Filosofia - da Wikipedia

« Chi pensa sia necessario filosofare deve filosofare e chi pensa non si debba filosofare deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloqui. »

(Aristotele, Protreptico o Esortazione alla filosofia)

La filosofia (dal greco φιλοσοφία, composto di φιλεῖν (philèin), "amare", e σοφία (sophìa), "sapienza", ossia "amore per la sapienza")2 è un campo di studi che si pone domande e riflette sul mondo e sull'uomo, indaga sul senso dell'essere e dell'esistenza umana, tenta di definire la natura e analizza le possibilità e i limiti della conoscenza.

Prima che un campo speculativo, la filosofia fu una disciplina che assunse anche i caratteri della conduzione del "modo di vita", ad esempio nell'applicazione concreta dei principi desunti attraverso la riflessione o pensiero. In questa forma, essa sorse nell'antica Grecia.3  A rendere complessa una definizione univoca della filosofia concorre il dissenso tra i filosofi sull'oggetto stesso della filosofia: alcuni orientano l'analisi della filosofia verso l'uomo e i suoi interessi così come viene esposto nell'Eutidemo di Platone, per cui essa sarebbe «l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo».4

Nel prosieguo della storia della filosofia altri autori che seguono questa opinione sono per esempio Cartesio («Tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sorgono da questo tronco sono le altre scienze, che si riducono a tre principali: la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e la più perfetta morale, che presupponendo una conoscenza completa delle altre scienze, è l'ultimo grado della saggezza»),5 Thomas Hobbes,6 e Immanuel Kant, il quale, definisce la filosofia come «scienza della relazione di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione umana».7

Altri pensatori ritengono che la filosofia debba puntare alla conoscenza dell'essere in quanto tale secondo un percorso che, fatte le debite differenze, va dagli eleati8 sino ad Husserl e Heidegger.

Il bisogno di filosofare

 Il bisogno di filosofare, secondo Aristotele - che segue in questo Platone -9 nascerebbe dalla "meraviglia", ovvero dal senso di stupore e di inquietudine sperimentata dall'uomo quando, soddisfatte le immediate necessità materiali, comincia ad interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo rapporto con il mondo:

« Infatti gli uomini hanno cominciato a filosofare, ora come in origine, a causa della meraviglia: mentre da principio restavano meravigliati di fronte alle difficoltà più semplici, in seguito, progredendo a poco a poco, giunsero a porsi problemi sempre maggiori: per esempio i problemi riguardanti i fenomeni della luna e quelli del sole e degli astri, o i problemi riguardanti la generazione dell'intero universo. Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia [thaumazon] riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia. Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercarono il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica.10 »

Tale 'meraviglia' però non va confusa con lo 'stupore intellettuale'; così Emanuele Severino:

« Che la "meraviglia", da cui - secondo il testo aristotelico - nasce la filosofia, non debba essere intesa, come di solito accade, come un semplice stupore intellettuale che passerebbe dai "problemi" (ápora) "più facili" (prócheira) a quelli "più difficili" - cioè che il timbro del passo aristotelico sia "tragico" - riceve luce dalla circostanza che anche per Eschilo l'epistéme ("conoscenza") libera da una angoscia che sebbene sia da lui considerata "tre volte antica", è tuttavia la più recente, perché non è quella primitiva, e più debole, dovuta all'incapacità di vivere, dalla quale libera la téchne ("tecnica", "arte"), ma è l'angoscia estrema, il culmine al quale essa perviene quando il mortale si trova di fronte al thaûma ("meraviglia", "sgomento") del divenire del Tutto - al terrore provocato dall'evento annientante che esce dal niente. In questo senso anche per Eschilo l'epistéme non mira ad alcun vantaggio tecnico (982b21), è "libera" (982b27) e ha come fine soltanto sé stessa (982b27), cioè la liberazione vera dal terrore.11 »

Sullo stesso senso della filosofia come tentativo di liberazione dal dolore di vivere era la concezione di Schopenhauer:

« Ad eccezione dell'uomo, nessun essere si meraviglia della propria esistenza… La meraviglia filosofica … è viceversa condizionata da un più elevato sviluppo dell'intelligenza individuale: tale condizione però non è certamente l'unica, ma è invece la cognizione della morte, insieme con la vista del dolore e della miseria della vita, che ha senza dubbio dato l'impulso più forte alla riflessione filosofica e alle spiegazioni metafisiche del mondo. Se la nostra vita fosse senza fine e senza dolore, a nessuno forse verrebbe in mente di domandarsi perché il mondo esista e perché sia fatto proprio così, ma tutto ciò sarebbe ovvio.12 »

Queste domande di carattere universale, definibili come il problema del rapporto tra l'individuo e il mondo, tra il soggetto e l'oggetto, vengono trattate dalla filosofia secondo due aspetti: il primo è quello della filosofia teoretica, che studia l'ambito della conoscenza, il secondo è quello della filosofia pratica o morale o etica, che si occupa del comportamento dell'uomo nei confronti degli oggetti e, in particolare, di quegli oggetti che sono gli altri uomini, che egli presume siano individui come lui, perché appaiono a lui simili, pur non potendoli veramente conoscere al di là delle apparenze esteriori.13

Origine e significato del termine

 La datazione del primo utilizzo del termine greco antico philosophia e dei suoi derivati philosophos (filosofo) e philosophein (filosofare) è controversa. La maggioranza degli studiosi ritiene che tali termini non possano essere fatti risalire in alcun modo ai presocratici del VII e VI secolo a.C. e per alcuni di questi nemmeno a Pitagora14 o ad Eraclito.15 Secondo Pierre Hadot:

« In effetti tutto lascia supporre che queste parole facciano la loro comparsa solo nel V secolo: nel secolo di Pericle che vede Atene brillare non solo per la supremazia politica, ma anche per lo splendore intellettuale; al tempo di Sofocle, di Euripide, dei sofisti, e anche al tempo in cui lo storico Erodoto, originario dell'Asia Minore, nel corso dei suoi numerosi viaggi venne a vivere nella famosa città. È forse proprio nella sua opera che si incontra per la prima volta il riferimento a una attività "filosofica". »

(Pierre Hadot. Che cos'è la filosofia antica? Torino, Einaudi, 1998, pag. 18)

La parola filosofia indica un nesso fondamentale fra il sapere e l'amore, inteso non tanto nella sua forma passionale (anche se l'eros, il desiderio, per Platone,16 è il movente fondamentale della ricerca filosofica), ma in un'accezione più vicina al sentimento dell'amicizia.

« Per gli autori la Grecia classica ha superato la figura del Saggio per confrontarsi con quella dell'Amico: cioè qualcuno che non possiede il vero, ma lo ricerca pur essendo convinto della sua irraggiungibilità. Se il saggio venuto dall'Oriente pensa per figure, L'Amico del sapere pensa per concetti, promuove la formazione di una società di eguali, senza rinunciare all'essenziale gioco dialettico della discussione e della diversità, che può giungere alla rivalità, alla sfida, alla competizione. »

(Gilles Deleuze - Félix Guattari, Che cos'è la filosofia?, Ed. Einaudi, 2002 pag.13)

Aristotele dedica una parte importante della sua Etica Nicomachea (libri VIII e IX) alla discussione della philìa, tradotto tradizionalmente con "amicizia".17 Per Aristotele la forma più nobile di amicizia è quella che non si basa solo sull'utile o sul dilettevole, ma sul bene. Il filosofo, sarebbe dunque l'"amico del sapere", cioè del conoscere, non per usarlo come mezzo o solo per piacere intellettuale, ma come fine a sé stesso. Come tale egli si accompagna al sapere, essendo consapevole di non poterlo possedere del tutto: così ad es. in Pitagora, indicato dalla tradizione come il creatore del termine "filosofo", quando avvertiva che l'uomo può solo essere amante del sapere ma mai possederlo del tutto, poiché questo appartiene interamente solo agli dei.18

Il problema della definizione

 (EN) 
« Defining philosophy is itself a philosophical problem.19 »

 (IT) 
« Definire la filosofia è di per sé un problema filosofico »

Il pensatore di Auguste Rodin

Sebbene l'etimologia ci consenta di trarre indicazioni precise, la determinazione della filosofia, come concetto e come metodo, resta tuttavia problematica ed è, pertanto, necessario premettere che una definizione ultimativa e specifica della filosofia non può darsi; ogni sistema di pensiero infatti include al suo interno una ridefinizione del concetto di filosofia.

La riflessione filosofica, cioè, è un contenitore che permane uguale a sé stesso nella forma, ma il cui senso complessivo muta per il contenuto sempre diverso della speculazione stessa.

La questione si pone innanzitutto in senso epistemologico: ovvero, la delimitazione dei metodi, dei temi della conoscenza filosofica è forse la prima e fondamentale questione su cui la filosofia stessa, si interroga; a seconda dei periodi storici e dei contesti culturali, questa domanda ha conosciuto e conosce tuttora risposte differenti.

Le due prospettive: filosofia come storia della filosofia o indagine gnoseologica

 Il problema di cosa sia la filosofia si può tuttavia porre secondo due prospettive diverse:

    •     a seconda che la definizione venga elaborata sul piano storico, ovvero la filosofia consiste essenzialmente nella sua storia e nella sua tradizione come evoluzione del pensiero in rapporto ai cambiamenti socio-culturali delle società umane nelle varie epoche.

    •     oppure sul piano strettamente gnoseologico individuando l'oggetto della conoscenza filosofica e formalizzandone il metodo.

La prima prospettiva è stata seguita per lo più dalla filosofia continentale nel suo sviluppo successivo alla diffusione del Cristianesimo, laddove si è posta la necessità di individuare, nella storia del pensiero, il dipanarsi di un filo conduttore univoco.

Un recente esempio di questo modo d'intendere la filosofia può rintracciarsi nel pensiero di Gilles Deleuze, che nell'opera dedicata al senso della filosofia sostiene che la domanda su cosa sia la filosofia tende a porsela l'uomo maturo - non a caso -, proprio nell'età in cui non ha più nulla da chiedere, quando è in quell'intervallo tra la vita e la morte in cui gode di libertà assoluta. La risposta a quella domanda ribadisce l'importanza della prospettiva storica nel senso che «la filosofia, è l'arte di formare, di inventare, di fabbricare concetti, ma non soltanto. È altrettanto importante definire il contesto in cui opera e gli interlocutori cui si rivolge.»20

La storia della filosofia consente così di rintracciare le varie linee evolutive del concetto di filosofia e quindi definire secondo un criterio unitario ed organico i problemi oggetto della conoscenza filosofica; essi possono tuttavia essere studiati, oltre che dal punto di vista storico, anche singolarmente, esaminando le varie posizioni filosofiche sugli specifici argomenti.

La seconda prospettiva, invece, trova il suo antico fondamento nella indagine "scientifica" della filosofia greca, rinnovatasi nell'ultimo secolo con la rinascita, accompagnata da una ripresa di interesse, degli studi di logica e con i tentativi del circolo di Vienna, di Bertrand Russell, di Wittgenstein ed altri, di fondare rigorosamente la conoscenza filosofica.

Sophia come saggezza o come scienza

 Nella cultura greca antica, il termine filosofia oscillava tra due significati estremi: in un senso, la filosofia, spesso identificata come sinonimo di sophia, termine che la distingueva dalla φρόνησιϛ (phrònesis), la prudenza, coincideva con la saggezza o, come anche si diceva, la paideia (educazione, formazione culturale): ad esempio Erodoto racconta di Solone come un uomo che aveva molto viaggiato per il mondo «filosofando»,21 per desiderio di sapere.

All'estremo opposto filosofia assume il significato di dottrina scientifica ben delineata, che Aristotele chiama «filosofia prima» indicante cioè, sia i principi primi, le cause prime, le strutture essenziali degli esseri, sia quel pensiero che studia il primo principio di tutto: Dio stesso.

È nell'ambito di questi due significati che si sviluppano gli usi più particolari del termine filosofia.22

Sophia come saper fare e capacità di governo

 Il saggio, tuttavia, nel senso greco del termine, non è l'uomo perso nelle sue riflessioni teoriche; egli, pur detenendo un sapere considerato astratto, possiede invece l'abilità di farne un uso concreto, pratico: filosofia come “stile di vita”, saggezza intesa come “saper vivere”, in una unità di teoria e prassi tipica dell'epoca nella quale appunto nasce. Il tema è trattato approfonditamente da Pierre Hadot in una delle sue opere principali, “Che cos'è la filosofia antica?”, nella quale illustra quanto lontano fosse il pensiero greco dalla costruzione di sistemi ideali astratti ed avulsi dalla realtà. Questa sua tesi è stata ampiamente sviluppata dal filosofo ispanico-indiano Raimon Panikkar, il quale, pur senza citare Hadot esplicitamente, è in perfetta sintonia con la sua idea di filosofia come “stile di vita”.

Con l'uso della sapienza sarebbe facile arricchirsi: è ciò che sostiene Ieronimo di Rodi,23 narrando di come si arricchisse Talete, il quale, prevedendo un'abbondante produzione di olive, affittò tutti i frantoi di un'ampia regione, monopolizzandone la molitura. L'aneddoto è raccolto, oltre che da Cicerone,24 da Aristotele, il quale scrive che: « [...] siccome, povero com'era, gli rinfacciavano l'inutilità della filosofia, avendo previsto in base a calcoli astronomici un'abbondante raccolta di olive, ancora in pieno inverno, pur disponendo di poco denaro, si accaparrò tutti i frantoi di Mileto e di Chio per una cifra irrisoria, dal momento che non ve n'era alcuna richiesta; quando giunse il tempo della raccolta, cercando in tanti urgentemente tutti i frantoi disponibili, egli li affittò al prezzo che volle imporre, raccogliendo così molte ricchezze e dimostrando che per i filosofi è molto facile arricchirsi, ma tuttavia non si preoccupano di questo.»25

In questo senso la filosofia greca è permeata, fra l'altro, dal problema politico. Secondo Jean-Pierre Vernant "...è sul piano politico, di fatto, che in Grecia la Ragione si è in primo luogo espressa, costituita, formata",26 ovvero dal rapporto fra la sapienza e la capacità di governare il comportamento dell'uomo sia come singolo che come facente parte della comunità della polis stessa.

Principali discipline filosofiche

 Sempre rinnovata,27 oggi la filosofia si è specializzata in numerose discipline, che si occupano di determinati settori della riflessione filosofica, in alcuni casi confinanti con altre scienze umane.

Filosofia teoretica

 Oggetto della filosofia teoretica è la conoscenza nel senso più astratto e generale; la possibilità e il fondamento del conoscere umano, e i suoi oggetti più universali e astratti, quali l'essere, il mondo, ecc.

    •    Logica: la logica, originariamente, costituisce lo studio delle corrette modalità di funzionamento ed espressione della ragione umana (logos). Essa ha poi assunto il carattere particolare di disciplina che si occupa del corretto argomentare, da un punto di vista meramente formale e simbolico; in questo senso è una disciplina affine alla matematica.

    •    Metafisica: la filosofia teoretica ha assunto per un lungo periodo storico il carattere di filosofia prima ovvero metafisica. Essa, letteralmente, è la conoscenza che si rivolge a quegli enti generalissimi che stanno "al di là" degli enti sensibili.

    •    Ontologia: l'ontologia si occupa dello studio dell'essere in quanto essere, della sua differenza con l'ente (differenza ontologica), del suo rapporto col nulla, ovvero ciò che non è essere.

    •    Epistemologia e gnoseologia: con differenti sfumature, entrambe si occupano dell'analisi dei limiti e delle modalità della conoscenza umana. Soprattutto nella filosofia contemporanea, il concetto di epistemologia riguarda più specificamente la conoscenza scientifica: in questo senso l'epistemologia ha ampie sovrapposizioni con la filosofia della scienza.

    •    Filosofia della scienza: specificamente è la riflessione interna alla scienza sul metodo e sulla conoscenza scientifica.

    •    Filosofia del linguaggio: è quell'aspetto della filosofia che si occupa di studiare il linguaggio nella sua relazione con la realtà. Correlandosi strettamente alla linguistica e alla logica, essa si occupa della genesi del linguaggio, del rapporto fra senso e significato e della modalità attraverso cui, in generale, il pensiero si esprime.

    •    Teologia: è quella specifica disciplina che indaga sull'esistenza di esseri superiori (Dio), cercando di stabilire il rapporto di conoscenza che si può avere tra l'ente massimo e l'essere umano.

    •    Fisica: diversa dalla fisica scientifica, da cui è stata ormai soppiantata da almeno 4 secoli, in antichità studiava i fenomeni naturali senza servirsi del metodo scientifico.

Filosofia pratica

« È giusto anche chiamare la filosofia (philosophian) scienza della verità, poiché di quella teoretica è fine la verità, mentre di quella pratica è fine l'opera (ergon); se anche infatti i (filosofi) pratici indagano come stanno le cose, essi non considerano la causa per sé, ma in relazione a qualcosa ed ora.28 »

    •    Etica o morale: è il campo d'applicazione pratico della filosofia per eccellenza. Il suo oggetto è l'uomo in quanto essere sociale: essa in particolare si occupa di determinare ciò che è giusto o sbagliato, distinguendo il bene dal male in base a una determinata teoria dei valori o assiologia. l'etica è intesa anche come la ricerca di uno o più criteri che consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà e di determinarne i limiti opportuni.

    •    Estetica: è un settore della filosofia che si occupa della conoscenza del bello naturale o di quello artistico, ovvero del giudizio di gusto. In origine, tuttavia, il termine estetica indicava l'analisi dei contenuti e delle modalità della conoscenza sensibile.

    •    Filosofia del diritto: si tratta di una disciplina intermedia fra filosofia e diritto, che si occupa di definire i criteri attraverso cui si forma il sistema delle norme che regolano la convivenza umana, e i principi in base ai quali un sistema giuridico può essere riconosciuto come valido e vigente.

    •    Filosofia della politica: oggetto di questa disciplina sono le istituzioni nella loro formazione, soprattutto per ciò che riguarda i fattori che regolano l'instaurazione e il mantenimento del potere nei confronti di coloro che vi sono sottoposti.

    •    Filosofia della religione: è la disciplina che si occupa di studiare le caratteristiche delle principali religioni da un punto di vista filosofico, individuandone le caratteristiche costanti e universali e studiando il rapporto dell'uomo con la religione come formazione culturale e storica.

    •    Filosofia della storia: la filosofia della storia si occupa della problematica classica del significato della storia e di un suo possibile fine teleologico. Essa si chiede se esista un disegno, uno scopo, un obiettivo o un principio guida nel processo della storia umana. Altre questioni su cui si interroga questa disciplina sono se l'oggetto della storia è la verità o il dover essere, se la storia è ciclica o lineare, o se esiste in essa il concetto di progresso.

Nuove discipline

    •    Bioetica: incrociando conoscenze filosofiche con analisi di tipo scientifico, antropologico e medico, si occupa in particolare degli aspetti etici connessi alla vita, umana e non. Problematiche bioetiche essenziali concernono dunque la riproduzione, la nascita, la morte, l'identità genetica, l'ingegneria genetica ecc.

    •    Filosofia della mente: sulla scorta delle moderne scoperte scientifiche riguardanti il funzionamento del sistema nervoso umano, si è sviluppata questa disciplina filosofica, che si occupa di indagare il rapporto fra la mente, come forma organizzativa della coscienza, e il cervello come struttura meramente fisica; nonché il rapporto della mente con il corpo e con il mondo.

    •    Consulenza filosofica: nasce in Germania, con il nome di Philosophische Praxis, ad opera di Gerd Achenbach e Bergisch Gladbach nel maggio del 198129 diventando oggetto anche di polemiche da parte sia del mondo della filosofia accademica sia da quello delle pratiche psicoterapeutiche. I sostenitori della consulenza filosofica dichiarano che essa costituisce una peculiare applicazione della filosofia, assimilabile ma non coincidente, con le terapie psicologiche.3031. Michael Zdrenka già nel 199832 censiva circa 130 praticanti di questa disciplina, ma da allora il loro numero è probabilmente cresciuto, per lo sviluppo di tale attività in alcuni paesi. Gerd Achenbach, intervistato al riguardo, afferma di conoscerne parecchi soprattutto in Olanda, Israele e America33

    •    Neurofilosofia: una disciplina che tenta di stabilire un rapporto tra le neuroscienze e la filosofia al duplice scopo di render più chiare le risposte alle domande fondamentali della speculazione filosofica avvalendosi delle scoperte neuroscientifiche e nello stesso tempo fornire alle indagini scientifiche sulla mente strumenti speculativi più precisi che evitino confusioni linguistiche o concettuali.3435

La filosofia nella storia del pensiero occidentale

Origini della filosofia

« Non dobbiamo credere di poter trovare negli antichi la risposta agli interrogativi della nostra coscienza, agli interessi del mondo odierno: tali interrogativi presuppongono una determinata educazione del pensiero. Ogni filosofia, per il fatto di rappresentare un particolare stadio di svolgimento, appartiene al tempo suo ed è chiusa nella sua limitatezza...Ogni filosofia è filosofia dell'età sua, è un anello della catena complessiva dello svolgimento spirituale, e può dar soddisfazione soltanto agli interessi del suo tempo.36 »

Orientalisti ed occidentalisti

 Sulla questione riguardante le origini della filosofia, ovvero se essa sia nata in Asia o in Europa, si sono confrontate due correnti di pensiero opposte: quelle degli "orientalisti" e degli "occidentalisti". Appare piuttosto probabile che all'ambito indiano (prima del 1100 a.C.) vadano riconosciuti i prodromi di ciò che sarà la speculazione filosofica, per quanto posti in una veste più specificamente religiosa. Quella che invece sorgerà in ambito greco-ionico, e specificamente a Mileto nel VII secolo a.C., è una filosofia laica, volta ad approfondire razionalmente le esperienze della conoscenza sensibile e a sostituire all'interpretazione mitica dei fenomeni naturali un'analisi attenta ai dati dell'esperienza.

Alcuni importanti filosofi della zona europea secondo il loro luogo di nascita

 Gli orientalisti affermano che la filosofia abbia avuto origini in Oriente circa nel 1300 a.C. e che la stessa filosofia greca derivi dall'antico pensiero sviluppatosi in Asia.37 A supporto di questa tesi si porta la prova degli intensi rapporti commerciali tra i greci e le popolazioni orientali. Poiché la matematica nelle sue prime acquisizioni è nata in India, si descrive come verosimile l'ispirazione orientale della dottrina pitagorica, mentre sembra meno probabile un contatto con l'Oriente della scuola di Mileto.

Talete, in particolare, avrebbe tratto piuttosto dalla cultura egizia nozioni di tipo cosmologico. L'Egitto, infatti, all'epoca esprimeva un contesto assai più progredito della Grecia sul piano tecnologico, con importanti acquisizioni nel campo della geometria e dell'astronomia, ma non solo; basti pensare che nel XII secolo a.C. gli egizi distinguevano già la medicina dalla magia usando il metodo diagnostico. Gli egizi, come anche i babilonesi, facevano progressi in campo matematico mentre i Caldei già nel 2000 a.C., erano in possesso di documenti di studio sui corpi celesti.

Ma le motivazioni degli orientalisti vanno oltre le prove sui contatti commerciali dell'Oriente con i greci e sui progressi culturali e scientifici orientali, poiché essi sostengono che la riflessione speculativa, e quindi la filosofia, era già presente in India nella religione brahmanica e poi nel buddhismo, nel confucianesimo e nel taoismo.

Tuttavia, pur accettando che la filosofia greca abbia ricevuto apporti tematici provenienti dalle culture orientali,38 l'approccio razionale e analitico era scarsamente utilizzato in Oriente, mentre sarà alla base di quello greco, e la maggior parte degli storici della filosofia oggi afferma l'autonomia e l'originalità della filosofia greca39 nata a Mileto, colonia greca dell'Asia minore, nel VI secolo a.C. sostenendo:

    •     che anche gli autori della filosofia classica più vicini per tematiche al pensiero orientale (Platone, Aristotele, ecc.), pur riconoscendo l'importanza della cultura orientale, ne sottolineano il carattere pratico e non fanno alcuna menzione di una derivazione orientale della filosofia;

    •     che non abbiamo conferma di nessuna traduzione di testi orientali da parte di filosofi greci poiché evidentemente esistevano delle difficoltà linguistiche alla conoscenza delle culture orientali;

    •     che la sapienza orientale si basava su conoscenze poste come verità teologiche indiscutibili, conosciute solo da un gruppo ristretto di persone, i cosiddetti "sacerdoti": verità che non miravano allo sviluppo della razionalità, ma erano orientate ideologicamente verso il raggiungimento di una vita ultraterrena o praticate per l'accrescimento di facoltà spirituali connesse alla sacralità, per cui il problema centrale che gli orientali si ponevano era quello della salvezza dell'anima dopo la morte, mentre il tema fondamentale nella speculazione dei primi filosofi greci (presocratici o presofisti) riguardava la natura e il cosmo;

    •     che infine esistevano fattori sociali e culturali che, come l'espansione coloniale greca, costituirono un ambiente caratterizzato dalla libertà politica e di pensiero favorevole allo sviluppo del pensiero filosofico;

    •     che la tesi orientalista è nata solamente dopo lo spostamento del baricentro culturale della Grecia verso Est, con la conquista di Alessandro Magno e la successiva diffusione dell'Ellenismo.

Dall'unità di oriente ed occidente alla diversità

« Fino ad oggi l'umanità è vissuta di ciò che è avvenuto nel periodo assiale, di ciò che allora è stato pensato e creato. »

(Karl Jaspers, Origine e senso della storia)

 Secondo il filosofo Karl Jaspers gli uomini ancora oggi sono debitori di ciò che avvenne nel periodo assiale compreso tra l'800 a.C. e il 200 a.C. in cui l'interà umanità, in India, Cina, Palestina, Iran e Grecia, avvia una rottura epocale in cui si dissolvono le civiltà precedenti frutto di uno sviluppo storico monofiletico a favore di uno sviluppo policentrico caratterizzato da cerchie culturali separate.

« In questo periodo si concentrano i fatti più straordinari. In Cina vissero Confucio e Lǎozǐ, sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono Mòzǐ, Zhuāng Zǐ, Lìe Yǔkòu e innumerevoli altri. In India apparvero le Upaniṣad, visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibiltà filosofiche fino allo scetticismo e al materialismo, alla sofistica e al nihilismo. In Iran Zarathustra propagò l'eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da Elia a Isaia e Geremia, fino a Deutero-Isaia. La Grecia vide Omero, i filosofi Parmenide, Eraclito e Platone, i poeti tragici, Tucidide e Archimede. Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell'Occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle altre. La novità di quest'epoca è che in tutti e tre i mondi l'uomo prende coscienza dell'"Essere" nella sua interezza (umgreifende: ulteriorità onnicomprensiva), di se stesso e dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali. Di fronte all'abisso anela alla liberazione e alla redenzione. Comprendendo coscientemente i suoi limiti si propone gli obiettivi più alti. Incontra l'assolutezza nella profondità dell'essere-se-stesso e nella chiarezza della trascendenza,. Ciò si svolse nella riflessione. La coscienza divenne ancora una volta consapevole di se stessa, il pensiero prese il pensiero ad oggetto.40 »

Le colonie ioniche

 Intorno al 1200 a.C. mercanti-marinai dalla penisola ellenica vanno verso Oriente, fondando colonie nella Ionia.

In un secondo tempo, dall'VIII secolo a.C. in poi, è da qui che (sotto la pressione persiana) avviene l'inverso con un ritorno verso la madrepatria; ciò determina un rimescolamento di culture estremamente favorevole per l'evoluzione della filosofia.

Nei secoli VII e VI a.C. la Grecia si è ormai trasformata da paese agricolo in artigiano e commerciale. Una nuova classe di mercanti basa la sua fortuna lontano dalle poleis d'origine, nelle colonie della Ionia (Asia Minore), come Mileto, Efeso, Clazomene, Samo, ecc.

È sulle coste della Ionia, e in particolare a Mileto, che l'evoluzione della società, i frequenti contatti mercantili con gli altri popoli del Mediterraneo, del mondo iranico e forse anche di quello indiano, portano un nuovo bisogno di conoscere.

Al di fuori del mito il tentativo di fornire spiegazioni razionali ai fenomeni naturali, volto a soddisfare ad esempio le necessità della navigazione, trova nuovi sviluppi e può nascere un pensiero filosofico laico.

Questa interpretazione "scientifica" della natura, che dà un nuovo senso ai racconti mitologici, non viene ostacolata dal credo religioso, poiché la religione greca era naturalistica, legata all'immanenza e all'antropomorfizzazione del divino.

È nelle libere colonie ioniche che nasce quindi la prima struttura della polis democratica greca che assieme con la filosofia, dopo la conquista persiana delle colonie, si trasferirà, dopo aver sopraffatto il vecchio regime aristocratico conservatore, nella madrepatria, facendo di Atene la capitale della filosofia e della libertà greca.

Pensiero mitico e pensiero filosofico

 A proposito dei rapporti tra la filosofia e il mito si possono sinteticamente indicare tre tesi sostenute dagli storici della filosofia:   

      a)       La filosofia con la scuola di Mileto segna una rottura con il mito. Il logos si emancipa dal pensiero mitico con l'affermazione dei primordi di un pensiero razionale e scientifico. Si è parlato di una "scoperta dello spirito" che ha fatto nascere come "un miracolo greco" la filosofia.

      b)       Al contrario si sostiene che sia azzardato riconoscere nella filosofia ionica la nascita di una scienza priva, com'è quella antica, della verifica sperimentale. La filosofia è ancora profondamente legata al mito: essa non fa altro che sottoporre alla critica razionale, alla discussione del logos, quanto sostiene la visione mitica che è ancora sentita come vera. Le cosmologie dei filosofi ionici riprendono e cercano di rispondere alla stessa domanda delle cosmogonie: «Come si è originato l'universo ordinato, il cosmo, dal caos?» Al mondo ordinato dei filosofi naturalisti basato sull'azione di forze contrapposte che si scindono dall'unità originaria, in continua lotta tra loro secondo un corso ciclico, corrisponde l'universo di Omero ed Esiodo dove l'ordine è mantenuto dalle forze contrapposte dei diversi dei del mito che con l'avvento della filosofia hanno perso il loro aspetto personalizzato, ma che sono ancora visti dal filosofo come potenze reali che intervengono nella vita degli uomini.

Una teoria vicina a questa concezione è nell'opera più conosciuta del filosofo francese Jean-Pierre Vernant: Les Origines de la pensée grecque (Le origini del pensiero greco) pubblicata nel 1962 dove viene presentata una nuova interpretazione della storia greca avvalendosi degli studi antropologici di Georges Dumézil, Claude Lévi-Strauss e Ignace Meyerson.

« La nascita della filosofia appare dunque in relazione con due grandi trasformazioni mentali: il pensiero positivo, che esclude ogni forma di realtà sovrannaturale e rifiuta l'implicita assimilazione stabilita dal mito tra fenomeni fisici e agenti divini; il pensiero astratto, che spoglia la realtà di tutta quella potenza di cambiamento che le attribuiva il mito, e rifiuta l'antica immagine dell'unione degli opposti in favore della formulazione in termini categorici del principio di identità »

(Jean-Pierre Vernant, Mito e pensiero presso i Greci)

 L'autore cerca di trovare le cause del passaggio dal pensiero mitologico greco a quello razionale filosofico. Secondo Vernant il motivo di questo cambiamento va ricercato nel mito stesso oltreché nella stessa storia sociale, giuridica, politica ed economica dei greci. Il cammino verso la ragione, sostiene Vernant, porterà nello stesso tempo alla nascita della democrazia greca.

    •     3. Questa è la tesi oggi maggiormente condivisa secondo la quale è errato sostenere che i filosofi di Mileto ripetano con parole diverse ciò che già sosteneva il mito. Nei filosofi presocratici vi sono certamente, rispetto alla concezione mitica, degli elementi originali e nuovi che vanno identificati.41

La filosofia nella Grecia classica


I primi "filosofi". I presocratici

 I più antichi pensatori della storia della filosofia non ebbero consapevolezza di essere filosofi: sia Diogene Laerzio42 che Cicerone43 indicano Pitagora come il primo a definirsi filosofo.

Lo stesso Pitagora viene tradizionalmente indicato come l'autore dell'allegoria della filosofia come un mercato: la vita è come una grande fiera dove si recano quelli che vogliono fare affari, quelli che vi vanno per divertimento ed infine, i migliori, i filosofi, i quali non hanno altro scopo che osservare la varia umanità. Questo secondo quanto Diogene Laerzio riprende da Eraclide Pontico, un discepolo di Platone: il che indicherebbe che questo fosse il significato in uso nella filosofia platonica.

In un frammento di Eraclito, riferito da Clemente Alessandrino,44 compare il termine filosofia e si dice che "è necessario che gli uomini filosofi siano indagatori di molte cose".45

Sembrerebbe che Eraclito volesse identificare la filosofia con la polimanthia, il sapere molte cose, ma questa interpretazione è esclusa da altri frammenti dove lo stesso filosofo afferma che questa "non insegna l'intelligenza"46 ma piuttosto che compito del filosofo è quello di fare molte esperienze e da queste arrivare al principio primo unitario, che Eraclito chiama Logos (ragione, discorso).

Inizia quindi a delinearsi con Eraclito il significato di filosofia come conoscenza dei principi primi: scienza universale che tratta l'essere in generale e che quindi è alla base e fondamento di tutte le forme di conoscenza che si occupano del particolare.

La scuola di Mileto e l'archè

Parmenide

Con la scuola milesia di Talete, Anassimandro e Anassimene, il pensiero per la prima volta inizia ad emanciparsi dalla commistione con il mito e le tradizioni culturali poetiche per ricercare spiegazioni razionali ai fenomeni naturali e alle questioni cosmologiche abbandonando la cosmogonia.

La filosofia greca nasce quindi con interessi "scientifici" soprattutto per le necessità connesse alla navigazione e al commercio. L'interpretazione mitica dei fenomeni naturali non soddisfa più e non serve: si cerca una causa che renda più comprensibile la natura. I primi filosofi, pur naturalisti, non per questo si possono definire come materialisti: essi conservano uno spirito religioso che non contrasta con la religione greca che, del resto, priva com'era dell'autorità di testi sacri e di dogmi, permetteva una certa libertà di pensiero.47

Si impone quindi il problema dell'identificazione dell'archè, l'elemento costitutivo e animatore della realtà, indagato nello stesso periodo anche da Pitagora ed Eraclito.

Essi pensarono che, pur essendo apparentemente diversi, i fenomeni naturali avessero un fondamento comune. Si trova nelle loro teorie la ricerca di una costante che metta ordine nella molteplicità caotica dei fenomeni. Se quindi, si riuscirà a identificare la causa prima di tutti questi fenomeni si otterrà una chiave universale per spiegare la formazione e il divenire di tutto il cosmo.

Perciò i primi filosofi presocratici ricercheranno quest'elemento primordiale da cui tutto si è generato e a cui tutto ritorna: l'arché, ciò che successivamente verrà definito sostanza, termine che racchiuderà una pluralità di significati, ovvero ciò che:

    •     permane nei mutamenti

    •     rende unitaria la molteplicità

    •     rende possibile l'esistenza della cosa48

Interessante notare come dalla iniziale speculazione sulla natura, ancora legata ad elementi fisici con Talete, il discorso filosofico si faccia più astratto già con Anassimandro, capace di concepire come principio ciò che non è materiale, l'indefinito, sino a giungere con la scuola pitagorica ad una visione matematica della natura,49 primo vero anello di congiunzione fra la filosofia e le scienze applicate.

L'ontologia: il monismo parmenideo e il pluralismo ionico


Un altro percorso invece condurrà la filosofia, con Parmenide e la scuola eleatica, alle prime speculazioni ontologiche; l'ontologia monistica, che nasce con Senofane di Colofone, trova infatti ad Elea, nell'ambito della Magna Grecia occidentale, i suoi principali sviluppi; in questi pensatori è prevalente la percezione di un conflitto irriducibile tra la logica che governa la dimensione intellettuale e il contraddittorio divenire dei fenomeni testimoniato dai sensi. Tale contrasto verrà variamente risolto dai successivi filosofi del VI-V secolo a.C. (fisici pluralisti) e rimarrà centrale in tutta la storia del pensiero occidentale, dalla Scolastica ad Heidegger nel Novecento.

In opposizione al monismo eleatico, Anassagora (di Clazomene) e Leucippo (di Mileto) sostituivano la teoria parmenidea di un Essere unico e immutabile con una concezione pluralistica della physis. Questa tesi si originò in ambito ionico e fu sviluppata da Anassagora e Leucippo in due modi differenti: il primo indicava come principi fondamentali i semi (che Aristotele ribattezzerà omeomerìe), il secondo era invece assertore di una teoria atomistica.

L'espressione di tale pluralismo che risulterà più ricca di sviluppi sarà l'atomismo leucippeo, che troverà in Democrito un valido continuatore. Più tardi, nel IV secolo a.C., Epicuro riformulerà questa tradizione, negandone il rigido determinismo introdotto da Democrito.

Per quanto il monismo determinista risulterà prevalente e gli epigoni di Parmenide (tra essi Platone) vincenti dal IV secolo a.C. in poi, nel V secolo il dibattito risultò assai fecondo per il pensiero greco. In ogni caso Aristotele, per quanto sostanzialmente monista, fu molto attento all'ontologia pluralistica, confrontandosi con essa a più riprese sia nella Fisica che nella Metafisica (la filosofia "prima").

La Sofistica: filosofia come nuova educazione

 Accanto a questo primo iniziale configurarsi della filosofia come conoscenza universale compare nella storia della filosofia un'applicazione più pragmatica del filosofare: è quella dei sofisti che non tramandano definizioni della filosofia, ma chiamano filosofia una particolare forma di educazione, dietro compenso, per i giovani che vogliano intraprendere una carriera politica.50

I sofisti compaiono nel periodo compreso fra il culmine della civiltà ateniese e i primi sintomi della decadenza dovuta a tensioni individualistiche ed egoistiche già evidenti nell'età di Pericle. Allo scoppio della guerra del Peloponneso e alla morte di Pericle, entrano in crisi il senso di supremazia culturale ed economica a cui si sostituisce la percezione della precarietà dell'esistenza, cui i sofisti rispondono esibendo le capacità retoriche dell'individuo, educato con una nuova technè (tecnica) oratoria.

Essi insegnano in particolare l'"arte della parola", un'educazione retorica e letteraria che riporta la filosofia al suo primo significato di paideia ma con diversi contenuti rispetto a quella antica, basata sulla poesia e sul mito, attraverso i quali si realizzava l'aristocratico ideale della kalokagathia ossia l'unione del bello e del buono.

I sofisti non mettono in dubbio l'autorità dello Stato ma evidenziano attraverso un'analisi storica, l'origine umana delle leggi che lo regolano e il ruolo determinante di chi è capace di influenzarne la formazione attraverso l'abilità nell'usare il linguaggio, non tanto per persuadere, quanto per far prevalere sull'interlocutore il proprio punto di vista con il suo eloquio.51

Socrate: filosofia come educazione al non sapere




Socrate

Paradossale fondamento del pensiero socratico, ostile a quello dei sofisti, è l'ignoranza, elevato a movente fondamentale del desiderio di conoscere. La figura del filosofo secondo Socrate è completamente opposta a quella del saccente, ovvero del sofista.

Egli diceva di ritenersi il più saggio degli uomini, proprio in quanto cosciente del proprio non sapere. Il senso della sua filosofia è quello di essere essenzialmente ricerca che caratterizza quella dotta ignoranza che permette di sviluppare lo spirito critico nei confronti di coloro che presumono di sapere in modo definitivo e invece non sanno rendere conto di quello che dicono.52

La peculiarità di Socrate consiste infatti nel metodo di indagine filosofica basato sulla maieutica, ovvero sulla capacità, attraverso un dialogo serrato fra il filosofo e coloro che lo ascoltano, di discernere la conoscenza vera dalla mera opinione soggettiva.53

Platone: la riflessione sulla giustizia

Busto di Platone nel Museo Pio-Clementino

La filosofia platonica origina dalla riflessione sulla politica conseguente alla vicenda socratica. Secondo quanto scrive Alexandre Koyré:

« Tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate. »

 Occorre tuttavia distinguere la "riflessione sulla politica" dalla "attività politica". Non è certo in quest'ultima accezione che dobbiamo intendere la centralità della politica nel pensiero di Platone.

Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII proprio la rinuncia alla politica attiva segna la scelta per la filosofia, intesa però come impegno "civile". Tuttavia i filosofi che vorrebbero dedicarsi alla meditazione54 devono invece essere costretti all'arte del governo,55 in quanto, proprio perché disinteressati, essi sono i più affidabili come politici.56 La riflessione sulla politica diventa, in altre parole, riflessione sul concetto di giustizia e dalla riflessione su questo concetto sorge un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'uomo come membro della polis.

Fin dalle prime fasi di questa riflessione, appare chiaro che per il filosofo ateniese risolvere il problema della giustizia significa affrontare il problema della conoscenza. Da qui la necessità di intendere la genesi del "mondo delle idee" inteso come depositario della verità contrapposto al "mondo delle cose", mere "copie" delle idee, come frutto di un impegno "politico" più complessivo e profondo. La vera educazione che assegnerebbe ai filosofi il diritto-dovere di governare non è però quella dei sofisti, ma quella descritta nel settimo libro della Repubblica dove, attraverso il "mito della caverna", Platone delinea una formazione culturale che porti alla visione del mondo intelligibile,57 appresa la quale spetterà ai filosofi la funzione politica, ma non in quanto addestrati all'uso della parola, bensì perché essi sono depositari di quella luce della verità a cui sono giunti liberandosi dalle catene dell'ignoranza. La loro formazione culturale quindi sopravanza quella dei non filosofi, in quanto essi saranno educati non solo nella ginnastica, nella musica e nelle arti ma anche nelle scienze esatte come la matematica58 e la geometria, che permettano loro di arrivare alla concezione intellettuale delle idee perfette ed immutabili.59 Tramite la dialettica, l'ascesa dalle forme sensibili all'intelligibile, "il volgere dell'anima da un giorno tenebroso a un giorno vero", si giungerà alla "vera filosofia".

