorità di Diderot inclusa quella stessa della ragione: queste le armi lasciate dagli intellettuali del XVIII secolo ai loro epigoni di duecento anni dopo.79»

Nella seconda metà del XX secolo, a livello accademico, in Italia si è assistito allo sviluppo di una corrente filosofica denominata "neo-illuminismo", i cui massimi rappresentanti furono Nicola Abbagnano e Ludovico Geymonat.

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Idealismo

L'idealismo in filosofia è una visione del mondo che riconduce totalmente l'essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di un'attività interna al soggetto.

Nell'idealismo è generalmente implicita una concezione etica fortemente rigorosa, come ad esempio nel pensiero di Fichte che è incentrato sul dovere morale dell'uomo di ricondurre il mondo al principio ideale da cui esso ha origine.

In un senso più ampio, il termine abbraccia diversi sistemi filosofici, come il platonismo, che privilegiano la dimensione ideale rispetto a quella materiale, affermando così che l'unico vero carattere della realtà sia di ordine spirituale.

L'idealismo nella teoria della conoscenza

 Esistono varie accezioni del termine idealismo, la più diffusa è quella che di fatto equipara la vita a un sogno,1 anche se questa affermazione non va intesa in modo riduttivo. L'idealismo, infatti, si pone in antitesi radicale rispetto al senso comune, che non ci permetterebbe di accorgerci di vivere in un mondo di finzioni; paradossalmente, quindi, proprio il senso comune sarebbe il vero "dormiente", per la sua illusione circa l'esistenza di un mondo reale al di fuori di noi.

«Per il punto di vista empirico delle altre scienze è convenientissimo assumere il mondo oggettivo come semplicemente esistente: non così per quello della filosofia, che come tale deve risalire ai principi e alle origini. Solo la coscienza è data immediatamente, perciò il fondamento della filosofia è limitato ai fatti della coscienza: ossia essa è essenzialmente idealistica. Il realismo, che trova credito presso l'intelletto incolto, perché si dà l'aria di essere aderente ai fatti, prende addirittura come punto di partenza un'ipotesi arbitraria ed è perciò un edificio di vento campato in aria, perché sorvola o rinnega il primissimo fatto: che, cioè, tutto ciò che noi conosciamo si trova nella coscienza»

(Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 12)

Rapporti con altri sistemi di pensiero

 Nel fare dell'Idea, cioè del pensiero, o del Soggetto, il principio primo da cui nasce e si deduce la realtà concreta (l'essere o l'oggetto), l'idealismo viene contrapposto in particolare:

    •     al dogmatismo, secondo cui, al contrario dell'idealismo, il soggetto trae la propria esistenza dall'oggetto e non viceversa. Si tratta, comunque, di due prospettive in fondo complementari, basate su una stessa unità immediata di soggetto e oggetto.3;

    •     al realismo, secondo cui la realtà esiste indipendentemente dal soggetto. Per gli idealisti, questa concezione sarebbe ferma a uno stadio di inconsapevolezza, incapace di riconoscere che la realtà è una produzione della mente umana. Alcuni idealisti, ad ogni modo, non vollero distruggere del tutto l'impianto scientifico-ontologico del realismo.4;

    •     al materialismo, al meccanicismo, e a tutte quelle teorie che si basano su un approccio riduzionistico o utilitaristico alla realtà; ad essi l'idealismo contrappone la dimensione inconscia e interiore dell'individuo, esaltando il sogno, la fantasia, l'immaginazione, il sentimento morale ed artistico come le vie maestre in grado di condurre alla verità.

Occorre comunque tener presente che l'idealismo, per la varietà degli autori a cui può essere ricondotto, confina con le più diverse tradizioni di pensiero. Vi è chi, come Hans Georg Gadamer, ritiene che l'idealismo coincida di fatto col realismo medievale, per l'"anteriorità" attribuita ai concetti rispetto alla realtà.5 Si possono poi trovare affinità anche col razionalismo di Cartesio, che confida nella capacità della ragione di raggiungere la res a prescindere dai sensi, anche se va fatta in proposito una distinzione radicale, dato che Cartesio era comunque un realista. In secondo luogo, il problema cui intendeva rispondere era diverso da quello posto dall'idealismo: egli cercava una risposta circa lo strumento della conoscenza, l’idealismo invece circa l’oggetto di tale conoscenza.

C'è poi il caso di un idealismo empirista, facente capo a George Berkeley, che potrebbe essere considerato uno degli idealisti più radicali: il suo empirismo si contrapponeva alla concezione razionalista che le idee della ragione avessero un fondamento nella realtà oggettiva.

Schema sintetico delle principali tendenze epistemologiche di fronte al quesito sulla conoscenza

Diverse accezioni del termine

La parola idealismo venne introdotta nella terminologia filosofica alla metà del Seicento, in particolare in riferimento a Platone e alla sua "teoria delle idee".

Nel corso dei secoli, tuttavia, a questa accezione limitata alla filosofia greca classica se ne aggiunsero altre, di natura diversa.