I molti significati platonici della filosofia

 Con Platone il termine filosofia ha raggiunto una tale vastità di significati che, secondo una celebre massima, in seguito la storia del pensiero non avrebbe fatto altro che svilupparne gli esiti.60 Essa assume cioè il senso di:

    •     sapere universale

    •     teoria e pratica politica

    •     prevalenza dell'intelletto sulla conoscenza sensibile

    •     scienza dei principi primi

    •     spirito critico applicato alle scienze particolari



Questa classificazione della filosofia nei suoi vari significati condizionerà tutta la tradizione filosofica occidentale, almeno fino alle riflessioni filosofiche di Locke e Kant e alla filosofia contemporanea, che metterà in discussione i presupposti e la possibilità stessa della filosofia.

A differenza di altri (come Aristotele), Platone non è un pensatore sistematico. I vari significati della filosofia sopra indicati appaiono e scompaiono in relazione alle fasi successive del suo pensiero. Si deve inoltre tenere presente che il senso della filosofia e quello dei suoi oggetti deve, per Platone, essere inseribile in un quadro cosmologico generale perfetto ed armonico, su base matematico-geometrica. Per quanto egli ammetta il divenire come una forma incipiente di "essere" (a differenza di Parmenide, che lo vedeva come non-essere), esso, in quanto imperfetto e passibile di disordine, esiste soltanto come evento variabile e mutevole che precede l'avvento della perfezione e dell'ordine di un "essere" che è anche "verità".

Con queste premesse, la realtà platonica è totalmente avulsa dalla realtà concreta dell'uomo comune. Il primato dell'idealità non è quindi solo gnoseologico, ma ontologico. Uno dei più importanti dialoghi della maturità, il Timeo, è molto significativo a questo proposito e, non a caso, è stato il testo base per tutta la cosmologia mistica medioevale. È un inno alla perfezione "geometrica" di un cosmo che non è solo ideale ma del tutto reale, dove è riecheggiato Pitagora e la sua visione del mondo basata sui numeri. L'ontologia platonica riguarda quindi un Essere generale (governato dall'anima del mondo), che ha il suo fondamento nell'elemento etico (il bene), in quello estetico (la bellezza) e in quello gnoseologico (la verità). Sono infatti essi che si coniugano come fondanti, lo qualificano e lo definiscono. La "materia" (la fisicità) è quindi elemento del tutto irrilevante per Platone, in quanto, non possedendo "verità" non può essere posto come oggetto della vera filosofia.

Aristotele lo Stagirita

Busto che ritrae Aristotele, opera di Lisippo

Gli anni che separano Platone da Aristotele sono relativamente pochi, eppure il tempo di crisi in cui si trova a vivere Aristotele è già profondamente diverso da quello del suo maestro. Nella metà del IV secolo a.C. la decadenza della libertà nella polis è ormai irreversibile di fronte alla potenza macedone. Il cittadino greco non è più direttamente coinvolto nelle faccende del governo ed ormai è "inglobato" in un più vasto organismo statale, del quale altri reggono le fila e quindi perde quella passione per la politica che aveva costituito la molla per la filosofia platonica. Da qui l'emergere per altri interessi conoscitivi ed etici che saranno caratteristici dell'età ellenistica.

Filosofia come libertà

 Per Aristotele, la filosofia è il più grande dei beni, dal momento che ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé. Aristotele introduce una nuova concezione del sapere rispetto a quella della tradizione, che collegava la sapienza all'agire e al produrre. Dedicarsi al sapere richiede la scholè, l'otium dei latini, un tempo assolutamente libero da ogni cura e preoccupazione per le necessità materiali dell'esistenza.

« Cosicché, se gli uomini hanno filosofato per liberarsi dall'ignoranza, è evidente che ricercano il conoscere solo al fine di sapere e non per conseguire qualche utilità pratica. E il modo stesso in cui si sono svolti i fatti lo dimostra: quando già c'era pressoché tutto ciò che necessitava alla vita ed anche all'agiatezza ed al benessere, allora si incominciò a ricercare questa forma di conoscenza. È evidente, dunque, che noi non la ricerchiamo per nessun vantaggio che sia estraneo ad essa; e, anzi, è evidente che, come diciamo uomo libero colui che è fine a se stesso e non è asservito ad altri, così questa sola, tra tutte le altre scienze, la diciamo libera: essa sola, infatti, è fine a se stessa.61 »

Per Aristotele fare filosofia è l'inclinazione della natura razionale di tutti gli uomini e che solo i filosofi realizzano a pieno, mettendo in atto un sapere che non serve a nulla ma che, proprio per questo, non dovrà piegarsi a nessuna servitù: un sapere assolutamente libero.

La filosofia, quindi:

    •     presuppone la libertà da ogni bisogno materiale,

    •     è essa stessa libera perché persegue il sapere per il sapere,

    •     rende liberi dall'ignoranza.



Filosofia come storia della filosofia

 La ricerca filosofica è difficile, perché deve affrontare la vastità del sapere, ma nello stesso tempo anche facile perché ognuno ha la capacità di cogliere qualcosa della verità. Talora la difficoltà della filosofia nasce dal fatto che non siamo in grado di cogliere proprio le cose più evidenti, ma in fondo tutti possono contribuire alla ricerca della verità poiché questa è già nella storia. La filosofia non crea la verità ma la porta alla luce; la verità infatti è anche nelle opinioni comuni, nei filosofi del passato. Come in un certo senso dirà Hegel la filosofia è come la nottola che vola intorno al tempio di Minerva al tramonto,62 quando cioè la luce della verità è già apparsa. Aristotele è dunque il primo storico della filosofia che, interpretando le dottrine altrui alla luce della sua, tende a vedere nel pensiero dei filosofi passati dei tentativi di arrivare alla verità della sua dottrina, verità che tuttavia per Aristotele è la stessa da sempre, mentre per Hegel sarà da concepire come un sottoprodotto, via via cangiante, delle varie epoche storiche.

Filosofia come scienza dell'ente in quanto ente (metafisica)

 Mentre Platone guardava il mondo secondo un'ottica verticale e gerarchica ed anche Aristotele in un primo tempo pensa che l'oggetto della filosofia debba essere il divino e che quindi essa sia la scienza più alta, nella maturità, con le mutate condizioni culturali e politiche, lo Stagirita guarda il mondo secondo un'ottica orizzontale per cui tutte le scienze hanno pari dignità. In questo modo Aristotele constata e giustifica la situazione culturale del IV secolo a.C., dove le scienze si rendono autonome dalla filosofia e si specializzano nel loro specifico settore della realtà.

Quindi, secondo Aristotele, la filosofia si differenzia dagli altri saperi perché, invece di considerare la varie facce della realtà o dell'essere, studia l'essere e la realtà in generale. Quindi, tutte le scienze che studiano una parte del reale dovranno ora presupporre la filosofia, che studia il reale in quanto tale.63 La filosofia diventa la scienza prima, l'anima unificatrice ed organizzatrice delle scienze particolari. La filosofia, come un'enciclopedia del sapere, non può essere altro che scienza o sapere globale.

Aristotele non enuncia direttamente il significato del termine, ma "sapere" per lui vuol dire "conoscenza dei principi primi e delle cause.64 Quanto più una cosa, infatti, è realizzata nella sua natura, tanto più essa è causa dell'essere delle cose che di tale natura partecipano. Ad esempio, il fuoco non può essere che la causa del calore delle cose calde, in quanto esso realizza al massimo la sua natura calda. Aristotele, cioè, stabilisce una connessione logica e reale tra verità, causalità e essere.

La matematica sarà dunque la scienza che studia gli enti nello spazio, mentre quella che studia gli enti che divengono è la fisica (che comprende tutte le scienze naturali); quella che, infine, studia l'ente in quanto ente sarà la "filosofia prima", la quale, quando si dedica allo studio dell'ente supremo, si definisce come teologia. La filosofia prima, che la tradizione filosofica chiamerà metafisica,65 costituirà, come teoria generale della realtà, il nucleo centrale, almeno fino a John Locke, della filosofia.

Aristotele definirà "filosofie teoretiche" la matematica, la fisica e la "filosofia prima", distinguendole in tal modo dalle "filosofie pratiche" (etica, politica) e da quelle poietiche (da poieo, "produco"), che riguardano la poetica e le discipline tecniche.66 Nelle dottrine pratiche e poietiche rientra quella caratterizzazione della filosofia come saggezza che la "filosofia prima" come scienza escludeva dal suo ambito. Anzi, a differenza di Platone, Aristotele attribuisce dignità filosofica anche alle filosofie pratiche e poietiche, non potendo sempre avere il sapere i caratteri precisi e definitivi, ad esempio, della matematica.67

La filosofia nell'età ellenistico-romana

 Nell'età ellenistica le città-stato greche perdono, dopo la conquista macedone, la loro libertà ed assieme il loro primato politico, economico e culturale che passa a nuove grandi città come Alessandria, Antiochia e Pergamo che diventano a loro volta centri di sviluppo e diffusione della civiltà greca nelle vaste terre conquistate e portate alla grecità da Alessandro. L'ellenismo poi «con i suoi vasti ideali e aspirazioni di universalità, aprì la via alle grandi affermazioni unitarie dell'Impero romano e del cristianesimo.»68

L'Ellenismo



Per approfondire, vedi Ellenismo.

Sia per il Liceo che per l'Accademia, dopo la morte dei loro capiscuola, il significato della filosofia tese a impoverirsi ma si arricchì la civiltà greca che si diffuse nel mondo mediterraneo, eurasiatico e in Oriente, fondendosi con le culture locali.

Dall'unione della cultura greca con quelle dell'Asia Minore, l'Eurasia, l'Asia Centrale, la Siria, la Mesopotamia, l'Iran, l'Africa del Nord, l'India, nacque una civiltà (323 a.C.-31 a.C.) - detta Ellenismo - che fu modello insuperato per quel che riguarda filosofia, religione, scienza ed arte.

Tale civiltà si diffuse dall'Atlantico all'Indo, apportando un notevole impulso anche al diritto, alla politica ed all'economia, che troveranno la loro piena realizzazione nel mondo romano.

La civiltà greca, da sempre legata a quella degli altri popoli mediterranei e del Medio Oriente, si rinnovò al contatto diretto con le varie civiltà (egiziana, mesopotamica, iranica e di molti altri popoli) che via via, soprattutto in seguito alle conquiste di Alessandro Magno, si ritrovarono più vicine, stabilendo sempre più intensi rapporti politici, economici e culturali con le città di lingua greca.

L'indagine filosofica s'incentra sull'etica



Per approfondire, vedi Epicureismo, Stoicismo e Scetticismo filosofico.

Epicuro

 La caratteristica fondamentale nelle filosofie ellenistiche è la tendenza a costituire dottrine fortemente strutturate caratterizzate da un interesse primario per l'etica.

Nel clima di generale insicurezza e di una "fuga nel privato" che caratterizza questa età di sconvolgimenti politici, sociali e culturali, alla filosofia si chiedono sostanzialmente due cose: da un lato una visione unitaria e complessiva del mondo, dall'altro lato una specie di "supplemento d'animo", ossia una parola di saggezza e di serenità capace di guidare la vita quotidiana degli individui. Infatti conseguenza del ripiegamento verso l'intimità privata fu l'attenzione rivolta dagli intellettuali all'etica ed all'analisi interiore piuttosto che ad una indagine filosofica astratta.69

Le nuove filosofie si presentano come sistemi che riprendono la suddivisione della filosofia in etica, politica e dialettica introdotta nel IV secolo a.C. da Senocrate, secondo successore di Platone, che abbandona l'aspetto metafisico della dialettica platonica, intesa come ascensione al mondo intelligibile, e la riduce essenzialmente alla logica.70 La sua tripartizione è quella in vigore anche presso le correnti di pensiero degli epicurei, degli stoici e degli scettici.

Altrettanto avviene nel Liceo dopo la morte di Teofrasto: la filosofia prima, da studio metafisico dell'atto puro, viene ora spostata sulla fisica nei suoi aspetti scientifici.

Epicuro sostituisce alla dialettica la canonica, una dottrina che fornisce i canoni, i criteri fondamentali per arrivare, tramite i sensi, alla verità, poiché l'ascesa all'intelligibile, sostiene Epicuro, sarebbe una via che va all'infinito.71 D'altra parte Epicuro ritiene che la filosofia debba diventare lo strumento, il mezzo, teorico e pratico, per raggiungere la felicità liberandosi da ogni irrequieta passione.

« Se non fossimo turbati dal pensiero delle cose celesti e della morte e dal non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri, non avremmo bisogno della scienza della natura.72 »

 La filosofia stoica è focalizzata su problematiche di ordine etico: la filosofia è come un frutteto, il cui muro di cinta è la logica, gli alberi sono la fisica e i frutti, gli oggetti più importanti, l'etica.73

Roma: la filosofia è arte di vita

Cicerone

Dal diretto contatto con il mondo greco, dopo la conquista romana del Mediterraneo, la filosofia latina, caratterizzata sin dalle origini dalla diffidenza per la speculazione pura, dalla predilezione per la vita pratica e dall'eclettismo e che trovava in Cicerone il suo rappresentante più significativo, mira ad una compenetrazione del pensiero greco con la cultura romana, diviene "arte di vita",74 che viene sempre più intesa, come già diceva Platone, come "esercizio di morte",75 cioè metodo di preparazione all'abbandono del mondo terreno per l'ascesa a quello intelligibile.

La crisi del mondo greco-romano e il sentire religioso nel tardo impero

Plotino

 La cultura ellenistica che si inserisce nell'ultimo periodo del paganesimo s'innesta in un fenomeno di natura religiosa complesso di cui fa parte anche il cristianesimo: tramontati i valori tradizionali del mondo greco legati alla polis, con l'espandersi dell'impero romano, si sviluppa, sia nella classe colta che nella gente comune, l'interesse per la religione.76 che è ben presente nella cultura filosofica greca antica dove la "teologia" è propria della fisica (nel significato greco antico del termine), della metafisica e della ontologia.

Già la Fisica presocratica fu "teologia" in quanto il principio primo (arché) ingenerato (agénetos) ed eterno (aìdios) ricercato dai primi indagatori della natura, era considerato come il "Divino" immortale" e "indistruttibile". L'acqua, l'aria, il fuoco dei filosofi "presocratici" non corrispondono quindi agli elementi fisici della concezione moderna ma a veri e propri principi teologici. Allo stesso modo la "Fisica" greco-antica non ha nulla a che vedere con la Fisica moderna.77 Il collegamento tra religione e filosofia greche diviene indissolubile a partire da Platone.

« A partire da Platone, e attraverso di lui, la religione è qualcosa di essenzialmente diverso da ciò che prima era stata. Per i Greci, come vediamo a partire da Omero, religione aveva sempre significato accettazione della realtà in modo ingenuo [...] Attraverso Platone la realtà perde effettualità in favore di un mondo superiore, incorporeo e immutabile, che deve valere come primario; l'Io si concentra in un'anima immortale, che nel corpo è straniera e imprigionata. »

(Walter Burkert. La religione greca. Milano, Jaca Book, 2003, pagg. 565-6)

Ma «l'assenza di una religione organizzata centralisticamente, di un patrimonio di dogmi rivelati, di un'ortodossia tutelata da una classe sacerdotale [permise] una ricerca libera da pregiudizi, intorno a questioni importanti come l'origine del mondo e dell'uomo, altrove appannaggio delle gerarchie religiose.»78

Una delle peculiarità della religione dei romani è che essa è inscindibilmente legata alla sfera civile, familiare e socio-politica. Il culto verso gli dei era un dovere morale e civico ad un tempo, in quanto solamente la pietas, vale a dire il rispetto per il sacro e l'adempimento dei riti, poteva assicurare la pax deorum per il bene della città, della famiglia e dell'individuo. Altre due caratteristiche salienti della religione romana possono essere individuate nel politeismo e nella relativa tolleranza verso altre realtà religiose. La ricchezza del pantheon romano è dovuta non solo al grande numero di divinità, siano esse antropomorfe o concetti astratti, ma anche al fatto che alcune figure divine fossero moltiplicate in relazione alle funzioni loro attribuite.79

Ambedue le religioni erano dunque prive di un apparato di dottrine che invece, nell'ultimo periodo ellenistico, proviene dall'Oriente con uno specifico contenuto teologico che proclama la necessità di un rapporto personale tra il credente e la divinità e di una conversione ad una vita spirituale per la quale non basta più la filosofia. Nascono esigenze di certezze assolute e di salvezza trascendente che la filosofia non era stata in grado di assicurare.

La filosofia greca riverbera anche nella cultura religiosa ebraica, ad esempio la filosofia mosaica di Filone d'Alessandria testimonia l'espansione della cultura greca nell'ebraismo ellenizzato.

Nel III secolo a.C. si ebbero le prime manifestazioni del neopitagorismo, che presero lo spunto da alcune sentenze attribuite a Pitagora, nonché dagli scritti di antichi pitagorici come Archita di Taranto, Timeo di Locri e Ocello Lucano. Figure importanti del neopitagorismo furono Nicomaco di Gerasa, Numenio di Apamea e soprattutto Apollonio di Tiana, in cui gli aspetti filosofici si fondono con quelli religiosi. Il neopitagorismo sbarcò a Roma nel I secolo d.C. ed ebbe come cultori Publio Nigidio Figulo, il poeta Virgilio, Nicomaco di Gerasa (prima metà del II secolo) e Moderato di Cadice, che con le sue Lezioni pitagoriche farà confluire il pensiero filosofico verso il neoplatonismo. Infatti all'inizio del III secolo d.C. con Filostrato si esaurisce il neopitagorismo per far posto al neoplatonismo.

Dal II secolo d.C. incomincia la diffusione delle opere ermetiche. Con "ermetismo" si intende generalmente un complesso di dottrine mistico-religiose nel quale confluirono durante l'ellenismo teorie astrologiche di origine semita, elementi della filosofia di ispirazione platonica e pitagorica, credenze gnostiche e procedure magiche egizie.

L'espressione più alta di questo nuovo sentire filosofico religioso è però il neoplatonismo che viene fatto iniziare con Plotino di Licopoli, che visse nella prima metà del III secolo e studiò ad Alessandria d'Egitto, dove fu allievo di Ammonio Sacca. Qui assimilò i fermenti culturali sia della filosofia greca che della mistica orientale, egiziana ed asiatica.80 Per Plotino la parte migliore, "la parte eccellente" del pensiero platonico81 è quella dialettica platonica a cui ora si riduce l'intera filosofia, poiché la dialettica investe di sé, riprendendo la tripartizione di Senocrate, anche l'etica e la fisica.82

La filosofia medievale cristiana: fede e ragione



Per approfondire, vedi Filosofia medievale.

Agostino d'Ippona

Tommaso d'Aquino

L'esercizio della filosofia ha sempre richiesto la libertà di pensiero, e ciò paradossalmente ha fatto sì che le più durature e genuine tradizioni del pensiero filosofico siano sorte soltanto laddove si riconosceva il carattere necessario della verità, contrapposto a quello arbitrario dell'opinione: una verità dotata di un'aura di sacralità.

Facendo proprie le categorie filosofiche degli antichi greci, il Cristianesimo ha quindi elaborato una concezione della filosofia che non pretendesse di sostituirsi arbitrariamente alla verità, ma che piuttosto fungesse da avvio nei suoi confronti e la difendesse dai tentativi di negarla da parte dello scetticismo e del relativismo: da qui l'espressione di filosofia come ancella fidei,83 cioè servitrice nei confronti di quella fede che per un cristiano è la manifestazione più immediata della verità.84

Questa concezione della filosofia convive nel Cristianesimo con la convinzione che l'uomo è essenzialmente libero di fronte alla verità, cioè ha la possibilità di accoglierla o rigettarla.8586

Il problema della relazione fra fede, dottrina religiosa e pensiero torna d'attualità con l'avvento del Cristianesimo; in una prima fase sulla scorta della predicazione di Paolo di Tarso87 si ritiene che i primi fedeli debbano salvaguardare la propria devozione, dall'incontro con la filosofia pagana ma nello stesso tempo invita i cristiani a dare fondamento razionale alla loro fede.88

Successivamente, la Patristica assume due indirizzi prevalenti, quello occidentale, rappresentato da Ireneo e Tertulliano, che esalta il carattere volontaristico e non razionale della fede, e quello orientale, rappresentato ad es. da Clemente Alessandrino o da Origene, i quali invece ritengono la filosofia una degna ancella della fede, nell'ottica di una razionalizzazione del pensiero cristiano.89

Questa concezione, che culminerà nel primo tentativo di sintesi fra ragione e fede operato da Agostino d'Ippona, permeerà quindi tutto l'Alto Medioevo, almeno nell'Occidente cristianizzato.

Solo con Tommaso d'Aquino90 si giungerà a una più piena conciliazione fra fede e ragione, nell'ottica però di una filosofia concepita come praeambulum fidei, cioè avvio introduttivo alla fede, non nel senso che la filosofia possa servire a rafforzare o a dedurre razionalmente le verità della dottrina cristiana, quanto semmai a difenderle dalle critiche nei suoi confronti, da eresie e nemici, obiettivo primario degli scolastici.

La filosofia, intesa dalla Scolastica come ancilla theologiae91 è quindi una via indiretta, da utilizzare ad esempio per svelare il profetico contenuto cristiano delle antiche filosofie greche (come Platone che diviene profeta dell'avvento del Cristianesimo) o va adoperata per introdurre, con gli strumenti filosofici dei grandi pensatori del passato, alla dottrina cristiana.92

L'esercizio della ragione che si ha con la filosofia è quello tipico della teologia negativa, che consente di arrivare a conoscere il "quia est" di Dio («il fatto che Egli è») ma non il "quid est" («che cosa è»), per apprendere il quale è necessaria la fede: «di Dio noi non possiamo sapere che cosa è, ma piuttosto che cosa non è»93. La filosofia pertanto non è un sapere fine a sé stesso, ma tanto più ha valore quanto più rimanda all'altro da sé, negandosi e superandosi come coscienza critica di una verità che la trascende. Allegoria della ragione è ad esempio Virgilio nella Divina Commedia, che accompagna il pellegrino per buona parte del percorso, ma è consapevole di essere una guida incompleta, che deve cedere il passo alla fede (Beatrice) nel tratto conclusivo che conduce a Dio.94

Ockham: la filosofia si separa dalla teologia

Guglielmo di Ockham

Pur essendo prevalsa, per un lungo periodo del Medioevo, la concezione che vede la filosofia come sostegno e supporto razionale delle credenze religiose, con Guglielmo di Ockham nella tarda Scolastica, iniziò ad affermarsi una visione del pensiero come attività del tutto autonoma; egli sostenne infatti che «gli articoli di fede appaiono falsi ai sapienti, cioè a quelli che si affidano alla ragione naturale»,95 contestando il fideismo acritico che si era avuto a partire da Tertulliano.

Con Ockham viene in evidenza un problema già sollevato da Averroè,96 che assegnava alla filosofia il riflettere e lo speculare e alla religione l'amore per Dio e l'agire di conseguenza. La duplicità nasceva dal fatto, noto da tempo, che i frutti del ragionamento spesso non coincidono con quelli della credenza. Questa posizione di Averroè veniva battezzata dagli Scolastici "doppia verità" e tale espressione si affermerà per indicare ogni discrasia emergente tra fede e ragione.

Il dibattito sull'armonia di ragione e fede, il problema medioevale dell'intellectus fidei proseguirà ancora ma ciò che conviene notare è che la filosofia, messa di fronte al rapporto con la religione, comincia a rivendicare a delineare una sua propria autonomia.

Va ricordato che già prima di Ockham ciò veniva ribadito in ambito cristiano da Duns Scoto (1265-1308), che in Opus Oxoniense97 aveva riproposto in termini positivi la posizione del musulmano Averroè.

La filosofia nell'età dell'umanesimo e del Rinascimento



Per approfondire, vedi filosofia rinascimentale.

 Nasce convenzionalmente in questa età la filosofia moderna che si fa iniziare con l'Umanesimo (secolo XV circa) e la sua rivalutazione dell'uomo e della sua esperienza eminentemente terrena, e terminare con la figura di Immanuel Kant (1724 - 1804), il pensatore che aprirà la strada all'idealismo romantico.

In particolare il parallelismo medievale di ragione e fede diviene nuovamente problematico con l'emergere della scienza moderna nel Rinascimento; la ricerca filosofica infatti dimostra sempre maggiori difficoltà a conciliarsi con le restrizioni della dottrina religiosa, man mano che i risultati dell'indagine razionale contrastano con i dogmi e le verità della Rivelazione mettendo in crisi il Principio di autorità con cui venivano risolti questi contrasti.

Alcuni dei grandi protagonisti di quest'epoca si scontrano con la Chiesa Cattolica: Bernardino Telesio, Tommaso Campanella perseguitato dall'Inquisizione, Giordano Bruno condannato al rogo, e Galileo Galilei, che pur animato da una sua sincera fede religiosa, è costretto ad abiurare le sue scoperte e quanto aveva dedotto da esse.

A questa conflittualità porrà termine, in un certo senso, l'illuminismo, in particolare attraverso la figura di Kant, che delimiterà in modo netto il campo della ragione, liberandola da tutti gli errori che ne contaminerebbero la purezza e l'autonomia.

La nuova concezione della natura

 La stessa definizione dell'ambito della filosofia, la sua autonomia, sarà da specificare nell'età moderna nei confronti della scienza sperimentale e matematica della natura. Cambia nell'umanesimo la visione dell'uomo non più legato alla divinità: l'uomo viene considerato nel suo aspetto concreto e nel suo legame con la natura, che lo porta a sperimentare e conoscere con i sensi prima e piuttosto che attraverso le astrazioni della logica, con lo scopo di volgere la natura stessa ai propri fini.

«L'uomo sembrò meritare un'attenzione che la cultura precedente non gli aveva accordato, e soprattutto acquistò nuovo significato il suo operare nel mondo, e la sua attiva capacità di trasformarlo.»98

Una scarsa considerazione della natura aveva caratterizzato il pensiero neoplatonico fino all'età moderna; durante il predominio della filosofia cristiana, dove si distingue nettamente il creatore dal creato, il naturalismo era stato messo completamente da parte. Anzi le dottrine naturalistiche, fatte risalire alla versione meccanicistica dell'epicureismo, venivano considerate empie, in quanto negatrici dei dogmi cristiani dell'esistenza di Dio, dell'immortalità dell'anima, di tutto quello che si riferiva al soprannaturale.

Tommaso Campanella

Il naturalismo torna prepotentemente nell'età rinascimentale, «l'uomo apparve come il centro focale della natura, come un essere intermedio capace di forgiarsi secondo il suo volere, e di plasmare così la propria vita e lo stesso mondo circostante a propria immagine.»99

Si riprende in un certo modo l'antica visione panteistico vitalistica o materialistica-meccanicistica degli antichi. Alla prima concezione della natura appartengono Telesio, Bruno e Campanella con la loro visione di un Dio che s'identifica nella natura stessa, che vive nella stessa perfezione dei fenomeni naturali, mentre la interpretazione materialistica la si ritrova in tutte quelle filosofie rinascimentali caratterizzate da una ripresa dello stoicismo. La dottrina di Giordano Bruno è la sintesi, intrisa di magia, di queste due tendenze: egli concepirà la natura naturans e quindi Dio come mens insita omnibus che come il pneuma degli stoici dà vita a tutto l'infinito universo.

Ora la natura dove l'uomo agisce non è più corrotta dal peccato e quindi l'uomo può ben operare nel mondo e può trasformarlo con la sua volontà. Questi uomini nuovi non sono atei ma hanno una nuova religiosità. L'uomo del Medioevo sta con i piedi sulla terra ma guarda al cielo: la filosofia medioevale era impostata su una dimensione verticale dell'uomo, nel pensiero moderno prevale la dimensione orizzontale, perché Dio è nella natura stessa. L'ansia di perfezione che caratterizza l'opera di Leonardo da Vinci è in fondo il tentativo di raggiungere Dio nella natura. Nasce l'esigenza di una nuova religiosità che metta in contatto diretto, senza nessuna mediazione, l'uomo con Dio. L'uomo solo, individuo, in rapporto a Dio, sarà questo il fulcro della Riforma.

La perdita dell'unità medievale del sapere e la specializzazione delle scienze

« Viene meno quella compatta unità del sapere, di cui le summae medioevali erano state l'espressione più evidente »

(U. e A. Perone, G. Ferretti, C. Ciancio, Storia del pensiero filosofico, vol.II, pag.13, ed. S.E.I. 1975)

 Il sapere medievale era enciclopedico, armonioso, coordinato e orientato verso Dio inteso come culmine della verità, quadro che tiene assieme i vari saperi. Ragione e fede procedevano assieme. Dopo Ockham filosofia e teologia sono autonome e anzi si contrastano. Nel Medioevo per quanto disordinata e approssimativa fosse la vita, il papato e l'impero costituivano dei punti di riferimento ben saldi, e per alcuni speranza d'ordine e di legalità universale (Dante).

Nella cultura umanistico-rinascimentale salta il quadro di riferimento religioso, la cornice che tiene assieme il mosaico del sapere. Si smarrisce il senso della stabilità culturale e politica. Le scienze diventano autonome e specialistiche, si perfezionano ma non comunicano più tra loro, secondo quella che Panofsky ha definito "decompartimentazione" del sapere.

Tutto si risolve nel singolo, nell'individualità del Principe che tende a fare della propria esistenza un'opera unica e irripetibile.100

La Politica, scienza naturale

Machiavelli

Il pensiero rinascimentale estende il concetto di naturalità, così come era accaduto con i sofisti, non solo alla considerazione della scienza naturale, ma anche a quell'ambiente naturale in cui vive l'uomo: lo Stato, e la scienza naturale che studia lo Stato è la Politica.

Vera scienza naturale perché determinata da principi naturalistici e autonoma da tutte le altre scienze. Il pensiero politico di Machiavelli ora considererà suo oggetto di studio l'essere, le cose come stanno effettivamente e non più il dover essere, le cose come dovrebbero essere o come si vorrebbe che fossero.

« Ma sendo l'intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare dietro la verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. »

(N. Machiavelli, Il Principe, cap.XV)

 Una concezione storica e naturalistica assieme della vita dell'uomo simile a quella delle vicende della natura: come in questa nulla cambia così avviene, nonostante le apparenti trasformazioni, anche per la storia dell'uomo.

La filosofia del Seicento

« E qual cosa è più vergognosa che'l sentir nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all'avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l'onorato titolo di filosofo. [...] Signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta. »

(Galileo Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632))

René Descartes

Galileo Galilei

 Di fronte alle acquisizioni scientifiche galileiane della verità oggettiva va in crisi quello che Galilei definì il mondo di carta.

Secondo alcuni interpreti la filosofia della natura rinascimentale intrisa di magia o che riprendeva la ricerca della sostanza dell'antica filosofia greca101 sembrava non potesse reggere dinanzi al nuovo sapere scientifico; secondo altri, invece, fu proprio il rinnovato interesse per la magia, rimasto alquanto sopito durante il Medioevo, a causare lo sviluppo del sapere scientifico.102

Va quindi in crisi non solo l'antica fisica aristotelica ma la stessa metafisica che già nel Medioevo serviva essenzialmente come strumento già pronto per sostenere la conversione alla fede.

Il metodo come strumento del filosofare risolutivo

 Gli uomini di cultura laica dell'età moderna rifiutano il linguaggio della metafisica medievale che a loro appariva farraginoso, astratto e formale. Cartesio infatti ora assegnerà alla filosofia un nuovo scopo, occorrerà egli dice che: «un uomo dabbene, che non ha l'obbligo di aver letto tutti i libri né di aver imparato con cura tutto ciò che s'insegna nelle scuole» possa avere un sapere che gli consenta di affrontare e risolvere i problemi quotidiani dell'esistenza.103

Esigenza questa di una filosofia ordinata sistematicamente e utile all'uomo già sentita da Bacone che distingue la filosofia naturale (le scienze sperimentali), la filosofia umana (logica, psicologia ed etica) e la filosofia civile (la politica). Alla base di tutte la filosofia prima.104

In questo nuovo significato del filosofare risolutivo, che dà soluzioni, Cartesio riprende il suo ambito tradizionale per il quale la filosofia è come un «albero le cui radici sono la metafisica, il tronco la fisica, e i rami che se ne dipartono tutte le altre scienze».105 Ritorna qui l'impostazione aristotelica della filosofia come scienza prima nel cui ambito acquistano senso e significato tutte le altre scienze particolari.

La vera novità di Cartesio nell'uso del filosofare sarà il metodo - di cui anche Bacone aveva sentito l'esigenza come novum organum, nuovo strumento del sapere cui però non era riuscito ad indicare le regole - applicato secondo un'impostazione geometrica e algebrica alla scomposizione e composizione dei problemi filosofici.106 L'uso del metodo per l'analisi e la soluzione di problemi metafisici, etici, cosmologici diverrà prevalente nei filosofi seguenti come Spinoza e Leibniz.

Quando Bacone, pur nella sua incapacità di capire l'importanza della matematica nella scienza e nel non considerare la prospettiva meccanicistica dei fenomeni naturali, sosteneva che il metodo dovesse consistere nella connessione di videre e cogitare, nella collaborazione tra senso ed intelletto107 anticipava la grande scoperta del metodo sperimentale galileiano. Metodo che del resto è figlio diretto del metodo cartesiano che delle sue regole, che nascono dalla matematica, indicava quella finale della enumerazione e revisione, del controllo cioè dell'analisi e della sintesi, che sarà tradotta da Galilei in quella della verifica sperimentale della ipotesi.

Cartesio sosteneva l'origine della verità dal dubbio, ma questa, per Cartesio, rimane sempre di carattere metafisico più che scientifico: da qui i travisamenti in fisica e astronomia che toccherà a Newton correggere. Dal dubbio fonte di verità non rimaneva fuori neppure l'esistenza di Dio che però, una volta dimostrata l'infallibilità del metodo, era semplice, seguendo le sue regole, dimostrarne l'esistenza riprendendo magari l'argomento ontologico rivalutato alla luce del cogito ergo sum. Ma non è fuori luogo anche ricordare che per Cartesio di tutto si poteva dubitare, ma non del divino nell'anima, quale res cogitans calata dall'alto nella materiale res extensa.

La filosofia non si è mai fondata sul metodo sperimentale proprio della scienza moderna, come del resto appare evidente anche nella filosofia antica e medievale (va tuttavia ricordato che il metodo scientifico è un'acquisizione successiva a queste epoche). Quando Democrito ad esempio parlava degli atomi aggiungeva che questi «si vedevano con gli occhi della mente». Ma filosofi scienziati come Bacone e Newton o filosofi matematici come Cartesio e Leibniz sentirono l'esigenza di un metodo certo, che fondasse in modo indubitabile la loro conoscenza.108 I primi hanno proposto metodi basati sul metodo empirico, mentre i secondi hanno proposto metodi logici con forti valenze metafisiche. Gli uni e gli altri hanno poi distinto la loro speculazione filosofica dalle loro opere più strettamente scientifiche o teologiche. Nel caso di Leibniz ad esempio la teodicea ha segnato profondamente anche la sua speculazione in ogni campo.

L'Empirismo e l'insufficienza del metodo

John Locke

 La corrente dell'empirismo sosterrà che il confronto della filosofia con la scienza non dev'essere condotto sul piano del metodo, ma verificando che ogni forma di conoscenza possa sostenere il cimento dell'esperienza sensibile. Questo dev'essere il banco di prova delle verità filosofiche e quindi il nuovo significato della filosofia che con Locke si assumerà il compito di critica del sapere definendo: «l'origine, la certezza e l'estensione della conoscenza umana».109 Locke è convinto che l'insolubilità di alcuni problemi filosofici dipenda dalla mancata analisi preventiva della questione da risolvere: se questa, cioè rientri o meno nell'ambito della ragione:

«...essendosi cinque o sei amici riuniti a discutere...ben presto ci trovammo in un vicolo cieco...a me venne il sospetto...che prima di applicarci a ricerche di quel genere, fosse necessario esaminare le nostre facoltà e vedere con quali oggetti il nostro intelletto fosse atto a trattare e con quali no».110 Da questa critica propedeutica ne deriva che non esiste principio, nella morale come nella scienza, che possa ritenersi assolutamente valido tale da sfuggire ad ogni controllo successivo dell'esperienza.

Sia Bacone, per via empirica, che Cartesio, attraverso la pura ragione si erano posti lo stesso problema pensando di averlo risolto tramite l'adozione di un metodo le cui regole, se osservate, potevano portare a conoscenze assolute, a verità indiscutibili in ogni campo del sapere. Essi si rifacevano alla conoscenza verificata dalle conferme dell'esperienza ma poi consideravano fuori da questa la struttura razionale matematico-quantitativa della realtà, attribuendole un valore assoluto di verità. Galilei affermava persino che l'intelletto umano, quando ragiona matematicamente, è uguale a quello divino:

«...quanto alla verità di che ci danno cognizione le dimostrazioni matematiche, ella è l'istessa che conosce la sapienza divina [..]»111

Questo potere assoluto della ragione, in cui credevano Cartesio e Galilei, per Locke non esiste. Quindi noi dobbiamo, per non girare a vuoto su argomenti inaccessibili alla ragione, prima ancora di stabilire le regole di un metodo conoscitivo, cercare di capire quali siano i limiti del nostro conoscere.

La filosofia nell'età dei lumi



Per approfondire, vedi Illuminismo.

Immanuel Kant

È Kant che definirà chiaramente cosa deve intendersi per filosofia nel secolo dell'Illuminismo:

« L'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro, Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo.112 »

Filosofia quindi come liberazione dalla superstizione e dall'ignoranza diffuse dalla Chiesa cattolica e dalla tirannia dei regimi assoluti.

Scriveva nel 1713 Anthony Collins nel Discourse of Freethinking (Discorso sul libero pensiero):

« Se la conoscenza di alcune verità ci è richiesta da Dio; se la conoscenza di altre è utile alla società; se la conoscenza di nessuna verità ci è proibita da Dio o è dannosa per noi; allora abbiamo il diritto di conoscere, cioè possiamo legittimamente conoscere ogni verità. E se abbiamo il diritto di conoscere ogni verità, abbiamo quindi il diritto alla libertà di pensiero.113 »

Jean Baptiste Le Rond d'Alembert

Nel Discorso preliminare dell'Enciclopedia di Jean d'Alembert si mette in rilievo come l'Illuminismo erediti in un certo senso la concezione dell'empirismo inglese della filosofia come sapere risultato dell'attività della ragione per il bene della società. D'Alembert poi è convinto che debba rientrare nella filosofia anche lo studio della logica e del linguaggio poiché la filosofia non ha solo il compito di elaborare idee ma anche quello di comunicarle. Il philosophe illuminista, inteso come sinonimo di intellettuale, ha infatti il dovere di usare il sapere, la filosofia, ai fini della sua comunicazione sociale e della sua efficacia sociale. Il significato della filosofia è quello di "addolcire i costumi e istruire i governanti".114

La stessa visione della filosofia come educazione sociale si ritrova nell'Illuminismo tedesco: Christian Wolff definisce la filosofia come "il sapere di tutte le cose possibili e del come e perché sono possibili",115 evidenziando fin dal titolo della sua opera il fine educativo e politico.

La filosofia illuministica è quasi totalmente allineata sulle posizioni di Bacone e di Newton riguardo al metodo ma riprende da Cartesio il valore della razionalità, intesa però, nello spirito di Locke, come programmaticamente finita.116 Il pensiero di Diderot, per certi aspetti, è quello che meglio sintetizza l'indizzo filosofico e scientifico in contrasto a quello metafisico e il suo Interpretazione della natura è uno dei testi chiave del pensiero illuministico legato alla scienza.

David Hume

 Il percorso che segue David Hume e in generale l'Illuminismo inglese è quindi quello dell'empirismo lockeano; tale percorso tuttavia lo conduce a conclusioni scettiche, data l'inevitabile contingenza delle esperienze sensibili fondamenta di ogni pensiero.

Hume però ritiene anche, nei suoi scritti dove si occupa di etica, religione e politica, che la validità della filosofia non debba restringersi a verificarne il rigore e la precisione identificandola con la scienza, ma debba estendersi anche ad una nuova concezione della filosofia come sapere tendente al conseguimento del bene individuale e sociale.

Il tentativo degli illuministi di una sistemazione razionale del sapere scientifico per migliorare le condizioni di vita e arrivare ad un'organizzazione politica più razionale e giusta si basava però su un rapporto non ancora sufficientemente chiarito tra filosofia e scienza.117

Questo il compito che si assume Kant. La filosofia si oppone alla matematica: mentre questa "costruisce" i suoi saperi astratti, prescindendo dall'esperienza, la filosofia riflette su realtà oggettive.118 La filosofia, più che un'estensione delle conoscenze, deve proporsi di analizzare le condizioni che rendono possibile la formazione di un sapere, magari non più esteso ma più solidamente fondato. In questo criticismo trascendentale kantiano rientra ancora la metafisica che ha perso ogni pretesa di conoscenza assoluta ma che ha acquistato come postulato della morale il suo reale valore.

Sarà poi Kant ad armonizzare il ragionamento di tipo matematico, quale quello del cartesianesimo, con quello di tipo sperimentale, che si ritrova nell'Illuminismo di tipo newtoniano. Da questo punto di vista Kant si riallaccia a Galilei che aveva proclamato l'accordo di matematica e sperimento quale condizione indispensabile al progresso della scienza. Galilei trovò una tecnica che dimostrava operativamente la possibilità di tale accordo ma lasciò ad altri il compito di giustificarlo filosoficamente. Ed è questa giustificazione al centro della problematica filosofica della Critica della ragion pura di Kant.

La filosofia dell'Ottocento

L'Idealismo: la filosofia come totalità



Per approfondire, vedi Idealismo.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

L'uso della scienza come razionalizzazione della società umana per l'idealismo tedesco si attua con Hegel concependo tutto il corso della storia culminante nella filosofia. La filosofia dice Hegel è la «considerazione pensante degli oggetti»119 che invece di esaminare isolatamente gli oggetti della conoscenza con gli strumenti analitici dell'intelletto, come fanno le scienze naturali, li studia come momenti dialettici della realtà totale. La verità è nell'intero, nella totalità e la filosofia come sapere di questa totalità è la meta finale dello Spirito120 che tramite essa diviene cosciente della sua identità con il tutto.121

L'eredità romantica dell'aspirazione all'infinito si ritrova nella filosofia idealistica di Fichte, Schelling ed Hegel con una nuova visione della realtà che da fattuale diviene attuale. La filosofia, per Fichte, ci fa comprendere come la realtà fattuale non si esaurisca dogmaticamente in sé stessa, ma piuttosto «rimanda all'atto che lo pone». Questo atto originario, o Io puro, in quanto è appunto attività, non può essere mai oggettivato, cioè ridotto a semplice oggetto di conoscenza filosofica: esso si esperisce progressivamente nella pratica, al di là della teoria. La filosofia è quindi semmai il suo limite negativo: «il vivere è non-filosofare; e il filosofare è non-vivere».122

Per Hegel invece, che rovesciò la prospettiva criticista, la filosofia esaurisce in sé tutta la realtà, diventando fine a sé stessa. Essa non rimanda più a qualcos'altro, non apre al mondo o all'esperienza, ma la chiude. «La nottola di Minerva si alza in volo sul far della sera», dice Hegel, nel senso che la filosofia, simboleggiata dalla civetta, consiste nel riflettere su quel che è già avvenuto, quando il soggetto sarà confermato nella sua realtà dall'oggetto e questo esisterà come tale perché c'è un soggetto che lo considera e lo interpreta. Ogni filosofia a priori che voglia anticipare la realtà o fungerle da avvio è perciò da lui giudicata astratta e irrazionale, perché non giustificata, e avrebbe valore soltanto nell'ottica della storia della filosofia come un momento di autoriflessione dello Spirito.

Il Positivismo: la filosofia come unificazione del sapere



Per approfondire, vedi Positivismo.

Lo sviluppo della varie scienze nel XIX secolo nei più svariati settori faceva nascere l'esigenza, già presente nell'idealismo, di una concezione unificante, di un sapere del sapere che è appunto il compito che il positivismo, caratterizzato dalla fiducia nel progresso scientifico e dal tentativo di applicare il metodo scientifico a tutte le sfere della conoscenza e della vita umana, assegna alla filosofia.

Per Auguste Comte la filosofia è «lo studio delle generalità scientifiche che deve definire esattamente lo spirito di ciascuna scienza, scoprire le relazioni e i concatenazioni fra le scienze, riassumere possibilmente tutti i loro principi propri nel minor numero di principi comuni».123

Così anche per Spencer la filosofia è «conoscenza completamente unificata».124

La critica della filosofia come sistema

Arthur Schopenhauer

Søren Kierkegaard

Karl Marx

Durante il periodo post-idealista nel XIX secolo l'idea metafisica di un sistema filosofico, unificatore di tutto il sapere, si scontra con i numerosi fattori di dissolvimento di un astratto ideale di un sapere globale in grado di realizzare, come pensava Platone, «l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo».125

La filosofia ora non deve più, come nel Medioevo e nell'età moderna difendere il suo ruolo e la sua egemonia nei confronti di altri saperi, ma deve confrontarsi con nuove forze che ne mettono in discussione la sua caratteristica essenziale e che nello stesso tempo rinnovano la sua funzione. Infatti, dalla filosofia si separano incrementalmente discipline come la psicologia e la logica, che a loro volta pretendono una funzione come "filosofia prima", volta a fondare e unificare il sapere. Da un lato si notano tendenze (in parte neo-aristoteliche) verso l'empirismo e la naturalizzazione, dall'altro una progressiva matematizzazione e astrattismo formale. Queste due tendenze sono compresenti anche nell'opera di Friedrich Adolf Trendelenburg, che ha contribuito sia ad una rinascita Aristotelica (evidente ad esempio nel suo studente Franz Brentano) che ad un rinnovato interesse in Leibniz126 (che ispirò Gottlob Frege e Ernst Schröder).

La filosofia che era nata non come una semplice intuizione o impressione soggettiva ma come una disciplina deduttiva e razionale che voleva dimostrare con argomenti logici quello che ipotizzava, ora viene messa in discussione dagli stessi filosofi con una critica radicale della ragione: la razionalità assoluta dell'idealismo viene messa in discussione dalla stessa ragione.

Le critiche alla filosofia hegeliana da parte di Arthur Schopenhauer e degli studenti di Trendelenburg come Søren Kierkegaard, Karl Marx e Franz Brentano fanno sì che la filosofia non sia più in grado di stabilire i suoi propri confini tradizionali e assuma il ruolo, più che di astratta speculazione metafisica, di riflessione concreta sulla condizione umana e sulla coscienza sia individuale che sociale.

Certo Schopenhauer conserva la definizione di filosofia come espressione concettuale dell'esperienza127 ma allo Spirito hegeliano, che in quanto pensiero autocosciente e razionale informa di sé tutta la totalità dell'Ente, egli sostituisce la volontà di vivere, una sorta di istinto irrazionale che affligge l'uomo e ne causa i patimenti, fino a che egli non riesca, attraverso l'arte, l'etica e l'ascesi, a liberarsene.

Per Kierkegaard la filosofia hegeliana è la filosofia del vuoto, del vacuo e dell'astratto, basata su definizioni dell'essere che non servono a risolvere la problematicità dell'esistere, che è evidenziata particolarmente dal rapporto, conciliabile, ma non certo, fra ragione e fede.

Marx basa il suo discorso politico sulla dialettica hegeliana ma prevede una fine della filosofia in una futura società comunista dove avverrà l'attuazione dello spirito assoluto hegeliano nella concreta e reale liberazione dell'uomo dall'oppressione del sistema capitalista.128 La filosofia in questo senso appare essere un gradino di un percorso di liberazione che vede in ogni caso primeggiare il soggetto pratico dell'azione sul "filosofo" come intellettuale puro, troppo portato a perdersi nell'astrattezza delle sue riflessioni e a farsi condizionare dal potere.

La filosofia del XX secolo come funzione critica



Per approfondire, vedi filosofia contemporanea.

 La filosofia contemporanea trova la sua delimitazione iniziale, secondo la comune storiografia filosofica, nel periodo in cui i grandi ideali e sistemi di pensiero ottocenteschi declinano di fronte alle tragedie e alle disillusioni tipiche del Novecento.

Nel secolo XX l'unico senso tradizionale della filosofia sembra essere rimasto quello della sua funzione critica. Persa ogni possibilità di unificare i saperi particolari, ormai troppo diversi e complessi, la filosofia non si definisce più per un metodo proprio d'indagine o per uno specifico campo di applicazione ma conserva in un certo modo la sua funzione universale riservandosi il compito di critica dei vari saperi, delle loro differenze e delle loro possibilità.129

Questa funzione critica della filosofia si sviluppa in modi diversi a seconda che si veda in essa prevalentemente

    •     l'aspetto metodologico, come critica cioè dei metodi dei saperi, come fa l'empirismo logico130 e la filosofia analitica131

    •     una funzione di critica liberatoria dalla soggezione a strutture filosofiche del passato come nella fase finale della fenomenologia di Edmund Husserl, in modo particolare nell'opera Crisi delle scienze europee;

    •     una funzione di critica dei valori come nel pragmatismo di John Dewey;132

    •     una funzione di critica sociale come in Jürgen Habermas e Max Horkheimer come «interpretazione filosofica del destino degli uomini in quanto non sono puramente individui ma membri della società».133



Filosofia analitica e filosofia continentale



Per approfondire, vedi Filosofia#La filosofia all'analisi della metafilosofia.

 Nel XX secolo, in ambito filosofico, è emerso il confronto-conflitto tra la tradizione analitica e la tradizione detta 'continentale'.134

Con l'espressione filosofia analitica ci si riferisce ad una corrente di pensiero sviluppatasi a partire dagli inizi del XX secolo, per effetto soprattutto del lavoro di Bertrand Russell, George Edward Moore, dei vari esponenti del Circolo di Vienna e di Ludwig Wittgenstein. Per estensione, ci si riferisce a tutta la successiva tradizione filosofica influenzata da questi autori, oggi prevalente in tutto il mondo anglofono (Gran Bretagna, Stati Uniti, Canada, Australia), ma attiva anche in molti altri paesi, fra cui l'Italia.

Con l'espressione filosofia continentale ci si riferisce generalmente ad una moltitudine di correnti filosofiche del XX secolo, quali la fenomenologia, l'esistenzialismo (in particolare Martin Heidegger), il post-strutturalismo e post-modernismo, decostruzionismo, la teoria critica come quella della Scuola di Francoforte, la psicoanalisi (in particolare Sigmund Freud), ed il Marxismo e la filosofia Marxista. Le correnti continentali sono così chiamate perché si sono sviluppate soprattutto sul continente europeo, specialmente in Germania e Francia.135

Neokantismo



Per approfondire, vedi Neokantismo.

Jürgen Habermas della Scuola di Francoforte autore della Teoria critica

 Questa visione della filosofia come funzione critica è evidente nelle nuove filosofie come il neokantismo, con l'obiettivo di recuperare, dall'insegnamento kantiano, l'idea che la filosofia debba essere innanzitutto riflessione critica sulle condizioni che rendono valida l'attività conoscitiva dell'uomo. Se come attività conoscitiva si intende in particolare la scienza, il discorso neocriticista guardò anche ad altri campi di attività, dalla morale all'estetica.

In linea con i principi del criticismo i neokantiani rifiutano ogni tipo di metafisica, e se questo li contrappone polemicamente alle contemporanee correnti neoidealiste e spiritualiste, li allontana allo stesso tempo dallo scientismo del Positivismo che tende ad una visione assoluta e misticheggiante della scienza.136

Le due massime espressioni del neocriticismo tedesco furono incarnate dalla Scuola di Baden e dalla Scuola di Marburgo, che influenzarono buona parte della filosofia tedesca successiva (storicismo, fenomenologia); nonostante questa corrente filosofica si sia diffusa in tutti i paesi europei, altre manifestazioni degne di nota si ebbero solo in Francia (Charles Renouvier).

Una particolare corrente del neokantismo riprende il trascendentale kantiano adottandolo per una filosofia della cultura. In Ernst Cassirer prende il nome di Filosofia delle forme simboliche come recita il titolo della sua opera maggiore.

Neoidealismo

 Così anche nel neoidealismo che definisce il filosofare come «autoconoscenza dello spirito umano»137 con un apparente rifarsi all'eredità hegeliana che, in effetti, come anche in Benedetto Croce, si riduce a una concezione della filosofia come «metodologia della storiografia»138 dove la metafisica hegeliana è ormai completamente dissolta.

Marxismo: la critica sociale

 Questa nuova funzione critica della filosofia, erede del criticismo di Locke e soprattutto di Kant, prevale nel pensiero del XX secolo ad eccezione di alcune correnti marxiste come in György Lukács, Ernst Bloch, Theodor Adorno, Herbert Marcuse per i quali la funzione critica della filosofia non deve rimanere un'astratta descrizione dei saperi e delle loro condizioni di possibilità ma deve portare dialetticamente ad una rivoluzionaria, concreta e reale trasformazione della cultura e delle varie forme del sapere fondate su concrete forze storiche.139

Il valore dell'individuo

 Non bisogna del resto trascurare il fatto che, quando attraverso la critica ci si impossessa teoricamente, o concretamente secondo i marxisti, della cultura e del suo fondamento storico, il protagonista di questo impossessamento è pur sempre il soggetto della tradizione metafisica che è portato a dimenticarsi di quella limitatezza, che Martin Heidegger chiama l'«essere gettato»140 che equipara la certezza della coscienza con la verità mentre, come sosteneva Nietzsche, la coscienza non è altro che «la voce del gregge dentro di noi»141.

Falsificazionismo: la critica della conoscenza scientifica

 Con l'espressione razionalismo critico Karl Popper, riprendendo il pensiero di David Hume e nell'ambito delle dottrine elaborate dal Circolo di Vienna, critica la pretesa di verità definitiva delle proposizioni scientifiche. Rifiutando la validità dell'empirismo logico, dell'induttivismo e del verificazionismo, Popper afferma che le teorie scientifiche sono proposizioni universali, espresse indicativamente per orientarsi provvisoriamente nella realtà. La verosimiglianza delle asserzioni scientifiche può essere controllata solo indirettamente a partire dalle loro conseguenze. Il valore della scienza è quindi più di carattere pratico che conoscitivo e trae origine dall'attitudine dell'uomo a risolvere i problemi in cui si imbatte, intendendo per problema la comparsa di una contraddizione tra quanto previsto da una teoria e i fatti osservati. Popper pone al centro dell'epistemologia la fondamentale asimmetria tra verificazione e falsificazione di una teoria scientifica: infatti, per quanto numerose possano essere, le osservazioni sperimentali a favore di una teoria non possono mai provarla definitivamente e basta anche una sola smentita sperimentale per confutarla. La falsificabilità diviene quindi il criterio di demarcazione tra scienza e non scienza: una teoria è scientifica se e solo se essa è falsificabile142. Ciò conduce Popper ad attaccare le pretese di scientificità della psicoanalisi e del materialismo dialettico del marxismo, dal momento che queste teorie non possono essere sottoposte al criterio della falsificabilità.

Filosofia come scienza umana

 Accanto a una filosofia di orientamento anglosassone, che affonda le sue radici nel positivismo e nel primato della logica formale, si assiste nell'ultimo secolo a una rivalutazione del rapporto originario della filosofia con la letteratura, la poesia, la storia, la sociologia, le scienze umane in generale, in particolare nella filosofia di orientamento continentale, europeo.

Questa posizione è stata profondamente influenzata, in particolare in Italia, dallo storicismo tedesco e dalla sua ripresa da parte di Benedetto Croce, secondo il quale la filosofia stessa, nella contemporaneità, si risolve in un'attività di ricerca storico-culturale, completamente affrancata dal metodo proprio delle scienze naturali.

In altri paesi europei, tuttavia, accanto al permanere di posizioni idealistiche e storicistiche, è stata in particolare la fenomenologia a permeare l'evoluzione del pensiero filosofico, mantenendo un rapporto dialettico fra questi e le scienze umane e naturali.

Autori come Foucault, ad es., indagano la storia seguendo un metodo genealogico, nel tentativo di delineare il percorso evolutivo dell'uomo e della società contemporanea; altri, come Deleuze, adoperano i risultati di ricerche antropologiche e psicologiche, per fondare nuovi concetti filosofici, come il desiderio; altri ancora, come Heidegger, abbandonato il tradizionale approccio della metafisica, si volgono alla poesia alla ricerca di un linguaggio fecondo di spunti riflessivi, da contrapporre alla perdita di senso imposta all'uomo dalla tecnologia moderna.

In altre parole, il problema filosofico fondamentale torna ad essere, innanzitutto, il problema stesso del fondamento, ovvero la necessità di giustificare una forma di conoscenza, quale quella filosofica, attraverso un riferimento esterno ad essa, che le fornisca quella legittimazione e quella stabilità metodica, che essa non sembra in grado di darsi da sola, e alla quale tuttavia non può rinunciare.143

La filosofia e il senso dell'essere

 Con la scoperta della finitezza del soggetto, dei suoi condizionamenti storici, emotivi, economici, sociali ecc., una parte della filosofia di fine secolo rifiuta la definizione della filosofia come critica della ragione e ripropone, fuori dagli schemi della metafisica tradizionale, una filosofia come ricerca del senso dell'essere, inteso come ciò che precede e determina tutto ciò che è,144 ricerca che avvicina la filosofia alla letteratura e alla poesia, per certi versi, come accade anche in alcuni pensatori francesi quali ad es. il de-costruzionista Jacques Derrida.

Sempre nell'ottica di una filosofia concepita come attività di pensiero del tutto libera e creativa, ma pur sempre rigorosa nell'applicazione del suo metodo, si può considerare come profondamente innovativa la riflessione di Gilles Deleuze, secondo il quale l'attività del filosofo consiste in null'altro che creare concetti.145

Problemi e questioni contemporanee

L'utilità della filosofia

« Mi trovai intricato in tanti dubbi ed errori, che mi sembrava di avere tratto nel tentativo di istruirmi un unico utile: la crescente scoperta della mia ignoranza...Mi si era fatto credere che con lo studio avrei acquistato una conoscenza chiara e sicura di tutto ciò che è utile alla vita »

(Cartesio, Discorso sul metodo)

Friedrich Nietzsche

La caratteristica impossibilità di definire i confini della filosofia, e la sua apparente inconcludenza pratica, sono state fra le ragioni fondamentali di un filone critico nei confronti dell'attività del filosofo in sé e per sé. A differenza delle critiche rivolte di volta in volta a singole teorie o opere, coloro che criticano la filosofia intendono per lo più evidenziare l'inutilità, o addirittura la nocività, di questo tipo di attività di pensiero per l'uomo.146

Sin dall'inizio della storia della filosofia si è posto il problema della inutilità pratica della filosofia; basterebbe ricordare l'aneddoto che racconta di Talete che per osservare le stelle con il capo rivolto verso l'alto cascava nelle buche che si trovavano sul terreno. Similmente, Aristofane critica Socrate dipingendolo nel suo pensatoio, in una cesta, intento a venerare le aeree divinità condensate nelle nuvole. In altre parole, già secondo i greci la filosofia avrebbe la colpa di spingere l'uomo a perdere il contatto con la terra, ovvero il senso della realtà.

Quando allora Nietzsche definirà la sua filosofia come "gaia scienza", intenderà appunto richiamarsi a una filosofia che sia capace, come scienza della terra, di occuparsi di questo mondo terreno e non dell'altro, metafisico, inventato da filosofie compromesse con la trascendenza.

Del resto, neppure la scienza, per altri versi, è stata meno severa con la filosofia, o almeno con quella parte del sapere filosofico che pretende di poter trarre conclusioni universali sulla realtà, senza servirsi dei dati dell'esperienza sensibile, del calcolo matematico e della verifica empirica dei suoi risultati. Va tuttavia sottolineato come la filosofia abbia ripreso, progressivamente, una sua autonomia e specificità rispetto alla conoscenza scientifica anche a livello metodico.147

Questa evoluzione storica della filosofia è evidente soprattutto a partire dal periodo successivo all'illuminismo, quando l'attenzione dei filosofi si sposta progressivamente dalle modalità della conoscenza del reale, al rapporto diretto e personale che l'individuo nella sua singolarità è in grado di instaurare con la totalità che lo trascende, intesa come Idea, Volontà di Potenza, Dio o Essere. Accanto a questo percorso, tuttavia, si assiste al risolversi delle antiche discipline filosofiche, nelle scienze che affrontano gli stessi problemi con risultati empiricamente verificabili. Heidegger spiega così questo esito: "Quello che è stato fin qui il ruolo della filosofia, oggi è stato assunto dalle scienze [...] la psicologia, la logica, la politologia [...] la cibernetica".148

« È quanto mai giusto dire che la filosofia non serve a niente l'errore è di credere che con questo ogni giudizio sulla filosofia sia concluso. In realtà resta da fare una piccola aggiunta sotto forma di domanda: se cioè, posto che noi non possiamo farcene nulla, non sia piuttosto la filosofia che in ultima analisi è in grado di fare qualcosa di noi, se appena ci impegnamo in essa »

(Martin Heidegger, Introduzione alla Metafisica, Mursia, Milano 1968 pagg. 22, 23)

Paul Ricoeur

Il matematico Imre Toth, che si è dedicato a definire i rapporti tra la creazione matematica e la speculazione filosofica, in un'intervista a Ennio Galzenati149 ha osservato come le altre scienze come la medicina, l'astronomia non si pongano domande sulla loro specificità, ovvero sulla definizione di sé stesse, come fanno invece la filosofia e la matematica che continuano a interrogarsi sui limiti e le possibilità della propria forma di conoscenza. Altresì manca per il pensiero filosofico un criterio di verificabilità sperimentale che possa stabilire se ciò che esso afferma sia vero o falso; la filosofia stessa, infatti, è soggetta a una continua ridefinizione del criterio di verità con cui essa legittima le proprie conclusioni. Quindi la filosofia risulterebbe, alla fine, un girare a vuoto su sé stessa e costituita da teorie che si contraddicono a vicenda; eppure di essa non si riesce a sbarazzarsene. Opponendosi alla filosofia si fa ancora filosofia.

La tematica della mancata verificabilità del pensiero filosofico che giustifica se stesso può portare però ad esiti scettici, ovvero a considerazioni di tipo ermeneutico, secondo le quali proprio questa "circolarità" del pensiero filosofico che ridefinisce i propri punti di partenza costituisce la specificità e la potenzialità della filosofia, differenziandola dalle altre forme di conoscenza.

Toth sostiene che, falliti gli ultimi tentativi positivistici150 di ridurre la filosofia a scienza, ci si è resi conto che l'oggetto della filosofia non sono gli oggetti naturali che studiano le scienze ma l'uomo stesso.151 L'uomo che indaga l'uomo, questo è ciò che caratterizza il filosofare che ha conseguito risultati concreti nel corso della sua lunga storia rendendo coscienti alla mente dell'uomo principi e valori universali prima inespressi o semplicemente intuiti.152

Se noi oggi consideriamo chiaro ad esempio quello che diciamo quando parliamo di libertà dimentichiamo che questo concetto appare per la prima volta nelle "Etiche" di Aristotele. Nella "Grande Etica", e nell'"Etica Eudemia" Aristotele parla però non di libertà, come noi oggi la intendiamo, ma di eleutheros, eleutheria che in greco antico connotava soltanto la condizione sociale dell'uomo libero in rapporto a uno schiavo. Aristotele non disponeva ancora di un termine equivalente al concetto che noi oggi abbiamo di libertà. Ed è proprio da Aristotele che è cominciata la lunga storia che ha portato alla coscienza riflessa del significato di quel termine, ora diventato per noi banalmente chiaro e che la filosofia continuerà ad arricchire di significati nel futuro.

Come afferma Remo Bodei: «la filosofia ha avuto il merito di essere, e di continuare a essere, un laboratorio in cui concetti e valori vengono collaudati, vengono sperimentati e se ne osserva la tenuta rispetto alla discussione che si svolge nell'intera società. Quindi la filosofia ha il senso di creare in un mondo che cambia continuamente, in generazioni che si susseguono, in mentalità che si incontrano, questo spirito che è quello della ricerca critica, della vigilanza e persino del dubbio».153

Opinione condivisa dal filosofo statunitense Richard Rorty che dichiarò in un'intervista sul destino della filosofia: «La filosofia non potrà finire finché non finiranno i mutamenti sociali e culturali: tali mutamenti, infatti, contribuiscono a rendere obsolete le concezioni generali che abbiamo di noi stessi e del contesto in cui viviamo, determinando la necessità di un nuovo linguaggio mediante cui esprimere nuove concezioni.»154

Come nota Paul Ricoeur, nel realizzare questo suo compito la filosofia esprime un valore unificante nell'assicurare, nella diversità dei linguaggi, la loro connessione reciproca. Dobbiamo al pensiero filosofico se la cultura europea occidentale non si sia frantumata e parcellizzata, perdendo il senso della sua unità, di fronte alla specializzazione dispersiva dei vari saperi tecnologici. Mentre infatti la filosofia si sviluppa unitariamente cercando di risolvere le domande di un'epoca, ma tenendosi collegata a quelle passate, «nella storia delle scienze ci sono rotture, discontinuità, denominate fratture epistemologiche155 che fanno del percorso della scienza un cammino continuamente interrotto.

La filosofia e il metodo

 Alcuni autori come Kant e Wittgenstein, pur nella distanza storica che li separa, concordano che l'assenza di una forma di verifica empirica in filosofia è una caratteristica epistemologica essenziale di questa dottrina, la quale rifiuta ogni commistione con le scienze sperimentali pur ritenendosi legittimata ad accedere alle risultanze della scienza, per adeguarvi i propri concetti. Per esempio questo si è verificato nella corrente dello spiritualismo con Bergson.

Appare chiaro comunque che la filosofia non è una scienza sperimentale anche quando essa dedica la sua attenzione all'esame dei fatti empirici, collimando così con discipline quali la sociologia, la pedagogia, la politica ecc. La filosofia in questi ambiti considera i dati empirici ma non si limita a catalogarli; piuttosto, essa studia questi dati concreti nell'ottica di una teorizzazione critica. Così per esempio Aristotele prenderà in considerazione le costituzioni delle città greche della sua epoca ma se ne servirà nella Politica per dedurne delle considerazioni teoriche di carattere universale.

Sin dai suoi inizi la filosofia sembra talora indirizzarsi verso un linguaggio di tipo matematico o logico formale; essa però non ha mai finito per esaurirsi in una mera simbolizzazione formale dei concetti, anche se Leibniz per primo poneva l'esigenza di risolvere i problemi filosofici per mezzo di un calcolo logico universale. Se oggi la filosofia analitica deve necessariamente ricorrere alla logica matematica tuttavia essa utilizza ancora prevalentemente il linguaggio naturale.

Purtuttavia non è azzardato affermare che proprio le regole del metodo delineate filosoficamente hanno poi consentito alle scienze sperimentali di poter conseguire i loro risultati.156 Quando Socrate ad esempio affermava che bisognava liberare la mente dalle verità preconcette questo nel campo del lavoro scientifico vuol dire mettere in discussione le conoscenze acquisite per poter poi progredire nella scoperta.

Il rapporto fede-ragione

 Nell'ultimo secolo, e in particolare negli ultimi decenni, non sono mancati i tentativi, da parte di esponenti della Chiesa Cattolica, di sottolineare la necessità di un pensiero forte, frutto della conciliazione fra filosofia e dottrina cristiana, capace di contrapporsi al nichilismo, al relativismo, a tutti gli irrazionalismi e in generale, alla perdita di fondamento che l'uomo contemporaneo sperimenta secondo l'interpretazione della realtà corrente da parte della chiesa cattolica.

Questi appelli hanno trovato una sintesi in un'enciclica, promanata da papa Giovanni Paolo II nel finire dell'XX secolo col nome di Fides et Ratio che presenta lo spirito dell'uomo come compreso tra due ali che sono appunto la fede e la ragione. Mancando una sola delle due non si può spiccare il volo alla ricerca della verità.157

Va però rimarcato come questo punto di vista non ha di per sé mutato lo stato attuale del dibattito filosofico, che è da tempo impegnato, pur fra vari punti di vista, in un'analisi critica dei presupposti e dei fondamenti di tutta la tradizione del pensiero occidentale; questa analisi, che ha preso le forme (per citare solo alcuni dei tanti casi) del pensiero debole, della filosofia analitica, del costruttivismo di Deleuze o del decostruzionismo di Derrida, ha messo in luce come la ragione, secondo questi filosofi, non appaia più in grado di offrire verità forti e sistematiche. Il compito della filosofia, oggi, sembrerebbe piuttosto essere quello di denunciare tutti gli usi ambigui e inadeguati del linguaggio, e della ragione stessa, che spingono l'uomo a cadere vittima di irrazionalismi e ideologie.

Resta tuttavia attuale lo scontro fra la filosofia e la religione cattolica, con riguardo a quelle evoluzioni scientifiche che mettono l'uomo in condizione di operare scelte autonome e personali sui fondamenti biologici della sua vita e di quella di altri. Il nuovo terreno di scontro, o di possibile incontro, fra fede cattolica e ragione, è oggi quindi rappresentato dalla bioetica.

La filosofia all'analisi della metafilosofia



Per approfondire, vedi metafilosofia.

 La metafilosofia, ossia la disciplina filosofica indirizzata a chiarire la natura della filosofia e i suoi metodi e applicazioni, la filosofia, dunque, che riflette su sé stessa e che origina dall'antichità, da Platone sino ai nostri giorni passando per Hegel, nel XX secolo ha acquisito una posizione di speciale rilievo.158

Il problema fondamentale che il Novecento filosofico si trova a dover fronteggiare è infatti in quale misura la riflessione filosofica, con le sue caratteristiche pretese di generalità e fondamentalità, abbia ancora un senso e un ruolo all'interno del sistema delle scienze specializzate.159

Nel secondo Ottocento, in effetti, l'assetto dei saperi andava definendosi in modo tale da far pensare che la filosofia potesse decisamente scomparire. Nel corso del secolo alcune discipline cardine della filosofia, come la logica e la psicologia (intesa come studio del pensiero, o della mente), erano diventate scienze autonome. Anche l'antropologia, la sociologia, la linguistica, la scienza politica, che una volta facevano parte del territorio della filosofia, vantavano ora lo statuto di scienze specializzate.

«Se la filosofia fosse qualcosa di cui si potesse fare a meno» ha scritto Ortega y Gasset, «non v'è dubbio che in quell'epoca [alla fine dell'Ottocento] sarebbe decisamente morta».160

In seguito la prospettiva della "fine della filosofia" è rimasta uno dei temi favoriti delle riflessioni dei filosofi sino a quando la metafilosofia all'inizio della seconda metà del XX secolo ha identificato nella filosofia, proprio nel momento in cui la scienza e la vita pubblica sembrano interpellarla di nuovo, una divisione:161 il confronto-conflitto tra la tradizione analitica e la tradizione detta 'continentale'. Perciò per un verso, la speculazione filosofica facente capo alla prima, che generalmente difende un tipo di lavoro filosofico molto attento alla logica e all'argomentazione, rispettoso della scienza, preferenzialmente estraneo alla vita pubblica e ai media, sembra oggi svilupparsi quasi esclusivamente nell'ambiente accademico come disciplina che procede parallelamente alle altre scienze.162

La ricerca infatti, in passato sviluppata in ambito privato indipendente dai grandi pensatori del XVII secolo (Cartesio, Spinoza) o del XIX secolo (Marx, Nietzsche, ecc.), o del XX come Benedetto Croce e Sartre, ora è stata sostituita dalle figure istituzionali dei filosofi-professori, situazione questa di cui è possibile trovare forse un lontano esempio nei tempi della filosofia medievale.163

Per un altro verso, in accordo con la filosofia continentale, che generalmente non cura molto l'argomentazione, non ha simpatia per la logica ed è molto interessata all'uso pubblico della filosofia, si assiste a un rinnovato interesse per la ricerca filosofica, di cui si occupano anche quotidiani, siti specializzati sul web, da parte di un pubblico di non specialisti che affollano dibattiti pubblici su temi come la bioetica o l'etica ambientale.164

In quest'ambito si è posto nuovamente il tema della comunicazione filosofica.

La divulgazione filosofica



Per approfondire, vedi Comunicazione filosofica.

 (FR) 
« Quand celui qui écoute ne comprend pas, et que celui qui parle ne se comprend plus, c'est de la métaphysique. (Voltaire)165 »

 (IT) 
« Quando colui che ascolta non capisce e colui che parla non si capisce più, questa è la metafisica »

È possibile intravedere in questo odierno processo di divulgazione al pubblico della filosofia, un tentativo di risolvere una delle più antiche accuse che la filosofia condivide con la scienza, la matematica e la teologia, quella cioè di incomprensibilità del linguaggio adottato.

Certo è inevitabile l'uso di un linguaggio specialistico ma da alcuni vi si è voluta vedere la volontà di utilizzare a bella posta un linguaggio castale, riservato agli addetti ai lavori.

Un po' quanto già accadeva con Eraclito, chiamato l'"oscuro", lo skateinos, che nascondeva sotto l'ermeticità del linguaggio la convinzione che il suo pensiero potesse essere inteso solo da pochi, dai migliori. Una concezione aristocratica del sapere che si tramandò in Platone sostenitore della concezione che gli uomini, nati con un patrimonio di idee innate, per quanto facciano esperienze non potranno mai andare oltre quelle conoscenze già contemplate nell'Iperuranio.

Per questo il filosofo è colui la cui anima bella, già prima di nascere, possiede un sapere che le anime rozze non avranno mai.166

Oggi il problema di comunicazione del sapere comporta finalmente la consapevolezza che bisogna «... partire non dallo scienziato o dal filosofo o comunque dall'intellettuale aggiornato, ma proprio dal tipo di domande che vengono dal pubblico, che vengono dalla gente, dall'uomo della strada. Questo dovrebbe essere almeno il nostro orizzonte, l'orizzonte di chi fa divulgazione.»167

Su questa linea alcune moderne esperienze filosofiche promuovono un uso divulgativo e dialettico del pensiero, offrendo anche forme nuove di fruizione della filosofia, come negli Stati Uniti con le esperienze ormai affermate della Philosophy for Children, la filosofia per bambini, o come nella consulenza filosofica per il benessere della persona nella sua vita privata o nel lavoro aziendale.

Caratteristica di questo nuovo modello di filosofia è che esso non viene fornito solo da professionisti della filosofia ma spesso anche da esperti di altri settori scientifici. Così oggi ingegneri informatici, biologi, fisici ritengono utile alla loro ricerca l'approfondimento filosofico.168

Bibliografia

Manuali scolastici

    •     N. Abbagnano / G. Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, 3 volumi, Paravia, Torino 1996.

    •     L. Ardiccioni, Filosofia, D'Anna, Messina-Firenze 1996

    •     F. Cioffi et al., Diàlogos, 3 volumi, Bruno Mondadori, Torino 2000.

    •     A. Dolci / L. Piana, Da Talete all'esistenzialismo, 3 volumi, Trevisini Editore, Milano (rist. 1982).

    •     C. Esposito, P. Porro, Filosofia, 3 tomi (I - Antica e Medievale, II - Moderna, III - Contemporanea), Laterza, Roma - Bari 2009.

    •     S. Gabbiadini / M. Manzoni, La biblioteca dei filosofi, 3 volumi, Marietti Scuola, Milano 1991.

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    •     S. Moravia, Sommario di storia della filosofia, Le Monnier, Firenze 1994.

    •     G. Reale / D. Antiseri, Storia della filosofia, 3 volumi, Brescia 1973.

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    •     S. Givone, F.P. Firrao, Philosophia, (3 volumi) Firenze, Bulgarini, 2011

    •     G. Boniolo, P. Vidali, Argomentare, 5 volumi, Milano, Bruno Mondadori, 2003

Alcuni testi di studio

    •     N. Abbagnano, La saggezza della filosofia, Rusconi, Milano 1987.

    •     P. D'Alessandro, "Esperienza di lettura e produzione di pensiero. Introduzione alla filosofia teoretica", LED Edizioni Universitarie, Milano, 1994, ISBN 88-7916-051-6

    •     M. Farber, I problemi fondamentali della filosofia, Mursia, Milano 1970.

    •     L. Ferry, Vivere con filosofia, Milano, Garzanti, 2007

    •     H. Georg Gadamer, L'inizio della filosofia occidentale, Guerini e Associati, Milano 1993.

    •     A. Gentile, Filosofia del limite, Rubbettino Editore, Soveria Mannelli, 2012, ISBN 88-498-3242-7

    •     D. Huisman, Il manuale di filosofia, Lato Side, Roma 1980.

    •     J.-P. Jouary, A che cosa serve la filosofia?, Adriano Salani Editore, Firenze 1995.

    •     C. Monaco, Conoscere la filosofia, Thema Editore, Bologna 1988.

    •     T. Nagel, Brevissima introduzione alla filosofia, il Saggiatore, Milano 1989.

    •     F. Papi, Capire la filosofia, Ibis, Como-Pavia 1993.

    •     K. Pomian, voce Filosofia/filosofie, in "Enciclopedia Einaudi", vol. 6, Einaudi, Torino 1979.

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    •     B. Russell, Storia della filosofia occidentale, TEA, Milano 1991.

    •     E. Severino, La filosofia antica, Milano, Rizzoli, 1984.

    •     N. Warburton, Il primo libro di filosofia, Einaudi, Torino 1999.

    •     W. Weischedel, La filosofia dalla scala di servizio, Raffaello Cortina Editore, Milano 1996.

Enciclopedie e dizionari

    •     N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1971 (seconda edizione).

    •     F. Brezzi, Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton Compton, Roma 1995.

    •     Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze 1976.

    •     Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario delle idee, Sansoni, Firenze 1976.

    •     Enciclopedia Garzanti di Filosofia, Garzanti, Milano 1981.

    •     E.P. Lamanna / F. Adorno, Dizionario dei termini filosofici, Le Monnier, Firenze (rist. 1982).

    •     L. Maiorca, Dizionario di filosofia, Loffredo, Napoli 1999.

    •     D.D. Runes, Dizionario di filosofia, 2 volumi, Mondadori, Milano 1972.

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Filosofia teoretica

« La filosofia teoretica è una disciplina al tempo stesso particolare e generale. Essa è una partizione interna di quell'intero che è il sapere filosofico e nel contempo è, o riassume in sé, l'intera filosofia.1 »

 La filosofia teoretica (da ϑεωρητικός derivante dal greco θεωρέω, theoréo, "guardo", "osservo", composto da θεά theà2, "thea" e ὁράω horào, "vedo") riguarda ciò che attiene alla teoria o alla teoresi volendosi intendere con quest'ultimo termine un'accentuazione del carattere speculativo astratto e l'assenza nel pensiero teoretico di ogni riferimento alla pratica.3

La filosofia teoretica, come materia di studio accademico, tratta i problemi generali concernenti la conoscenza nei suoi aspetti fondamentali e avanza una ricerca metodologica e teorie generali, simili ma non coincidenti a quelle della metafisica ossia della realtà nella sua interezza.4 In questo senso essa si pone antiteticamente alla filosofia pratica e alla storia della filosofia.

In particolare la filosofia teoretica si occupa anche dei fondamenti teorici della scienza.5

La "visione" nel pensiero greco arcaico

 La presenza del termine θεωρέω theoréo, vedo,  nella etimologia di questa branca della filosofia trova spiegazione nel pensiero di Guido Calogero che si dedicò in modo particolare ai problemi logici del pensiero antico.6

Nel 1927 grazie ad una borsa di studio Calogero trascorse un lungo periodo presso l'Università di Heidelberg dove incontrò pensatori come Heinrich Rickert, Raymond Klibansky  e conobbe l'opera di Ernst Cassirer. Avvalendosi delle conoscenze sul pensiero di questi studiosi e dei suoi studi su Aristotele, egli cominciò a definire un concetto di "età arcaica".

Mentre Cassirer parlava di un'età mitica dove non si distingueva tra parola e cosa, riferendola al passaggio dal pensiero primitivo a quello razionale adulto, Calogero vi vedeva una "coalescenza arcaica" , una specie di fusione di linguaggio, realtà e verità.

Nel primo capitolo della Storia della logica antica, dedicato a "La struttura del pensiero arcaico", Calogero espose la sua teoria secondo la quale i greci avevano una visione della  realtà come "spettacolo": la vista era, ed è, infatti, tra i cinque sensi, quello primario per la specie umana, che mette in contatto diretto con il mondo esterno.7

I Greci, sostiene Calogero, in epoca arcaica non distinguevano dunque tra visibilità8, esistenza e pensiero: solo ciò che era visibile esisteva veramente e quindi poteva essere pensato. Questa interpretazione veniva da Calogero, e successivamente dallo storico della filosofia antica Gabriele Giannantoni, suffragata da una serie di prove indirette:

    •    il termine" idea" deriva da una radice "id" del verbo greco "orao" che vuol dire vedere. Ancora in Platone l'"idea" è il risultato di una visione, sia pure intellettuale, del mondo dell'iperuranio;

    •    la forma più antica della letteratura greca è la storia, dal greco "istor", che vuol dire "testimone oculare": lo storico, cioè, può narrare avvenimenti esistenti perché li ha visti con i suoi occhi, mentre, al contrario, colui che narra vicende fantastiche o irreali è anticamente rappresentato come cieco;

    •    l'architettura greca arcaica privilegia negli edifici la parte frontale, quella più visibile, e lascia non ornati gli altri lati;

    •    la forma più antica di scultura è il bassorilievo, che della scena rappresentata privilegia la parte visibile allo spettatore, mentre la scultura a tutto tondo è storicamente posteriore.



La religione più antica, quella iniziatica dei misteri sembra contraddire questa teoria. I misteri, infatti, venivano celebrati in luoghi appartati e la stessa parola richiama il buio, la segretezza. In effetti il termine misteri deriva da mùstoi (μύστοι), a sua volta derivato dal verbo muo (μύω), che significa "coloro che serrano la bocca e strizzano gli occhi" come si fa appunto per vedere meglio. I mùstoi, cioè, sono quelli che vogliono vedere l'invisibile.

Una permanenza di questa indistinzione tra essere e pensiero Calogero la riscontra nei suoi studi sugli eleati, e in particolare su Parmenide, il filosofo convinto che pensare ed essere siano la stessa cosa e che non si possa pensare il "non essere".

Generalità della filosofia teoretica

 La filosofia teoretica può in un certo senso essere definita la parte più generale della filosofia. È difficile dare una descrizione esatta dei principali problemi della filosofia teoretica, poiché qualunque descrizione di questo tipo già presuppone l'adesione e la formulazione di una ben precisa impostazione teoretica, come del resto qualsiasi tentativo di definire la filosofia e i suoi specifici settori. Certo è che l'altissimo livello di generalità della filosofia teoretica ha delle ricadute su tutte le altre "aree" della filosofia, perché è proprio essa ad occuparsi specificamente della definizione degli ambiti in cui esse si trovano ad operare, e dei metodi che esse devono adottare per risolvere i propri problemi specifici.9

In generale si può indicare che la filosofia teoretica si rivolge al tema fondamentale dei criteri della Conoscenza e a quelli della Filosofia della scienza anche se rispetto a questi due settori ha uno sguardo più generale. Inoltre è possibile dire che il compito primo, e tuttora ben lontano dall'esser portato a termine, della filosofia teoretica è definire l'oggetto della Filosofia e il metodo della sua ricerca.

In questo senso è possibile differenziarla dalla Metafisica, la quale ha sin dall'inizio conosciuto una delimitazione ben precisa del suo ambito di applicazione.