Fino ad oggi sono prevalsi tre significati principali del termine, che si riferiscono, a seconda dei casi:

      1.       all'idealismo platonico e neoplatonico, spesso in contrapposizione al realismo tomista, del quale fu un concorrente in ambito scolastico; l'idealismo platonico permeò di sé il Medioevo e in modo particolare la filosofia rinascimentale;

      2.       all'idealismo gnoseologico: concezione per cui oggetto della conoscenza non è la realtà, bensì l'idea o la rappresentazione fenomenica (se ne rintracciano riferimenti in molti filosofi, da Cartesio a Berkeley a Kant);

      3.       all'idealismo assoluto o romantico: la corrente filosofica post-kantiana, nata in Germania nel periodo romantico con Fichte e Schelling per poi diffondersi in tutta Europa, la cui idea fondamentale è riassumibile nell'assunto per cui l'Io o lo Spirito è il principio unico di tutto, che genera il mondo in uno stato di estasi più o meno onirico. È l'epoca dei grandi ideali romantici, caratterizzati dalla sete dell'Assoluto, della libertà, e del bello, che trova in Kant un precursore.6

Vi è infine il neoidealismo, derivante da quest'ultima accezione, per la quale vengono definiti "idealisti" anche alcuni filosofi del Novecento, che trassero ispirazione, in forma più o meno accentuata, dall'idealismo romantico (in particolare dal pensiero hegeliano). Fra questi si suole includere gli italiani Benedetto Croce e Giovanni Gentile, il quale reinterpreta l'idealismo tedesco in un'ottica attualista. 7

Idealismo platonico

 La teoria di Platone è stata a volte definita idealismo, ma in un'accezione diversa dagli esiti a cui è giunto l'idealismo moderno che è incentrato principalmente sul soggetto. Le idee di Platone infatti non sono contenute solo nella mente, ma sono forme superiori, che possiedono una duplice valenza, gnoseologica e ontologica: riprendendo Parmenide, che già aveva equiparato essere e pensiero8, le idee di Platone non solo rendono conoscibile il mondo, ma gli consentono anche di esistere. Soltanto nelle idee però risiede la vera realtà, a differenza degli oggetti che l'uomo conosce nella vita di tutti i giorni, i quali non sono che pure ombre di quelle forme supreme.9 Risale quindi a Platone la concezione che fa del mondo fenomenico un'entità illusoria.10

Con Plotino e il neoplatonismo si verifica un'accentuazione del carattere mistico delle idee platoniche: al di sopra di esse Plotino colloca l'Uno assoluto, che è superiore persino all'Essere. Ciò significa che l'Uno non è una semplice realtà statica, ma è pura attività creatrice, perenne atto di pensiero che produce la realtà ontologica come risultato della propria estasi contemplativa. Si tratta in effetti di una dottrina che si avvicina a quella orientale del Tao, e, in Occidente, agli esiti cui perverranno Meister Eckhart, Nicola Cusano, Spinoza (con la sua Natura Naturans) e lo stesso idealismo tedesco.11

In ambito cristiano è soprattutto Agostino d'Ippona ad appropriarsi dell'idealismo neoplatonico, sostenendo che la Verità dimora nell'interiorità dell'uomo. L'agostinismo dominerà poi il Medioevo fin quando nel Duecento entrerà in attrito col tomismo aristotelico, maggiormente ancorato al realismo dogmatico e ad una metafisica della sostanza. Nell'ambito della disputa sugli universali esso prende comunque posizione contro il nominalismo, ritenendo gli universali ante rem.12
 L'idealismo neoplatonico gode quindi di nuova fioritura con l'avvento della filosofia rinascimentale, grazie a pensatori come Marsilio Ficino, Giordano Bruno13, e Tommaso Campanella (secondo cui l'autocoscienza è condizione dell'essere).

Idealismo gnoseologico sei-settecentesco

 L'impostazione epistemologica idealista fu tipica del ciclo moderno del pensiero occidentale (quello che, secondo alcuni storici della filosofia come Gustavo Bontadini, perse progressivamente di vista il concetto greco classico di essere: è per questo motivo che oggi si tende ad evitare di parlare di idealismo a proposito della dottrina platonica delle Idee). Il ciclo moderno, invece, si presenta come un cammino verso l’idealismo assoluto: i passi sono legati tra loro, pur essendo diversi l'uno dall'altro.

Cartesio

René Descartes non era idealista: il suo intento è proprio quello di spiegare il legame tra res cogitans e res extensa, non di negare la seconda delle due.

Tuttavia, per il suo Cogito ergo sum Cartesio può essere considerato anticipatore dell'idealismo gnoseologico moderno. Per Cartesio, infatti, la conoscenza è un processo che avviene tutto all'interno della res cogitans, cioè il soggetto pensante che si contrappone alla res extensa, la realtà materiale. Cartesio non negò mai l'esistenza della res extensa, ma considerava tale esistenza "vera" solo nella misura in cui si giunge ad averne un'idea chiara e cosciente.

In questo senso, Cartesio gettò "germi di idealismo" in tutta la filosofia moderna:

    •     con il dubbio metodico, un dubbio assoluto che coinvolge tutta l’esistenza del mondo così come viene conosciuta dai sensi umani, viene incrinata la certezza che la conoscenza ci possa mettere davvero di fronte alla res.

    •     per Cartesio il cogito è la prima conoscenza, l’unica conoscenza umana sicura e immediatamente certa. È vero che anche il pensiero era inteso da Cartesio come una res, una sostanza nel senso metafisico del termine, ma il superamento di questa impostazione metafisica era estremamente facile, dato che sarebbe stato sufficiente far slittare il cogito cartesiano nella idea absoluta idealista.

    •     per Cartesio il conoscere stesso è ridotto alla stregua di "avere idee" (e il conoscere veritativo ad "avere idee innate).



Malebranche e Leibniz

 Lo sforzo dell’occasionalismo di Nicolas Malebranche andava ancora in senso realista: garantire la corrispondenza tra pensiero e "cose". Gli sforzi del dibattito occasionalista, tuttavia, erano anche la prova di un certo fallimento del tentativo di Cartesio.