Definizione di filosofia teoretica

 Potremmo quindi definire la filosofia teoretica una “filosofia della filosofia” o anche una "filosofia prima" (ancorché questo epiteto venga sovente ascritto all'opera Metafisica di Aristotele): infatti fa parte certamente dei suoi compiti trovare una caratterizzazione adeguata del concetto stesso di filosofia, di quali siano i suoi temi specifici e i suoi metodi. Ma proprio su questa caratterizzazione la comunità dei filosofi non ha mai raggiunto il benché minimo accordo, e anzi è oggi più che mai uno dei problemi più scottanti, sul quale vertono le discussioni. La filosofia va continuamente alla ricerca del proprio compito.10

Centrale per molti è il carattere metodologico della filosofia teoretica: essa è più un modo di affrontare certi problemi, un atteggiamento che un uomo assume nei confronti del mondo e di ciò che sappiamo di esso, più che un insieme consolidato di dottrine nelle quali credere, come la scienza naturale, la religione, il diritto o la critica artistica e letteraria.

Problemi della filosofia teoretica

 In realtà la migliore definizione che si possa dare di questa "disciplina filosofica" è l’esposizione di alcuni dei suoi principali problemi.

Ci sono due questioni centrali che definiscono la filosofia teoretica in senso moderno, le cui prime esposizioni possono trovarsi in autori come Cartesio; esse sono strettamente legate tra loro.

La prima è "Qual è la struttura ultima della realtà?"; è la domanda della metafisica, ed una risposta positiva ad essa costituisce una ontologia.

La seconda domanda riguarda la possibilità della conoscenza e può essere così formulata: "È possibile conoscere questa struttura ultima?", o anche "è possibile una conoscenza autentica, che non sia mera opinione ma scienza?". È la domanda della teoria della conoscenza, o gnoseologia 11

Atteggiamenti teoretici

 Rispetto a queste domande possono esservi atteggiamenti teoretici differenti da parte dei filosofi: un primo atteggiamento può essere detto dogmatico. Esso argomenta in favore dell’assunzione di una risposta positiva alla prima domanda, dando quindi una certa descrizione della realtà ultima, dalla quale viene ricavata la risposta alla seconda domanda. Oppure, partendo da una qualche certezza ritenuta indubitabile, che costituisce dunque una risposta positiva alla seconda domanda, ricostruiscono da essa una immagine di come realmente è strutturato il mondo. Quest’ultima è la strategia adottata ad esempio da Cartesio, necessaria per affrontare le obiezioni dello scettico.

Un secondo atteggiamento è appunto quello dello  scettico. Egli risponde negativamente alla seconda domanda, sostiene cioè che non vi sia mai una vera e propria conoscenza, ma sempre e solo opinione. Per questo si rifiuta di rispondere positivamente alla prima, egli ritiene impossibile per l’uomo conoscere la vera natura delle cose. La struttura ultima della realtà, l’essenza delle cose, è inconoscibile.

Questi due tipi di atteggiamento sono in qualche modo riscontrabili in tutta la filosofia, dalle sue origini ad oggi. Nella maggior parte degli autori i due atteggiamenti si mescolano in vari gradi, producendo quella varietà di pensiero tipica della filosofia.

Atteggiamento critico, da Kant in poi

 Ma da Kant in poi è nato un nuovo atteggiamento introducendo una serie di elementi rivoluzionari per la filosofia teoretica. Kant attua una vera e propria "rivoluzione copernicana" nel campo della conoscenza filosofica, perché, come Copernico aveva invertito il rapporto tra il sole e la terra, così il filosofo tedesco intende ora invertire i rapporti tra soggetto e oggetto della conoscenza. Mentre prima si pensava, in maniera dogmatica, che le forme del soggetto si adattassero passivamente alla natura, col criticismo si inaugura una nuova concezione per la quale è l'esperienza sensibile a venir modellata dalle nostre strutture mentali.12  Kant, con il suo criticismo 13 , ha introdotto una nuova prospettiva con la quale guardare il problema della conoscenza e, di conseguenza, anche la metafisica. Questi sono alcuni dei principali motivi di novità:

    •     Sposta l’attenzione della gnoseologia dal problema del rapporto tra idee soggettive e cose oggettive a quello della validità dei giudizi; quali sono i criteri per dire che un giudizio è valido (cioè vero)?

    •     Viene rifiutata di conseguenza la tradizionale contrapposizione tra il soggetto conoscente e l’oggetto reale, comune sia al dogmatico che allo scettico.   

    •     L’oggetto della conoscenza non è più una cosa in sé, ma un fenomeno, che appare in una rappresentazione seguendo i principi dell’intelletto puro (cioè i giudizi sintetici a priori).

    •     La conoscenza non è il rispecchiamento passivo di una realtà predeterminata, essa è una "costituzione" dell’oggetto secondo le regole della ragione a partire da un materiale sensibile dato. In essa l’intelletto ha un ruolo attivo (questa attività è la "spontaneità dell’intelletto" che si contrappone alla natura passiva della sensibilità, la “ricettività”).

    •     La filosofia critica non può descrivere la realtà come è in sé stessa, può invece esporre i principi a priori con cui l’intelletto costituisce il mondo fenomenico.

    •     Il mondo fenomenico non è un mondo di "mere parvenze", è il mondo di oggetti che tutti conosciamo. In esso i principi dell’intelletto servono a distinguere tra la realtà (empirica) e l’immaginazione.



La trattazione kantiana dell'esistenza

 Particolarmente rilevante per gli sviluppi successivi è la trattazione kantiana del concetto di esistenza. Il fatto che l’esistenza non sia un predicato (sfruttato per confutare la Prova ontologica dell’esistenza di Dio) può essere considerata un'anticipazione della moderna teoria della quantificazione, sviluppata dalla logica e assai discussa nella filosofia analitica.

D’altra parte nella filosofia continentale 14 Heidegger ha sviluppato il legame rilevato da Kant tra esistenza e temporalità, per superare l’impostazione tradizionale della metafisica e del problema ontologico. Egli propone un sostanziale abbandono del problema della conoscenza e della metafisica come ricerca della struttura ultima della realtà. La filosofia diventa interpretazione dell’ esistenza, in particolare dell’esistenza sensata, quella umana. Da Heidegger in poi nella filosofia continentale si parlerà di ermeneutica. Si indicano in generale le princincipali filosofie che hanno discusso l’eredità kantiana:

    •    idealismo tedesco e Neokantismo

    •    positivismo

    •    positivismo logico

    •    pragmatismo

    •    fenomenologia

Temi teoretici nella filosofia esistenziale

 Nella filosofia continentale l'ermeneutica, da Heidegger in poi, è stata un ulteriore salto di qualità rispetto all’atteggiamento critico di Kant, un nuovo atteggiamento teoretico che rifiuta certe ossessioni della filosofia moderna, come il primato del conoscitivo e la ricerca del fondamento della conoscenza.

Si indicano in generale le princincipali filosofie del secolo XX che hanno trattato questioni di filosofia teoretica, sotto il punto di vista dei problemi esistenziali:

    •    esistenzialismo

    •    post-strutturalismo

    •    decostruttivismo

Temi teoretici nella filosofia della scienza

 La filosofia analitica 15 si pone in continuità con l’impostazione tradizionale della filosofia teoretica, così come si è configurata nell'illuminismo e nel positivismo. La teoria della conoscenza inizia ad essere anche epistemologia, filosofia della scienza. Il problema diventa quello delle fonti di validità delle teorie scientifiche, oltre che la ricerca di un metodo per distinguere tra ciò che è o può essere scienza e ciò che non lo è. Karl Popper, ad esempio, cercherà nel suo "falsificazionismo" (vedi falsificabilità) un criterio di demarcazione tra scienza e non-scienza.

Viene inoltre aggiunto un nuovo livello di complessità con la “svolta linguistica”, introducendo nel problema della conoscenza e della metafisica il piano del linguaggio. Fu prima di tutto l’emergere della nuova logica ad opera di Frege, Bertrand Russell 16 e Ludwig Wittgenstein a portare nella filosofia teoretica la filosofia del linguaggio, arricchendola con nuovi problemi come quello del significato (o senso) e del riferimento (o denotazione) degli elementi che formano il discorso umano. Le nuove potenzialità dell’analisi logica portano un altro nuovo blocco di problemi, trattati dalla filosofia della scienza e dalla filosofia della matematica.

Uno spartiacque importante è la crisi del principio di verificazione (portato avanti dal positivismo logico) avvenuto tra gli anni cinquanta e gli anni settanta del novecento ad opera della cosiddetta Nuova Filosofia della Scienza (rappresentata all'estero da autori come Thomas Kuhn e Imre Lakatos ed in Italia da: Ludovico Geymonat, Giulio Giorello e Marcello Pera ).

Da allora si sono riaffermati diversi atteggiamenti teoretici, già presenti nella tradizione rinascimentale e illuminista (che potremmo definire, oltre che post-critici, anche post-verificazionisti) il cui contributo alla filosofia teoretica contemporanea è ancora in corso di evoluzione.

    •    Realismo

    •    Empirismo

    •    Razionalismo

    •    Filosofia della scienza

Opere di filosofia teoretica

    •    Platone, "Dialoghi socratici", "La Repubblica", 390-370 a.C.

    •    Aristotele, "Organon", "Metafisica" (scritti di logica), 340-330 a.C.

    •     S.Tommaso d’Aquino, "De veritate" (La verità - da: “Questioni disputate”)

    •    Cartesio, "Discorso sul metodo", Parigi 1637

    •    John Locke, "Saggio sull’intelletto umano", Londra, 1690

    •    Leibniz, "Nuovi saggi sull'intelletto umano", 1705

    •    Spinoza, "L’Ethica, ordine geometrico demonstrata", Amsterdam 1677

    •    David Hume "Trattato sulla natura umana", 1739 – 40

    •    Kant, "Critica della ragion pura" (1781).

    •     Kant, "Critica della ragion pratica", Konisberg 1788

    •    John Stuart Mill, "Sistema di logica deduttiva e induttiva", Londra 1843

    •    Heidegger, "Essere e tempo" (1927)

    •    Piero Martinetti, Introduzione alla Metafisica. Teoria della conoscenza, Marietti, Genova, 1987 (riedizione, prima ed. 1904)

    •    Giovanni Emanuele Barié, L'io trascendentale, 1948.    

    •    Bertrand Russell, "Storia della filosofia occidentale", TEA, Milano 1991.

    •    Karl Popper, "Logica della scoperta scientifica", Vienna 1935

    •    Thomas Kuhn, "La struttura delle rivoluzioni scientifiche", Chicago 1962

Bibliografia

    •    Nicola Abbagnano, "Scritti neoilluministici", in Classici della filosofia, Utet Torino 2001

    •      Nicola Abbagnano, "Dizionario di filosofia", UTET, Torino 1971

    •    Ludovico Geymonat, "Studi per un nuovo razionalismo", 1945

    •     Ludovico Geymonat, "Storia del pensiero filosofico e scientifico", 7 volumi, Garzanti, Milano,  1970-76.

    •    Paolo Rossi, "La filosofia", 4 volumi, Utet, Torino 1995

    •     AA.VV. "Enciclopedia Garzanti di Filosofia", Garzanti, Milano 1981.

Collegamenti esterni

    •     Filosofia teoretica in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Logica

La logica (dal greco λόγος, logos, ovvero "parola", "pensiero", "idea", "argomento", "ragione", da cui poi λογική, logiké) è lo studio del ragionamento e dell'argomentazione e, in particolare, dei procedimenti inferenziali, rivolto a chiarire quali procedimenti di pensiero siano validi e quali non validi.

Discipline di studio

 La logica è tradizionalmente una delle discipline filosofiche, ma essa riguarda anche numerose attività intellettuali, tra cui matematica, semantica e informatica. In ambito matematico la logica è lo studio di inferenze valide all'interno di alcuni linguaggi formali.1

Fanno parte degli studi della logica anche quelli per le espressioni verbali dell'analisi logica della proposizione e dell'analisi logica del periodo.

La logica è stata studiata in molte antiche civiltà tra cui rientrano quelle del Subcontinente indiano, la Cina e la Grecia. Fu posta per la prima volta come disciplina filosofica da Aristotele, che le assegnò un ruolo fondamentale in filosofia. Lo studio della logica faceva parte del trivium, che includeva anche grammatica e retorica. All'interno della logica si distinguono diverse metodologie di ragionamento: la deduzione, ritenuta l'unica valida sin dall'età classica, l'induzione, tuttora oggetto di critiche,2 e l'abduzione, recentemente rivalutata dal filosofo Charles Sanders Peirce.

Origine del termine

 Il termine λογικός (loghikòs) compare in tutta la storia della filosofia antica precedente  (da Eraclito a Zenone, dai sofisti a Platone) e seguente la dottrina aristotelica con il significato generico di "ciò che concerne il  λόγος" (logos), nel senso molteplice di "ragione", "discorso", "legge" ecc. che ha questa parola in greco.

Dopo Aristotele nella scuola stoica i termini ἡ λογική (τέχνη) (e loghiké tékne), τὰ λογικά (tà loghikà) assumono il significato tecnico di «teoria del giudizio e della conoscenza» intendendo non solo la gnoseologia ma anche la struttura formale del pensiero. Ed è con questo ultimo valore di organizzazione scientifica delle leggi che assicurano non la verità ma la correttezza del pensiero che Aristotele si dedicò alla elaborazione della logica, termine che non è stato mai da lui utilizzato3

Alla logica aristotelica fu attribuito anche il termine di "Organon" (strumento) che si ritrova invece per la prima volta in Andronico di Rodi (I secolo a.C.) e ripreso da Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.)4 che lo riferì agli scritti aristotelici che hanno come tema l'Analitica che è il termine che usa propriamente Aristotele per indicare la risoluzione ("analisi" dal greco ἀνάλυσις - analysis-  derivato di ἀναλύω - analyo - che vuol dire "scomporre, risolvere nei suoi elementi") del ragionamento nei suoi elementi costitutivi.

Logica classica



Per approfondire, vedi Logica classica e Metodo deduttivo.

 La logica classica è la scienza che tratta tutta la validità e le articolazioni di un discorso in termini di nessi deduttivi, relativamente alle proposizioni che lo compongono.

Filosofia antica

 In Occidente, i primi sviluppi di un pensiero logico, che consentisse di spiegare la natura a partire da argomentazioni coerenti e razionali, si sono avuti con i presocratici.

Pitagora riteneva che la matematica fosse la legge fondamentale del pensiero, una legge che gli dava vita e forma secondo la propria struttura; egli inoltre vedeva nel numero il fondamento non solo del pensare, ma anche della realtà. Il legame indissolubile tra la dimensione ontologica e quella gnoseologica resterà una costante della filosofia greca: per Parmenide e la scuola di Elea, la logica formale di non-contraddizione, che è la regola a cui sottostà ogni pensiero, è infatti anche legge dell'Essere,5 che ne risulta vincolato in maniera necessaria: «La dominatrice Necessità lo tiene nelle strettoie del limite che lo rinserra tutto intorno; perché bisogna che l'Essere non sia incompiuto».6 La tesi parmenidea dell'immutabilità dell'Essere, che «è e non può non essere», fu un primo esempio di logica dei predicati, incentrata cioè su una stringente coerenza tra il soggetto e il predicato; essa venne fatta propria dal suo discepolo Zenone di Elea, il quale ricorrendo all'uso dei paradossi mise in atto una dimostrazione per assurdo per confutare le obiezioni degli avversari.

Accanto a questo tipo di logica lineare (chiamata impropriamente dialettica),7 propria degli eleati, Eraclito sviluppava una dottrina antidialettica, basata sull'interazione e la complementarità di due realtà contrapposte, che anziché escludere i paradossi in quanto ritenuti "illogici", li accoglieva come un dato di fatto. Eraclito tuttavia evidenziava anche come quelle contraddizioni altro non fossero che variazioni superficiali di un identico sostrato, che celavano la trama segreta dell'unico logos.8 In che misura la dottrina eraclitea del logos si opponesse al principio di non-contraddizione risulta pertanto poco chiaro, ed era oggetto di discussione tra gli stessi antichi greci.9

In Platone la logica si configura come dialettica, ossia come la ricostruzione matematica dei collegamenti fra le Idee che stanno a fondamento della realtà. Le Idee, strutturate gerarchicamente, recuperano sia il rigore logico di Parmenide (non contengono contraddizioni), sia il principio eracliteo della diversificazione (diairesis), dando luogo a una divisione dicotomica in sotto-classi, dove i singoli aspetti in cui si articola ognuna di esse appaiono in contrasto tra loro su un piano immanente, ma accomunati a un livello superiore e trascendente. La logica dialettica non è tuttavia per Platone una scienza assoluta, la quale rimane accessibile soltanto per la via suprema dell'intuizione. Come già nell'eleate Zenone, la dialettica platonica non fa cogliere di per sé la verità, ma consente semmai di procedere alla confutazione degli errori e dei paradossi facendo uso del principio di non contraddizione.

Aristotele

Aristotele

Aristotele, riassumendo le diverse posizioni sin qui espresse, diede alla logica un'impostazione sistematica.10 Per Aristotele essa coincide col metodo deduttivo, l'unico per lui dotato di cosequenzialità necessaria e stringente, come appare evidente nel sillogismo. Il sillogismo è un ragionamento concatenato che, partendo da due premesse di carattere generale, una "maggiore" e una "minore", giunge ad una conclusione coerente su un piano particolare. Sia le premesse che la conclusione sono proposizioni espresse nella forma soggetto-predicato. Un esempio di sillogismo è il seguente:

      1.      Tutti gli uomini sono mortali;

      2.      Socrate è uomo;

      3.      dunque Socrate è mortale.



Come in Platone, tuttavia, la logica aristotelica rimane uno strumento, che di per sé non dà automaticamente accesso alla verità. Essa può prendere avvio dalle premesse formulate dall'intelletto, che attraverso l'intuizione perviene alla conoscenza di concetti universali, da cui la logica trae soltanto delle conclusioni formalmente corrette, scendendo dall'universale al particolare.11 Ma può discendere anche da forme arbitrarie di pensiero, come l'opinione. Ne consegue che se le premesse sono false, anche il risultato sarà falso. Quella di Aristotele è pertanto una logica formale, lineare, indipendente dai contenuti, che parte da principi primi non dimostrati, dato che proprio da questi deve scaturire la dimostrazione. Come spiega negli Analitici Secondi, solo l'intuizione intellettuale, situata a un livello sovra-razionale, può dare ai sillogismi un fondamento reale e oggettivo.

« Ora, tra i possessi che riguardano il pensiero e con i quali cogliamo la verità, alcuni risultano sempre veraci, altri invece possono accogliere l'errore; tra questi ultimi sono, ad esempio, l'opinione e il ragionamento, mentre i possessi sempre veraci sono la scienza e l'intuizione, e non sussiste alcun altro genere di conoscenza superiore alla scienza, all’infuori dell’intuizione. Ciò posto, e dato che i princípi risultano più evidenti delle dimostrazioni, e che, d'altro canto, ogni scienza si presenta congiunta alla ragione discorsiva, in tal caso i princípi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere come oggetto i princípi. Tutto ciò risulta provato, tanto se si considerano gli argomenti che precedono, quanto dal fatto che il principio della dimostrazione non è una dimostrazione: di conseguenza, neppure il principio della scienza risulterà una scienza. E allora, se oltre alla scienza non possediamo alcun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il principio della scienza. »

(Aristotele, Analitici secondi, 100b 1612)

Negli Analitici primi Aristotele espone invece le leggi che guidano la logica: non dimostrabili neanch'esse, ma intuibili solo in forma immediata,13 sono il principio di identità, per il quale A = A, e quello di non-contraddizione, per cui A ≠ non-A (tertium non datur). Da queste leggi egli concluderà come sia «impossibile che il medesimo attributo, nel medesimo tempo, appartenga e non appartenga al medesimo oggetto e sotto il medesimo aspetto»14.

A differenza della deduzione, che ha carattere necessario, l'induzione muove viceversa dal particolare all'universale, e non può avere quindi alcuna pretesa di consequenzialità logica: partendo infatti da singoli casi particolari, non potrà mai approdare a una legge universale logicamente stringente.15 La logica aristotelica pertanto è solo deduttiva, una "logica induttiva" sarebbe per lui una contraddizione in termini.16

Stoicismo

 La logica così teorizzata da Aristotele resterà valida almeno fino al XVII secolo. Un ulteriore contributo venne successivamente dallo stoicismo, per il quale la logica non è solo uno strumento al servizio della metafisica, ma si pone come disciplina autonoma rispetto agli altri campi di indagine;17 essa comprendeva, oltre alla gnoseologia e alla dialettica, anche la retorica. Per "logica" infatti gli stoici intendevano non solo le regole formali del pensiero che si conformano correttamente al Lògos, ma anche quei costrutti del linguaggio con cui i pensieri vengono espressi. Non a caso Lògos può significare sia ragione che discorso; oggetto della logica quindi sono proprio i lògoi, ossia i ragionamenti espressi in forma di proposizioni (lektà). Mentre quella aristotelica è stata una logica dei predicati, quella stoica può essere pertanto considerata una logica proposizionale, in quanto incentrata sullo studio della coerenza tra proposizioni (ad esempio piove o non piove), e dei rapporti tra i significati. Il sillogismo aristotelico fu ampliato, venendo inteso in un senso non solo deduttivo, ma anche ipotetico. In maniera simile alla gnoseologia aristotelica, per gli stoici il criterio supremo della verità è l'evidenza, che le assegna quel carattere di scienza necessario per poter distinguere correttamente il vero dal falso.18

Dal Medioevo all'età moderna

 Il contenuto dei significati e la loro origine sono stati approfonditi dalla logica medievale, specie dalla scolastica che distinse tra logica minor e logica maior. Con il Novum Organum, Francesco Bacone cercò di costruire una nuova metodologia basata sull'induzione impostando la logica come strumento di indagine scientifica. Riprendendo questi temi René Descartes cercò di stabilire se il rigore tipico di un discorso matematico potesse essere alla base di qualsiasi sapere, compreso quello filosofico.

Sempre sul calcolo matematico Thomas Hobbes pensò la logica come una combinazione di segni e regole. Gottfried Leibniz e i suoi seguaci cercarono poi di unificare il complesso delle strutture logico/linguistiche in un linguaggio scientifico universale, ossia la "logica simbolica e combinatoria".

Kant

 Ancora nel Settecento il contributo delle correnti filosofiche non portò a sostanziali innovazioni nello sviluppo della logica moderna. Immanuel Kant nella sua Critica della ragion pura definì la logica trascendentale come quella parte della logica generale che tratta del modo in cui la conoscenza umana può riferirsi ai concetti empirici. Il problema di Kant era ricercare una giustificazione al modo in cui la scienza moderna sembrava potesse ampliare le nostre conoscenze sul mondo.

Kant distinse in proposito le proposizioni logiche, altrimenti dette analitiche, da quelle empiriche. Le prime non possono essere contraddette, pur essendo tautologiche in quanto esprimono un concetto già implicito necessariamente nelle premesse, mentre quelle empiriche sono delle constatazioni di fatto in cui il predicato non è compreso nel soggetto: quest'ultime sono pertanto sintetiche, in quanto collegano, o uniscono, un contenuto ad un altro diverso. Nessuna delle due tipologie risultava però in grado di ampliare il nostro sapere sul mondo, dato che le proposizioni analitiche non aggiungono alcuna conoscenza alle premesse, mentre quelle empiriche, basate su un dato contingente, erano prive di universalità. Kant ritenne allora di individuare un terzo tipo di proposizione, che pur essendo sintetica non derivasse dall'esperienza: le proposizioni sintetiche a priori,19 su cui giustificare la pretesa della scienza di essere valida. In quest'ultimo tipo egli faceva rientrare anche le proposizioni della matematica.

Gottlob Frege tuttavia dimostrerà in seguito che l'aritmetica è da ricondurre alla sola logica, in quanto costituita da proposizioni puramente analitiche. Altri studiosi del Circolo di Vienna hanno contestato l'esistenza dei giudizi sintetici a priori.

Kant si era comunque mantenuto all'interno della logica formale di non-contraddizione, che sarebbe stata di lì a poco rinnegata da Hegel, in favore di una nuova logica che fosse insieme forma e contenuto, e in cui, in maniera simile ad Eraclito, ogni realtà coincidesse col suo opposto. Nel tentativo di eliminare ogni riferimento alla trascendenza, Hegel rigettò quelle filosofie che ponevano a fondamento della deduzione logica un atto intutivo di natura sovra-razionale, e trasformò il metodo deduttivo in un procedimento a spirale che giungesse infine a giustificarsi da solo. Veniva così abbandonata la logica classica aristotelica: mentre quest'ultima procedeva in maniera lineare, da A verso B, la dialettica hegeliana procede in maniera circolare: da B fa scaturire C (sintesi), che è a sua volta la validazione di A.

Logica contemporanea

 Nella seconda metà del XIX secolo la logica tornerà a studiare gli aspetti formali del linguaggio, ovvero la logica formale, e a essere trattata con metodi naturalistici da Christoph Sigwart e Wilhelm Wundt, portando conseguentemente allo sviluppo della logica matematica.

Con la fisica moderna, avviata dalla meccanica quantistica, si è però passati da una logica aristotelica o del terzo escluso, ad una eraclitea (antidialettica) che invece lo include sostituendo il principio di non contraddizione con quello di complementare contraddittorietà; un quanto risulta infatti essere e non essere contemporaneamente due rappresentazioni opposte di una stessa realtà: particella ed onda.20 Concetto che rappresenterebbe il vero paradosso del divenire della realtà enunciato in genereale da Eraclito quando diceva «nello stesso fiume scendiamo e non scendiamo; siamo e non siamo».

Kurt Gödel

 Un ulteriore contributo nell'ambito della logica formale matematica è venuto infine da Kurt Gödel, in relazione alle ricerche volte a realizzare il programma di Hilbert, che chiedeva di trovare un linguaggio matematico che potesse provare da solo la propria consistenza o coerenza. Con due suoi famosi teoremi, Gödel dimostrò che se un sistema formale è logicamente coerente, la sua non contraddittorietà non può essere dimostrata stando all'interno del sistema logico stesso. Il senso della scoperta di Gödel è ancora oggi oggetto di discussione: da un lato si ritiene che il suo teorema abbia definitivamente distrutto la possibilità di accedere a verità matematiche di cui avere assoluta certezza; dall'altro che egli abbia invece positivamente risolto il proposito di Hilbert, anche se per una via opposta a quella da costui immaginata, avendo paradossalmente dimostrato che la completezza di un sistema è tale proprio perché non può essere dimostrata:21 mentre se, viceversa, un sistema può dimostrare la propria coerenza, allora non è coerente. Lo stesso Gödel era convinto di non avere affatto dissolto la consistenza dei sistemi logici, da lui sempre considerati platonicamente come funzioni reali dotati di pieno valore ontologico, e che anzi il suo stesso teorema di incompletezza aveva una valenza di oggettività e rigore logico. Oltretutto, egli spiegava, la presenza di un enunciato che affermi di essere indimostrabile all'interno di un sistema formale, significa appunto che esso è vero, dato che non può essere effettivamente dimostrato.22

Gödel interpretò i suoi teoremi come una conferma del platonismo, corrente filosofica che affermava l'esistenza di formule vere ma non dimostrabili, e cioè l'irriducibilità della nozione di verità a quella di dimostrabilità. In accordo con questa filosofia, la sua convinzione era che la verità, essendo qualcosa di oggettivo (cioè di indipendente dalle costruzioni effettuate nelle dimostrazioni dei teoremi), non può essere posta a conclusione di alcuna sequenza dimostrativa, ma solo all'origine. Similmente a Parmenide, egli concepiva la logica "formale" come unita indissolubilmente a un contenuto "sostanziale":

« Nonostante la loro remotezza dall'esperienza dei sensi, noi abbiamo un qualcosa simile a una percezione anche degli oggetti della teoria degli insiemi, come si può vedere dal fatto che gli assiomi stessi ci forzano a considerarli veri. Non vedo motivo perché dovremmo avere una fiducia minore in questo tipo di percezione, vale a dire l'intuizione matematica, piuttosto che nella percezione sensoriale, che ci induce a costruire teorie fisiche e aspettarci che future sensazioni sensoriali si accordino ad esse [...] »

(Kurt Gödel)

Voci correlate









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Collegamenti esterni

    •     La logica aristotelica

    •     Induzione, ragione e intuizione intellettuale secondo Aristotele e K. Popper

    •     Modello delellisiano della logica quaternaria

    •     (EN)   History of Logic in Relationship to Ontology con bibliografie annotate sui vari periodi di storia della logica.

    •     Logica in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Metafisica

 La metafisica è quella parte della filosofia che, andando oltre gli elementi contingenti dell'esperienza sensibile,1 si occupa degli aspetti ritenuti più autentici e fondamentali della realtà, secondo la prospettiva più ampia e universale possibile.2 Essa mira allo studio degli enti «in quanto tali» nella loro interezza,3 a differenza delle scienze particolari che, generalmente,4 si occupano delle loro singole determinazioni empiriche, secondo punti di vista e metodologie specifiche.

Nel tentativo di superare gli elementi instabili, mutevoli, e accidentali dei fenomeni, la metafisica concentra la propria attenzione su ciò che considera eterno, stabile, necessario, assoluto, per cercare di cogliere le strutture fondamentali dell'essere. In quest'ottica, i rapporti tra metafisica e ontologia sono molto stretti, tanto che sin dall'antichità si è soliti racchiudere il senso della metafisica nell'incessante ricerca di una risposta alla domanda metafisica fondamentale «perché l'essere piuttosto che il nulla?».5

All'ambito della ricerca metafisica tradizionale appartengono problemi quali la questione dell'esistenza di Dio, dell'immortalità dell'anima, dell'essere "in sé",6 dell'origine e il senso del cosmo, nonché la questione dell'eventuale relazione fra la trascendenza dell'Essere e l'immanenza degli enti materiali (differenza ontologica).

Etimologia

 Il termine metafisica (in greco antico μετά τα Φυσικά, "metá ta Physiká") deriva dalla catalogazione dei libri di Aristotele, nell'edizione di Andronico da Rodi (I secolo a.C.), nella quale la trattazione dell'essenza della realtà fu collocata dopo (in greco μετά, "meta") quella della natura, che era la fisica. Il prefisso "meta" assunse poi il significato di "al di là, sopra, oltre". L'etimologia, in questo caso, può essere fuorviante per una disciplina definita da Aristotele come scienza delle "cause prime".7

I fondamenti della metafisica

 Uno degli intenti di questa disciplina consiste nello studio dei princìpi primi sotto il profilo qualitativo, a differenza della matematica che ne studia la quantità, o della fisica che ne studia l'aspetto naturale.8 Lo scopo ultimo è quindi la verità in se stessa.9

I limiti dell'esperienza sensibile

 Presupposto della metafisica è la ricerca sui limiti e sulle possibilità di un sapere che non può derivare in modo diretto dall'esperienza sensibile. I cinque sensi, infatti, si limitano a recepire passivamente le impressioni derivanti dai fenomeni naturali entro una gamma ristretta di percezioni, e quindi non sono in grado di fornire una legge capace di descriverli, non sono in grado cioè di coglierne l'essenza.

Scopo della metafisica, in questo senso, è il tentativo di trovare e spiegare la struttura universale e oggettiva che si ipotizza nascosta dietro l'apparenza dei fenomeni. Sorge pertanto l'interrogativo se una tale struttura, oltre a determinare la realtà, sia in grado di determinare il nostro stesso modo di conoscere, attraverso idee e concetti che trovano corrispondenza nella realtà.

Secondo questa linea interpretativa, solo nel nostro intelletto è possibile formulare quei criteri di razionalità e universalità che ci permettono di conoscere il mondo: la semplice «sensazione in atto», infatti, «ha per oggetto cose particolari, la scienza invece ha per oggetto gli universali e questi sono, in un certo senso, nell'anima stessa».10 Ecco dunque la radicale contrapposizione, propria dei grandi filosofi metafisici, da Parmenide, Socrate,11 Platone, Aristotele, fino ad Agostino, Tommaso, Cusano, Campanella, ecc., tra il sapere acquisito dei sensi, e il sapere proprio dell'intelletto.

Secondo questa scuola di pensiero, quindi, non ci può essere vera conoscenza se questa non scatuirisce dall'intelligenza, la quale però, per attivarsi, deve anzitutto prendere coscienza di sé:12 se l'intelletto fosse incapace di pensare se stesso, non potrebbe neppure prendere coscienza della verità, né coscienza di poterla mai raggiungere.13 Il pensiero di sé, pertanto, è stato assunto spesso come base di partenza, a cominciare dalla sua capacità di rendere possibile un sapere immediato, universale e assoluto, perché in esso il soggetto è immediatamente identico all'oggetto, essendo l'io che intuisce se stesso.14

Almeno fino a Cartesio, a partire dal quale il tema dell'autocoscienza sarà ricondotto entro una dimensione più prettamente soggettiva e psicologica, l'intuizione conoscitiva di sé resterà connessa alla questione ontologica preponderante di un Essere da porre a fondamento della propria intima essenza.15 Anche nella filosofia moderna tuttavia non mancano casi, ad esempio in Spinoza, Leibniz, Fichte, in cui di volta in volta la soggettività risulta legata a tematiche ontologiche.

In generale l'intuizione, o l'appercezione,16 è stata posta come origine e traguardo di ogni metafisica, e considerata superiore sia al pensiero razionale che alla conoscenza empirica: il pensiero razionale infatti si basa su una forma mediata di sapere, nella quale il soggetto giunge ad apprendere l'oggetto solo in seguito ad un calcolo o un'analisi razionale, e dove pertanto essi sono separati; analogamente, una conoscenza di tipo empirico risulta mediata dai sensi, e dunque in essa, ancora una volta, soggetto e oggetto risultano separati.

In considerazione di ciò si comprende come la maggior parte dei filosofi metafisici postulasse una differenza non solo tra coscienza e percezione sensibile, ma anche tra intelletto e ragione.17 L'intelletto è il luogo in cui propriamente si produce l'intuizione, ed è pertanto superiore alla ragione perché è il principio primo senza il quale non si avrebbe conoscenza di nulla; mentre la ragione è solo uno strumento, un mezzo che permette di comunicare e di avvicinarsi discorsivamente alla visione intuitiva dell'universale.

Il rapporto con la teologia

 Poiché la metafisica «...si propone di individuare la natura ultima e assoluta della realtà, al di là delle sue determinazioni relative...» 18, le è stato spesso attribuito un carattere mistico e religioso, di tensione verso l'assoluto, Dio e la trascendenza.19

Già con Aristotele, la metafisica è la scienza dell'essere perfetto, cioè lo studio di Dio: poiché infatti cercava le cause prime della realtà, essa così diveniva anche indagine su Dio. Lo stretto legame con la teologia resterà valido per quasi tutto il Medioevo. È fondamentale in questo senso il contributo di Tommaso d'Aquino che giudicava conciliabile la metafisica con la teologia, e pertanto considerava possibile una sintesi di ragione e fede.

Da alcuni punti di vista il Medioevo termina quando l'intuizione si separa dalla ragione, quando metafisica e teologia tendono ad essere viste come discipline separate. Alcuni filosofi, tra cui Cartesio ed Hegel, cercheranno di costruire un'autonomia della ragione, rendendola indipendente dall'intuizione.

Il rapporto con l'ontologia

 Anche i rapporti con l'ontologia sono variabili. Nel corso della storia del pensiero i filosofi hanno attribuito a tale disciplina accezioni, caratteri e funzioni diversi dalla metafisica: ora si è intesa l'ontologia come parte della metafisica, concependo la prima come una sorta di descrizione generale dell'esistente propedeutica alle altre discipline metafisiche; ora le si è fatte sostanzialmente coincidere, negando alla metafisica ogni autonomia; oppure si è opposta alla metafisica tradizionale una nuova ontologia in grado di rivelare le vere strutture dell'essere.

Secondo Varzi, l'ontologia viene prima della metafisica: «l'ontologia si occuperebbe di stabilire che cosa c'è, ovvero di redigere una sorta di inventario di tutto l'esistente, mentre la metafisica si occuperebbe di stabilire che cos'è quello che c'è, ovvero di specificare la natura degli articoli inclusi nell'inventario».20 Secondo Mondin, la metafisica consiste in una ricerca delle cause ultime della realtà, ed è quindi essenzialmente eziologia,21 mentre l'ontologia sarebbe soltanto uno studio della «fenomenologia» dell'essere per come esso si rivela.22

Monismo, dualismo, pluralismo

 Una delle problematiche classiche della metafisica è la diatriba tra concezione dell'essere monista e concezione dualista. I sostenitori del dualismo, dei quali Cartesio è un esempio classico, pensano la realtà secondo una dicotomia tra mondo materiale e mondo spirituale (che nell'uomo corrisponderebbe alla radicale distinzione tra corpo ed anima). I monisti invece, un esempio ne è Spinoza, sostengono che la realtà sia riconducibile ad un'unica sostanza. Infine si possono annoverare i sostenitori di una pluralità dei piani ontologici: un esempio recente è Karl Popper con la sua teoria di Mondo 1, Mondo 2 e Mondo 3.

Cenni storici

Da Socrate a Plotino

 Gran parte della metafisica occidentale è derivata, in forme più o meno velate, dal pensiero di Socrate, e in particolare dalla sua convinzione di «sapere di non sapere». Questa affermazione, pur ammettendo l'impossibilità di approdare a una forma di sapienza vera e certa, scaturiva (secondo l'interpretazione di Giovanni Reale) dall'intima consapevolezza dell'esistenza di una verità ultima, rispetto alla quale egli si riconosceva appunto come ignorante.



Per approfondire, vedi Pensiero di Socrate (interpretazioni).

 Partendo dal dubbio socratico, i filosofi successivi, Platone e Aristotele in primis, arguiranno che non si può affermare l'inconoscibilità di una realtà senza averla con ciò stesso implicitamente ammessa, seppure su un piano puramente ontologico, cioè della sola esistenza. Platone identificò la realtà ultima, oggetto dell'indagine di Socrate, col termine di idea, distinguendo nettamente il processo logico conoscitivo attraverso cui approdarvi (dialettica), dalla dimensione dell'essere, collocata su un piano trascendente. Elevarsi a questa scienza superiore significa riuscire a cogliere l'intero.23 Aristotele, in seguito, definì più chiaramente la metafisica come filosofia prima, come la scienza che ha per oggetto l'ente in quanto tale, a prescindere dalle sue particolarità sensibili e transitorie.24 Anche secondo Aristotele, inoltre, non è il pensiero logico-deduttivo a dare garanzia di verità, bensì l'intuizione: essa consente di cogliere l'essenza della realtà fornendo dei principi validi e universali, da cui il sillogismo trarrà soltanto delle conclusioni coerenti con le premesse. Pur rivalutando l'importanza induttiva dei sensi, la conoscenza empirica non ha per Aristotele un valore logicamente necessario, fungendo unicamente da avvio di un processo che culmina con l'intervento di un trascendente intelletto attivo. L'intuizione suprema è quindi per lui il "pensiero di pensiero", proprio dell'atto puro.



Per approfondire, vedi Metafisica aristotelica.

Nel periodo del tardo ellenismo Plotino accentuerà la distinzione tra il piano della realtà metafisica (collocata al di là dell'opera mediatrice della ragione), e quello della realtà sensibile e terrena. Egli distinse vari gradi dell'essere: quello discorsivo-dialettico, identificato con l'Anima; quello intuitivo-intellettuale, identificato col Nous o Intelletto; e infine quello dell'Uno, irraggiungibile neppure dal pensiero intuitivo ma solo con l'estasi mistica, quando la coscienza naufraghi totalmente in Dio. Plotino formulò in tal modo una teologia negativa, secondo cui la fonte della conoscenza e della razionalità non può essere a sua volta razionalizzata: ad essa ci si può avvicinare solo per progressive approssimazioni, dicendo non cosa essa è, ma semmai cosa non è, fino a eliminare ogni contenuto dalla coscienza. L'Uno così da un lato risulta totalmente inconoscibile e ignoto, dall'altro però va ammesso come meta e condizione del filosofare stesso. Il pensiero infatti ha un senso solo se esiste una Verità da cui esso emana. Questa sarà la base della successiva teologia di Agostino, per il quale la verità che «illumina ogni uomo» è la sua stessa essenza.

Da Alberto Magno a Campanella

 Nell'ambito della scolastica, il filosofo e teologo Alberto Magno si occupò di questi temi nella sua opera Metafisica, un commento all'opera di Aristotele, del quale cercava di conciliare il pensiero con le verità della fede cristiana.
 Anche per il suo allievo Tommaso d'Aquino il contenuto della fede non può contraddire il contenuto della ragione naturale, che anzi è in grado di fornire quei «preamboli» capaci di elevare alla fede. Con la ragione, ad esempio, si può arrivare a conoscere «il fatto che Dio è» ("de Deo quia est"):25 senza questa premessa non si potrebbe credere che Gesù ne sia il Figlio. Lo stesso Aristotele, che pure ignorava la rivelazione cristiana, aveva sviluppato secondo Tommaso un sapere filosofico in accordo con quella. La grazia della fede quindi non distrugge ma completa la ragione, orientandola verso la meta finale già indicata dalla metafisica aristotelica, che è la conoscenza della verità, contenuto fondamentale della «filosofia prima». La verità è il fine ultimo dell'intero universo, che trova senso e spiegazione nell'intelletto di Dio che l'ha creato.26 Compito del sapiente è dunque quello di rivolgersi alla verità, come del resto la stessa divina Sapienza si è incarnata «per rendere testimonianza alla Verità».27

Ancora Cusano nel Quattrocento formulerà una metafisica basata su quella che era stata definita teologia negativa nelle opere risalenti al V secolo attribuite a Pseudo-Dionigi l'Areopagita, affermando, e interpretando Socrate secondo la scuola di pensiero risalente a Platone, che vero sapiente è colui che, sapendo di non sapere, possiede perciò una dotta ignoranza: da un lato riconosce che Dio è al di là di tutto, persino del pensiero, ed è perciò irraggiungibile dalla filosofia; dall'altro però Dio va ammesso quantomeno sul piano dell'essere, perché è la meta a cui la ragione aspira. La filosofia deve culminare così nella religione.

Quella di Cusano sarà la base della filosofia del Rinascimento, durante il quale si assiste a una fioritura del pensiero platonico, i cui massimi esponenti furono Marsilio Ficino e Giordano Bruno. Anche Tommaso Campanella, superando la visione sensistica di Telesio, elabora una metafisica risalente al neoplatonico Sant'Agostino, che vede nell'uomo il marchio della Trinità cristiana. Secondo Campanella l'essere è strutturato nelle tre essenze primarie: potenza (Padre), sapienza (Spirito), amore (Figlio). Queste possono essere così riassunte:

    •     ogni ente è tale perché ha la Potenza, cioè la possibilità di essere;

    •     ma il sapere è costitutivo dell'essere, perché chi non sa di essere, per se stesso è come se non esistesse;

    •     il fatto di sapere di essere è provato dall'amore di se stesso, per cui chi non sa, non ama se stesso.





Per approfondire, vedi Metafisica (Tommaso Campanella).

 Avere coscienza di sé, il pensare (il cogito, dirà Cartesio) è dunque per Campanella la condizione prima dell'essere (ergo sum). Mentre tuttavia la filosofia campanelliana si limita a indicare le condizioni che dal sapere portano all'essere senza avere la pretesa di produrle da sé, per Cartesio invece la filosofia stessa diventerà arbitra dell'essere. Campanella si mantiene in un ambito metafisico-religioso: per lui, il modo in cui il sapere diventa costitutivo dell'essere non è mediato dalla ragione filosofica, né da alcun metodo.

Cartesio, Spinoza, e Leibniz

 Con Cartesio avverrà invece una svolta, nel tentativo di rompere appunto questo legame con la religione. Cartesio cercò di costruire un sistema metafisico autonomo, basato sulla ragione: presumendo di aver dimostrato logicamente l'esistenza di Dio, egli se ne servì come mezzo anziché come fine, per fondare a sua volta la logica stessa. In tal modo l'essere risulterà, in virtù del Cogito ergo sum, sottomesso alla Ragione, la quale si assume (tramite il Metodo) il compito di distinguere il vero dal falso. Ne derivò una frattura tra la dimensione gnoseologica (cioè della conoscenza) e quella ontologica, tra res cogitans e res extensa. Il sistema cartesiano subì per questo le critiche di alcuni suoi contemporanei. Successivamente Baruch Spinoza cercherà di ricomporre il dualismo cartesiano ricollocando l'intuizione al di sopra del pensiero razionale. Anche Gottfried Leibniz, pur suddividendo l'Essere in un numero infinito di monadi, affermerà che esse sono però tutte coordinate secondo un'armonia prestabilita da Dio.

Christian Wolff

Wolff

 Per Christian Wolff la filosofia teorica è costituita anzitutto dall'ontologia come metafisica generale, che si pone in un ruolo preliminare rispetto alla distinzione delle tre metafisiche speciali su anima, mondo e Dio: psicologia razionale, cosmologia razionale e teologia razionale.282930 Le tre scienze sono dette razionali in quanto né empiriche né dipendenti dalla rivelazione. Eppure questo schema, che verrà ripreso da Kant tenendo conto delle obiezioni del criticismo anglosassone, è il corrispettivo filosofico della triade religiosa creatura, creato e Creatore,31 nonché delle tre tentazioni di Gesù e delle connesse tre  esorcistiche3233 rinunce battesimali34 rinnovate durante la veglia pasquale.35 Wolff fu letto dal padre di Kierkegaard Michael Pedersen,3637 e il figlio stesso restò influenzato sia da Wolff che da Kant,38 forse al punto da riprenderne la struttura e il contenuto filosofico tripartiti per formulare le proprie "tre modalità esistenziali".

Le critiche alla metafisica

 La metafisica era intanto divenuta oggetto di critica a partire dal XVIII secolo con l'empirista inglese John Locke. Come racconta lo stesso filosofo nell'Epistola al lettore, posta come premessa al Saggio sull'intelletto umano, trovandosi a discutere nella sua camera cinque sei amici su argomenti di morale e di religione rivelata «subito dovettero arrestarsi per le difficoltà che emergevano da ogni parte. Dopo esserci un po' tormentati, senza avvicinarci alla soluzione dei dubbi che ci angustiavano, mi venne in mente che avevamo preso una strada sbagliata, e che, prima di accingerci a ricerche di questa natura, era necessario esaminare le nostre capacità, e vedere quali oggetti le nostre intelligenze erano o non erano adatte a trattare. Proposi questo ai miei compagni, che prontamente furono d'accordo; perciò fu stabilito che questa sarebbe stata la nostra prima ricerca.»

È dunque la scoperta dell'impossibilità conoscitiva della metafisica che porta Locke al criticismo che troveremo alla base della filosofia kantiana e dell'Illuminismo: la ragione instaurerà una sorta di tribunale e stabilirà quali argomenti rientrano nei suoi limiti e quali vanno esclusi e tra questi ogni ragionamento che riguardi la metafisica.

Proseguendo sulla strada tracciata da John Locke, David Hume, considerava fallace non solo ogni metafisica ma anche la stessa pretesa delle scienze che con la presunta immutabilità delle leggi scientifiche credevano di andare oltre i limiti della ragione che rivelava come non necessariamente causale il rapporto, che sempre tale era stato considerato, tra appunto una causa e un effetto.

La necessità di trovare un fondamento teorico alla conoscenza scientifica (cfr. Critica della ragion pura) nasceva proprio dalla dottrina di Hume che aveva dimostrato con la sua critica al rapporto di causa-effetto, come fosse impossibile fare affermazioni su ogni realtà che andasse oltre i limiti dell'esperienza.39

Ne I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica (1764) Immanuel Kant si riconosce debitore di Hume che lo ha fatto uscire dal dogma metafisico ma rifiuta il suo scetticismo secondo il quale gli stessi fatti empirici non sono certi, ma si riducono a semplici impressioni che poi si traducono in idee, copie sbiadite delle sensazioni, che conserviamo solo per l'utilità della vita. Hume quindi concludeva come fosse impossibile un sapere scientifico, un sapere autentico, stabile e sicuro, che Kant invece s'incarica di rifondare proprio nell'Estetica trascendentale.

La validità della metafisica si ritrova per Kant nei "postulati della ragion pratica": quelle che erano le tre idee della Ragione metafisica - l'esistenza di Dio, l'immortalità dell'anima, l'infinito - che non trovavano spiegazione nella dialettica trascendentale e che dimostravano l'illusorietà e l'inganno della metafisica quando pretendeva di presentarsi come scienza, ora quelle stesse idee fallaci sul piano teorico acquistano invece valore sul piano pratico, morale, divengono corollari della legge morale che voglia conseguire il "sommo bene" inteso come il bene più completo. (Cfr. Critica della ragion pratica)

Secolo XIX

 Se la riflessione kantiana sull'inconoscibilità metafisica della

 fu dapprima ripresa dalla

 

 di

 e

, i quali intravedevano tuttavia la possibilità di definire per via negativa l'

 (accedendovi cioè indirettamente, definendo piuttosto cosa esso

 è, tramite un progressivo avvicinamento secondo il metodo

 della

),

 si propose invece di rifondare razionalmente la metafisica, credendo di poter racchiudere l'

 in una definizione completa e definitiva:

L'idealismo tedesco



Per approfondire, vedi Idealismo tedesco.

 Il criticismo di Kant, pur negando valore alla metafisica, le aveva riaperto la strada. L'Io penso trascendentale come datore di senso, unificatore dell'esperienza fenomenica che in lui era oggetto di ricerca scientifica, divenne per gli Idealisti oggetto di ricerca metafisica. Fichte, che è considerato il fondatore, si interroga sul fondamento della realtà; la risposta prenderà le mosse proprio dall'Io penso kantiano, trasformato, enfatizzato.

Mentre la metafisica tradizionale si basava sulla corrispondenza tra forme dell'essere e forme del pensiero, secondo Kant questa corrispondenza non sussisteva, perché il noumeno (l'essere in sé), è inconoscibile, essendo del tutto estraneo al soggetto conoscente. Ma il pensiero kantiano si era arenato così nella duplice accezione di noumeno (positiva e negativa) ed è proprio da questa frattura che nacque l'idealismo. Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) obiettò che se il noumeno fosse inconoscibile, allora non si potrebbe neppure postularne l'esistenza. Karl Leonhard Reinhold (1758-1823) allora, nel Saggio su una nuova teoria della facoltà umana della rappresentazione, propose di unificare fenomeno e noumeno, materia e forma, vedendoli non più come i termini opposti di una contraddizione, ma originati dalla stessa attività unificatrice del soggetto. Secondo Reinhold, la cosa in sé non è pertanto qualcosa di esterno al soggetto, ma è un puro concetto (limite) appartenente alla sua stessa rappresentazione, la quale consta contemporaneamente sia di spontaneità (attiva), che di recettività (passività dei sensi).

Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), partendo dalle posizioni di Reinhold, intuì che, se l'Io non è più limitato dal noumeno nella sua attività conoscitiva, cioè da un limite esterno che lo renda finito, allora è un Io infinito. Fichte propose una visione completamente incentrata sull'Io, concepito non come una realtà di fatto, bensì come un atto, un agire dinamico, come attività pensante. Questa superiore attività (inconscia) costituisce l'unità originaria e immediata sia del soggetto che dell'oggetto, nella quale il noumeno, cioè il non-io, che di una simile attività è il prodotto, viene posto inconsciamente dal soggetto stesso, per rispondere a un'esigenza di natura altamente etica.

Seguì questa strada il discepolo, e inizialmente suo ammiratore, Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling (1775-1854), personaggio di primo piano dell'idealismo e amico di importanti esponenti del Romanticismo tedesco (Goethe, Novalis, Schlegel, Hölderlin, Hegel). Schelling riprese da Fichte l'idea dell'infinità dell'uomo, ma mostrò interesse anche per la natura e ben presto criticò l'Io fichtiano in quanto pura soggettività, e pose a principio della sua filosofia l'Assoluto, concetto fondamentale della metafisica, quale unione immediata di spirito e materia, pensiero ed estensione, Ragione e Natura. Secondo Schelling, la tensione verso la trascendenza si ricompone nel momento estetico dell'arte, mentre secondo Fichte si ricomponeva invece nell'agire etico.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831) si considerava lui stesso il culmine della corrente, nella quale Fichte rappresenterebbe l'"idealismo soggettivo", Schelling l'"idealismo oggettivo", e quindi Hegel l'"idealismo assoluto", seguendo lo schema di "tesi-antitesi-sintesi" da lui stesso elaborato. L'unità di soggetto e oggetto, essere e pensiero, divenne però in Hegel non più un'unità immediata, bensì mediata dalla ragione dialettica. L'idealismo hegeliano segna infatti l'abbandono della logica formale di stampo parmenideo e aristotelico (detta anche logica dell'identità o di non-contraddizione), in favore di una nuova logica cosiddetta sostanziale. L'essere non è più staticamente opposto al non-essere, ma viene fatto coincidere con quest'ultimo trapassando nel divenire.



Per approfondire, vedi pensiero di Hegel.

 L'idealismo hegeliano, che risolve tutte le contraddizioni della realtà nella Ragione assoluta (e per questo sarà chiamato panlogismo) avrà un esito immanentistico, riconoscendo in se stesso, e non più in un principio trascendente, la meta e il traguardo ultimo della Filosofia. La ragione infatti si riconcilia con il reale non (come era in Fichte e Schelling) ritornando alla sua origine indistinta, ma all'interno e alla fine del percorso dialettico stesso. Fu l'apoteosi della metafisica razionale ma anche il punto in cui questa si esaurì: portando a soluzione tutte le contraddizioni, venne risolta e vanificata quella tensione ideale del finito verso l'infinito, dell'uomo verso Dio, tipica della metafisica classica.

Critiche all'idealismo

 All'idealismo hegeliano si oppose quindi, oltre allo stesso Schelling, anche Arthur Schopenhauer, il quale leggeva nella pratica accademica del tempo la mera affermazione di filosofie statali e oscurantiste, promosse e incentivate dal teismo e dalla religione cristiana.

Successivamente la metafisica fu criticata dal positivismo di Auguste Comte, ed il pensiero filosofico contemporaneo ha criticato ogni filosofia che avesse la pretesa di spiegare in modo definitivo ed universale tutta la realtà. Altre critiche distruttive alla metafisica provengono dal filosofo tedesco Friedrich Nietzsche, seguendo la vena critica più indiretta, ma non meno efficace dei suoi predecessori Montaigne e Emerson. Egli individuò la genesi di ogni metafisica in Platone, ovvero nel tentativo filosofico di promulgare una duplicazione del reale, sostanziata nella creazione di una prospettiva oltremondana (l'ideale platonico), attraverso cui valutare, o meglio svalutare, la prospettiva mondana, terrena, reale. Nietzsche individua nella metafisica (e nella religione che egli chiama metafisica per il popolo) null'altro che la proiezione verso l'esterno di incertezze connaturate al genere umano, quindi una forma di opposizione passiva alla vita, nonché una reazione fisiologica all'impossibilità di sopportare l'angoscia di un mondo che "danza sui piedi del caos" e obbliga l'uomo a cercare un senso che stia fuori dal mondo, piuttosto che in esso.

La metafisica recupera una collocazione per così dire lecita nel Pragmatismo, secondo cui idee e valori avrebbero una legittimità aprioristica fondata sul loro immediato interesse pragmatico, ovvero concretamente spendibile nell'esperienza. Quindi seppure le concezioni metafisiche non siano passibili di verificabilità empirica, avrebbero comunque il merito pratico di guidare concretamente l'azione dell'uomo, di orientare le sue decisioni.

Secolo XX

 Il Novecento filosofico porterà, seppur per vie diverse e sulla base di teorizzazioni eterogenee o fra loro incompatibili, altri pesanti attacchi alla metafisica. Tra i più illustri antimetafisici va indubbiamente ricordato Ludwig Wittgenstein, che muovendo dall'elaborazione della logica di Frege e Bertrand Russell, e cercando di sancire definitivamente i limiti del linguaggio, individuò nella prassi metafisica la trascendenza dei limiti di significanza del linguaggio umano; celebre è la sua definizione di metafisica, indicata come qualcosa che sorge "quando il linguaggio fa vacanza". Tradotto in termini immediati, Wittgenstein riteneva che le questioni trattate dalla metafisica non potessero avere in nessun modo una soluzione definitiva, in quanto più che problemi filosofici esse concernevano problemi linguistici, sorti sulla base di un fraintendimento logico delle pertinenze del linguaggio stesso. Da cui la convinzione wittgensteiniana che i problemi metafisici non fossero nemmeno problemi, poiché un problema per essere posto, deve essere chiaramente e inequivocabilmente formulato.

L'antimetafisica di Wittgenstein verrà raccolta poi dal Circolo di Vienna e dal Positivismo logico, che ne approfondirà ed integrerà alcuni aspetti impliciti, nel tentativo di edificare una filosofia il più possibile fondata su teorie e pratiche della scienza formale; formulazione che si sostanzia nella teoria del verificazionismo.

In seguito alcuni filosofi tra cui principalmente Karl Popper, sconfesseranno la stessa teoria verificazionista (fondata sull'assunto che ogni enunciato filosofico dovrebbe essere passibile di verifica empirica), come pura metafisica. La verifica di tutti i casi positivi non può in nessun caso provare alcunché, né può essere praticamente applicata; molto più utile alla metodologia scientifica è la ricerca di casi falsificanti, ovvero sconfessanti la teoria originaria. Popper assumerà nei riguardi della metafisica un atteggiamento più moderato rispetto ai neopositivisti logici, sostenendo che essa può trovare cittadinanza presso la pratica filosofica, a patto che dalla speculazione filosofica sia poi possibile desumere teorie scientifiche falsificabili. Le proposizioni metafisiche per Popper hanno tra l'altro perfettamente un senso, nella misura in cui seguono il metodo rigoroso della logica formale, cioè mostrano di essere interiormente coerenti. Non hanno dunque soltanto un mero valore suggestivo o soggettivo.

Da un altro punto di vista muove la critica di Heidegger alla metafisica, che tuttavia va piuttosto considerata come una prospettiva di interpretazione storico-filosofica, piuttosto che una critica volta a negarne le ragioni e la necessità. In particolare, Heidegger concepisce la storia della metafisica come una manifestazione nel pensiero della storia dell'essere stesso: l'essere si dà, si rivela nel pensiero attraverso le definizioni che di esso hanno via via dato i vari pensatori, le varie forme culturali, concependolo ad es. come Idea, come Valore, come Ente supremo, come Monade, come Volontà di potenza, fino a ridurlo a Niente, cioè letteralmente al non-ente, a un che di ignoto e inconoscibile (nichilismo). La critica di Heidegger alla metafisica è quindi in realtà un tentativo di ripensare l'Essere nella sua originarietà, riportandosi al di qua di tutta la tradizione filosofica che, da Platone in poi, elaborando la metafisica ha condotto l'Essere al suo oblio: la metafisica diviene così uno dei modi entro cui si è manifestato, storicamente, l'Essere stesso, paradossalmente mediante il suo proprio nascondimento concettuale.

Una certa pertinenza con il tema delle critiche alla metafisica (e più in generale alla filosofia tradizionale) nate in ambito neopositivista, ha l'articolo di Rudolf Carnap, "Il superamento della metafisica tramite l'analisi logica del linguaggio (1931)". Carnap sostiene che in un linguaggio deve essere presente un vocabolario ed una sintassi, ovvero un gruppo di parole e delle regole che permettano la costruzione di enunciati e ne legiferino la costruzione stessa; concordemente a ciò egli sostiene che dal linguaggio è anche possibile trarre "pseudo-proposizioni" ovvero enunciati correttamente formati, ma contenenti parole prive di significato, oppure enunciati composti di parole in sé significanti, ma costruiti nella violazione delle regole sintattiche. Carnap analizza nel suo articolo un paragrafo del libro "Cos'è la metafisica?" del filosofo tedesco Martin Heidegger:

Ma allora perché ci preoccupiamo di questo niente? La scienza appunto rifiuta il niente e lo abbandona come nullità [...] La scienza non vuol saperne del niente [...] Che ne è del niente? [...] C'è il niente solo perché c'è la negazione? Oppure è vero il contrario, ossia che c'è la negazione e il non solo perché c'è il niente? Il niente è la negazione completa della totalità dell'ente. [...] L'angoscia rivela il niente.

L'analisi di Carnap sostiene che non è possibile trarre un enunciato osservativo che possa verificare le proposizioni contenute in questo paragrafo. Inoltre Carnap accusa Heidegger di utilizzare la parola "nulla" come se corrispondesse ad un oggetto, essendo invece essa la negazione di una proposizione possibile.

In linea generale la critica rivolta da Carnap alla metafisica è dunque quella di esprimersi per "pseudo-proposizioni", ovvero proposizioni solo apparentemente dotate di significato. La svalutazione della metafisica non viene tuttavia generalizzata da Carnap, il quale le riconosce un grande ruolo ad esempio nelle varie arti, ciò che le nega è la possibilità di avere una funzione conoscitiva.

Ancora, nel Novecento russo, la metafisica venne interpretata secondo i termini di una originale metafisica concreta dal pensatore e mistico Pavel Aleksandrovič Florenskij.

Rapporti tra scienza e metafisica

 Sin dalle origini la metafisica è stata sostanzialmente identificata con l'episteme, termine greco che oggi traduciamo con scienza. Per Platone tuttavia la metafisica riguardava un tipo di riflessione umana che precede la speculazione scientifica stessa, tenendo egli in scarsa considerazione la ricerca naturalistica in quanto "volgare" e inessenziale, mirando piuttosto a vedere l'invisibile.

Non era così per Aristotele per il quale la metafisica, o meglio la filosofia, la scienza prima, si assumeva il compito di fornire alle scienze che trattavano dell'essere particolare, la necessaria definizione dell'essere in quanto essere: non era possibile definire l'essere particolare, punto di partenza di ogni scienza particolare se prima non si definiva l'essere in generale. La metafisica quindi nasceva come pretesa di fondamento "scientifico" di tutte le scienze particolari.

Dopo che l'empirismo anglosassone ebbe alquanto svalutato il contributo dato dalla metafisica al sapere scientifico, riconducendo quest'ultimo all'ambito esclusivo dell'esperienza, Kant capovolse il modo di intendere la scienza: non è l'osservazione dei fenomeni a plasmare le nostre conoscenze, ma sono le nostre categorie mentali a plasmare la visione che abbiamo del mondo. Fu così in parte rivalutato l'apporto della metafisica, al punto che l'idealista Fichte titolò la sua opera fondamentale Dottrina della scienza.

Con l'avvento del positivismo la metafisica venne di nuovo estromessa dal dibattito scientifico, anche se nel primo Novecento Einstein ripropose un modello di conoscenza in cui le leggi di causa-effetto della fisica non erano più intese in senso meccanico, ma come specchio delle leggi razionali del pensiero, secondo l'ottica tipicamente spinoziana.

Popper

Karl Popper intravedeva nella falsificabilità, cioè nella possibilità di essere contraddetta dall'esperienza sensibile, il criterio di demarcazione tra scienza e metafisica. Egli tuttavia, nel suo itinerario filosofico, andò sempre più rivalutando il ruolo della metafisica, attribuendole kantianamente una funzione di stimolo al progresso della scienza stessa 40. Tutte le teorie, scientifiche e non, partono secondo Popper da assunti metafisici: non scaturiscono cioè da procedimenti induttivi originati dalla sperimentazione della realtà, ma nascono da processi mentali intuitivi espressi in forma deduttiva. Il controllo empirico, che per Popper resta comunque fondamentale, ha valore non in quanto conferma la teoria, ma viceversa per la possibilità di smentirla. La sperimentazione svolge dunque una funzione importante, ma unicamente negativa: non costruisce, bensì demolisce. Il compito di costruire è affidato invece al pensiero, all'immaginazione, ovvero alla metafisica. 
 Popper giunse a queste conclusioni soprattutto dopo essere stato impressionato dalla formulazione della teoria della relatività da parte di Albert Einstein: questi l'aveva elaborata non a seguito di esperimenti pratici, ma sulla base di calcoli fatti unicamente a tavolino, i quali successivamente non furono smentiti dagli eventi.

Popper si spinse persino ad affermare che le stesse osservazioni empiriche sono impregnate di teoria, e dunque l'elemento metafisico è un aspetto ineliminabile anche di ogni approccio presunto “empirico”; ad esempio, di fronte al tramonto del sole, due pensatori opposti come Tolomeo e Niccolò Copernico, pur avendo la stessa visione oculare, avrebbero due percezioni diverse: il primo, sostenitore del geocentrismo, vedrebbe il sole muoversi fino a scendere giù e sparire dietro la terra, il secondo invece (sostenitore dell'eliocentrismo) vedrebbe l'orizzonte salire pian piano fino a coprire il sole.

Lakatos

Imre Lakatos, allievo di Popper, da cui riprende il nucleo del suo pensiero, rivalutò ulteriormente il ruolo della metafisica nella scienza, evidenziando come le teorie scientifiche siano costituite da nuclei fondamentali non sperimentabili, né tantomeno falsificabili.

Egli cioè distinse nettamente una teoria dalle sue implicazioni empiriche. Esempi di ipotesi metafisiche sono per Lakatos la teoria meccanica di Newton, o la teoria della relatività di Einstein.

Queste furono elaborate solo per la capacità di spiegare meglio la realtà, ma i fatti in sé non furono per Lakatos determinanti nel produrre tali formulazioni nella mente di quegli scienziati.

Il progresso scientifico è dovuto invece all'inventiva dell'uomo, grazie a cui una nuova ipotesi può prendere il posto di un'altra. Neppure i singoli fatti empirici sono ritenuti determinanti per causare l'abbandono di una teoria, perché la messa in discussione della verità scientifica riguarderebbe solo un aspetto marginale di essa, non il suo nucleo centrale, che pur risultando indebolito nella sua certezza complessiva, continuerebbe ad essere accettato per vero.

Fintanto che un programma anticipa i fatti, allora è progressivo e razionale; quando invece gli scienziati cercano di adeguarlo a certe anomalie riscontrate modificando le ipotesi ausiliarie, esso diventa degenerativo e potrà facilmente essere superato da un programma di ricerca migliore (più progressivo).

È necessario quindi, secondo Lakatos, affinché una teoria generale sia abbandonata, che si progetti un nuovo programma complessivo di ricerca scientifico che sappia meglio rendere ragione degli eventi al fine di sostituire una teoria precedente da cui si traevano conclusioni rivelatesi incoerenti coi fatti. Così ad esempio il meccanicismo di Newton fu abbandonato non quando ci si accorse della sua incapacità a spiegare certi fenomeni, ma solo quando si poté sostituirlo con la teoria generale della relatività di Einstein, in grado di rendere meglio ragione dei fatti.

Ferma restando l'importanza dei controlli sperimentali, scienza e metafisica sono in un certo senso per Lakatos un tutt'uno poiché la scienza non si limiterebbe a recepire l'evidenza fisica dei fenomeni, ma tenderebbe a ricercarne la causa prima in un tentativo che l'accosterebbe alla ricerca metafisica.

Quanto sostiene Lakatos nell'assimilare la scienza alla metafisica può essere interpretato secondo l'insegnamento kantiano, ripreso anche da Popper, nel senso che quando la ricerca scientifica si propone di raggiungere obiettivi finali "metafisici", si serve di essi come stimolo per spingere sempre più lontano l'obiettivo di ottenere conoscenze via via più approfondite. Ciò è possibile solo se siamo guidati dalla convinzione di poter veramente conseguire una corrispondenza tra teoria e realtà,41 anticipando la sperimentazione e non lasciandoci guidare da essa.

La metafisica contemporanea

 Oggi alla metafisica è spesso attribuito un significato spregiativo, essendo considerata come una forma di conoscenza astratta e slegata dalla realtà. Si può vedere in questo giudizio l'eco delle filosofie empiriste, marxiste, positiviste, ma anche post-moderniste, venute alla ribalta nei secoli scorsi, che vi hanno visto l'esercizio di una pratica oscurantista che ottunderebbe le coscienze.

Metafisica e neo-scolastica

 Ma non mancano casi, soprattutto all'interno della Chiesa Cattolica, in cui ancora oggi la metafisica (intesa nel senso tradizionale) non è vista del tutto come negativa, e ciò soprattutto a seguito della nascita, agli inizi del Novecento, di un movimento di pensiero neoscolastico volto a riscoprirla e rivalutarla.42 Anche recentemente, papa Giovanni Paolo II con l'enciclica Fides et Ratio ha invitato il mondo cattolico a riscoprire il valore della filosofia in generale, e in particolare quella di San Tommaso d'Aquino. Papa Benedetto XVI, inoltre, ha più volte messo in guardia dai pericoli dello scientismo, cioè di un abito culturale che rifiuta a priori tutto ciò che non sia sperimentabile o razionalizzabile positivamente. E ha esortato quindi a non smettere di indagare il mistero, e a tenere verso di esso un atteggiamento che non sia di semplice indifferenza o di banale riduzionismo.43

La ripresa della metafisica nella filosofia analitica

 Da notare che, specialmente in ambito anglo-sassone, vi è stata negli ultimi decenni una ripresa significativa della metafisica su basi analitiche, tanto da far configurare questa tradizione filosofica come la più "metafisica" (sebbene in un'accezione assai differente da quella tradizionale, e questo è un punto decisivo) oggi presente sulla scena filosofica.

Bibliografia

    •     Francesco Barone et al., Metafisica: Il mondo nascosto, Laterza, Roma-Bari, 1997.

    •     Enrico Berti, Introduzione alla metafisica, Utet, Torino, 1993.

    •     Simona Chiodo e Paolo Valore (a cura di), Questioni di metafisica contemporanea, Il Castoro, Milano, 2007, ISBN 978-88-8033-394-4

    •     Michael Dummett, Le basi logiche della metafisica, Il Mulino, Bologna, 1996.

    •     Hans J. Kraemer, Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone, con una raccolta dei documenti fondamentali in edizione bilingue e bibliografia, introduzione e traduzione di G. Reale (1982; 5.a 1994).

    •     Battista Mondin,  Storia della metafisica, E.S.D., 1998, ISBN 978-88-7094-313-9

    •     Karl Popper, Logica della scoperta scientifica, Einaudi, Torino 1970.

    •     Peter F. Strawson, Individui. Saggio di metafisica descrittiva, Feltrinelli-Bocca, Milano 1978.

    •     Paolo Valore, L'inventario del mondo. Guida allo studio dell'ontologia, UTET Università, Torino, 2008, ISBN 978-88-6008-214-5

    •     Achille C. Varzi (a cura di), Metafisica. Classici contemporanei, Laterza, Roma-Bari, 2008, ISBN 978-88-420-8382-5

    •     Achille C. Varzi, Ontologia, Laterza, Roma-Bari, 2005, ISBN 978-88-420-7623-0 (disponibile anche in forma elettronica).

    •     Achille C. Varzi, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica, Carocci, Roma 2001, ISBN 978-88-430-1989-2

Voci correlate

    •    Essenza

    •    "Metafisica" di Alberto Magno

    •    "Metafisica" di Aristotele

    •    "Metafisica" di Tommaso Campanella

    •    Monismo e Dualismo

    •    Nichilismo

    •    Ontologia

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Collegamenti esterni

    •     Achille Varzi, Ontologia e metafisica

    •     Metafisica in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Ontologia

 L'ontologia, una delle branche fondamentali della filosofia, è lo studio dell'essere in quanto tale, nonché delle sue categorie fondamentali.

Il termine deriva dal greco ὄντος, òntos (genitivo singolare del participio presente ὤν del verbo εἶναι, èinai, "essere") e da λόγος, lògos ("discorso"), quindi letteralmente significa «discorso sull'essere», ma può anche derivare direttamente da τά ὄντα, ovvero "gli enti", variamente interpretabili in base alle diverse posizioni filosofiche.1

Parmenide, considerato il padre fondatore dell'ontologia.2

Introduzione

 Dal punto di vista storico, l'ontologia viene considerata una branca della metafisica dalla maggior parte delle impostazioni filosofiche, quali ad esempio l'aristotelismo. Questa attribuzione non è tuttavia condivisa universalmente da alcuni pensatori come Martin Heidegger, o da  studiosi che vedono piuttosto la metafisica come ricerca delle cause ultime della realtà,3 mentre l'ontologia sarebbe soltanto "fenomenologia dell'essere", esplorazione di quel che «è» per come esso si rivela.4

Sebbene l'ontologia abbia interessato il pensiero filosofico sin dai suoi primordi, la sua definizione lessicale è molto più tarda. Il termine ontologia fu infatti coniato soltanto agli inizi del XVII secolo da Jacob Lorhard nella prima edizione della sua opera Ogdoas Scholastica (1606) e successivamente utilizzato da Rudolph Göckel per il suo Lessico filosofico (1613). La fortuna del termine è da attribuire però a Christian Wolff con il suo trattato Philosophia prima, sive Ontologia del 1729.

Soggetto, relazione, oggetto

 Per ontologia si intende, in un'accezione ristretta, lo studio dell'essere come insieme degli enti, limitatamente a ciò che sembra esistere in concreto o risultare anche solo pensabile, dunque secondo quanto sembrerebbe attestato dai sensi o dalla psiche. In un'accezione più estesa, si intende un'indagine sull'essere al di là degli enti attraverso i quali esso ci si manifesta nelle apparenze e nei fenomeni: la ricerca dell'Essere o del loro fondamento ultimo.
  In questa ulteriore accezione, l'ontologia ha finito spesso per riferirsi, nel contesto della metafisica, allo studio dei princìpi primi come le idee platoniche, le essenze, le cose in sé o gli oggetti della logica o della matematica, mentre, nel contesto della teologia, allo studio dello Spirito o dell'Assoluto.

Se l'ontologia è lo studio del fondamento di quel che esiste, del come esiste, se è solo pensabile, se è costante, universale, accertabile, allora essa implica anche la ricerca del senso profondo di ogni essere reale. Ciò è anche attinente all'antropologia filosofica e quindi alla domanda circa il senso dell'esistenza dell'uomo che pensa e che si pensa. Ogni domanda intorno al "soggetto", all'"oggetto" e la loro "relazione", dunque tra "io" e "mondo", è anche una domanda ontologica.

Alcune questioni fondamentali

L'ontologia si occupa pertanto dello studio della natura dell'essere, dell'esistenza e della realtà in generale, così come delle categorie fondamentali dell'essere e delle loro relazioni. Alcuni dei quesiti essenziali ai quali l'ontologia cerca di rispondere sono:

      1.       Cos'è l'esistenza?

      2.       L'esistenza è una proprietà reale degli oggetti?

      3.       Qual è la relazione tra un oggetto e le sue proprietà?

      4.       È possibile distinguere proprietà essenziali e proprietà accidentali di un oggetto?

      5.       Il problema dell'essenza o della sostanza

      6.       Cos'è un oggetto fisico?

      7.       Cosa significa dire che un oggetto fisico esiste?

      8.       Cosa costituisce l'identità di un oggetto?

      9.       Quando un oggetto cessa di esistere, invece di cambiare semplicemente?

      10.       Il problema degli universali.

Differenze terminologiche tra essere ed esistenza

 Nell'ambito della storia della filosofia va anche tenuto conto di una differenza terminologica tra essere ed esistere che spesso ricorre nella metafisica tradizionale (anche se tralasciata da alcuni autori): mentre l'essere è in sé e per sé, e non ha bisogno di nient'altro, l'esistenza non ha l'essere in proprio ma lo riceve da qualcos'altro. Da questo punto di vista, l'essere è dunque qualcosa di assoluto, l'esistenza invece è subordinata a un essere superiore dal quale dipende. Esistenza infatti deriva etimologicamente dal composto latino ex + sistentia, che significa essere da o essere dopo, ovvero «essere a partire da» qualcos'altro.5

Platone fu il primo a distinguere esplicitamente l'essere dall'esistere; in particolare egli attribuiva l'esistenza alla condizione umana, sempre in bilico tra essere e non-essere, sottoposta alla contingenza e al divenire, mentre l'essere è la dimensione ontologica più vera nella quale si trova il mondo delle idee, incorruttibile, immutabile, ed eterno.6

Distinzione ripresa da Giambattista Vico, che rimproverava a Cartesio di aver usato impropriamente i due termini, non tenendo conto della loro differenza.7 Anche Heidegger ha ripreso la distinzione tra Essere ed esistere, con particolare riferimento alla condizione umana: l'uomo è un essere calato in una dimensione temporale e transitoria, un "esserci" che vive suo malgrado a contatto col non-essere.

Cenni storici

Capisaldi dell'ontologia parmenidea

 I capisaldi dell'ontologia parmenidea, che resteranno validi all'incirca fino a Hegel, erano essenzialmente:

    •     il principio di non contraddizione, che sarà poi approfondito e reso esplicito da Aristotele,8 in base al quale la negazione di una verità non può essere vera a sua volta;9

    •     la dimostrazione per assurdo, fatta propria in particolare dall'allievo Zenone, che riconosce la verità di un asserto dimostrando la falsità del suo opposto, non essendovi terze possibilità.10



Parmenide

 Padre dell'ontologia è solitamente considerato Parmenide, 505-504 a.C., appartenente ai cosiddetti presocratici. Parmenide fu il primo a porsi la questione dell'essere nella sua totalità, dunque a porsi il problema, ancora alla sua genesi, dell'ambiguità tra il piano logico, ontologico, linguistico.

In Parmenide la dimensione ontologica risulta preponderante, al punto da sottomettere a sé ogni altro aspetto filosofico, compreso il pensiero stesso. Dinnanzi all'Essere, il pensiero può dire soltanto che «è». Qualunque altro predicato si voglia assegnargli, significherebbe oggettivarlo riducendolo a un'entità particolare: sarebbe un pensare il falso e quindi il non-essere; ma poiché quest'ultimo non è, il pensiero diverrebbe perciò inconsistente e cadrebbe nell'errore. Anche i cinque sensi, secondo Parmenide, attestano il falso, perché sono vittime di un'illusione, facendoci credere che il divenire esista.

Da un tale Essere ontologicamente perfetto egli deduce i suoi necessari attributi: esso è ingenerato, eterno, immutabile, immobile, finito, uno, omogeneo;11 caratteristiche che saranno d'ora in poi riferite all'Assoluto comunque venga concepito. Platone, Aristotele, e a seguire tutta la filosofia greca, elaborarono progressivamente questo ed altri temi, lasciando in eredità alla filosofia quello che è considerato il problema par exellence: il problema dell'esistenza nella sua massima estensione e universalità.

Leucippo e Democrito

 Con Leucippo e poi Democrito, l'Essere, che Parmenide aveva teorizzato essere Uno e Semplice, viene messo in discussione. Esso si scompone infatti nella molteplicità di un numero infinito di atomi,12 che dell'Essere conservano soltanto l'indivisibilità, ma che sono elementi semplici di un cosmo concepito materialisticamente. Nell'incipit della versione di Diogene Laerzio l'ontologia democritea si presenta nei seguenti termini: «Princìpi di tutte le cose sono gli atomi e il vuoto, e tutto il resto è opinione soggettiva; vi sono infiniti mondi, i quali sono generati e corruttibili; nulla viene dal non essere, nulla [dell'essere] può perire e dissolversi nel non essere».13

Platone

 Platone restò invece fedele all'ontologia parmenidea, identificandola con la dimensione iperurania delle idee, e tuttavia distinse da quella il piano della logica dialettica, nel tentativo di conciliare l'Essere con una concezione della sensibilità che non riducesse quest'ultima a semplice illusione. La dimensione iperurania delle idee costituisce per Platone la vera realtà, mentre la natura materiale è un qualcosa di informe, mescolato al non-essere, che aspira a darsi una "forma". Platone in tal modo concepì l'ontologia in maniera gerarchica, da un massimo fino a un minimo di Essere. L'ontologia platonica resta comunque superiore al percorso dialettico che si deve compiere per approdarvi.

Aristotele

Aristotele, pur non utilizzando il termine ontologia, intese fondare «la scienza dell'essere in quanto essere».14 L'espressione "in quanto" vuol dire a prescindere dai suoi aspetti accidentali, e quindi in maniera scientifica.15 Secondo quest'accezione, l'ontologia è dunque la scienza dell'essere in quanto tale, riguardo cioè al suo aspetto intrinseco, ovvero lo studio degli esseri nella misura in cui questi esistono. Egli scrive nel libro IV della Metafisica:

« C'è una scienza che studia l'essere in quanto essere ... Il termine essere è usato in molte accezioni, ma si riferisce in ogni caso a una realtà sola e ad un'unica natura. »

(Aristotele, Metafisica, IV 2, 1003 a, 32-34)

 Essendo una scienza unica a dover studiare la sostanza, l'ontologia è anche «studio degli esseri in quanto esseri», quindi "tutto ciò che è" diventa oggetto dell'ontologia. E di tutto ciò "che è" bisogna conoscere i princìpi e le cause.16 La conoscenza non solo delle sostanze, ma anche dei princìpi e delle cause di esse, è per Aristotele la "filosofia prima",17 preliminare ad ogni ulteriore sviluppo della speculazione nei campi dell'etica e della logica.

Anche in Aristotele l'ontologia resta comunque preponderante rispetto alla dimensione logica ed empirica: solo l'intuizione intellettuale per lui è in grado di accedervi.18

Stoicismo

 Nell'ontologia stoica l'essere si identifica innanzitutto con l'ordine conferito da Dio, che pervade il Tutto. Esso è quindi divino, necessario, razionale, perfetto ed eterno. Lo regolano due princìpi, il poioùn, attivo, e il pàschon passivo. Si tratta di un Principio divino immanente al cosmo stesso, che pervade, ordina e razionalizza il mondo che è una specie di "corpo globale". Dio è perciò intelligenza e potenza e nello stesso tempo ordine (tàxis), ragione (logos) e necessità (ananke). L'ontologia stoica, fondata sulla presenza di un principio spirituale detto pneuma (o soffio vitale) che guida e dispone l'universo secondo un piano intelligente, si contrappone al materialismo epicureo, che risulta invece dominato da un cieco e rigido meccanicismo.19

Neoplatonismo

 Nell'ambito del neoplatonismo, Plotino recupera la concezione parmenidea dell'unità del tutto. Ma l'Uno plotiniano è persino al di là dell'essere e perciò rimane trascendente rispetto ad esso. Come già in Platone, l'essere si stratifica dialetticamente per livelli ontologici come in una scala dove due processi contrari portano, in una direzione ad andare verso l'Uno, nell'altra ad allontanarsi da Lui. Al vertice dell'essere stanno la seconda e la terza delle Ipostasi Divine: l'Intelletto e l'Anima. Da questa per caduta verso il basso si formano le realtà inferiori: uomo, animali, piante, oggetti inanimati.

Filosofia medievale

 Durante la metafisica medioevale, soprattutto nella scolastica, l'ontologia è stata studiata in relazione alla teologia cristiana, in particolare rispetto ad alcune questioni fondamentali relative a Dio (esistenza, unicità, rapporti con il mondo e con l'uomo). La Scolastica ha però anche operato una profonda revisione dei concetti classici, coniugando la tradizione platonica e quella aristotelica coi valori della fede cristiana. Da parte degli Scolastici anche la terminologia filosofica risulta fortemente riformata, e quanto meno sino a tutto il Seicento largamente utilizzata.

L'età cartesiana

 Durante il Seicento la riflessione di Cartesio ripropose il problema ontologico in chiave nuova; egli fu il primo a ricondurre l'intero edificio del sapere umano all'asserzione fondamentale: "cogito ergo sum". Dalla certezza del mio pensiero, e quindi della mia esistenza, Cartesio faceva derivare la possibilità di ogni altra realtà. Egli non negava l'esistenza autonoma di una res extensa, o sostanza materiale, al di fuori della propria res cogitans (sostanza pensante), ma la considerava vera nella misura in cui riusciva ad averne una coscienza chiara e distinta.

L'indubitabilità (o performatività) del metodo offerto dal cogito ergo sum divenne tuttavia sin da allora oggetto di discussioni, dando luogo al problema di come conciliare secondo logica la compresenza di due diverse sostanze ontologiche. Avendo inoltre ricondotto l'ontologia alla dimensione puramente esistenziale del soggetto, egli era precipitato nel profondamente criticato solipsismo: per Cartesio, infatti, il pensiero logico sarebbe in grado di dedurre l'essere da solo, senza bisogno di aprirsi ad una dimensione trascendente. Per rimediare a tali difficoltà, Cartesio era giunto ad elaborare tre prove ontologiche dell'esistenza di Dio, il quale si renderebbe garante del metodo in virtù del fatto che Egli «non può ingannarci».