Malebranche ipotizzava un intervento di Dio per garantire la corrispondenza tra pensiero e cose, e perciò il suo discorso appare teoreticamente molto debole.

Anche la dottrina dell'armonia prestabilita di Leibniz appare molto apparentata con l’occasionalismo, e se ne distingue soltanto per il fatto che l’intervento “risolutore” di Dio è concentrato all’inizio dell’esistenza del soggetto.

Leibniz criticava la metafisica di Cartesio, affermando che esistono anche livelli dell'essere di cui non si ha coscienza. Attribuendo capacità di pensiero alla materia stessa, la gnoseologia di Leibniz pervadeva la realtà di coscienza, anche nella sua dimensione ontologica (panpsichismo): veniva così riabilitato l'idealismo metafisico neoplatonico.

Berkeley

George Berkeley viene considerato il primo idealista in senso moderno. Secondo Berkely, tutta la realtà si riduce alle nostre idee, dato che esse est percipi ("essere è essere percepito", ossia esiste solo ciò che viene percepito). Fautore di un empirismo e un nominalismo radicali, Berkeley negò che vi siano essenze di cui non possiamo fare esperienza diretta; la materia stessa sarebbe comunque un'essenza percepibile.

In tal senso, Berkeley intende la percezione non come semplice sensazione corporea, ma come percezione "intellettuale", inviataci da Dio. Non esistono corpi, ma solo idee spirituali a cui noi, associandole tra loro, attribuiamo illusoriamente una natura corporea. Ad ogni modo, la radicalità dell'idealismo di Berkeley era incrinata dal fatto che il filosofo irlandese escludeva dalla categoria del "percepito" il soggetto umano conoscente (l’anima) e Dio, per i quali esse est percipere.

L'idealismo di Berkeley fu di matrice tipicamente gnoseologica perché egli slegava la conoscenza da ogni presunta sostanza materiale a noi esterna.

Kant

 Per Immanuel Kant, almeno dopo la “rivoluzione” del 1770 (quando egli discusse la sua dissertazione "Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova delucidatio", ottenne la cattedra di metafisica e abbandonò la composizione di trattati scientifici, in particolare relativi a questioni di fisica), si può forse già parlare di idealismo, forse meglio ancora di "idealismo trascendentale": l’oggetto della conoscenza è organizzato e reso conoscibile da criteri a priori, e si può ammettere l’esistenza delle cose in sé ma non dimostrandola con la ragione pura, bensì postulandola con la ragione pratica.

Secondo Kant, quindi, è il nostro stesso intelletto a determinare gli oggetti della conoscenza. Anche se non negava l'esistenza di una realtà indipendente dal modo in cui i nostri sensi la recepiscono, Kant venne accusato di chiudersi in un soggettivismo senza vie d'uscita. Le categorie trascendentali dell'intelletto, infatti, sono forme del pensiero, non dell'essere: non ci permettono di conoscere la realtà in sé (noumeno), ma soltanto come questa ci appare (fenomeno).

Idealismo assoluto



Per approfondire, vedi Idealismo tedesco.

 Una delle scuole idealiste più note è quella dell'idealismo tedesco romantico, che poneva come fondamento della filosofia l'identificazione tra il mondo reale, naturale e storico, e un principio infinito. Tutto è fenomeno, la realtà è solo ciò che il soggetto conoscente produce, e la res è soltanto uno dei modi in cui l’idea si struttura.

Nell'idealismo tedesco vengono normalmente raggruppati tre filosofi principali, che furono (in ordine cronologico) Fichte, Schelling e Hegel.

L'idealismo assoluto si sviluppò, in una stagione ancora dominata dal pensiero di Kant, attraverso una discussione del suo criticismo: gli idealisti, infatti, negavano l'esistenza stessa del noumeno (che era per Kant la realtà esterna al soggetto, situata al di là dei suoi limiti conoscitivi), ed affermavano l'esistenza del solo fenomeno (la realtà come noi la conosciamo), traendo la conseguenza che può esistere solamente ciò che si trova nella nostra coscienza. Questo primato conoscitivo della coscienza divenne così uno degli elementi più significativi dell'idealismo assoluto.

Il problema del noumeno kantiano era dovuto al fatto che, se si afferma che è inconoscibile, non vi è alcuna ragione logica per postularne l'esistenza. Ammettere l'esistenza della cosa in sé indipendentemente dal soggetto che la conosce, per esempio, era per Fichte una posizione dogmatica e irrazionale, che conduceva a un dualismo incoerente tra soggetto e oggetto, ovvero tra il noumeno e il cosiddetto io penso. Kant considerava l’io penso come il vertice della coscienza critica che era la condizione formale senza la quale noi non potremmo neanche pensare. Gli idealisti tedeschi diranno invece che l’io penso è l'origine trascendentale non solo della conoscenza ma anche dell'essere, sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista del contenuto. Il dualismo kantiano è superato dall'interazione di carattere pragmatico, artistico, creativo dell'uomo con il mondo, poiché entrambi appartengono allo stesso fondamento costitutivo.

Si possono distinguere due linee di pensiero nell'ambito dell'idealismo assoluto, che in ultima analisi hanno alla radice della loro distinzione due diverse interpretazioni di Kant:

    •     linea hegeliana (idealismo dialettico): il reale è ciò che l’idea dialetticamente si fa; la metafisica hegeliana abbraccia e spiega tutto il sapere umano, e quindi tutta la realtà;

    •     linea fichtiana (idealismo critico): la filosofia ha lo scopo di analizzare il soggetto conoscente, l'io penso, mentre è la scienza che ha il compito di studiare le “cose”, il cosiddetto “mondo”; la filosofia studia criticamente l’atto del pensare.