Pascal gli contestò per questo di usare Dio come mezzo (per «dare un colpetto al mondo») anziché farne il traguardo della filosofia.20 Giambattista Vico rimproverò a Cartesio di aver identificato tutto l'essere con la propria realtà interiore, riducendo l'ontologia ad una mera conseguenza dei suoi pensieri. Rifacendosi alla distinzione tra essere ed esistere, Cartesio secondo Vico non avrebbe potuto affermare «penso dunque sono», bensì «penso dunque esisto». Spinoza, per rimediare al dualismo cartesiano,  lo ricondusse all'unità facendo del pensiero e dell'estensione due «modi» di un'unica sostanza. Leibniz per parte sua riaffermò che non può esservi alcun salto incolmabile tra spirito e materia, ma solo infiniti passaggi dall'uno all'altra, che strutturano l'essere in un'infinità di sostanze o monadi.

Kant

 Nell'opera di Immanuel Kant non viene data una trattazione sistematica dei problemi ontologici, dato che le categorie dell'essere sono considerate forme a priori del pensiero e non determinazioni dell'essere. La teoria kantiana tuttavia  è centrata emblematicamente sul rifiuto della dimostrazione ontologica dell'esistenza di dio. Kant asserisce "Sein ist kein reales Prädikat", ovvero in base al suo sistema di categorie bisogna distinguere l'uso del verbo essere come attributivo ("S è P") e come esistenziale ("S è"). L'esistenza non è quindi un "predicabile" di un ente. Possiamo avere il concetto di dio, la sua essenza, nel pensiero, ma non possiamo tradurre questa conoscenza intellettiva in una prova della sua esistenza reale. La differenza tra reale e ideale viene illustrata da un esempio, la differenza tra "avere 100 talleri e pensare di averli", con cui vuole indicare la dimensione puramente empirica dell'esistenza, dall'altro l'ideale della ragion pura si configura come la struttura ultima della ragione, la quale pensa l'essere come "l'insieme di ogni possibilità per la determinazione completa d'ogni cosa" ma appunto solamente come un'"idea". A differenza delle categorie aristoteliche, che hanno un valore sia ontologico che gnoseologico come forme dell'essere e del pensiero, le categorie kantiane hanno una portata esclusivamente gnoseologico-trascendentale, in quanto forme a priori dell'intelletto che non valgono per l'essere in senso ontologico, ma solo per il pensiero in senso logico-formale, cosa che gli valse l'accusa di fenomenismo da parte dei suoi contemporanei: secondo Kant, infatti, l'essere non viene colto al livello immediato dell'intuizione intellettuale (che per Platone e Aristotele costituiva il vertice della conoscenza), ma sarebbe una semplice copula assegnata e ricondotta dal nostro io all'ambito limitato del fenomeno, su cui il ragionamento esercita poi, tramite le categorie, la sua funzione critica e mediatrice. Kant fu in sostanza accusato di aver svuotato l'essere della sua stessa dimensione ontologica, ponendo la ragione critica al di sopra dell'intuizione.

Hegel

 In seguito fu l'idealismo tedesco ad elaborare tale tema. In Hegel la dimensione ontologica diventa totalmente sottomessa a quella gnoseologica. Con l'asserto «tutto il reale è razionale, tutto il razionale è reale», e con la sua dialettica triadica, Hegel sostenne la possibilità del sapere assoluto, essendo lo "spirito" (l'essere) logicamente comprensibile.
  Hegel di fatto estromise l'ontologia dalla filosofia, presumendo che il pensiero fosse in grado di giustificarsi da sé. La staticità parmenidea divenne dinamica, e l'essere fu fatto trapassare nel divenire. In tal modo Hegel sovvertì la logica aristotelica di non-contraddizione, facendo coincidere l'essere col suo contrario, cioè col non-essere21. L'ontologia hegeliana non è più la dimensione intuitiva e trascendente da cui scaturisce il pensiero (com'era nella filosofia classica), ma viene posta alla fine: è il risultato di una mediazione, di un processo logico.

Dopo Hegel il problema ontologico, nelle sue possibili ramificazioni, divenne ad essere il nodo centrale di molte filosofie che a lui seguirono. In molti riproposero il problema, che in verità è trattato in modo più o meno indiretto in ogni filosofia.

Trendelenburg

 Nella prima metà del XIX secolo avviene una rinascita aristotelica, in gran parte in seguito all'opera di Friedrich Adolf Trendelenburg e dei suoi studenti (in particolare Bönitz, Prantl e Brentano). Questo recupero della tradizione aristotelica, non solo tramite edizioni critiche, ma anche con una riattualizzazione in senso sistematico, si accompagna nel pensiero di Trendelenburg ad una critica dell'idealismo Hegeliano e ad un confronto critico con Kant. In particolare, Trendelenburg provvede ad una nuova interpretazione linguistico-grammaticale della categorie di Aristotele.22 Il soggetto grammaticale corrisponderebbe alla sostanza e quindi alla categoria dell'essere, mentre le altre categorie corrisponderebbero agli accidenti e quindi ai predicabili nel senso più generale. Trendelenburg tese anche ad un recupero della logica aristotelica, contro quella (formale) kantiana e (dialettica) hegeliana. Nella sua organische Weltanschauung (concezione organica del mondo), basata su Aristotele, ricopre un ruolo fondamentale il concetto di movimento costruttivo che unifica essere e pensiero. Per Trendelenburg questa era anche una presupposizione non esplicitata della dialettica hegeliana. D'altra parte, contro Kant, le forme del pensiero sono considerate intimamente legate alla realtà e quindi sia soggettive che oggettive.23

Brentano

 Le posizioni di Trendelenburg furono ulteriormente sviluppate dal suo allievo Franz Brentano. La sua dissertazione Sul molteplice significato dell'ente in Aristotele non testimonia solo l'influenza del suo maestro o di Aristotele per il suo pensiero, ma anche del Tomismo e della scolastica medievale. Infatti, volgendosi più verso la psicologia con le sue opere successive, Sulla Psicologia di Aristotele e Psicologia dal Punto di Vista Empirico, reintroduce l'idea, benché modificata, dell'intenzionalità come caratteristica fondamentale della coscienza nella filosofia contemporanea. Sull'analisi degli atti intenzionali si basano anche alcune della controversie fondamentali dell'ontologia tra i suoi allievi. Infatti, in un atto di coscienza si può distinguere l'oggetto intenzionale immanente e l'oggetto inteso trascendente. Per Brentano fondalmentalmente solo il primo, quello immanente è reale in quanto parte reale dell'atto stesso, la cui evidenza è innegabile. Seguendo Trendelenburg, Brentano collega il soggetto linguistico alla sostanza e le categorie al predicato, proponendo una sostanziale riforma della logica aristotelica su base scolastica, dove il tipo fondamentale di giudizio è quello esistenziale. In un giudizio esistenziale affermativo viene riconosciuta l'esistenza di un oggetto e solo successivamente possono essergli attribuite proprietà tramite predicazione categoriale. Nell'ultima fase del suo pensiero Brentano quindi approderà al reismo, in cui vengono accettati solo oggetti attualmente esistenti, e rigettate tutte le tipologie di oggetti irreali, proposizioni in sé o oggetti di ordine superiore, come Gestalten e Sachverhalte.

Stumpf

 Tra gli allievi di Brentano, fu Carl Stumpf ad introdurre nelle sue lezioni di logica del 1888 un concetto fondamentale per lo sviluppo dell'ontologia, l'idea dello "stato di cose": Sachverhalt. Per Stumpf bisogna distinguere tra l'oggetto di cui si predica qualcosa in un giudizio "S è P", la sua materia, ed il contenuto del giudizio stesso, lo Sachverhalt. Seguendo un suo esempio, nel giudizio "Dio esiste" bisogna distinguere la materia "Dio" dallo stato di cose "l'esistenza di Dio". Nell'ontologia di Brentano questo equivale a distinguere il contenuto del giudizio dal contenuto della semplice presentazione. Lo Sachverhalt è il correlato ontologico di un giudizio e come tale svolge una funzione fondamentale in vari filosofi di generazioni successive, i.a. il Wittgenstein del Tractatus, il giovane Husserl e Adolf Reinach.24 La distinzione tra il contenuto del giudizio dal contenuto della semplice presentazione, cioè materia e Sachverhalt, verrà reso da Meinong come la distinzione tra oggetto e oggettivo.25

Meinong

Alexius Meinong distingue tre modalità dell'essere: esistenza (Existenz), sussistenza o consistenza (Bestand) e l'essere-dato (Gegebenheit). Il primo caso consiste negli ordinari oggetti concreti (e.g. alberi), il secondo negli oggetti astratti o logicamente possibili (e.g. numeri), il terzo negli oggetti logicamente impossibili (e.g. il cerchio quadrato). In questo contesto, Meinong individua anche oggetti di ordine superiore o oggetti fondati, dipendenti dagli oggetti di ordine inferiore (e.g. relazioni, complessi, Gestalten). Secondo Meinong si possono distingue quattro classi di attività mentali: la presentazione (das Vorstellen), il pensiero (das Denken), il sentire (das Fühlen), e il desiderio (das Begehren). Dal lato dell'ontologia a queste corrispondono quattro classi di oggetti: "oggettità" (Objekt), "oggettivo" (Objectiv), "dignitativo", e "desiderativo". Come per Brentano, non si può presentare senza presentare qualcosa e ai diversi tipi di presentazione e attività fondate su di esso correspondono diverse tipologie di oggetti. Per Meinong non solo si può presentare ciò che non esiste, ma questo ha anche lo status ontologico di oggetto, indipendentemente dal fatto se all'oggetto immanente corresponde o meno un oggetto trascendente. Su queste classi si basa la Gegenstandstheorie di Meiong, che vuole essere un'ontologia nel senso di una scienza degli oggetti. Tale scienza, come scienza dell'oggetto in quanto oggetto è la scienza dell'ente in quanto ente, indipendentemente dal suo essere, visto che sono contemplati anche oggetti "oltre l'essere ed il non-essere".

Husserl

 Combinando intuizioni del suo maestro Brentano e dei suoi studi matematici, Edmund Husserl svilupperà una concezione di ontologia formale che comprende la matematica, la logica formale e la mannigfaltigkeitslehre in quanto non è tanto l'ontologia come studio dell'essere in quanto essere, ma l'ontologia come studio dell'ente in quanto ente, i.e., non distando poi troppo da Wolff, lo studio delle proprietà comuni a tutti gli enti possibili. Le scienze specializzate studierebbero invece ontologie regionali, i.e. enti di un certo tipo, un sottoinsieme di enti. Parte integrante di una tale ontologia è la mereologia. Oggetti possono essere semplici o complessi, i.e. avere parti. Queste parti possono essere indipendenti (pezzi) o dipendenti (momenti) e la dipendenza può essere reciproca (e.g. colore ed estensione) o unilaterale (giudizio e presentazione). Nel caso di contenuti dipendenti, le parti da cui dipendono sono anche dette fondamenta e oggetti di ordine superiore (e.g. Gestalten) sono anche chiamate "contenuti fondati". L'ontologia formale è strettamente connessa alla logica formale, dove l'una tratta delle categorie di oggetti, l'altra tratta delle categorie di significati. Dopo la svolta trascendentale, l'ontologia naturale rimane parte del punto di vista fenomenologico come correlato oggettuale, implicato dalle scienze naturali. L'ontologia fondamentale diventa però quella della coscienza, che esibisce una trascendenza in immanenza, cioè non è ulteriormente riducibile dall'epochè. L'essere trascendente viene ricondotto (re-ducere) alle sue fondamenta, non nel reale psicologicamente immanente come in Brentano, ma nel essere assoluto della coscienza.

Heidegger

 Sicuramente degno di nota è Martin Heidegger, che dell'essere fece il concetto cardine della sua filosofia. Nel suo testo più famoso, Essere e tempo, egli opera la radicale distinzione tra ontico e ontologico, ovvero tra esistenza come semplice "presenza" (ente), e l'essere in quanto essere. Scopo del suo pensiero, soprattutto nella prima fase, fu di svolgere un'"ontologia fondamentale", che si radicasse sulla differenza ontologica tra essere ed ente, e mostrasse cioè l'irriducibilità dell'essere a semplice essente. L'essere viene qui inteso come l'altro dell'ente, ossia ciò che rende possibile l'apparire dell'ente (o dell'essente), ma che nel contempo si vela in questa apertura. L'ontologia fondamentale consiste dunque per Heidegger nel pensare l'Essere come ciò che si manifesta, sottraendosi, nell'essente: un Essere inteso cioè non come oggetto, ma piuttosto, con un'immagine affine alla teologia neoplatonica, come la "luce" grazie a cui è possibile vedere gli oggetti (noi non vediamo mai la luce in sé, ma soltanto gli oggetti che da essa vengono illuminati).26 Heidegger in proposito usa la parola Lichtung, la quale in tedesco significa propriamente «radura», ma anche «illuminazione»:27 l'essere è la radura dell'ente, nel senso che consente di far luce su di esso, ma è una luce che consiste nel proprio stesso "diradarsi" e quindi venir meno.28

Sebbene possa sembrare che il percorso tracciato da Essere e Tempo raggiunga il suo scopo, sia per il linguaggio, sia per il nuovo approccio al problema ontologico, in realtà si tratta di un'opera rimasta incompiuta, in quanto Heidegger perviene alla comprensione che il problema dell'essere è indistricabilmente correlato al problema del linguaggio, ovvero alla necessità di elaborare un linguaggio libero da compromissioni con la metafisica tradizionale, che aveva ridotto l'essere a ente sommo fra tutti.

In seguito, con la "svolta linguistica", e, in generale, con tutte le filosofie contemporanee, il problema dell'essere ha assunto diverse forme e diverse interpretazioni, trovando non di rado applicazioni concrete in alcune discipline.

Ontologia e fisica



Per approfondire, vedi ontologia (fisica).

 Per quanto gli interessi di questo studio possano sembrare astratti, alcune questioni ontologiche hanno avuto impatto sulla fisica moderna, in particolare sulla fisica delle particelle. A livello di fondamenti o di filosofia della fisica, si parla talvolta di ontologia primitiva o fondamentale, intendendo un qualche genere di ontologia realista in relazione alla determinazione degli enti ammessi da una teoria. Un approccio antiriduzionista argomenta che gli oggetti non sono "sostanze" ma fasci di proprietà, o collezioni, le cui proprietà emergenti non dipendono da un sostrato fondamentale, ma dalle stesse proprietà generali dei campi. D'altra parte un approccio riduzionista alla teoria dei campi, ritenendo solo questi reali, relega le particelle che li determinano (i bosoni di gauge) al rango di "mediatori".

Ontologia e informatica



Per approfondire, vedi Ontologia (informatica).

 Recentemente il termine "ontologia" (formale) è entrato in uso nel campo dell'intelligenza artificiale e della rappresentazione della conoscenza, per descrivere il modo in cui diversi schemi vengono combinati in una struttura dati contenente tutte le entità rilevanti e le loro relazioni in un dominio. I programmi informatici possono poi usare l'ontologia per una varietà di scopi, tra cui il ragionamento induttivo, la classificazione, e svariate tecniche per la risoluzione di problemi. Tipicamente, le ontologie informatiche sono strettamente legate a vocabolari controllati - repertori di concetti classificati in un'ontologia fondamentale - in base ai quali tutto il resto deve essere descritto (entro il modello utilizzato). Dal 2001 il termine è stato reso piuttosto popolare grazie all'intensa attività e alla forte crescita della comunità di ricercatori impegnati sul tema del  Web Semantico. Per estensione si è iniziato ad usare il termine per definire generici modelli di dati. Comunque nonostante la varietà con cui il termine viene utilizzato, nella letteratura specialistica sembra consolidata l'idea che, in informatica, il termine ontologia debba riferirsi specificamente a un tentativo di formulare una concettualizzazione esaustiva e rigorosa nell'ambito di un dato dominio. Si tratta generalmente di una struttura dati gerarchica che contiene tutte le entità rilevanti, le relazioni esistenti fra di esse, le regole, gli assiomi ed i vincoli specifici del dominio. Tale struttura viene normalmente formalizzata per mezzo di linguaggi semantici che devono rispondere alle leggi della logica formale (per questo si parla anche di ontologia formale).

L'approccio utilizzato fin ora porta a risultati finali pratici molto modesti e i sistemi basati sulle ontologie formali non superano di fatto le capacità linguistiche di un infante e raggiungono invece livelli di complessità molto elevati. In quest'ottica è stato di recente rivalutato il linguaggio naturale e sono state ideate delle ontologie seminformali che uniscono la dinamicità e la flessibilità del linguaggio naturale alla solida base strutturale dei linguaggi formali. Da queste nuove ontologie, è possibile effettuare non solo deduzioni (così come avviene per i linguaggi logico-formali) ma anche induzioni e adduzioni. Queste ultime non generano sempre ontologie certe e veritiere ma solo "teorie" che per essere definitivamente convalidate ed entrare a far parte delle ontologie "certe" dell'intelligenza artificiale devono poi essere raffrontate o con le altre ontologie esistenti o, attraverso l'esperienza, con la realtà. Questa caratteristica rende l'intelligenza artificiale portatrice di tale meccanismo più flessibile e in grado di adattarsi ed apprendere dalla realtà e dalle esperienze.29

Ontologia, teologia, cosmologia e vita quotidiana

 Posizioni di tipo teistico tendono a considerare l'universo come fondato e strutturato su una base etico/morale o addirittura salvifica, in quanto creato nel tempo (per i monoteismi) o increato ed eterno (per i panteismi e per dottrine affini come quella buddhista). In quest'ottica i fenomeni sono spesso considerati elementi passeggeri e inessenziali, mentre i noumeni, che ne sono sostanza, costituiscono la vera realtà, in quanto possiedono un rapporto ontologico diretto con l'Essere, inteso come realtà assoluta. Un approccio religioso alla questione ontologica mette pertanto in dubbio la validità di qualsiasi ontologia fondamentale di tipo materialistico (ma può accettare un'ontologia realista non riduzionista): sia perché essa viene intesa come una forma di scientismo, accusato di trascurare o annichilire le istanze etico-metafisiche fondamentali dell'essere umano (spesso confondendo la scienza con le sue interpretazioni filosoficamente più riduzioniste, positiviste o materialiste), sia perché la scienza e la tecnologia non garantiscono affatto gli esiti morali preferiti dall'umanità: basti pensare alla costruzione delle armi nucleari lamentata da scienziati come Albert Einstein e Bertrand Russell.  Anche per tale motivo le impostazioni religiose sono talvolta accusate di favorire una generale ostilità nei confronti del pensiero scientifico-tecnologico.

D'altra parte, in ambito antropologico, le concezioni religiose sono spesso concepite proprio come sistemi in grado di attribuire alla realtà una determinata ontologia, intesa come struttura generale del mondo (cosmologia) e attribuzione ad esso di un senso (etica), a cui l'individuo o l'intera comunità può fare ricorso, specialmente in circostanze problematiche (situazioni limite, dilemmi etici, confronto con la morte, ecc), per scegliere una particolare condotta e dotarla di un fondamento teorico e una solida giustificazione.

Tale accezione dell'ontologia acquista sempre maggiore rilevanza a causa di problemi quali il sovraccarico informativo, la dipendenza da Internet, la guerra asimmetrica, il terrorismo ecc.  Generalmente chi ha questi problemi inizia a perdere le tracce di ciò che è "reale" nel senso delle effettive minacce al proprio corpo, alla propria famiglia ed all'ambiente ed ecologia in cui vive.  Minacce e preoccupazioni proliferano a migliaia—sia pure ciascuna con probabilità sempre minore—e per il soggetto diventa difficile relazionarsi con l'ambiente, vedere le opportunità e prendere le azioni più opportune. Questo, naturalmente, è ciò su cui conta in realtà il terrorista per causare gravi disagi alla vita ed ai pensieri del nemico.  Una comprensione comune e rigorosa di "ciò che esiste", ed un processo comune di indagine per il quale un'intera comunità di persone poste di fronte ad una stessa minaccia sia disposta a vivere o morire—in altre parole un'ontologia, una cosmologia ed una morale—possono aiutarla a scegliere e sostenere azioni comuni.

Bibliografia

    •    Enrico Berti, "Ontologia analitica e metafisica classica", in Giornale di metafisica, n. 2, 2007, pp. 305–316.

    •     Matteo Bianchetti ed Erasmo Silvio Storace (a cura di), Platone e l'ontologia. Il «Parmenide» e il «Sofista», Milano, Alboversorio, 2004. ISBN 978-88-89130-03-2.

    •     Claudia Bianchi e Andrea Bottani (a cura di), Significato e ontologia, Milano, Franco Angeli, 2003. ISBN 88-464-4959-2.

    •     Maurizio Ferraris (a cura di), Ontologia, Napoli, Guida, 2003. ISBN 978-88-7188-663-3.

    •     Maurizio Ferraris (a cura di), Storia dell'ontologia, Milano, Bompiani, 2008. ISBN 978-88-452-6140-4.

    •     Marco Lamanna, La nascita dell'ontologia nella metafisica di Rudolf Göckel (1547-1628), Hildesheim, Georg Olms, 2013.

    •     Andrea Moro, Breve storia del verbo essere. Viaggio al centro della frase, Milano, Adelphi, 2010.

    •     Roberto Poli, Ontologia formale, Genova, Marietti, 1992.

    •     L. Ruggiu e J. Navarro Cordon (a cura di), La crisi dell'ontologia, Milano, Guerini, 2004.

    •     Edmund Runggaldier e Carl Kanzian, Problemi fondamentali dell'ontologia analitica (a cura di S. Galvan), Milano, Vita e Pensiero, 2003.

    •    Battista Mondin,  Ontologia, metafisica, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 1999.

    •     Fiorenza Toccafondi, L'essere e i suoi significati, Bologna, Il Mulino, 2000.

    •    Paolo Valore, Laboratorio di ontologia analitica, Milano, CUSL, 2003.

    •     Paolo Valore, Ontologia, Milano, Unicopli, 2004.

    •     Paolo Valore, L'inventario del mondo. Guida allo studio dell'ontologia, Torino, UTET, 2008.  Recensione on line.

    •     Achille C. Varzi, Parole, oggetti, eventi e altri argomenti di metafisica, Roma, Carocci, 2001.

    •     Achille C. Varzi, "Ontologia e metafisica", in F. D’Agostini e N. Vassallo (a cura di), Storia della filosofia analitica, Torino, Einaudi, 2002, pp. 157–193.

    •     Achille C. Varzi, Ontologia, Roma-Bari, Laterza, 2005.  Recensione on line.

    •     (EN)   Voce «Parmenides»  in: Edward N. Zalta (cur.), Stanford Encyclopedia of Philosophy

    •     (EN)   Voce «Logic and Ontology»  in: Edward N. Zalta (cur.), Stanford Encyclopedia of Philosophy

Voci correlate

    •    Essere

    •    Metafisica

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    •    Ontologia fisica

    •    Ontologia informatica

    •    Teologia

Altri progetti

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Collegamenti esterni

    •     Achille Varzi, Ontologia e metafisica

    •     L'Ontologia in Italia

    •     (EN)  Open access book:  Paolo Valore (ed), Topics on General and Formal Ontology. Testo completo accessibile gratuitamente mediante registrazione.

    •     (EN)   Sito del Prof. Barry Smith con articoli su ontologia formale e ontologie regionali varie

    •     (EN)   Theory and History of Ontology

    •     (EN)   Birth of a New Science: the History of Ontology from Suarez to Kant note sull'origine del termine "Ontologia"

    •     (EN)   National Center for Ontological Research

    •     (EN)   Ontology & Knowledge: Meta-Ontological Perspective (2002). Sito ENEA di Adam Maria Gadomski,  MKEM Server.

    •     (EN)   International Ontology Congress

    •     Ontologia in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Epistemologia

L'epistemologia è quella branca della filosofia che si occupa delle condizioni sotto le quali si può avere conoscenza scientifica e dei metodi per raggiungere tale conoscenza, come suggerisce peraltro l'etimologia del termine, il quale deriva dall'unione delle parole greche episteme ("conoscenza certa", ossia "scienza") e  logos (discorso).  In un'accezione più ristretta l'epistemologia può essere identificata con la filosofia della scienza, la disciplina che si occupa dei fondamenti e dei metodi delle diverse discipline scientifiche.

Soprattutto nei paesi di lingua inglese il concetto di epistemologia viene invece usato come sinonimo di gnoseologia o teoria della conoscenza, la disciplina che si occupa dello studio della conoscenza in generale 1.

Le origini

 Anche se l'indagine sulle possibilità di conoscenza del mondo fisico può essere fatta risalire almeno fino ai filosofi presocratici, ragion per cui una qualche forma di epistemologia è presente fin dalle origini del pensiero filosofico, la nascita dell'epistemologia in quanto specifica branca di ricerca è ben posteriore allo sviluppo della conoscenza scientifica.

L'Empirismo

 L'empirismo, generalmente visto come il cuore del moderno metodo scientifico,con cui non può essere confuso, dato il rigore scientifico che caratterizza quest'ultimo, sostiene che le nostre teorie devono essere basate sull'osservazione del mondo piuttosto che sull'intuito o sulla fede. In altre parole, esso sostiene la ricerca empirica ed il ragionamento a posteriori, piuttosto che l'innatismo della conoscenza.

Tra i filosofi riconducibili all'empirismo troviamo:

    •    Aristotele (384 - 322 a.C.) e Tommaso d'Aquino (1225 - 1274) (precursori);

    •    Francis Bacon (1561-1626), Thomas Hobbes (1588 - 1679), John Locke (1632 - 1704), George Berkeley (1685 - 1753) e David Hume (1711-1776) (empirismo moderno).



Nella prassi diffusa, l'Empirismo si oppone al razionalismo, rappresentato da René Descartes (Cartesio, 1596 - 1650). Ma si può iniziare, al giorno d'oggi, ad eccepire qualche eccezione. L'empirismo fonda la coscienza dei fenomeni dalle esperienze sensibili (quindi le idee vengono fuori dell'in sé), mentre il razionalismo fonda la conoscenza sulle "idee innate" Quest'ultima scuola filosofica privilegia l'introspezione e il ragionamento deduttivo a priori, tuttavia una demarcazione netta tra empirismo e razionalismo non è più possibile, basti pensare che i filosofi si sono avvalsi dei due sistemi conoscitivi fondando su entrambi. Esempio di ciò può esser preso Immanuel Kant che fu razionalista, ma mutuò da Hume il metodo che lo ha portato a definire le due "critiche", della "ragion pratica" e della "ragion pura", dando vita al criticismo, che altri non è che la fusione di empirismo e razionalismo.

L'empirismo è stato un precursore del neopositivismo, noto anche come empirismo logico. I metodi empirici stanno tuttora dominando il pensiero scientifico. L'empirismo ha preparato la base per il metodo scientifico, visto in modo tradizionale come progresso scientifico tramite l'adattamento delle teorie.

Tuttavia teorie relativamente recenti come la meccanica quantistica o la teoria della relatività, almeno per come sono state esposte da Kuhn in "La struttura delle rivoluzioni scientifiche" hanno posto sfide significative all'empirismo come metodo di lavoro della scienza.

Alcuni sostengono che la meccanica quantistica abbia fornito un esemplare trionfo dell'empirismo: la capacità di scoprire anche leggi scientifiche contro-intuitive e la capacità di rimodellare le nostre teorie per includere tali leggi.

L'opinione prevalente resta comunque quella che l'empirismo abbia sostanzialmente esaurito la sua spinta propulsiva all'inizio del XX secolo e che per il progresso della scienza servano teorie più raffinate.

Gli scienziati

 Secondo quanto sostiene il filosofo Daniel Dennett: Non esiste scienza privata della filosofia, al massimo può esistere una scienza dove il bagaglio filosofico è stato portato a bordo senza alcun esame preliminare2.

In altre parole, la distinzione tra filosofi e scienziati può essere arbitraria, almeno in questa fase dell'epistemologia.

Tra gli scienziati da ricordare ci sono almeno:

    •    Galileo (1564 -1642);

    •    Newton (1642 - 1727);

    •    Leibniz (1646 - 1716).



Fondamentale, da parte di Galileo, l'approccio matematico alla scienza. Tale approccio matematico alla descrizione del mondo consente di ragionare per modelli, essendo la descrizione matematica di un sistema fisico anche un suo modello, che diventa poi applicabile in nuovi campi, con un considerevole potenziale predittivo.

Il problema dell'induzione

 Passando dall'approccio storico a quello più propriamente filosofico, uno dei problemi ricorrenti della filosofia della scienza, specialmente nei paesi anglosassoni, è il problema dell'induzione. Solitamente il problema viene esposto tramite l'esempio di David Hume in cui ogni osservazione di un corvo nero dovrebbe confermare la teoria che tutti i corvi sono neri. Ma come fanno delle osservazioni ripetute a diventare una teoria?

Da alcuni punti di vista il problema è dibattuto ancora adesso; va però considerato il fatto che in filosofia della scienza si dà per scontato che esista un mondo reale e che esso sia conoscibile (ciò non vale per altre branche della filosofia).

Allora il problema dell'induzione ha a che vedere con il modo in cui osserviamo il mondo e ne traiamo insegnamenti. In una lunga tradizione, che va da Galileo fino a Imre Lakatos e Paul Feyerabend, ciò si traduce in uno studio del metodo scientifico, cioè delle modalità con cui costruiamo delle teorie capaci di spiegare gli eventi (e/o esperimenti) passati e di prevedere eventi futuri.

Se quindi si evita di focalizzare eccessivamente il problema dell'induzione, esso può anche essere visto come un problema di metodo.

Il Rasoio di Ockham

 Il Rasoio di Ockham (Ockham's Razor) è una pietra di paragone della filosofia della scienza. Guglielmo di Ockham suggerì che tra le diverse spiegazioni di un fenomeno naturale si dovesse preferire quella che non moltiplica enti inutili, detto in latino entia non sunt multiplicanda. L'esempio più classico si riferisce alla questione sulla generazione dell'universo: da un lato si può ipotizzare un universo eterno, o generato da sé o per motivi sconosciuti; dall'altro, un universo generato da una divinità, la quale a sua volta è eterna, o generata da sé o per motivi sconosciuti. In questo senso, la prima versione non postula enti inutili (la divinità), ed è quindi preferibile. Al giorno d'oggi, comunque, si tende a definire la teoria del Rasoio di Ockham come la scelta più semplice. Guglielmo di Ockham non suggeriva che essa sarebbe stata quella vera, né che sarebbe stata più vicina alla verità; si può però notare da un punto di vista storicistico che generalmente le teorie 'più semplici' hanno superato un numero maggiore di verifiche rispetto a quelle 'più complesse'.

Il Rasoio di Ockham è stato solitamente usato come una regola pratica per scegliere tra ipotesi che avessero la stessa capacità di spiegare uno o più fenomeni naturali osservati.

Siccome per ogni teoria esistono generalmente infinite variazioni egualmente consistenti con i dati, ma che in alcune circostanze predicono risultati molto differenti, il Rasoio di Ockham è usato implicitamente in ogni istanza della ricerca scientifica. Consideriamo ad esempio il famoso principio di Newton "Ad ogni azione corrisponde una reazione uguale ed opposta". Una teoria alternativa potrebbe essere "Per ogni azione c'è una reazione uguale ed opposta, eccetto il 12 gennaio 2055, quando la reazione avrà metà intensità." Questa aggiunta apparentemente assurda viola il principio di Ockham perché è un'aggiunta gratuita, come pure farebbero infinite altre teorie alternative. Senza una regola come il Rasoio di Ockham gli scienziati non avrebbero mai alcuna giustificazione pratica o filosofica per far prevalere una teoria sulle infinite concorrenti; la scienza perderebbe ogni potere predittivo.

Sebbene il Rasoio di Ockham sia la regola di selezione tra teorie, non basata sull'evidenza, più ampiamente usata e filosoficamente comprensibile, ci sono oggi approcci matematici simili basati sulla teoria dell'informazione che bilanciano il potere esplicativo con la semplicità. Uno di questi approcci è l'inferenza sulla minima lunghezza di descrizione (Minimum Description Length).

Ockham e il falsificazionismo

 Spesso si abusa del Rasoio di Ockham, che viene citato anche dove non è applicabile. Ma esso non dice che si deve sempre preferire la teoria più semplice, indipendentemente dalla sua capacità di spiegare i risultati (comprese eventuali eccezioni) o di render conto dei fenomeni in discussione. Il principio della falsificabilità richiede che ogni eccezione che possa essere riprodotta a volontà invalidi la teoria più semplice e che la nuova spiegazione più semplice che possa effettivamente incorporare l'eccezione come parte della teoria debba essere preferita alla teoria precedente.

Il Positivismo

 Nella prima metà dell'Ottocento nasce in Francia con Auguste Comte (1798-1857) il movimento filosofico e culturale del Positivismo, che darà anche origine alla sociologia. L'origine del termine positivismo è però dovuta a Henri de Saint-Simon, che lo usò per la prima volta nel 1822.

Da Comte derivò poi il positivismo evoluzionista in Inghilterra (Spencer).

Alcuni (per esempio Abbagnano) individuano nel positivismo una certa ingenuità con la sua fiducia nell'infallibilità della scienza, che potrebbe discendere da influssi idealistici. Altri lo vedono più come una metodologia che una disciplina filosofica. Certamente il positivismo nei decenni successivi ricevette feroci critiche, ma esercitò anche una lunga influenza, sia tramite l'empiriocriticismo di Mach che con il neopositivismo.

È opportuno chiarire che in Italia il positivismo di Comte viene considerato una corrente filosofica a tutti gli effetti, mentre nel mondo anglosassone esso viene visto come una corrente sociologica.

L'Empiriocriticismo

 L'Empiriocriticismo è sostanzialmente impersonato da Ernst Mach, anche se il termine fu coniato da Richard Avenarius (1843-1896) per designare una rivisitazione del positivismo che tende a diventarne una critica radicale.

In particolare Mach non concorda con i positivisti sulla possibilità di individuare scientificamente le strutture ultime della realtà. Per lui le leggi scientifiche non hanno valore assoluto. Anche il tempo è un'astrazione.

Il pensiero di Mach ebbe una profonda influenza sul Circolo di Vienna, nonché sull'opera dello scrittore Robert Musil.

Il Neopositivismo

 All'inizio del XX secolo il centro Europa è una grande fucina culturale, con abbondanti interscambi culturali tra persone di varia nazionalità e tra diverse discipline. In particolare Vienna è preminente per la qualità e la quantità di intrecci culturali.  

In questo ambiente si sviluppa il positivismo logico. Con l'avvento del nazismo e le successive persecuzioni su base razziale, negli anni trenta molti intellettuali emigrano, portando ad un'ampia diffusione delle idee neopositiviste, che influenzeranno le filosofie successive (per esempio la filosofia analitica anglosassone).

Reichenbach e il circolo di Berlino

 Più o meno negli stessi anni si sviluppa, grazie all'iniziativa di Hans Reichenbach, il Circolo di Berlino, il quale si occupa di tematiche analoghe a quelle del circolo di Vienna, ma con particolare attenzione alla causalità, alla statistica ed al potere predittivo della scienza.

Vedi anche Circolo di Vienna, Russell, Wittgenstein e Gödel.



Per approfondire, vedi Positivismo logico.

Il Costruttivismo

 Il costruttivismo è una posizione filosofica (avente un impatto diretto sull'epistemologia) secondo la quale non ha senso perseguire una rappresentazione oggettiva della realtà, perché il mondo della nostra esperienza, il mondo in cui viviamo, è il risultato della nostra attività costruttrice.



Per approfondire, vedi Costruttivismo (filosofia).

L'approccio contemporaneo

 Sicuramente da ricordare il contributo di Ludovico Geymonat, filosofo e matematico italiano, che nel corso del XX secolo ha molto contribuito ad introdurre in Italia e ad approfondire concetti e teorie di filosofia della scienza. Geymonat tenne a Milano la prima cattedra italiana di filosofia della scienza a partire dal 1956.

Un personaggio di spicco dell'epistemologia contemporanea fu il filosofo austriaco Karl Popper. Il pensiero popperiano (falsificazionismo) può essere sintetizzato con una sua celebre affermazione: "Una teoria è scientifica nella misura in cui può essere smentita". Questa frase sintetizza in maniera estrema il criterio di demarcazione, che consente di discriminare tra le discipline scientifiche e quelle pseudo-scientifiche, (quali, secondo Popper, la psicanalisi ed il marxismo): mentre le prime si basano su affermazioni che possono sempre essere sottoposte, in linea di principio, a falsificazione empirica, le seconde sfuggono ad ogni tentativo di falsificazione.

Un fatto che i detrattori di Popper conoscono bene è che una teoria scientifica difficilmente viene abbandonata quando un esperimento la falsifica (la dimostra non valida). Semplicemente, si fa in modo di incorporare il risultato dell'esperimento in una nuova versione della teoria. Ciò avviene in particolar modo per le teorie che hanno già avuto un buon successo. La procedura può essere ripetuta più volte, in seguito a successivi risultati negativi, finché ad un certo punto la teoria non è più emendabile, e serve un balzo concettuale per crearne una nuova.  

All'epistemologia popperiana si contrappone in questo senso l'opera di Thomas Kuhn, che focalizza l'aspetto rivoluzionario delle scoperte scientifiche, ed al quale si deve l'introduzione all'interno del dibattito epistemologico dei concetti di scienza normale, rivoluzione scientifica e soprattutto di paradigma. In questo approccio il progredire della scienza non è più lineare, ma necessita ogni tanto di una rivoluzione scientifica cioè un rovesciamento delle concezioni metodologiche o un nuovo paradigma concettuale.

Qualcuno considera Popper abbondantemente sopravvalutato, tra cui Paul Feyerabend, appartenente alla "New Philosophy of Science" con Norwood Russell Hanson, Thomas Kuhn e Imre Lakatos. Feyerabend, che nel suo Dialogo sul metodo, definisce Popper "un pedante", imposta il suo approccio all'epistemologia in modo più ampio, a partire dalla sua opera fondamentale (ma scritta in tono provocatorio) Contro il metodo. In tale libro, che propone "un anarchismo epistemologico", Feyerabend analizza e demolisce senza pietà le teorie di Popper, mostrando come la falsificazione non sia mai stata realmente applicata dagli scienziati. In aggiunta viene criticato l'approccio classico degli epistemologi, tendente a ricostruire a posteriori un metodo che in realtà (secondo lui) non esiste.

Feyerabend approfondisce le sue idee nelle opere successive, chiarendo che un metodo, se esiste, è ben più complesso di quanto illustrato da Popper, e che la validità del metodo è comunque legata alla storia. Praticamente, si associa il realismo al relativismo culturale.

L'approccio di Lakatos, per quanto eviti provocazioni, si distanzia nettamente da Popper quando dichiara che una teoria scientifica può essere falsificata solo da una nuova teoria, che includa la spiegazione dei fatti spiegati dalla teoria precedente, ma amplii la sua applicabilità a nuovi fenomeni.

Altri, alla falsificazione in toto popperiana contrappongono la teoria della confermabilità di Rudolf Carnap, con alcune modifiche: un esponente di tale linea di pensiero è Donald Gillies.

Tuttavia, il problema di fondo dell'epistemologia, oggi come al tempo di Hume, rimane quello dell'implicazione e dell'induzione: secondo la teoria della confermabilità, ogni cigno bianco conferma che i corvi sono neri, ossia ogni esempio non in contrasto con la teoria ne conferma una parte (

A⇒B=¬A∨B). Secondo quella della falsificabilità, invece, nessuna teoria è mai vera in quanto, mentre esiste solo un numero finito di esperimenti a favore, ne esiste teoricamente anche un numero infinito che potrebbe falsificarla.

Bibliografia

    •     Donald Gillies e Giulio Giorello. La filosofia della scienza nel XX secolo. Roma, Laterza, 1995. ISBN 88-420-4492-X

    •     Alberto Strumia. Introduzione alla filosofia delle scienze. Bologna, ESD, 1992. ISBN 88-7094-114-0

    •     Luigi Lentini. Il paradigma del sapere. Conoscenza e teoria della conoscenza nella epistemologia contemporanea. Milano, Franco Angeli, 1990. ISBN 88-204-6386-5.

    •     Anna Ludovico, Anima e corpo. I ragazzi selvaggi alle origini della conoscenza, Roma: Aracne 2006,ISBN 88-548-0387-1.

    •     Anna Ludovico, Effetto Heisenberg. La rivoluzione scientifica che ha cambiato la storia, Roma: Armando 2001, ISBN 88-8358-182-2.

    •     Barbara Blum, Helmut Rechenberg, Anna Ludovico, Per Heisenberg, Roma: Aracne 2006, ISBN 88-548-0636-6.

    •     Anna Ludovico, Dalla fisica alla filosofia, Roma: Editore Nuova Cultura 2011, ISBN 88-6134-608-1.

    •     Paolo Parrini, L'empirismo logico. Aspetti storici e prospettive teoriche, Roma: Carocci 2002.

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    •     La verità nella scienza: intervista a Giulio Giorello

    •     Epistemologia in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Filosofia della scienza

 La filosofia della scienza è la branca della filosofia che studia i fondamenti, gli assunti e le implicazioni della scienza, sia riguardo alla logica e alle scienze naturali, come la fisica o la biologia, sia riguardo alle scienze sociali, come la sociologia, la psicologia o l'economia.

La filosofia della scienza è legata in generale alla filosofia della conoscenza e all'epistemologia. Essa cerca di spiegare la natura dei concetti e delle asserzioni scientifiche, i modi in cui essi vengono prodotti; come la scienza spiega la natura, come la predice e come la utilizza per i suoi fini; i mezzi per determinare la validità delle informazioni; la formulazione e l'uso del metodo scientifico; i tipi di ragionamento che si usano per arrivare a delle conclusioni; le implicazioni dei metodi scientifici, con modelli dell'ambiente scientifico e della società umana circostante.