Fichte prima, e poi Schelling, fecero dell'Io il principio assoluto a cui ricondurre l'intera realtà, che per la ragione può diventare così oggetto di scienza. Mentre però in costoro la ragione si limitava a riconoscere l'atto creativo con cui il soggetto pone l'oggetto, ma non a riprodurlo (che restava prerogativa di una suprema intuizione intellettuale), sarà invece con Hegel che la ragione stessa diventava creatrice, attribuendosi il diritto di stabilire cosa è reale e cosa non lo è.14 «Ciò che è reale è razionale» sarà la summa del pensiero hegeliano:15 una realtà esiste solo se soddisfa certi criteri di razionalità, rientrando nella triade dialettica di tesi-antitesi-sintesi tipico del procedimento a spirale con cui l'Idea giunge infine a identificarsi con l'Assoluto.

L’idealismo critico ebbe molto meno fortuna di quello di Hegel; eppure, mentre l'idea hegeliana è “finita” (è già tutta data, non ha più niente da dire: Hegel era convinto di essere l’ultimo filosofo), l'idealismo critico era più aperto, si pensava in costante evoluzione.

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    •     G. Cotroneo, Idealismo, in La Filosofia, diretta da Paolo Rossi, volume IV, Utet, Torino 1995

    •    Edmund Husserl, Fichte e l'ideale di umanità. Tre lezioni, a cura di F. Rocci, ETS, 2006 ISBN 88-467-1200-5

    •     Antonio Gargano, L' idealismo tedesco. Fichte, Schelling, Hegel, La Città del Sole, 1998

    •     G. Cotroneo, Itinerari dell'idealismo italiano, Giannini, 1989 ISBN 88-7431-159-1

    •     P. Di Giovanni, Idealismo e anti-idealismo nella filosofia italiana del Novecento, Franco Angeli Editore, Milano 2005 ISBN 88-464-6429-X

    •    Marcello Mustè, La filosofia dell'idealismo italiano, Carocci, 2008


Positivismo

«L'amore per principio, l'ordine per fondamento, il progresso per fine.»

(Motto del Positivismo, ideato da Auguste Comte nel 1852)

 Il Positivismo è un movimento filosofico e culturale, nato in Francia nella prima metà dell'800 e ispirato ad alcune idee guida fondamentali riferite in genere all'esaltazione del progresso scientifico. Questa corrente di pensiero, trainata dalle rivoluzioni industriali e dalla letteratura ad esso collegata1, si diffonde nella seconda metà del secolo a livello europeo e mondiale influenzando anche la nascita di movimenti letterari come il Verismo in Italia e il Naturalismo in Francia.

Henri de Saint-Simon introdusse per la prima volta il termine Positivismo

  Il Positivismo non si configura dunque come un pensiero filosofico organizzato in un sistema definito come quello che aveva caratterizzato la filosofia idealistica, ma piuttosto come un movimento per certi aspetti simile all'Illuminismo, di cui condivide la fiducia nella scienza e nel progresso scientifico-tecnologico, e per altri affine alla concezione romantica della storia che vede nella progressiva affermazione della ragione la base del progresso o evoluzione sociale.

Etimologia

 Il termine Positivismo deriva etimologicamente dal latino positum, participio passato neutro del verbo ponere tradotto come ciò che è posto, fondato, che ha le sue basi nella realtà dei fatti concreti.

Positivo vorrà dire allora:

    •     ciò che è reale, concreto, sperimentale, contrapponendosi a ciò che è astratto.

    •     ciò che è utile, efficace, produttivo in opposizione a ciò che è inutile.

Contesto storico-sociale

 Nel Positivismo si possono distinguere due fasi:  

    •     nella prima metà del XIX secolo, ad iniziare dal periodo della Restaurazione il Positivismo si presenta come il progetto di superamento della crisi politica e culturale seguita all'Illuminismo e alla Rivoluzione francese, tramite un programma politico antiliberale2

In questo periodo il Positivismo è messo in ombra dalla preminente cultura romantica e dalla filosofia dell'Idealismo, ma è proprio in questi anni che nasce il termine Positivismo ad opera di Henri de Saint-Simon, che lo usò per la prima volta nell'opera Catechismo degli industriali (1823-1824) e che venne diffuso da Auguste Comte quando nel 1830 pubblicò il primo volume del Corso di filosofia positiva.

    •     Nella seconda metà dell'Ottocento il Positivismo rappresenta l'elaborazione ideologica di una borghesia industriale e progressista per cui, in particolare in Inghilterra, ma anche nel resto d'Europa, trova corrispondenze con l'affermazione del pensiero economico del liberismo.3

È in questa fase che il Positivismo, messa da parte la filosofia idealistica considerata come un'inutile astrazione metafisica, si caratterizza per la fiducia nel progresso scientifico e per il tentativo di applicare il metodo scientifico a tutte le sfere della conoscenza e della vita umana.

Il Positivismo diviene la cultura predominante della classe borghese. Secondo Ludovico Geymonat infatti, sebbene non possa stabilirsi una rigida identità tra Positivismo e borghesia, in quanto essa ha incoraggiato il Positivismo ma per certi aspetti lo ha anche contrastato, non vi è dubbio che il Positivismo della seconda metà dell' 800, ha rappresentato anche e in modo rilevante gli ideali borghesi quali l'ottimismo nei confronti della moderna società industriale4 e il riformismo politico in opposizione al conservatorismo e nello stesso tempo al rivoluzionarismo marxista fortemente critico nei confronti del moderno sistema industriale che non teneva conto dei "costi umani" collegati allo sviluppo economico. Non a caso il Positivismo si diffonde soprattutto nei paesi più progrediti industrialmente mentre è limitatamente presente in quelli meno sviluppati come l'Italia.5

Il Positivismo si sviluppa in un periodo in cui l'Europa, dopo la guerra di Crimea e quella Franco-prussiana sta attraversando un periodo di pace che favorisce la borghesia nell'espansione coloniale in Africa e in Asia e nella contemporanea evoluzione del capitalismo industriale in un fenomeno economico internazionale.