Il rapporto con le discipline filosofiche e scientifiche

 Nella più diffusa accezione, la filosofia della scienza è l'indagine su come avviene la conoscenza scientifica. Essa ha ampie sovrapposizioni con l'epistemologia e diversi temi in comune con il problema della demarcazione. Quando si deve identificare cosa esiste, quale che sia l'oggetto di cui si parla, saranno coinvolte anche l'ontologia e la gnoseologia.  Nella filosofia della scienza ha una certa importanza anche la logica sia per i suoi rapporti con i metodi deduttivi, che per i suoi stretti legami con la filosofia della matematica.

La filosofia della scienza può anche essere declinata al plurale, come riflessione interna ad una comunità scientifica sugli aspetti filosofici relativi ad una comune disciplina di competenza, si ottengono così la filosofia della fisica, la filosofia della matematica ed altre filosofie settoriali.

In questo approccio, a volte settoriale, basato su problematiche scientifiche, si evidenzia la sua principale differenza dall'epistemologia.

Il concetto della limitata possibilità della scienza di spiegare l'interezza dei fenomeni naturali è stato affrontato da numerosi autori, tra i quali nel XX secolo il francese Pierre Lecomte du Noüy.

Storia dei metodi di ricerca

Antichità

 L'origine storica dei temi della filosofia della scienza nasce con la filosofia greca, e viene sviluppata in particolare nelle opere di Platone relative alla conoscenza e alla maieutica, nelle opere di Aristotele di Logica e di Metafisica e nelle opere dei filosofi stoici, in particolare di Crisippo su temi di Logica.

La rivoluzione scientifica: Galilei, Cartesio, Bacone

 Nel periodo medioevale si ha uno sviluppo dei temi logici già trattati dagli autori classici antichi ed è con il "rinascimento scientifico" che vengono sviluppati in modo sistematico i temi di questa disciplina, in particolare da Galileo Galilei, da Renè Descartes e da Francesco Bacone.

Galilei indicò come elementi fondamentali del metodo scientifico due procedimenti: l'elaborazione di una teoria da esprimere in forma di deduzioni matematiche, e le conseguenti applicazioni tecniche su di essa in modo da poterla sottoporre a controlli sperimentali. In particolare indica questo metodo con alcuni cenni nei suoi dialoghi all'alternanza di due fasi specifiche nel procedimento di ricerca scientifica, che sono:1

    •     "sensate esperienze" intese come osservazioni ed esperimenti scientifici

    •     "necessarie dimostrazioni" intese come dimostrazioni geometriche e matematiche



Il filosofo francese Cartesio sviluppò poi i temi di filosofia della scienza in modo più sistematico nel Discorso sul metodo. La filosofia e il metodo di Cartesio sono considerati razionalisti in quanto è prevalente l'impostazione razionale e deduttiva rispetto alla componente sperimentale. La deduzione è il metodo con cui dai principi generali, si possono ricavare i teoremi matematici e la spiegazione dei fenomeni naturali.

Cartesio nel Discorso sul metodo 2 indicò in quattro punti i procedimenti della conoscenza razionale:

    •     metodo dell'evidenza

    •     metodo dell'analisi

    •     metodo della sintesi

    •     metodo dell'enumerazione.



Il filosofo inglese Francesco Bacone sviluppò invece i primi studi sistematici sull'applicazione del metodo induttivo nella ricerca scientifica. L'induzione è il metodo con il quale si possono scoprire principi generali, partendo dall'osservazione e dal confronto di molti fenomeni naturali e sperimentazioni di laboratorio. Secondo Bacone 3 il procedimento induttivo viene sviluppato con l'ausilio di tre tavole nelle quali il ricercatore riporta diversi aspetti delle sue osservazioni naturalistiche e delle sue sperimentazioni di laboratorio. Le tre tavole descritte da Bacone sono:

    •     "tavola della presenza" in cui riporta quando il fenomeno e le sue cause si verificano

    •     "tavola dell'assenza" in cui riporta quando il fenomeno e le sue cause non si verificano

    •     "tavola dei gradi" in cui riporta le variazioni rilevate negli esperimenti.



Newton

 Agli studi innovativi compiuti dai tre grandi studiosi rinascimentali di Filosofia della scienza, Galileo, Cartesio e Bacone, seguirono gli approfondimenti fatti da Isaac Newton nella seconda metà del Seicento. Newton nel suo trattato fondamentale di fisica e meccanica, Principi matematici della filosofia naturale (1687) indicò in quattro punti i metodi della ricerca scientifica:4

    •     Non dobbiamo ammettere spiegazioni superflue dei fenomeni naturali

    •     A uguali fenomeni corrispondono uguali cause;

    •     Le qualità uguali di corpi diversi debbono essere ritenute universali di tutti i corpi;

    •     Proposizioni ricavate per induzione da esperimenti, si considerano vere fino a prova contraria.



In particolare l'ultima regola viene in genere ricollegata alla sua celebre frase: «Hypotheses non fingo»», con la quale Newton intende rifiutare ogni teoria scientifica che non derivi da un'approfondita verifica sperimentale;

Illuminismo e Positivismo

 Gli studi di filosofia della scienza ebbero ampio sviluppo nel Settecento, detto appunto secolo dei lumi. Fra i principali studiosi dell'epoca illuminista si ricordano gli inglesi John Locke e David Hume, il matematico svizzero Leonardo Eulero, e gli enciclopedisti francesi Jean Baptiste Le Rond d'Alembert e Denis Diderot.

Nell'Ottocento vennero poi sviluppati studi originali sui metodi induttivi dal filosofo inglese John Stuart Mill. È rilevante anche la classificazione delle scienze compiuta dal filosofo francese Auguste Comte. Gli studi di questi due filosofi si inquadrano in genere nel movimento del positivismo ottocentesco, che approfondì aspetti generali, in relazione al rapporto fra scienza e filosofia.

Il Novecento

 Nel Novecento si è avuto un ampio dibattito sui temi di filosofia della scienza. Agli inizi del Novecento furono fondamentali gli studi degli storici e filosofi Pierre Duhem e Ernst Mach che ispirarono i filosofi riuniti nel Circolo di Vienna.  Il "Circolo di Vienna" fu un gruppo di filosofi che si riunivano regolarmente a Vienna dal 1922 fino al 1936 per discutere su temi di filosofia della scienza. Fra gli elementi di questo gruppo sono stati attivi soprattutto  Rudolf Carnap, Moritz Schlick e Hans Hann. Da menzionare nel dibattito  sulla filosofia della scienza, specie relativamente a Popper, Paul Karl Feyerabend.5.Karl Popper, frequentatore occasionale del circolo di Vienna, contestò il tema della verificabilità sperimentale,6 a cui contrappose il criterio della  falsificabilità.

Più o meno negli stessi anni si sviluppò, grazie all'iniziativa di Hans Reichenbach, il Circolo di Berlino, il quale si occupò di tematiche analoghe, ma con particolare attenzione alla causalità, alla statistica ed al potere predittivo della scienza.

Dopo lo scioglimento del Circolo di Vienna nel 1936, gli studi in questa disciplina continuarono in varie università europee e americane. Fra gli sviluppi degli ultimi decenni del Novecento si ricordano gli importanti contributi del filosofo americano Thomas Kuhn e dell'ungherese Imre Lakatos legati ai programmi di ricerca e al progressivo sviluppo ed evoluzione delle teorie scientifiche.  

In particolare, Kuhn criticò parzialmente il falsificazionismo popperiano sul punto relativo all'accantonamento della teoria in caso di confutazione di un suo elemento empirico, sostenendo che si sarebbe dovuto accantonare solamente quel singolo elemento e non la teoria nel suo complesso. Anche Lakatos, pur accogliendo favorevolmente l'impostazione filosofica popperiana, vi mosse dei rilievi, sostenendo che non sono mai le singole confutazioni di fatti empirici a determinare l'abbandono di una teoria, perché la messa in discussione della verità scientifica riguarderebbe solo un aspetto marginale di essa, non il suo nucleo centrale, che sebbene risulti indebolito nella sua certezza complessiva, continuerebbe ad essere accettato per vero. Affinché una teoria generale sia abbandonata, occorre piuttosto, secondo Lakatos, che si progetti un nuovo programma complessivo di ricerca scientifica che sappia meglio rendere ragione degli eventi: non è la falsificazione di per sé a far progredire la scienza, bensì lo spirito di ricerca e l'inventiva umana.

Nell'ambito di altre correnti filosofiche conseguenti allo scioglimento del Circolo di Vienna, notevole importanza assumeranno anche le ricerche della scuola di Poznan e di filosofi come Leszek Nowak, che ha introdotto il concetto di idealizzazione nella filosofia della scienza. Da menzionare anche il pensiero di Jacques Monod per i suoi contributi alla filosofia della biologia.

Filosofia della scienza in Italia nel Novecento

 Fra gli scienziati e matematici italiani che hanno approfondito i temi di filosofia della scienza fra fine Ottocento e gli inizi del Novecento si ricordano in particolare Federigo Enriques e Giuseppe Peano.

Il matematico livornese Federico Enriques, oltre a numerosi trattati di didattica della matematica, sviluppò anche saggi molto approfonditi di storia della scienza e di filosofia della matematica, confutando alcune formulazioni scettiche in questo campo, in particolare elaborate dai filosofi idealistici e kantiani.

Il matematico torinese Giuseppe Peano sviluppò in particolare trattati di logica simbolica, con una impostazione deduttiva della matematica, dai fondamenti della geometria e dell'aritmetica, fino agli sviluppi più avanzati dell'analisi matematica.

Dopo la seconda guerra mondiale gli studi in questo campo furono condotti innanzitutto dal Centro Studi metodologici di Torino, ad opera di Ludovico Geymonat e Nicola Abbagnano. In particolare si devono a Geymonat i maggiori contributi in questa materia con la compilazione della grande opera sistematica Storia del pensiero filosofico e scientifico, stampata in più edizioni e numerosi volumi, in collaborazione con molti altri esperti delle varie discipline.

Alcuni studi di rilievo sono stati sviluppati da docenti di filosofia della scienza di varie università italiane. Fra questi si ricordano in particolare Paolo Rossi che si è occupato soprattutto di aspetti storiografici, Marcello Pera che ha fatto studi sull'induzione e il metodo scientifico e Giulio Giorello che ha scritto vari saggi di matematica, scienza e filosofia.

Aspetti complementari

 Fa parte della filosofia della scienza anche l'etica della scienza, che si (pre) occupa degli aspetti morali dell'attività scientifica. "La scienza come istituzione implica un tacito contratto sociale tra gli scienziati così che ciascuno dipende dall'affidabilità degli altri [...] l'intero sistema cognitivo della scienza è radicato nell'integrità morale del complesso dei singoli scienziati".7 In questo settore da rammentare il rapporto fra finanza e ricerca, le tecnologie e nuove definizioni scientifiche, la filosofia della medicina e filosofia della scienze biomediche, l'etica della manipolazione biomedica della vita; ha avuto per l'appunto particolare sviluppo negli ultimi anni la bioetica per le numerose implicazioni che si hanno nel campo delle attività sperimentali, mediche ed ospedaliere.

La filosofia della scienza inoltre considera inosservabili alcuni aspetti oggetti di studio come le particelle atomiche, la forza di gravità, la causa, la credenza o le motivazioni.

Bibliografia

    •     Ludovico Geymonat, Lineamenti di Filosofia della Scienza, 1985, Milano, Mondadori.

    •     Anna Ludovico,  Dalla fisica alla filosofia, Roma: Editore Nuova Cultura  2011, ISBN 8861346081.

Voci correlate









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Filosofia del linguaggio

La filosofia del linguaggio si occupa del linguaggio umano e dei suoi sistemi di comunicazione. Poiché indaga le relazioni tra linguaggio, pensiero e realtà la filosofia del linguaggio si pone al confine con altre discipline quali la psicologia, metafisica, l'epistemologia, la logica, la linguistica, la semiotica. Studia quindi il rapporto tra segno e significato e la capacità umana di usarli nella comunicazione.

Linguaggio e realtà



Per approfondire, vedi Guido Calogero#La teoria sul pensiero greco arcaico e Guido Calogero#Indistinzione di ontologia, logica e linguaggio.

In epoca arcaica non si distingueva tra parola e cosa: la differenza tra il linguaggio e ogni simbolo riferibile alla realtà si afferma infatti in Grecia in un periodo successivo intercorrente tra il VI e il III secolo a.C.

Le prove di questa indistinzione tra linguaggio e realtà sono nell'analisi di diverse culture primitive dove sussisteva la convinzione che conoscere il nome del nemico vuol dire esserne padroni e poterlo così sconfiggere.1

Così anche in molte teogonie orientali come nel poema babilonese Enûma Eliš,2 che tratta della creazione e nei testi indiani come la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad e il Ṛgveda  e nelle credenze religiose sumere, egiziane e anche romane il dio creatore è colui che crea pronunciando il nome della cosa creata: senza nome non esiste la cosa e il nome dà realtà alla cosa.

« Quando in alto il cielo ed in basso la terra non avevano ancora ricevuto il loro nome, niente esisteva....3 »

Così anche nella Bibbia nel testo della Genesi Dio crea la luce pronunciandone il nome:

« Dio disse: "Sia la luce!". E la luce fu.4 »

e Adamo assegnando un nome agli animali stabilisce la predominanza dell'uomo, signore della natura

« Il Signore, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all'uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l'uomo gli avrebbe dato. L'uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi...5 »

Naturalismo e convenzionalismo

Con il progredire della riflessione filosofica si comincia a dubitare della identità tra nome e realtà e ci si chiede se il linguaggio sia un fatto naturale o convenzionale. Secondo un primitivo naturalismo si crede che il linguaggio sia una rappresentazione fonica della cosa in grado di esprimerne l'essenza.

Con i sofisti e Platone ("Cratilo", dialogo) il naturalismo viene superato a vantaggio del convenzionalismo secondo cui il linguaggio rappresenta un accordo tra gli uomini che ai fini della comunicazione tra di loro assegnano per convenzione precisi suoni alle cose: questa la tesi definitiva sul linguaggio che si afferma con Aristotele.

Un altro problema da definire è quello per il quale ci si chiede se il linguaggio procuri conoscenza: per i naturalisti lo studio del linguaggio comporta la conoscenza della realtà e in ciò è un valido sussidio per gli antichi l'etimologia, una forma di sapere legata al nome. Secondo i convenzionalisti invece il nome non è di per sé conoscenza ma semplice strumento per ottenere informazioni.

Il linguaggio nei presocratici

Per i presocratici vi è una comprovata identità tra essere e pensiero, tra ontologia e logica, che investe anche il linguaggio67.

Il nome è unico ed esclusivo per la cosa nominata che può avere solo quel preciso nome in quanto le compete per natura esprimendone l'essenza.

Eraclito

Il primo teorico dell'identità di essere e linguaggio è Eraclito di Efeso (550-480 circa a.C.) il quale attribuisce al nome logos, una triplice realtà di legge-armonia, parola-discorso, pensiero-ragione.

Da un frammento di Leucippo sembra infatti che possa attribuirsi ad Eraclito un significato del logos come "legge universale"che regola secondo ragione e necessità tutte le cose:

« Nessuna cosa avviene per caso ma tutto secondo logos e necessità.8 »

 Inteso come legge, il logos mantiene l'armonia nel cosmo. Nel continuo incessante divenire il logos permette la visione di un mondo ordinato; la forza che fa comprendere il continuo mutamento dei contrari è il logos che tutto penetra.

Il logos come discorso è anche continua opposizione, polemos: una guerra di contrari come ad esempio avviene per «l'arco [che] ha dunque per nome vita e per opera morte»9 Infatti arco si dice in greco biòs termine quasi identico a bìos, vita. Quindi mentre il nome indica vita lo strumento invece dà la morte.

« Di questo logos che è sempre gli uomini non hanno comprensione.10 »

Gli uomini vivono per lo più come in un sogno, incapaci di vedere la ragione nascosta nelle cose: solo il filosofo con il logos, il pensiero-ragione, è in grado di attingere la verità.

Parmenide

Secondo il filosofo di Elea non si può nominare e pensare altro che l'essere immutabile e perfetto. L'Essere Parmenideo appare chiuso al non-essere: poiché è impossibile che dal nulla (non-essere) nasca qualche cosa (essere) ed è impossibile che qualche cosa diventi nulla.

I nomi che gli uomini attribuiscono alle cose non riguardano la loro essenza naturale: dare il nome a una cosa significa implicare il non essere: la stessa molteplicità delle cose fa sì che l'una non è l'altra. Così la molteplicità dei nomi rispecchia quella delle cose che, poiché l'essere è uno, sono semplici apparenze. I nomi allora vengono assegnati per convenzione, per un patto tra gli uomini:

Democrito

Nella sua distinzione tra qualità oggettive e soggettive delle cose, Democrito inserisce in quest'ultime i nomi che, pur essendo anch'essi composti di atomi di una struttura particolare, rispondono a una convenzione tra gli uomini come provano:

    •     l'omonimia, con cui chiamiamo cose diverse con lo stesso nome, dimostra che se il nome è unico dovrebbe esserci anche un'unica essenza per molteplici cose: il che è assurdo;

    •     la polionimia, per cui la stessa cosa ha nomi diversi: secondo la tesi naturalistica la stessa cosa dovrebbe avere una molteplicità di essenze: il che non è possibile;

    •     Se poi il nome causasse conoscenza vera non sarebbe possibile, come accade, che gli uomini comunichino in maniera efficace, accordandosi nel cambiare i nomi delle cose;

    •     e infine esistono cose che non hanno nome eppure sono reali: il che vuol dire che non esiste coincidenza tra nome e realtà.

Il linguaggio è quindi ben diverso dalla realtà ed anche la convenzione è del tutto mutevole e relativa ai tempi e ai luoghi in cui si formano i linguaggi che sono fonti di errore in quanto non si originano da un unico e definitivo accordo tra gli uomini che li renderebbe perfettamente adeguati alle cose.

L'origine del linguaggio

Secondo Democrito la formazione del linguaggio passa attraverso quattro fasi:

    •     dapprima vi sono semplici suoni non organizzati

    •     quindi nascono le parole come suoni articolati e definiti;

    •     poi si attua la convenzione di attribuire nomi a cose;

    •     infine vi è la nascita e differenziazione delle lingue.

Dal fenomeno naturale dell'emissione dei suoni collegato alla necessità, altrettanto naturale, della comunicazione si giunge quindi all'accordo convenzionale da cui nascono i linguaggi: l'accordo non deriva da un capriccio individuale ma dalla diversa storia culturale di differenti popoli (convenzionalismo linguistico).11 Un'altra teoria sull'origine del linguaggio sosterrà che esso nasce per esprimere stati d'animo e sentimenti, fenomeni molto più complessi di quelli collegati alle necessità immediate e naturali che potevano essere espresse senza parole ma tramite segni. Il linguaggio avrebbe dunque una funzione originariamente espressiva e poetica e non legata ad utilità di comunicazione.12

I sofisti

Nell'Atene dell'età di Pericle (V secolo a.C.) dopo la sua riforma politica avanza una nuova classe sociale che pretende di partecipare attivamente alla vita pubblica: per la conquista del potere politico il nuovo ceto medio sente la necessità di fornirsi di strumenti retorici e di una cultura storica giuridica che troverà nell'insegnamento a pagamento dei sofisti i quali mettono da parte le riflessioni teoriche sulla natura del linguaggio approfondendone invece l'aspetto pragmatico13

Protagora

Protagora s'interessa in modo particolare della grammatica greca definendo il genere dei nomi e scoprendo la differenza tra il tempo e il modo del verbo: rileva anche alcune contraddizioni della lingua greca che attribuisce caratteristiche del genere femminile a nomi tipicamente riferentesi a evidenze maschili: è il caso dei sostantivi greci femminili "ira"(menis) e "elmo"(pélex). Questo dimostra che il linguaggio non ha niente a che fare con la realtà ma nasce da una convenzione tra gli uomini che talvolta è erronea e inadeguata. Compito del retore è allora anche quello di correggere gli errori della parola per farne uno strumento perfetto all'unico fine di affascinare e persuadere chi ascolta mettendo da parte ogni scrupolo di comunicare una verità in cui si crede. Anzi, quanto più la tesi sostenuta appare incerta, tanto più il sofista con la parola farà in modo di

« rendere più forte l'argomento più debole14 »

Gorgia

L'identità stabilita dal pensiero greco arcaico di logica, ontologia e linguaggio viene del tutto annullata dal pensiero di Gorgia:

    •     Nulla è;

    •     se qualche cosa è, è incomprensibile;

    •     se è comprensibile, è incomunicabile.15

Nel suo Intorno alla natura afferma Gorgia

« E se anche le cose fossero conoscibili, in che modo uno potrebbe manifestarle ad un altro? Quello che uno vede come potrebbe esprimerlo con la parola? o come questo potrebbe venir chiaro a chi ascolta senza averlo udito?16 »

mettendo in evidenza che nel linguaggio l'unico senso che dia sensazioni reali è l'udito che non è sostenuto dagli altri organi sensibili: non potrò mai comunicare all'interlocutore che cos'è un colore servendomi del linguaggio.

« Come infatti la vista non conosce i suoni, così neppure l'udito ode i colori, ma i suoni: e chi parla pronunzia, ma non pronunzia né colore né oggetto.17 »

Del resto il linguaggio è un complesso di simboli che rimandano a delle realtà ma che di per sé non sono realtà: le parole non hanno nulla da spartire con la realtà. Infine, anche se nel parlare nasce una sorta di comunicazione che attraversa i due interlocutori, non si potrà mai essere del tutto sicuri che quello che io sto esprimendo con il simbolo linguistico, che si riferisce alla mia esperienza reale, coincida esattamente con l'esperienza che l'altro riferisce alla stessa parola su cui consentiamo.

Il fatto stesso che con il linguaggio non si ottenga una autentica comunicazione ne fa, secondo Gorgia, un prezioso

         strumento di violenza e inganno

come dimostra il suo Encomio di Elena dove la donna che ha causato la guerra di Troia è completamente assolta dalla sua colpa in quanto vittima della fascinazione e inganno della parola.

Socrate

« Dimmi - chiese Socrate - o Eutidemo, ti è mai capitato di considerare prima d'ora con quanta cura gli dei hanno fornito le cose di cui gli uomini hanno bisogno? [...] e che dire del fatto che sia generato in noi il ragionamento razionale...E che dire del fatto che ci sia stata donata la capacità di farci intendere con le parole18 »

Platone

Le idee di Platone sul linguaggio sono riportate nel dialogo del Cratilo (circa 386 a.C.) dove vengono analizzate le posizioni convenzionalistiche di Ermogene opposte a quelle naturalistiche di Cratilo, i due protagonisti del dialogo assieme a Socrate, che critica entrambe le tesi.19

Per Ermogene non c'è alcun preciso motivo per cui una cosa abbia il suo nome piuttosto che un altro: gli uomini attribuiscono dei suoni ad una cosa per convenzione, tant'è vero che quella stessa cosa potrà avere nomi diversi dai quali noi non potremo mai trarne conoscenza riferita alla cosa stessa.

Per Cratilo il nome è invece sempre precisamente adeguato e sovrapponibile alla cosa e sarà utile per conoscerne gli aspetti principali. I nomi sbagliati non sono veri nomi che sono tali solo se coincidono con le cose nominate.

Platone, rappresentato da Socrate, critica entrambe le posizioni poiché il convenzionalismo con la completa estraneità del nome alla cosa, renderebbe impossibile una conoscenza che si basa sul linguaggio e neanche il naturalismo è accettabile poiché questo vorrebbe dire che basterebbe la semplice conoscenza dei nomi per conoscere la realtà delle cose.

         Il mimetismo

Osserva Socrate che con il convenzionalismo vi potrebbe essere un continuo mutamento dei nomi, per capriccio o arbitrio di singoli, tale che si renderebbe impossibile qualsiasi comunicazione. Non va meglio per il naturalismo che Socrate chiama "mimetico", nel senso che pretende di sostenere che i suoni del linguaggio imiterebbero alcuni aspetti della realtà della cosa. Così ad esempio la lettera "l"ben si adatta a realtà "levigate", mentre la "r"a cose scorrevoli ("scorrere"in greco si dice rhein) e così via. Ma il mimetismo non è sostenibile: in primo luogo perché esso tutt'al più renderebbe alcuni particolari aspetti della cosa e non la sua interezza e poi, anche se questa coincidenza perfetta di nome e realtà poi avvenisse veramente, si renderebbe impossibile ogni sapere, non potendo più distinguere tra il nome e la realtà. In secondo luogo il mimetismo è messo in dubbio dallo stesso linguaggio quando ad esempio utilizza la stessa lettera "l"per dare conto di realtà niente affatto "lisce"come la parola sklérotes che vuol dire "durezza".

         Il nomoteta

Socrate ipotizza l'esistenza di un artefice del linguaggio: il nomoteta (il facitore di leggi) che ha assegnato dei nomi che imitano le cose ma in base a per noi sconosciute motivazioni che potrebbero essere anche errate.

In conclusione per Platone il linguaggio è

    •     naturale poiché esiste in natura una reale corrispondenza dei nomi alla realtà, ma anche

    •     convenzionale perché il linguaggio non è di per sé conoscenza ma strumento per il sapere per cui noi ci dovremo preoccupare della correttezza dei nomi, non per una vera denominazione dell'essenza della cosa nominata, ma per il loro uso ai fini della conoscenza.

Così si comportarono coloro che per primi attribuirono dei nomi alle cose: l'etimologia infatti dimostra che i nomi venivano assegnati dagli antichi in base alle loro soggettive opinioni e non per rispecchiare una presunta oggettiva realtà essenziale. Il linguaggio pur essendo soggettivo e contingente assolve comunque la sua funzione essenziale: quella della comunicazione.20

Aristotele

Aristotele tratta in particolare del linguaggio nell'opera di logica intitolata Dell'espressione (o Dell'interpretazione) dove ne descrive le caratteristiche

    •     fisiche e psichiche, coincidenti con lo sviluppo dell'individuo umano;

    •     comunicative, individuali e sociali;

    •     espressive, nell'arte e nella retorica;

    •     didattiche, poiché diffonde saperi;

    •     logiche, come strumento per dimostrazioni rigorose ed ordinate.

Aristotele ritiene sorpassata e inutile la polemica sul naturalismo o convenzionalismo del linguaggio: a lui interessa soprattutto la sua portata simbolica, come riferimento alla realtà più che come imitazione delle cose ai fini della conoscenza. L'imitazione operata dal linguaggio, come dimostra la poesia, è infatti un fatto soggettivo, istintivo e libero, fuori da ogni regola di adeguamento alla realtà.

         Segno, significato e realtà

La semplice emissione di un suono non è linguaggio: questo nasce nel momento in cui a quel suono si attribuisce un significato che rimanda a una realtà:

« nessun nome è tale per natura. Si ha un nome, piuttosto, quando un suono della voce diventa simbolo, dal momento che qualcosa venga altresì rivelato dai suoni articolati - ad esempio delle bestie - nessuno dei quali costituisce un nome.21 »

Nella struttura del linguaggio, secondo Aristotele, per prima cosa vi è l'elaborazione del concetto che avviene tramite l'immagine sensibile ricevuta dal pensiero, quindi il segno che si riferisce alla cosa.

Aristotele opera così una netta distinzione tra

    •     segno, l'espressione di un suono, al quale per convenzione si attribuisce un

    •    significato, che è naturale perché rappresenta un concetto su cui concordano tutti quelli che, pur nei diversi linguaggi, lo associano in modo necessario a un

    •     oggetto, sempre lo stesso ma che sarà espresso in diverse forme linguistiche.

Vi sarà un suono ad esempio (che in italiano suonerà come "casa") a cui corrisponderà un concetto (l'idea di rifugio, riparo, luogo coperto ecc., uguale in tutte le lingue, relativa all'oggetto) che avrà il nome di "casa"in italiano, "house"in inglese, "maison"in francese ecc.

Mentre nel naturalismo presocratico si stabiliva un rapporto duale tra la cosa e il nome, Aristotele inserisce un terzo elemento: il concetto, il significato.22

         La verità

La verità di una espressione linguistica non è nei nomi ma negli enunciati: se io dico "Socrate", il nome di per sé non ha rilevanza di verità, non è né vero né falso ma se dico "Socrate è ateniese", questo sarà vero se si verifica un'identità tra il piano del linguaggio e quello della realtà, verità che può essere stabilita dal pensiero. È questa attività mentale che conta ai fini del vero; Aristotele è lontano dal relativismo eristico dei sofisti secondo cui ogni affermazione può essere sia vera che falsa:

« È falso infatti dire che l'essere non è o che il non-essere è; è vero dire che l'essere è e che il non-essere non è.23 »

Gli stoici

Riflessioni originali sul linguaggio si devono agli stoici, soprattutto Zenone di Cizio (333-263 a.C.) e Crisippo (281/277-208/204) di cui abbiamo notizie indirette tramite Diogene Laerzio e Sesto Empirico. Gli stoici operano del resto una grande evoluzione nella logica, studiando il sillogismo ipotetico ("Se piove, mi bagno; ora piove, dunque mi sto bagnando") benché manchino di crearne un codice formale indipendente dal linguaggio comune.

L'etimologia

Gli stoici conducono studi sull'etimologia in base alle loro convinzioni naturalistiche secondo le quali all'inizio i nomi venivano attribuiti alle cose nel tentativo di rifletterne la struttura reale. Successivamente, in base a criteri di somiglianza, contrarietà e vicinanza, alle iniziali parole se ne aggiunsero, per "derivazione", altre così numerose da far eclissare l'originaria corrispondenza tra il nome e la cosa. Sono tra i primi studiosi a compiere ricerche di grande ampiezza sull'etimo. Benché i linguisti moderni ritengano erronea gran parte delle etimologie ricostruite dagli stoici, l'idea che i nomi dovessero riflettere la struttura della realtà potrebbe averli aiutati nel progresso degli studi logici.

Il lektòn

Il contributo più originale dello stoicismo alla filosofia del linguaggio è la loro scoperta del lektòn (esprimibile) che ha natura immateriale: intendendolo come significato infatti il lektòn è diverso sia dal nome che dalla cosa, entrambi corporei.

Se uno straniero incontra Dione e sente qualcuno che dice: «Dione», non conoscendo la lingua greca, non è in grado di associare l'oggetto (l'uomo Dione) con il significante (il nome Dione): egli, pur avendo visto l'oggetto e sentito il nome, non ha il significato, il lektòn, il quale è indipendente sia dalla attività mentale che l'ha prodotto, sia dalla cosa a cui si riferisce. I lektà non devono necessariamente corrispondere alla realtà: anche se il nome viene usato in modo improprio (nel caso ad esempio del nome "rosso"riferito ad una cosa nera) il suo lektòn sussiste.24

Il linguaggio con gli stoici si distacca dalla realtà  e diviene un'attività con la quale l'uomo dà forma alla sua conoscenza: se questa poi sia vera o falsa lo stabilirà non la corrispondenza tra il linguaggio e le cose ma tra il pensiero e la realtà. Il pensiero e il linguaggio esprimono forme autonome di verità che poi andranno confrontate con la realtà esterna. La logica e la linguistica divengono due dottrine separate.

Il linguaggio nel Medioevo

Nel medioevo si continua, sulla scia di Aristotele, a identificare la metafisica con la logica, cercando di stabilire l'origine ontologica dei predicati universali, laddove i testi aristotelici apparivano lacunosi.25 Si sostiene che la logica è la scienza del linguaggio (scientia sermonicinalis)26 dando così l'avvio allo studio approfondito di quei fenomeni che rendono il linguaggio ambiguo: in particolare ci si interessa delle parole sincategorematiche, cioè dei termini come e, o, non, se, ogni, che non possono assumere la posizione nel periodo del soggetto, come i sostantivi, i verbi ecc., ma sono co-significanti, modificando in modo rilevante il significato delle parole con le quali si uniscono.

Si sviluppò così un attento studio sui sofismi e sui cosiddetti esponibili, su quelle frasi cioè ambigue e oscure per la presenza di sincategorematici e venne definita la teoria della suppositio, cioè l'interpretazione che un termine assume a seconda del contesto in cui è usato.

Nelle università rinasce lo studio della grammatica (e della sintassi): viene ritenuta uno strumento basilare per ragionare, poiché il significato e il comportamento delle parole rispecchiano il pensiero e il pensiero rispecchia la realtà. All'ombra di Aristotele sorgono i grandi scontri filosofici sulle "categorie", ossia le generalizzazioni e le classi di oggetti che le parole rappresentano. Alcuni pensatori, come Roscellino e in parte Abelardo, criticano la divisione del reale operata dal linguaggio: le categorie sono pure illusioni, "flatus vocis", la realtà è piuttosto un insieme di individui diversi e "irriducibili".



Per approfondire, vedi Guglielmo_di_Ockham#Il_rasoio_di_Ockham_e_la_logica.

Il linguaggio nell'età moderna

Nell'età moderna lo studio del linguaggio, accostandosi ai problemi connessi all'epistemologia, comincia a diventare autonomo nei confronti della logica.

Leibniz tenta di costruire un alfabeto universale simbolico del pensiero tramite il quale, con un calcolo razionale matematico, si possano acquisire conoscenze certe.



Per approfondire, vedi Pensiero di Leibniz#L'ars combinatoria.

Filosofi come Locke, Berkeley, Condillac si chiedono che cosa denotino le parole rispondendo che esse stanno al posto delle idee nella mente di chi le elabora.

Un altro problema da risolvere relativo al linguaggio è quello di capire quale funzione esso svolga ai fini della conoscenza.
 Ci si domanda cioè se esso serva a comunicare conoscenze, oppure se tramite esso si possa condurre un'analisi del pensiero, oppure se il linguaggio crei un mondo concettuale ordinato a cui ogni uomo possa riferirsi: infatti, secondo Wilhelm von Humboldt, erede di quell'impostazione romantica che da Herder in poi identificava il linguaggio come prodotto di un popolo,

« L'uomo circonda se stesso di un mondo di suoni al fine di assimilare il mondo degli oggetti.27 »

Le teorie sul linguaggio nel '900

Sebbene la riflessione filosofica sul linguaggio attraversi - per forza di cose -  l'intera storia della filosofia, è a partire dal '900 che essa diviene sistematica, oggetto di riflessione in sé e non in quanto strumento di espressione - e, in una certa misura, di realizzazione - del pensiero filosofico. Tali analisi si avvalsero anche degli studi sulla logica, che conobbero nel tardo XIX secolo una nuova fioritura.

Un buon punto di partenza per l'analisi della moderna filosofia del linguaggio può essere considerata l'opera dello svizzero Ferdinand de Saussure, il Corso di linguistica generale, pubblicata postuma nel 1916.

Nel corso del ventesimo secolo diversi altri approcci, non sempre convergenti con quello del linguista ginevrino, hanno ampliato e approfondito lo studio di questa peculiare attività umana, cui i recenti mezzi di indagine scientifica hanno dato notevole impulso, consentendo di esplorare più approfonditamente i rapporti che legano l'espressione verbale all'attività cerebrale. Tali sviluppi hanno peraltro comportato un certo cambiamento di orizzonte della disciplina, che ha preso ad abbandonare l'area logico-strutturalista per essere sempre più strettamente connessa alla filosofia della mente. Non mancano tuttavia approcci meno funzionalistici, ad opera tra l'altro di Noam Chomsky, teorizzatore di una grammatica generativa comune a tutte le lingue.

Lo studio empirico ha aperto altri campi d’indagine che hanno a loro volta influenzato la filosofia del linguaggio: ad esempio lo studio del linguaggio animale (zoosemiotica) o dei rapporti tra la proprietà del linguaggio e il patrimonio genetico (biolinguistica)28.

La psicologia moderna e la neurologia offrono un’altra importante prospettiva di studio del linguaggio (psicolinguistica e neurolinguistica).

La neurolinguistica soprattutto studia il linguaggio con un’impostazione medico-scientifica: osservando cioè, se possibile, le reazioni e i comportamenti della corteccia cerebrale nell’emissione dei fonemi, alla vista delle parole, nell’atto lessicografico ecc. La filosofia del linguaggio ha così avuto, nello scorso secolo, un vasto apporto sperimentale linguistico per lavorare. Gli studi biologici, neurologici e antropologici del linguaggio tendono inoltre ad intersecarsi.

Il XX secolo ha diviso la filosofia del linguaggio in vari filoni, diversi per le nozioni e, a volte, per l’appartenenza geografica dei sostenitori (i filosofi del linguaggio americani hanno in diverse occasioni lavorato in maniera indipendente dagli europei, producendo circostanze peculiari e inventando ex novo teorie in Europa già discusse e decadute)29.

Gli studi sul linguaggio nel '900 iniziano con il comportamentismo che considera le parole come produzioni effettive del linguaggio, ignorando speculazioni culturali o deduzioni sulla struttura degli universali.

Lo strutturalismo linguistico

In modo parallelo, invece, gli strutturalisti attribuiscono al linguaggio una natura di codice autodefinito, concentrando appunto la loro attenzione sulla struttura del linguaggio per cui la posizione e l’uso di ogni parte ha senso e viene definita dalle altre parti. Gli strutturalisti tendono ad ignorare o svalutare il rapporto tra la lingua e la realtà, come pure le tecniche di cambiamento del linguaggio, nonché, ad esempio, l’apprendimento dello stesso da parte del bambino o il problema della sua origine. Gli strutturalisti, insomma, analizzano il linguaggio in stretta relazione alla logica e al "meccanismo"del suo funzionamento sincronico (anziché diacronico com’è ad esempio per la linguistica storica).

Noam Chomsky

Nel II dopoguerra è la volta del generativismo Chomskyano che, passando in secondo piano le tecniche di autoregolazione del linguaggio, tende a studiarne le strutture innate. Per i Chomskyani ogni neonato ha nel cervello una sorta di grammatica di base universale, che permette di capire, e apprendere in tempi rapidi, i meccanismi della lingua madre. Questa teoria spiegherebbe ad esempio l’esistenza degli universali, dei costrutti percepiti come giusti o sbagliati in qualsiasi lingua ecc.30

Pare comunque chiaro che, come per l’apprezzamento musicale, l’uomo abbia un’innata predisposizione a parlare, a capire un sistema di contrassegni simbolici, che può esprimersi con vari significanti. La ricerca scientifica sembra aver dimostrato che questa capacità così peculiare di apprendere il linguaggio è valida però nei primi 7-9 anni: un bambino che abbia “mancato” l’apprendimento di una lingua in questo tempo rimarrà esterno alla sfera linguistica per tutta la vita.

La grammatica generativo-trasformazionale di Chomsky rimane una teoria di riferimento per la filosofia del linguaggio, benché abbia subito diversi attacchi e critiche negli ultimi vent’anni. Intanto, la nascita di programmi informatici elaborati e ad alta complessità che funzionano in base a linguaggi specifici sta fornendo nuovi spunti all’esplorazione di questa facoltà di esclusivo, per ora, dominio umano.

Una nuova concezione del linguaggio

Nel corso del Novecento è venuta sempre più delineandosi, soprattutto in area tedesca, una nuova corrente della filosofia del linguaggio distante dall'area logico-strutturalista e dalla cosiddetta filosofia analitica del linguaggio.

Sulla scia del secondo Wittgenstein e delle tesi sul linguaggio di Martin Heidegger, la nuova filosofia del linguaggio nega la natura strumentale del linguaggio, e lo considera piuttosto come una condizione originaria dell'umano, come la sua essenza, facendo dipendere, interamente e fin dall'inizio, l'intelligenza umana dalla lingua. Ciò è stato affermato talvolta in forma così radicale da fare della lingua stessa una sorta di condizione incondizionata dell'esperienza, che le dà forma senza essere formata; un dato originario non acquisito o appreso. Nel solco di questa tradizione si sono inseriti filosofi di area continentale come Walter Benjamin, che aveva anticipato alcune tesi heideggeriane, Hans-Georg Gadamer, padre dell'ermeneutica (difatti la nuova corrente viene spesso denominata filosofia ermeneutica del linguaggio), il decostruzionista Jacques Derrida (seppur con le dovute differenze), Emmanuel Levinas, Paul Ricoeur.

Il pensiero dialogico

Notevole importanza va attribuita alla tradizione ebraica e alla sua esegesi che ha determinato alcuni piani di questa corrente (basti pensare all'ultimo Derrida, e soprattutto a Emmanuel Levinas). La filosofia ebraica del Novecento è difatti confluita nel cosiddetto pensiero dialogico, i cui esponenti sono Martin Buber, Franz Rosenzweig e Ferdinand Ebner. La filosofia ermeneutica del linguaggio ha causato una frattura all'interno della disciplina, diversificandola in questo modo dalle altre scienze del linguaggio, come la linguistica e le scienze cognitive.

Questa ermeneutica del linguaggio grande successo ha ottenuto in Germania, dove è presente una forte tradizione filosofico-linguistica, ma anche in Francia e in America. In Italia, nella metà del Novecento, il suo studio ha fatto grande fatica ad entrare nelle accademie, a causa di una forte tradizione linguistico-strutturalista, ma oggi sembra essersi fortemente inserito. Tra gli studiosi e filosofi italiani che hanno sostenuto una nuova concezione del linguaggio vanno ricordati Giorgio Agamben e Gianni Vattimo.

I principali problemi della filosofia del linguaggio

La filosofia del linguaggio, intrecciandosi come detto con la semiotica e la linguistica, ha altresì moltiplicato i suoi campi di approfondimento. I principali problemi della filosofia del linguaggio contemporanea sono:

    •     La definizione di segno.

Per certe teorie vivremmo in un mondo di segni: uno sguardo attento troverebbe un aspetto semiotico in ogni particella del mondo. Questa è una ricerca in divenire e ancora piuttosto complessa. A questo si rapporta la differenza tra segno e codice, con lo studio degli indici e dei segni propriamente detti. La domanda: «Che cos’è un codice»,  pone ancora diversi problemi ai filosofi del linguaggio, trattandosi di un sistema di segni.

    •     L’oggetto della linguistica o della semiotica.

Un modello elementare del proprio oggetto queste scienze lo possiedono già, per forza di cose, ma la filosofia del linguaggio tiene a porre una serie di precisazioni: la linguistica e la semiotica devono studiare solo l’espressione? O anche l’effetto sul mittente e sul destinatario? Devono studiare i codici o le strutture che reggono i codici? O i contesti in cui sono utilizzati? La filosofia apre così spesso la strada alle articolazioni della semiotica e della linguistica.31

    •     Lo studio della comunicazione, dei suoi limiti e dei suoi equivoci.