C'è una profonda trasformazione anche nei modi di vita della città, dove si verificano, in pochi anni, cambiamenti più incisivi di quelli avvenuti nei secoli precedenti con le innovazioni tecnologiche dell'uso della macchina a vapore, dell'elettricità, delle ferrovie che mutano profondamente non solo le dimensioni spazio-temporali ma anche quelle intellettuali. Tutto questo porterà nei primi anni del '900 a quella esaltazione delle "magnifiche sorti e progressive"6 raggiunte dall'Europa della Belle epoque che si avvia al crollo delle illusioni nel baratro della Prima guerra mondiale.

Positivismo e Illuminismo: affinità e differenze

Tempio positivista a Porto Alegre (Brasile) con iscritti sul frontone gli ideali del Positivismo: «O amor por principio, e a ordem por base, o progresso por fin» traduzione del motto di Comte: «L'Amour pour principe et l'Ordre pour base; le Progrès pour but.»7 («L'amore per principio, l'ordine per fondamento, il progresso per fine.»). Il motto ordem e progresso si ritrova anche nella bandiera brasiliana8.

 Per certi aspetti il Positivismo appare una originale riproposta del programma illuministico con cui presenta delle affinità quali:

    •     la fiducia nella ragione e nel sapere al servizio dell'uomo come mezzi per conseguire la "pubblica felicità"9, obiettivo questo fallito dagli illuministi per cui i positivisti si propongono di portare ordine, tramite il metodo scientifico applicato in ogni campo delle conoscenze umane, per una riorganizzazione globale della società resa caotica dalle rivoluzioni che l'hanno sconvolta.  

    •     esaltazione della scienza vista in contrapposizione alla metafisica: il metodo scientifico avrebbe dovuto sostituire la metafisica nella storia del pensiero10.

    •     una visione laica e tutta immanente della vita dell'uomo in contrasto con i pensatori cattolici.

Nello stesso tempo il Positivismo si caratterizza per incisive differenze con l'Illuminismo:

    •     mentre gli illuministi combattevano contro la tradizione metafisica e religiosa e i privilegi dell'aristocrazia in una visione del mondo ancora dominante, i positivisti, che pure si oppongono a quella tradizione che ostacola la razionalizzazione della cultura e della società, agiscono contro posizioni anacronistiche e in nome di un atteggiamento culturale che è già consolidato in una società borghese stabilmente al potere con una mentalità scientifica e laica ormai largamente condivisa.

    •     mentre il riformismo illuminista tendeva a tradursi in una rivoluzione, come fu poi quella francese, il riformismo positivista è antirivoluzionario e, pur contrastando la vecchia tradizione, è ostile alle nuove forze rivoluzionarie del proletariato e alla pretesa scientificità dell'ideologia socialista.

    •     mentre gli illuministi, come Kant, ancora si preoccupano di dare una giustificazione teorica del valore limitato di verità delle scienze, i positivisti la danno per scontata e puntano a una "visione scientifica globale del mondo" cadendo nella metafisica di un'interpretazione unica e totale della realtà.

    •     gli illuministi ricorrono alla scienza, pur con il suo limite, contro la metafisica e la religione, i positivisti rendono la scienza una metafisica di certezze assolute con la fondazione di una nuova religione scientifica11.

I vari aspetti del Positivismo

 Assumendo come spartiacque le teorie di Charles Darwin, secondo la tradizione, il Positivismo è stato diviso in due correnti fondamentali:

    •     Positivismo sociale, nella prima metà del XIX secolo, che ha come rappresentanti Saint-Simon, Auguste Comte e John Stuart Mill

    •     Positivismo evoluzionista con Herbert Spencer, il materialismo tedesco e Roberto Ardigò.

 Oggi si preferisce identificare i vari aspetti del Positivismo attraverso i contesti nazionali per cui si ha un Positivismo francese, inglese, tedesco e italiano.

I due criteri in realtà non sono divergenti ma si fondono tra loro poiché le varie identità nazionali del pensiero positivista costituiscono lo sfondo su cui si sviluppano, nella prima metà dell' '800, la concezione di una scienza come risanatrice dei mali sociali, la quale, nella seconda metà del secolo, dopo la formulazione della teoria dell'evoluzione di Darwin, viene estesa in maniera totalizzante a strumento di interpretazione della storia dell'intera umanità.

Positivismo e Romanticismo

Nicola Abbagnano ha definito il Positivismo "Romanticismo della scienza" poiché come i romantici nella lor brama del conseguimento dell'infinito davano alla poesia e alla filosofia valori assoluti così i positivisti vedono la stessa assolutezza nella scienza. I positivisti hanno un concetto della storia non diverso da quello dell'Idealismo romantico: la storia è progresso necessario e continuo in cui si vive attuando o manifestando l'Umanità nel suo sviluppo progressivo.12

La diffusione del Positivismo

Frontespizio della prima edizione del 1859 de L'origine delle specie di Charles Darwin

 Il Positivismo ebbe per le sue concezioni più importanti, una dimensione internazionale: la biologia darwiniana, si diffuse in Europa e in America settentrionale, e le nascenti scienze della sociologia, psicologia, antropologia diedero avvio in Occidente a nuovi settori di studio dell'uomo; ma anche per gli aspetti minori e negativi, come la fiducia acritica e superficiale nella scienza, il pensiero positivista ebbe vasta risonanza sino a divenire un fenomeno di costume per la borghesia colta occidentale.

Come osserva Nicola Abbagnano: «Nonostante questa profonda incidenza culturale, il Positivismo...ha finito per sembrare un nuovo dogmatismo, avente la pretesa di racchiudere l'uomo negli schemi riduttivi della scienza. Anzi, il Positivismo... è apparso come una nuova metafisica della scienza...Tutto ciò spiega la massiccia "reazione antipositivistica" che ha caratterizzato la filosofia degli ultimi decenni dell'Ottocento e degli inizi del Novecento.» A questa reazione ha contribuito lo sviluppo stesso delle scienze avvenuto proprio in contrasto con «il quadro gnoseologico ed epistemologico del Positivismo»13

Il Positivismo s'innestò su tradizioni culturali e filosofiche nazionali profondamente differenti:

    •     in Francia riprese la tradizione razionalistica che va da Cartesio all'Illuminismo sensista ed assunse specialmente l'aspetto di filosofia sociale (Saint-Simon, Fourier, Proudhon, Comte, Émile Littré);

    •     in Inghilterra si inserisce nel filone empirista e utilitarista con Malthus, Ricardo, Bentham, James Mill, Stuart Mill;

    •     in Italia il Positivismo ebbe uno sviluppo minore e i campi in cui si applicò, come nella scuola e nell'analisi della criminalità (Cesare Lombroso), mostrano come ancora fossero incisivi i problemi di integrazione nazionale e sociale che l'Italia dovette affrontare dopo l'unificazione.

Tra i filosofi seguaci del Positivismo in Italia ci furono Carlo Cattaneo e Roberto Ardigò. Il Positivismo ebbe anche influenza sulle concezioni pedagogiche di Aristide Gabelli ed in seguito di Maria Montessori.

    •     in Germania il Positivismo assume carattere fortemente materialistico e specialistico come reazione alle tendenze idealistiche e totalizzanti della filosofia accademica.

L'eredità del Positivismo

 Il Positivismo influì fortemente nella cultura ottocentesca sino a divenire una "moda culturale" tanto che si può parlare di una "civiltà positivistica" che ha improntato di sé correnti culturali come il realismo, il verismo, la nuova pedagogia incentrata su una scuola "laica" e su una didattica "scientifica".

Nonostante i suoi aspetti critici il Positivismo ha lasciato in eredità alla cultura moderna la considerazione dell'importanza per la conoscenza e per la trasformazione della società della ricerca scientifica. Dobbiamo inoltre al Positivismo la codificazione delle "scienze umane" della sociologia e della psicologia.

Il Positivismo ha demolito la filosofia intesa come forma di conoscenza metafisica che man a mano che si realizza il progresso scientifico, non potendosi basare su i fatti concreti, perde ogni capacità di indagare e risolvere i problemi filosofici. Il Positivismo ne indicò un nuovo ruolo consistente non più nella presunzione di conoscere i fenomeni naturali, umani e sociali ma quello di definizione e unificazione dei principi generali del metodo scientifico e dei risultati delle singole scienze in una visione generale dell'uomo.14 Dal Positivismo la filosofia è stata obbligata a riconsiderare criticamente se stessa e a meglio definire il suo rapporto con le scienze.

Dal Positivismo si origina inoltre nel Novecento il fondamento del neopositivismo che ha elaborato un metodo di ricerca che soddisfi il rigore proprio della scienza eliminando equivoci e incomprensioni derivate dall'uso distorto del linguaggio.

Bibliografia

    •     L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico-scientifico Editore: Garzanti Libri 1978, Collana: Collezione maggiore ISBN 88-11-25036-6

    •     A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di Franco Ferrarotti, Utet, Torino 1967, 2 voll.

    •     P. Rossi, Positivismo e società industriale (antologia), Loescher, Torino 1973

    •     L. Geymonat, Il problema della conoscenza nel positivismo, Bocca, Torino 1931

    •     N. Urbinati, Le civili libertà. Positivismo e liberalismo nella Italia unita, Marsilio (collana Saggi. Critica), 1991 ISBN 978-88-317-5435-4

    •     L. Kolakowski, la filosofia del Positivismo, Laterza, Bari 1974




Filosofia contemporanea

La filosofia contemporanea trova la sua delimitazione iniziale, secondo la comune storiografia filosofica, nel periodo in cui i grandi ideali e sistemi di pensiero ottocenteschi declinano di fronte alle tragedie e alle disillusioni tipiche del Novecento.

Filosofia del XIX secolo

 Apertasi con la grandiosa stagione del Romanticismo, la filosofia assiste alla riformulazione del criticismo kantiano in chiave idealistica. Fichte prima, e poi Schelling, fanno dell'Io il principio assoluto a cui ricondurre l'intera realtà, che per la ragione può diventare così oggetto di scienza. Mentre però in costoro la ragione si limitava a riconoscere, ma non a riprodurre, l'atto creativo con cui il soggetto poneva l'oggetto (che restava prerogativa di una suprema intuizione intellettuale), sarà invece con Hegel che la ragione stessa diventa creatrice, attribuendosi il diritto di stabilire cosa è reale e cosa non lo è. «Ciò che è reale è razionale» sarà la summa del pensiero hegeliano:1 vale a dire che una realtà esiste solo se soddisfa certi criteri di razionalità, rientrando nella triade dialettica di tesi-antitesi-sintesi tipico del procedimento a spirale con cui l'Idea giunge a identificarsi con l'Assoluto.

Dopo la possente sistemazione onnicomprensiva di Hegel, la filosofia ha visto la reazione a questo panlogismo nel duplice volto di uno spiccato materialismo (Feuerbach, Marx) e di un richiamo all'irriducibiltà del singolo uomo e all'importanza assoluta della sua vita come essere umano e non come semplice fase di un processo dialettico (Schopenhauer, Kierkegaard, Emerson). Mentre poi il Positivismo (Comte, Mill, Ardigò), in piena età della Seconda rivoluzione industriale, esaltava la ricerca scientifica e il progresso tecnico e tecnologico, la voce isolata di F. Nietzsche preconizzava il declino dell'Occidente e la nascita di una umanità nuova, dando avvio ad un indirizzo nichilistico che nel Novecento verrà riproposto.  

Dopo il declino dell'idealismo in Germania si svilupparono due movimenti simili, ma opposti: il neokantismo che voleva tornare a Kant e una corrente più empirista e scientifica che negando l'idealismo si appellava alla ricerca sperimentale come nuovo modello d'indagine. Questo secondo movimento fu anche influenzato da una rinascita aristotelica al seguito del lavoro di Friedrich Adolf Trendelenburg, il quale influenzò Franz Brentano (La Psicologia dal punto di vista Empirico), Ernst Laas (Idealismo e Positivismo) e Friedrich Paulsen (varie opere su Kant). Aristotele non veniva più fatto solamente oggetto di studi storici e filologici, ma discusso anche in maniera sistematica. Trendelenburg, grande critico di Hegel, aveva non solo edito opere di Aristotele, ma aveva anche sviluppato una propria posizione, basata su Aristotele.2

Filosofia del XX secolo

In Europa

 Agli inizi del Novecento sulle cattedre di filosofia venivano nominati anche gli esponenti della nuova scienza sperimentale della psicologia. Dopo il lavoro di Fechner quello fondamentale per le scuole sociologiche di Max Weber e Wundt, furono proprio vari studenti della Scuola di Brentano a fondare i primi istituti di ricerca sperimentale in psicologia, mentre tenevano cattedre di filosofia. Carl Stumpf e Alexius Meinong fondarono rispettivamente la Scuola di Berlino e la Scuola di Graz, portando allo sviluppo della Psicologia della Gestalt.  

Edmund Husserl, matematico e studente di Brentano, proprio al volgere del secolo pose le fondamenta di una delle correnti filosofiche più influenti del XX secolo: la fenomenologia. Varie tendenze menzionate sopra, si ritrovano nello sviluppo della fenomenologia, ad esempio il rapporto problematico tra filosofia e psicologia nell'indagine della mente e della coscienza e il "ritorno a Kant", riformulando la fenomenologia dal 1913 in poi esplicitamente come disciplina trascendentale. La fenomenologia esercitò un notevole influsso sia sulla filosofia continentale (e.g. l'esistenzialismo) che quella analitica (e.g. Gilbert Ryle, Wilfrid Sellars, Dagfinn Føllesdal, Daniel Dennett) e continua a contribuire e informare le discussioni su temi quali intenzionalità e coscienza, ontologia e mereologia, atti linguistici e grammatiche formali.

Il Novecento vede un notevole fiorire di idee e proposte filosofiche, che vanno dal "ritorno a Kant" della Scuola di Marburgo e della Scuola del Baden all'analisi della società moderna della Scuola di Francoforte allo Spiritualismo di Bergson, dal Neotomismo (o Neoscolastica) di Maritain, alla poderosa riflessione dell'Esistenzialismo che riprenderà tematiche che si ritrovavano già in Kierkegaard di Martin Heidegger, Karl Jaspers, Sartre, Camus all'ermeneutica di Hans Georg Gadamer. In Italia lo storicismo di Benedetto Croce e l'idealismo di Giovanni Gentile. Nei paesi di lingua tedesca l'Epistemologia del Wiener Kreis e di Karl Popper. Sempre su tematiche che prendono in considerazione i legami fra scienza e filosofia anche Bachelard, Kuhn e Feyerabend. La filosofia mistica di Pavel Aleksandrovič Florenskij3, che nell'ambito religioso della Russia subirà le ripercussioni del pensiero di Nietzsche in modo decisamente originale. Inoltre si deve segnalare la riflessione sulla teologia svolta da autori quali Barth, Bonhöffer, Tillich.

Nei paesi di lingua inglese

 Contemporaneamente agli indirizzi sopra esposti si assiste alla nascita - dovuta all'opera di filosofi come Hermann Lotze, Bernhard Bolzano, Gottlob Frege - della filosofia analitica con esponenti quali Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein che amplierà la riflessione alla filosofia del linguaggio.  In Gran Bretagna e negli Stati Uniti iniziava la rinascita dell'interesse per Hegel - neoidealismo - con rappresentanti principali l'inglese Francis Herbert Bradley e lo statunitense Josiah Royce. Contemporaneamente a questa rinascita il pensiero autoctono si sviluppa negli Stati Uniti con autori quali Charles Sanders Peirce fondatore del pragmatismo e attento alla dimensione logica nella filosofia, William James (fratello dello scrittore Henry) continuatore dell'opera di Peirce e che definì la propria speculazione come pragmatismo indirizzandola verso la psicologia e infine John Dewey che si orientò - pur essendo legato strettamente a Peirce - verso la pedagogia.

Bibliografia

    •     Tiziana Andina, Filosofia contemporanea. Uno sguardo globale, Carocci, 2013 ISBN  978-88-430-6704-6

    •     Kwame Anthony Appiah, "Quell'x tale che...", introduzione alla filosofia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009 ISBN 978-88-420-8755-7

    •     Romina Bicicchi, La Filosofia contemporanea, Liberamente, 2009 ISBN 88-6311-076-X

    •     Maurizio Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, 2009 ISBN 88-452-1409-5

    •     A. Massobrio, N. Scialfa, Storia della filosofia contemporanea 800-900. Una nuova proposta di studio, Nuove Edizioni del Giglio, 1996 ISBN 88-86082-02-9

    •     F. Polidori, F. Sossi, A. Rovatti, Dizionario dei filosofi contemporanei, Bompiani, 1990 ISBN 88-452-1641-1

    •     P. Aldo Rovatti, Introduzione alla filosofia contemporanea, Bompiani, 1996 ISBN 88-452-2820-7

    •     Fernando Savater, I dieci comandamenti nel XXI secolo, Mondadori, 2006 ISBN 88-04-55581-5

    •     Teresa Serra, A partire da Hegel. Momenti e figure dell'idealismo italiano, CEDAM, 2009 ISBN 88-13-29184-1

    •     E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, BUR Rizzoli, 2004 ISBN 88-17-00170-8



Neokantismo

Il Neokantismo è una corrente filosofica che si sviluppò nella seconda metà del XIX secolo in Germania con l'obiettivo di recuperare, dall'insegnamento kantiano, l'idea che la filosofia debba essere innanzitutto riflessione critica sulle condizioni che rendono valida l'attività conoscitiva dell'uomo. Se come attività conoscitiva si intese in particolare la scienza, il discorso neocriticista guardò anche ad altri campi di attività, dalla morale all'estetica e alla pedagogia.

In linea con i principi del criticismo i neokantiani rifiutano ogni tipo di metafisica, e se questo li contrappone polemicamente alle contemporanee correnti neoidealiste e spiritualiste, li allontana allo stesso tempo dallo scientismo del positivismo che tende ad una visione assoluta e misticheggiante della scienza.

Le due massime espressioni del neocriticismo tedesco furono incarnate dalla Scuola di Baden e dalla Scuola di Marburgo, che influenzarono buona parte della filosofia tedesca successiva (storicismo, fenomenologia); nonostante questa corrente filosofica si sia diffusa in tutti i paesi europei, altre manifestazioni degne di nota si ebbero solo in Francia (Charles Renouvier).

Origini

 La riscoperta in chiave moderna di Kant che si verificò in Germania avvenne ad opera dei filosofi Friedrich Albert Lange, Otto Liebmann, Eduard Zeller e Hermann von Helmholtz.  

Lange nella sua "Geschichte des Materialismus" ("Storia del Materialismo", 1866) criticò fortemente il materialismo stesso. Liebmann, nella sua opera "Kant und die Epigonen" ("Kant e i suoi epigoni", 1865), aveva refutato in quattro sezioni l'idealismo tedesco (Fichte, Schelling, Hegel), il realismo (Herbart), l'empirismo (Fries) e la filosofia trascendentale (Schopenhauer) e posto alla fine di ogni capitolo il grido di battaglia: "Auf Kant muß zurückgegangen werden!" ("Bisogna tornare a Kant!"). Successivamente Liebmann sviluppò egli stesso le linee principali di questo ritorno a Kant (Analisi della realtà (1876), Pensiero e fatti (1882-1904)), da lui inteso come la fondazione di una metafisica critica che tenesse sempre conto dei principi e limiti dell'intelletto come dati originari.

Le scuole del movimento

    •     La Scuola di Marburgo

    •    Hermann Cohen

    •    Paul Natorp

    •    Nicolai Hartmann

    •    Ernst Cassirer

    •    

    •     La Scuola di Baden

    •    Wilhelm Windelband

    •    Heinrich Rickert

    •    Emil Lask

    •    

Esponenti

    •    Eduard Zeller, fondatore della gnoseologia come disciplina

    •    Otto Liebmann, bisogna tornare a Kant "Zurück zu Kant!"

    •    Friedrich Albert Lange, scrisse una storiografia critica del materialismo

    •    Hermann Cohen, non concetti ma giudizi sono il fondamento del pensiero umano. Fondatore della scuola di Marburg

    •    Paul Natorp, si occupò soprattutto della logica delle scienze. Rifiuta l'esistenza della "cosa in sé" (Ding an sich) e delle intuizioni indipendenti dal intelletto

    •    Karl Vorländer, storico della filosofia e marxista. Biografo e editore di Kant

    •    Rudolf Stammler, filosofo del diritto

    •    Wilhelm Windelband, dottrina dei valori universali. Verità nel pensare, bontà nel volere, bellezza nel sentire. Capire Kant significa andare oltre

    •    Heinrich Rickert, filosofia dei valori. Scienza della cultura contro Scienza della Natura

    •    Emil Lask, teoria delle categoria e dei giudizi

    •    Bruno Bauch

    •    Jonas Cohn

    •    Robert Reiniger, problema psicofisico e filosofia dei valori

    •    Ernst Cassirer, storia dell'epistemologia. Filosofia delle forme simboliche

    •    Alois Riehl, criticismo per rendere attuale Kant

    •    Richard Hönigswald, il problema del "dato". Teoria generale del metodo

    •    Hans Vaihinger, "Philosophie des Als Ob". Fondatore della rivista "Kant-Studien"

    •    Georg Simmel, filosofia della vita (Lebensphilosophie)