Una semiotica globale intenderebbe il mondo come una pura comunicazione. Una semiotica a raggio minore potrebbe invece analizzare solo il campo della cultura come un mondo di significato e significazione: mentre la linguistica non ha questo genere di problema, avendo il proprio campo chiaramente definito, la semiotica deve ancora trovare una stabilità. La definizione di una semiotica ristretta che lasci qualche cosa al di fuori del segno sembra necessaria, ma non è chiaro quali confini si debbano assegnare a questo campo di studi.

    •     Le basi neurali e naturali della lingua e della semiosi.

L’evoluzione della semiosi e dello studio del linguaggio potrebbe dipendere dallo studio delle basi anatomiche del linguaggio, dell’apparato di fonazione, delle aree del cervello e più precisamente della corteccia preposte al linguaggio, nonché da comportamenti generali che separano l'uomo dagli altri primati pure nell'utilizzo degli strumenti, assimilando il linguaggio ad un tipo particolare di strumento32.
 A questo proposito si sono formati i concetti di formatività del linguaggio, arbitrarietà radicale, corporeità, categorizzazione.

Linguaggio e psicoanalisi

Per Jacques Lacan, (Parigi 13 aprile 1901 - 9 settembre 1981)  psichiatra e filosofo francese nonché uno dei maggiori psicoanalisti, la comprensione del desiderio passa attraverso l'oggetto inattingibile che costituisce la Cosa e che procura l'insoddisfazione perpetua del desiderio.

Chi è sottoposto all'analisi cerca qual è l'oggetto del desiderio cioè la sua interezza ontologica. Essendo il linguaggio un cerchio chiuso, il soggetto non giunge mai a comprendere il significato dei simboli che lo costituiscono.

Ora chi subisce l'analisi pensa che l'analista sarà capace di rivelargli il significato simbolico dei suoi desideri che egli esprime attraverso il linguaggio, pensa che egli sia Il Grande Altro che detiene la chiave del linguaggio. Lacan pensa che l'analista debba far scoprire che il Grande Altro non esiste e che non c'è nessun significato, il suo ruolo è dunque quello di fare riconoscere la "mancanza d'essere".

Socrate, secondo Lacan,33 è dunque questo "analista"che attraverso i suoi dialoghi cerca la definizione del senso delle cose. Alcuni credono da quel momento che egli possa avere accesso al Sommo Bene (come chi è sottoposto ad analisi crede che l'analista possieda le chiavi del linguaggio) mentre i dialoghi socratici sono puramente aporetici. Socrate mette gli interlocutori di fronte alle proprie contraddizioni, egli li spinge a riflettere sulle proprie concezioni affinché siano coerenti. La sua posizione antidogmatica non permette il passaggio verso nessun sapere, si tratta al contrario di far capire che nessun sapere è possibile né accessibile tramite il linguaggio.

È questo lo scopo dell'analista, fa capire a chi è in analisi che l'oggetto finale del desiderio, nella rappresentazione simbolica del linguaggio, non è né conoscibile né accessibile.

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Collegamenti esterni

    •     Filosofia del linguaggio in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.

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    •    (EN)  Scholz, Barbara C., Pelletier, Francis Jeffry and Pullum, Geoffrey K., « Philosophy of Linguistics» in The Stanford Encyclopedia of Philosophy.



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Teologia

 La teologia (dal greco antico θεός, theos, Dio1 e λόγος, logos, "parola", "discorso", o "indagine") è la disciplina che studia Dio, ovvero le divinità nei caratteri che le varie religioni riconoscono come propri del divino in quanto tale; accessoriamente, e in alcune religioni, si occupa di sviluppare elaborazioni teoretiche circa materie dogmatiche, oggetto della fede dei credenti.

Origine del termine

 Il termine "teologia" (θεολογία, theología) compare per la prima volta nel IV secolo a.C. nell'opera di Platone la Repubblica (II, 379 A):

« "Va bene - disse - ma tali direttive inerenti alla teologia quali potrebbero essere?"
 "Più o meno queste - risposi - come Dio si trova ad essere, così andrebbe sempre raffigurato, sia che lo si faccia in versi epici, o lirici, o nel testo di una tragedia." »

(Platone, Repubblica (II, 379 A)2)

La teologia greco-romana



Per approfondire, vedi Teologie della civiltà classica.

 Per teologia greco-romana si intende l'indagine razionale sulla natura del Divino operata dai filosofi e teologi di cultura greca e romana a partire da Talete (VII secolo a.C.) fino alla chiusura delle scuole filosofiche e teologiche non-cristiane avvenuta nel 529 d.C. con la pubblicazione del Codex Iustinianus voluto dall'imperatore cristiano Giustiniano e con la conseguente scomparsa di ogni forma di studio teologico o pratica religiosa "classica".

Nel contesto della cultura greca la "teologia" è propria della fisica (nel significato greco antico del termine), della metafisica e della ontologia.
 Già la Fisica presocratica fu "teologia" in quanto il principio primo (arché) ingenerato (agénetos) ed eterno (aìdios) ricercato da questi autori, e alla base di ogni cosa, era considerato come il "Divino" immortale" e "indistruttibile". L'acqua, l'aria, il fuoco indagati dai filosofi "presocratici" non corrispondono quindi agli elementi fisici della concezione moderna ma a veri e propri principi teologici. Allo stesso modo la "Fisica" greco-antica non ha nulla a che vedere con la Fisica moderna3.

Talete (640-547), riporta Diogene Laerzio, era convinto che il

« Il principio dell'universo egli disse l'acqua, concepì il mondo animato e pieno di  Dáimōn (δαίμων) »

(Diogenis Laertii Vitae philosophorum I,1,27)

 Di Dio Talete disse:

« Dio è l'essere più antico; è infatti non creato. La cosa più bella è l'universo, opera di Dio »

(Diogenis Laertii Vitae philosophorum I,1,35)

 e chiesto cosa fosse la divinità, rispose:

« Quel che non ha principio né fine »

(Diogenis Laertii Vitae philosophorum I,1,36)

Con Senofane (570 a.C.–475 a.C.), già nel VI secolo a.C. la teologia presocratica conduce una critica precisa all'antropomorfismo della mitologia:

« Me se i buoi, i cavalli e i leoni avessero mani o potessero dipingere e compiere quelle opere che gli uomini compiono, con le mani i cavalli dipingerebbero immagini degli Dèi simili ai cavalli, i buoi simili ai buoi, e plasmerebbero i corpi degli Dei simili all'aspetto che ha ciascuno di essi . »

(H. Diels e W. Kranz Die Fragmente der Vorsokratiker Vol.1 Berlino, 1951, pagg. 113-39, 21 B16)

 ma anche l'attribuire agli Dèi le nefandezze proprie di alcune condotte umane4 o il fatto che essi possano risultare mortali5, infine il fatto che si identifichino con la divinità i fenomeni naturali6.

Con Protagora (486 a.C.–411 a.C.) si affaccia il primo agnosticismo teologico,

« Riguardo agli Dei io non ho modo di sapere né che sono né che non sono, perché si oppongono molte cose a questa conoscenza, quali l'oscurità dell'argomento e la brevità della vita. »

(Protagora in H. Diels e W. Kranz. Fragm. 4)

Ma anche, con Crizia (460 a.C.-403 a.C.), la denuncia delle divinità come 'invenzione' allo scopo di far rispettare le leggi imposte dal potere politico

« Allora io credo che un qualche uomo saggio e ingegnoso per primo abbia inventato per gli uomini il timore degli Dei, in modo che ci fosse un spauracchio per i malvagi, anche per le azioni, le parole e pensieri nascosti. Per queste ragioni introdusse la nozione di Divino, sotto forma di demone sempre di vita imperitura, che ascolta e vede con la sua mente, che col pensiero sorveglia le azioni umane e che ha in sé la natura divina »

(Crizia in H. Diels e W. Kranz. Fragm. 25)

Socrate (469 a.C.-399 a.C.), come riporta Senofonte nei Memorabili, fu particolarmente votato all'indagine sul "Divino": volendolo svincolare da ogni interpretazione precedente lo volle caratterizzare come "bene", "intelligenza" e "provvidenza" per l'uomo7.
 Egli affermava, come sostiene Platone, di credere in una particolare divinità, figlia degli dèi tradizionali, che indicava come dáimōn: uno spirito-guida senza il quale ogni presunzione di sapere è vana. In Socrate infatti ricorre spesso il tema della sapienza divina più volte contrapposta all'ignoranza umana:

« Ma la verità è diversa, o cittadini: unicamente sapiente è il Dio; e questo egli volle significare nel suo oracolo, che poco vale o nulla la sapienza dell'uomo. »

(Platone, Apologia di Socrate, 23 a)

Concetto ribadito anche a conclusione della sua Apologia scritta da Platone:

« Ma ecco è l'ora di andare, per me di andare a morire, e per voi di continuare a vivere; chi di noi vada verso un migliore destino è oscuro a tutti, fuori che a Dio. »

(Platone, Apologia di Socrate, 42 a)

Platone e Aristotele, particolare della formella del Campanile di Giotto di Luca della Robbia, 1437-1439, Firenze

La prima teologia definita ed espressa in termini esaustivi può essere considerata la speculazione di Platone (427 a.C.-347 a.C.) nella sua generalità. L'oggetto della dialettica colloquiale platonica è sempre il divino nelle sue varie forme: Platone infatti, come ricorda Werner Jaeger, non è solo il coniatore stesso del termine theología, ma anche il primo grande "teologo" dell'antichità classica:

« Il punto centrale della sua teoria, la teoria del bene, non può essere giustamente apprezzata che su questo sfondo religioso8. Senza di lui non esisterebbe, della teologia né il nome né la cosa. »

(Werner Jaeger. Paideia. Milano, Bompiani, 2003 pag.1181)

 Il principale contributo di Platone alla "teologia" è la scoperta della trascendenza attraverso la «seconda navigazione»9:

« Mi accingo infatti a mostrarti quale sia quella forma di causa su cui mi sono a fondo impegnato e, perciò, torno su quelle cose di cui molte volte si è parlato, e da esse incomincio, partendo dal postulato che esista un bello in sé e per sé, un buono in sé e per sé, un grande in sé e per sé, e cosi via. »

(Platone Fedone (100 C)10)

All'origine del nostro mondo sensibile Platone pone il Demiurgo (δημιουργός) il quale plasma la realtà caotica materiale guardando il mondo delle idee. Ciò che spinge il Demiurgo ad agire in questo modo è il "bene" che egli rappresenta. Il Demiurgo è inferiore al mondo delle idee ma superiore all'anima del mondo e alle altre anime che produce insieme agli Dèi inferiori. Il Demiurgo media tra il mondo delle idee e il mondo sensibile. Le idee sono il Divino impersonale mentre il Demiurgo è il Dio personale, egli è "buono":

« Egli era buono e in un buono non nasce mai nessuna invidia per nessuna cosa. Egli volle che tutte le cose diventassero più possibile simili a lui. E chi ammettesse questo principio della generazione del mondo come principale, accettandolo da uomini saggi, l'ammetterebbero assai rettamente. Infatti Dio volendo che tutte le cose fossero buone, e che nulla, nella misura del possibile, fosse cattivo, prendendolo quanto era visibile e che non stava in quiete, ma si muoveva confusamente disordinatamente, lo portò dal disordine all'ordine, giudicando questo totalmente migliore di quello. »

(Platone Timeo (29 E, 30 A)11)

Alcuni studiosi12 ritengono che il cuore della Teologia platonica non risieda nella dottrina delle Idee ma in alcuni insegnamenti non riportati nelle opere scritte e che è possibile desumere per via indiretta grazie alle polemiche su queste operate da Aristotele nella Metafisica (Libri I, XIII e XIV) e dai suoi commentatori Alessandro di Afrodisia e Simplicio. In base a questo ritengono che per Platone l'intera realtà (quindi sia quella sensibile che quella del mondo delle Idee) è il risultato di due Principi primi: l'Uno e la Diade. Tale concezione, di tipo pitagorico, intende l' Uno (il Bene dei dialoghi) come tutto ciò che unitario e positivo mentre la Diade, ovvero il mondo delle differenze e della molteplicità, genera il disordine. Le Idee "procedono" da questi due Principi partecipando dell'unità distinguendosene per difetto o per eccesso; poi,le stesse Idee entrano in relazione con la materia e generano le cose sensibili, che partecipano dell'Idea corrispondente e se ne differenziano secondo la Diade, sempre per eccesso o per difetto. Ne consegue che le stesse Idee sarebbero "generate", forse ab aeterno; il bene, poi, nel mondo sensibile, dove non può esservi unità, ma solo molteplicità, consiste nell'armonia delle parti, come si evince anche dai dialoghi.

Mentre Platone analizza il divino sotto diverse forme, dandone tutta una serie di elementi e attributi che permettono di circoscrivere il contorno entro il quale opera la teologia, ma senza fissarla, Aristotele (384 a.C.-322 a.C.) ne dà invece una definizione più precisa, ponendola al vertice delle attività umane e ponendovi in subordine la matematica e la fisica come scienze di più basso profilo. Egli indica la sua ricerca "metafisica"13 come "teologia", ovvero come "filosofia prima", la filosofia più elevata che si occupa dell' "essere in quanto essere" ovvero dell' Ousìa (Οὐσία) nel suo significato più stretto, ovvero nel significato Dio:

« Infatti la fisica si occupa di enti che esistono separatamente ma non sono immobili, e dal canto suo, la matematica si occupa di enti che sono sì, immobili, ma che forse non esistono separatamente e sono come presenti in una materia, invece la "scienza prima" si occupa di cose che esistono separatamente e che sono immobili. E se tutte le cause sono necessariamente eterne, a maggior ragione lo sono quelle di cui si occupa questa scienza, giacché esse sono cause di quelle cose divine che si manifestano ai sensi nostri. Quindi ci saranno tre specie di filosofie teoretiche, cioè la matematica, la fisica e la teologia, essendo abbastanza chiaro che, se la divinità è presente in qualche luogo, essa è presente in una natura siffatta, ed è indispensabile che la scienza più veneranda si occupi del genere più venerando. »

(Aristotele. Metafisica. VI (Ε), 1026, a 18-21)

 E nel suo percorso speculativo egli identifica la "divinità prima" come il "primo motore" correlato con il Bene e separato dal Mondo:

« Il primo motore dunque è un essere necessariamente esistente e in quanto la sua esistenza è necessaria si identifica col bene, e sotto tale profilo è principio. [...] Se, pertanto, Dio è sempre in uno stato di beatitudine, che noi conosciamo solo qualche volta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore essa deve essere oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio, è appunto, in tale stato! »

(Aristotele. Metafisica. XII (Λ), 1072, b 9-30)

Epicuro, copia romana dell'originale greco (conservata al Museo Nazionale Romano.

Zenone di Cizio, fondatore dello Stoicismo.

Plutarco di Cheronea, filosofo medioplatonico, in una statua conservata al Museo archeologico di Delfi.

Plotino, fondatore del Neoplatonismo, in una antica scultura conservata nel Museo di Ostia antica.

 Anche Epicuro (341 a.C.-271 a.C.) ammette l'esistenza del Divino anche se nega decisamente la sua interpretazione "popolare":

« Per prima cosa devi ritenere che la divinità sia un essere vivente immortale e felice, così come suggerito dalla comune nozione del divino, e non attribuirle niente che sia estraneo all'immortalità e discorde alla beatitudine [...] Gli dèi esistono: abbiamo di essi conoscenza evidente. Ma non esistono nella forma in cui li concepisce il volgo; e questo toglie loro ogni fondamento reale nella forma in cui è uso concepirli. Empio non è colui che rinnega gli dèi del volgo, ma colui che applica le nozioni del volgo agli dèi: infatti i giudizi di questo circa gli dèi non sono prenozioni, ma supposizioni false; e in base a tali supposizioni si usa ricondurre agli dèi i più grandi danni e i più grandi benefizi. Non avendo intimità con la propria virtù, essi accolgono quelli che sono loro simili, considerando straniero chi non è tale. »

(Epicuro. Epistola III. A Meneceo)

Con la Stoa si affaccia il pensiero panteista monista. Ricorda Diogene Laerzio:

« Zenone14 sostiene che il cosmo intero e il cielo consistono di sostanza divina. »

(Diogene Laerzio. Vite e dottrine dei più celebri filosofi. Libro VII, 148)

 Così anche Ario Didimo

« Per loro Dio non è altro che l'intero cosmo con tutte le sue parti. »

(Riportato da Eusebio Praeparatio evangelica. XV, 15)

Il Neostoicismo con Marco Aurelio Antonino riafferma il monismo panteistico:

« Il fatto è che l'armonia è unica; e a quella guisa che l'universo forma e fa completo un corpo così grande per mezzo di tutti i corpi; così da tutte le cause è formato e fatto completo un destino, causa immensa del tutto. »

(Marco Aurelio Antonino. Colloqui con se stesso. Libro V, 8)

Così anche gli Scettici con Pirrone rispondono all'argomento teologico:

« Io ti dirò in verità come mi sembra che sia, prendendo come retto canone questa parola di verità: che viva eternamente una natura del divino e del bene, da cui deriva all'uomo la vita più eguale. »

(Da Sesto Empirico Adversus mathematicos XI, 20)

Il Neopitagorismo con Nicomaco di Gerasa riconduce, in modo allegorico, la "teologia" alla matematica. Così Giamblico:

« I Pitagorici dunque chiamano l'Uno non solo Dio, ma anche intelligenza, e maschio-femmina: l'intelligenza perché il potere egemonico di Dio, si trova sia nella sua capacità di creare il mondo che in generale in ogni sua attività creativa e in ogni suo potere razionale, anche se non manifesta nella materia individuale, è intelligenza nell'agire [...] È per questo che l'Uno viene chiamato "Demiurgo" e "Plasmatore", poiché con le sue progressioni e regressioni delinea le nature matematiche, da cui derivano i processi di corporizzazione e di generazione di esseri viventi e di strutturazione del mondo. »

(Da Giamblico Theologumena arithmeticae, in Francesco Romano Giamblico, il numero e il divino. Milano, Rusconi, 1995 pag.394)

Il Medioplatonismo recupera l'idea platonica della trascendenza di Dio, messa in discussione dagli stoici che identificavano tutto il mondo fisico con la divinità stessa. Osserva Plutarco di Cheronea:

« Non è verosimile, né opportuno, come sostengono alcuni filosofi, che Dio si trovi mescolato ad una materia soggetta a tutte le affezioni e a cose che subiscono innumerevoli forme di necessità, casualità, e mutamento? »

(Da Plutarco di Cheronea Ad principem ineruditum. 781 e)

Con il Neoplatonismo la "teologia" diviene l'elemento centrale dell'indagine filosofica. Plotino, fondatore del Neoplatonismo, che pure si considera erede di Platone, colloca Dio al di sopra dell'Essere, inaugurandone così una nuova concezione, del tutto originale nel panorama della filosofia greca: Dio, utilizzato in vari punti come sinonimo di Uno,15 è ora una realtà dinamica che genera continuamente se stessa, e il suo generarsi è al contempo un produrre il molteplice:

« …vogliamo dire che nell'atto di autocreazione l'Uno e il suo creare sono contemporanei, oppure che l'Uno coincide con il suo creare e con quella che sarebbe lecito chiamare la sua eterna generazione; … è il Primo, e non il primo di una serie, ma nel senso della forza e della potenza frutto di autodeterminazione e di purezza. »

(Enneadi, VI, 8, 20)

Proprio perché l'Uno non è una realtà statica e definita, non può essere compreso una volta per tutte; a Lui si può arrivare solo indirettamente, tramite quel modo peculiare di argomentare che sarà definito come teologia negativa:

« In realtà, noi possediamo l'Uno in modo tale che possiamo parlare di Lui, pur senza poterlo definire: e infatti diciamo quello che non è, e non quello che è; così parliamo di Lui a partire da quello che viene dopo di Lui. Nulla vieta però di possederlo, anche senza parlarne. »

(Enneadi, V, 3, 14)

Il Dio di Plotino assume così due valenze, che sono il riflesso del suo procedere dialettico nelle ipostasi a lui inferiori (l'Intelletto e l'Anima): una negativa, per cui Egli ci appare totalmente trascendente e ineffabile, l'altra positiva, che lo vede immanente alle realtà da Lui generate:

« In Lui si trova la vita, tutto si trova in Lui. »

(Enneadi V, 4, 2)

« Gli esseri generati per ultimi si trovano in quelli che immediatamente vengono prima, e questi in quelli che il precedono, e così via fino a giungere al primo che è il principio. Il principio, non avendo nulla che sia anteriore a Lui, non ha nessun altro posto in cui stare. Ma se esso non ha un posto in cui stare e gli altri esseri stanno in quelli che li precedono, allora il principio comprende tutti gli esseri, e nella misura in cui li comprende non si diffonde in essi, ma li possiede senza esserne posseduto. E se possiede senza essere posseduto vuol dire che non c'è luogo dove non sia, perché, in tal caso, questo non l'avrebbe. … È tutto dovunque, nulla lo possiede, ma, d’altra parte, nulla non lo possiede: in verità, ogni cosa è in suo possesso. »

(Enneadi V, 5, 9)

Si può notare come Plotino riprenda il tema della gerarchia ontologica presente già in Platone, ma mentre quest'ultimo poneva il Bene al più alto livello dell'Essere, Plotino lo pone al di sopra dell'essere stesso:

« Proprio perché nulla era in Lui, tutto può derivare da Lui, affinché l'Essere possa esistere. Egli stesso non è Essere, semmai è il padre dell'Essere: e questa è, per così dire, la prima generazione. »

(Enneadi V, 2, 1)

La teologia ebraica



Per approfondire, vedi Chassidut, Era messianica, Nomi di Dio nell'ebraismo, Qabbalah, Qedushah, Shekhinah e Tetragramma biblico.

L'Ebraismo incentra tutto il proprio sapere sulla rivelazione della Torah che è sapienza divina e, in quanto tale, svela la conoscenza di Dio e delle Sue modalità che si esprimono nei Tredici Attributi della Clemenza e nelle Sefirot: tutta la Torah concerne quanto Dio desidera dagli uomini ed i segni della Sua provvidenza sul Mondo e sulle Sue creature.
Come insegna Maimonide nella Guida dei perplessi è impossibile definire Dio nella Sua essenza e, in quanto Altissimo e Perfetto, ogni qualifica ne sminuirebbe la percezione infatti ogni metafora antropomorfica, ogni Attributo o aggettivo esprimono solo un aspetto di azioni particolarmente indirizzate sul Mondo Superiore o su quello Inferiore, su creature celesti o Terrene, sugli uomini, sulla Natura ed il Mondo in genere ma Egli è Onnisciente ed Onnipotente. Per i limiti intellettuali degli individui resta comunque impossibile concepire intellettualmente l'Essenza Inconoscibile di Dio.

Ricorda Luis Jacobs che la teologia ebraica si è sviluppata soprattutto con i suoi pensatori medievali ma esiste da prima in quanto tutta la Bibbia (con la sola eccezione del libro di Ester in cui il riferimento alla provvidenza divina resta celato) è scritta con riferimento a Dio, generalmente indicato con le espressioni Eloim e Jahvè.
Dio ha rivelato la Torah al popolo ebraico come atto d'amore, giustizia e salvezza: come fa notare lo stesso Jacobs,16 per molti ebrei gli insegnamenti biblici e del Talmud sono incentrati sui comportamenti pratici piuttosto che sulle speculazioni astratte. Per questo parlare di teologia nell'ebraismo è argomento piuttosto spinoso.

La fede religiosa chiede sempre il rispetto della Legge nell'amore e nel timore verso Dio. Oltre alla ricerca di Dio nella preghiera e nello studio, le Mizvot si fondano pertanto su ciò che Dio vuole che gli uomini compiano riconoscendovi l'importanza dell'intenzione e della volontà nell'eseguirle.

Con la distruzione del Tempio di Gerusalemme, nel mondo ebraico, nella maggior parte del periodo degli esili e della Diaspora ebraica, l'assenza storica di autorità politiche ha determinato che gran parte delle riflessioni teologiche si concentrassero, e anzi si limitassero, all'interno delle varie comunità, delle sinagoghe o all'interno di istituzioni accademiche specializzate come le Yeshivot diffondendone gli insegnamenti tra il popolo. La teologia ebraica, quando possibile, è stata storicamente molto attiva anche nel confronto interreligioso. L'analogo ebraico della discussione teologica cristiana è la discussione rabbinica sulle Leggi e sui commenti ebraici biblici.

La teologia cristiana



Per approfondire, vedi Teologia cristiana.

Sant'Alberto Magno, patrono dei teologi cattolici

Nel mondo cristiano la teologia è l'esercizio della ragione sul messaggio della rivelazione accolto dalla fede. Alla base c'è, dunque, il rapporto tra fede e ragione che la tradizione cattolica, ma non solo, concepisce all'insegna della complementarità. Gli apologeti cristiani definivano, infatti, la propria fede come "vera filosofia", cioè come autentica risposta alle domande filosofiche. La teologia cristiana assume comunque un'importanza fondamentale anche per gli sviluppi di tutte le forme di cultura ad esso relative. Il teologo presbiteriano di Princeton Warfield (1851-1921), grande biblista e studioso del pensiero cristiano, ha proposto una definizione poi diventata classica: "La teologia è la scienza di Dio e del Suo rapporto con l'uomo e con il mondo".

Il termine teologia non compare come tale nelle Sacre Scritture, sebbene l'idea vi sia ampiamente presente. Alcuni scrittori cristiani, lavorando sulla scia di quelli ellenistici, iniziano presto ad usare il termine per i loro studi. L'espressione teologia appare ad esempio in alcuni manoscritti all'inizio del libro dell'Apocalisse: ἀποκαλύψις Ἴοαννοῦ τοῦ θεόλογοῦ, «Apocalisse di Giovanni il teologo».

L'idea di teologia nel senso di "organizzazione della dottrina", almeno nelle forme evolute posteriori, richiese anche l'apporto della metafisica greca, che avrebbe cominciato a nutrire l'Ebraismo già dall'inizio del I secolo attraverso Filone di Alessandria, e un secolo dopo cominciò a influenzare i primi pensatori cristiani, soprattutto Clemente Alessandrino (150-215) e Origene (185-254).

La teologia cristiana si forma poi attraverso l'opera della Patristica (III-VIII secolo), che accolse numerosi apporti della teologia di Platone e nella quale spicca Agostino d'Ippona; quindi si sviluppa soprattutto nel periodo della Scolastica (XI -XIV secolo) dove a prevalere è invece quella di Aristotele (per lo più letta attraverso Averroè), e trova in Tommaso d'Aquino la sua migliore espressione, con l'opera Summa Theologiae. Bonaventura da Bagnoregio e sant'Antonio da Padova si assunsero invece il compito di portare la teologia tra i francescani.

Gli influssi neoplatonici ritornano in Nicola Cusano e specialmente nella teologia di Giordano Bruno. Questi ipostatizza un Dio-Natura sotto le spoglie dell'Infinito, essendo l'infinitezza la caratteristica fondamentale del divino. Dio per Bruno è insieme materiale e spirituale e l'Intelligenza divina pilota tutto l'essere. Egli fa dire nel dialogo De l'infinito, universo e mondi a Filoteo:

« Io dico Dio tutto Infinito, perché da sé esclude ogni termine ed ogni suo attributo è uno e infinito; e dico Dio totalmente infinito, perché lui è in tutto il mondo, ed in ciascuna sua parte infinitamente e totalmente: al contrario dell'infinità de l'universo, la quale è totalmente in tutto, e non in queste parti (se pur, referendosi all'infinito, possono esse chiamate parti) che noi possiamo comprendere in quello »

(Giordano Bruno, De infinito, universo e mondi17)

Nel mondo contemporaneo il termine teologia viene variamente qualificato con aggettivi che ne definiscono l'indirizzo. Per esempio con Teologia della liberazione si indica una corrente del pensiero cristiano tipica dell'America Latina della fine degli anni settanta che implica un forte elemento politico-sociologico di tipo populistico e comunistico.

La teologia islamica

Averroè, part. del Trionfo di San Tommaso di Andrea di Bonaiuto, Cappellone degli Spagnoli di Santa Maria Novella, Firenze



Per approfondire, vedi Kalam.

 La teologia nell'Islam è indicata dal termine arabo ‘ilm al-kalām (arabo: علم الكلام‎ ), anche se la parola si riferisce più appropriatamente alla cosiddetta teologia dogmatica.

In senso stretto le conoscenze teologiche possono essere acquisite solo per graziosa Rivelazione divina, che può avvenire solo per il tramite l'opera di un Profeta (nabī) e di un Inviato (rasūl), non essendo minimamente in grado l'essere umano di concepire una realtà soprannaturale infinita come quella di Dio (Allāh).

Ciò nonostante l'azione interpretativa dei dotti musulmani (ulamā’ ) o, più appropriatamente, mufassirūn, ha condotto a identificare taluni attributi divini (sifāt ) che sono stati pomo di profonda discordia fra i credenti, originando ad esempio la non conciliata dissidenza del mutazilismo (che peraltro riuscì ad affermarsi nel corso dei califfati di al-Ma’mūn, di al-Mu‘taṣim e di al-Wāthiq).

Altre forme di teologia

 Numerose religioni (politeistiche, monoteistiche, panteistiche e panteneistiche), hanno sviluppato ciascuna varie forme di teologia, ora su base rivelativa, ora su base ragionativa, logica e dialettica.

Nel mondo indiano il divino assume le due forme del brahman e dello atman. In quello cinese il tao è un dio-natura panico che si esprime nella realtà nei due aspetti yin e yang. Nel mondo occidentale il concetto di Dio ha trovato espressioni e concetti svariati, e viene nominato indifferentemente come essere, logos, spirito, ragione, verità, assoluto, intelletto, sommo bene, uno, natura, tutto, necessità e così via.

Nel mondo pagano occidentale il termine θεολογια si è visto come fosse usato nella letteratura greca classica con il senso di «discorso riguardo agli dei o alla cosmologia», almeno secondo la testimonianza di Platone che fa riferimento ai racconti dei poeti come a "teologie". Seguendo la scia greca, lo scrittore latino Varrone in Antiquitates rerum humanarum et divinarum, in 41 libri, esponeva uno schema della scienza del profano e del divino che sarà mantenuta anche da Sant'Agostino nel De civitate Dei.18 Varrone distingueva tre forme teologiche: la "mitica" (relativa al politeismo greco), la "naturale" o "razionale", tipica degli intellettuali della classe dirigente romana, e infine la "civile" come teologia ufficiale dello stato e della politica, quella che concerne la ritualità ufficiale dell'osservanza religiosa pubblica, indipendentemente dalle credenze personali di ogni individuo della comunità.

Un caso di teologia tangente al cristianesimo ma tendenzialmente panteistica è il deismo, che nasce nel '600 e si sviluppa nel '700 come forma dotta e intellettualistica di teologia. Religione razionalistica per eccellenza, il deismo si proponeva come religione alternativa al cristianesimo non tanto nei contenuti e nell'oggetto teologico, Dio, ma nel sostituire alla fede per rivelazione una fede "della ragione". Il procedimento razionalistico e logico per definire il concetto di Dio, non in quanto rivelato, ma in quanto "razionalizzato e capito", ha visto aderirvi anche personaggi come Voltaire e Rousseau. Nella prospettiva deista il cristianesimo viene considerato soltanto una forma rozza di religione "superstiziosa" e popolare. Come già aveva pensato Spinoza e spiegato nel suo Tractatus Theologico-Politicus, superandolo nell'esposizione data nella Ethica di un panteismo acosmistico e spiritualistico, dove tutta la realtà "è in Dio".

Secondo il gesuita e paleontologo Pierre Teilhard de Chardin, la teologia sarebbe stata nel periodo medievale teocentrica, per poi passare nel periodo rinascimentale ad essere antropocentrica, mentre oggi, in seguito agli ampliamenti della ricerca teologica alle nuove scoperte scientifiche,19 la teologia è divenuta la teologia dell'universo, che è in cammino verso il Punto Omega (Gesù Cristo). Essa quindi si deve interessare non solo dei rapporti tra Dio e l'Uomo, ma tra Dio e tutti gli esseri viventi animati (angeli, uomini, animali) che vivono nello stesso "οίκος" o casa-ambiente. Da qui sono nati l'ecoteologia e la teologia degli animali.

Aspetti antropologici

 Un modo particolare di considerare la teologia è quello antropologico; in tal caso la si guarda dall'esterno, cercando di capire le motivazioni soggettive che portano a indagare il divino, indipendentemente dai risultati a cui esse approdano. Questo approccio "critico" nei contronti della teologia fu inaugurato da Ludwig Feuerbach, il quale, esaltando l'ateismo come percorso di liberazione verso un nuovo umanesimo, individuava tuttavia nel Cristianesimo un contenuto positivo in grado di condurre alla vera essenza dell'uomo, essendo per lui il Dio cristiano nient'altro che l'«ottativo del cuore»,20 ossia proiezione del desiderio umano; quest'ultimo andava riscoperto capovolgendo appunto la teologia in antropologia.

Altre considerazioni miranti a ridimensionare l'aspetto religioso e a porre l'antropologia al centro della teologia furono elaborate dai cosiddetti «filosofi del sospetto», in particolare Marx, Nietzsche, Freud, i quali ritenevano che ogni sorta di studio o di conoscenza su Dio andasse contestualizzata e riferita a motivazioni di carattere psichico o politico, individuale o sociale. La "scienza del divino" andava cioè destituita del suo fondamento assoluto e posta in relazione al tipo di situazione, di cultura, o al livello di sviluppo di un certo contesto.

Anche in ambito religioso, tuttavia, si è messo in luce come un approccio antropologico al problema religioso non sia da respingere, ma che anzi possa servire a distinguere e chiarificare gli aspetti più propriamente umani e terreni della teologia, tanto più in considerazione della natura storica del Dio cristiano. Il teologo cattolico Karl Rahner, ad esempio, è stato fautore di una «svolta antropologica» che conciliasse le problematicità esistenziali tipiche dell'uomo con la sua esigenza di aprirsi a Dio e all'Assoluto.21

Voci correlate

    •    Ateologia

    •    Ateismo

    •    Agnosticismo

    •    Credenza religiosa

    •    Filosofia ebraica

    •    Fede

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Fisica

I fenomeni naturali costituiscono l'oggetto di studio della Fisica. Dall'alto a sinistra in senso orario: 1) La rifrazione della luce attraverso le gocce d'acqua produce un arcobaleno, un fenomeno studiato dall'ottica; 2) Un'applicazione: il laser; 3) Delle mongolfiere che sfruttano la forza di Archimede per volare; 4) Una trottola, un sistema studiabile in meccanica classica; 5) L'effetto di un urto anelastico; 6) Orbitali dell'atomo di idrogeno, spiegabili con la meccanica quantistica; 7) L'esplosione di una bomba atomica; 8) Un fulmine, un fenomeno elettrico; 9) Galassie fotografate con il Telescopio spaziale Hubble.

La fisica è la scienza della natura nel senso più ampio. Il termine "fisica" deriva dal neutro plurale latino physica, a sua volta derivante dal greco τὰ φυσικά [tà physiká], ovvero "le cose naturali" e da φύσις [physis], "natura".

Scopo della fisica è lo studio dei fenomeni naturali, ossia di tutti gli eventi che possano essere descritti ovvero quantificati attraverso grandezze fisiche opportune, al fine di stabilire principi e leggi che regolano le interazioni tra le grandezze stesse e rendano conto delle loro reciproche variazioni. Quest'obiettivo è raggiunto attraverso l'applicazione rigorosa del metodo scientifico e spesso la fornitura finale di uno schema semplificato, o modello, del fenomeno descritto1.   

L'insieme di principi e leggi fisiche relative ad una certa classe di fenomeni osservati definiscono una teoria fisica deduttiva, coerente e relativamente autoconsistente, costruita tipicamente a partire dall'induzione sperimentale.

Caratteristiche generali

 Conosciuta anche come la regina delle scienze2, originariamente branca della filosofia, la Fisica è stata chiamata almeno fino al XVIII secolo filosofia naturale3, solo in seguito alla codifica del metodo scientifico di Galileo Galilei, negli ultimi trecento anni si è talmente evoluta e sviluppata ed ha conseguito risultati di tale importanza da conquistarsi piena autonomia e autorevolezza. Essa si è distinta dalla filosofia per ovvie ragioni di metodo di indagine.

L'indagine fisica viene condotta seguendo rigorosamente il metodo scientifico, anche noto come il metodo sperimentale: all'osservazione dei fenomeni segue la formulazione di ipotesi interpretativa, la cui validità viene messa alla prova tramite degli esperimenti. Le ipotesi consistono nella spiegazione del fenomeno attraverso l'assunzione di principi fondamentali, in modo analogo a quanto viene fatto in matematica con assiomi e postulati. L'osservazione produce come conseguenza diretta le leggi empiriche. Se la sperimentazione conferma un'ipotesi, la relazione che la descrive viene detta legge fisica. Il ciclo conoscitivo prosegue con il miglioramento della descrizione del fenomeno conosciuto attraverso nuove ipotesi e nuovi esperimenti.

Un insieme di leggi possono essere unificate in una teoria che faccia uso di principi che permettano di spiegare il maggior numero possibile di fenomeni, questo processo permette anche di prevedere nuovi fenomeni che possono essere scoperti sperimentalmente. Le leggi e le teorie fisiche, come tutte le leggi scientifiche, in quanto costruite a partire da processi conoscitivi di tipo induttivo-sperimentali, sono in linea di massima sempre provvisorie, nel senso che sono considerate vere finché non vengono in qualche modo confutate, ossia finché non viene osservato il verificarsi di un fenomeno che esse non predicono o se le loro predizioni sui fenomeni si dimostrano errate. Infine ogni teoria può essere sostituita da una nuova teoria che permetta di predire i nuovi fenomeni osservati con un'accuratezza superiore ed eventualmente in un più ampio contesto di validità.

Cardine della fisica sono i concetti di grandezza fisica e misura: le grandezze fisiche sono ciò che è misurabile secondo criteri concordati (è stabilito per ciascuna grandezza un metodo di misura ed un'unità di misura). Le misure sono il risultato degli esperimenti. Le leggi fisiche sono quindi generalmente espresse come relazioni matematiche fra grandezze, verificate attraverso misure4. I fisici studiano quindi in generale il comportamento e le interazioni della materia attraverso lo spazio e il tempo.

Per queste sue caratteristiche, cioè il preciso rigore di studio dei fenomeni analizzati, è unanimemente considerata la scienza dura per eccellenza tra tutte le scienze sperimentali o scienze esatte grazie al suo approccio teso alla comprensione non solo qualitativa, ma anche quantitativa con la stesura delle suddette leggi universali di natura matematica in grado di fornire una previsione sullo stato futuro di un fenomeno o di un sistema fisico.

Storia della fisica



Per approfondire, vedi Storia della fisica.

Sebbene le origini della fisica secondo alcuni storici della scienza possano essere fatte risalire all'antichità, la fisica propriamente detta nasce con la Rivoluzione scientifica nel XVII secolo per opera di Niccolò Copernico, Keplero, Tycho Brahe, Galileo Galilei e il suo metodo scientifico, Leibniz e Newton che diedero contributi alla meccanica celeste e ai principi della meccanica classica fornendo anche gli strumenti matematici adattati allo scopo come i fondamenti del calcolo infinitesimale. La fisica rappresenta dunque la prima disciplina scientifica nella storia della scienza da cui nascerà nel XVIII secolo la chimica, nel XIX secolo la biologia e le scienze della Terra ecc...Nel XVIII e XIX secolo nascono e si sviluppano poi teorie come la termodinamica e l'elettromagnetismo. Sempre a livello storico si suole suddividere la fisica in fisica classica che comprende la meccanica classica, la termodinamica e l'elettromagnetismo fino alla fine del XIX secolo e la fisica moderna dall'inizio del XX secolo a partire dalla teoria della relatività, la meccanica quantistica e le tutte le altre teorie fisiche della seconda metà del Novecento.

Concetti fondamentali in fisica

Il metodo scientifico



Per approfondire, vedi Metodo scientifico.

Schema del metodo scientifico

Il metodo scientifico è la modalità tipica con cui la scienza procede per raggiungere una conoscenza della realtà oggettiva, affidabile, verificabile e condivisibile. Esso consiste, da una parte, nella raccolta di evidenza empirica e misurabile attraverso l'osservazione e l'esperimento; dall'altra, nella formulazione di ipotesi e teorie da sottoporre nuovamente al vaglio dell'esperimento.

Esso è stato applicato e codificato da Galileo Galilei nella prima metà del XVII secolo. Precedentemente l'indagine della natura consisteva nell'adozione di teorie che spiegassero i fenomeni naturali senza che fosse necessaria una verifica sperimentale delle teorie stesse che venivano considerate vere in base al principio di autorità.

Il metodo sperimentale moderno richiede, invece, che le teorie fisiche debbano fondarsi sull'osservazione dei fenomeni naturali, debbano essere formulate come relazioni matematiche e che debbano essere messe alla prova tramite esperimenti:

« [...] sempre se ne sta su conclusioni naturali, attenenti a i moti celesti, trattate con astronomiche e geometriche dimostrazioni, fondate prima sopra sensate esperienze ed accuratissime osservazioni. [...]. Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie »

(Galileo Galilei, Lettera a madama Cristina di Lorena granduchessa di Toscana)

Il percorso seguito per arrivare alla stesura di una legge scientifica (e in particolare di una legge fisica) a partire dall'osservazione di un fenomeno si articola nei seguenti passi, ripetuti ciclicamente:

      1.      Osservazione di un fenomeno fisico. Un fenomeno fisico è un qualsiasi evento in cui siano coinvolte delle grandezze fisiche, ossia delle proprietà di un corpo che siano misurabili5.

      2.      Elaborazione di un'ipotesi esplicativa e formulazione di una previsione da verificare che segua l'ipotesi elaborata. L'ipotesi viene solitamente formulata semplificando la situazione reale in modo tale da individuare delle relazioni tra le grandezze semplici da verificare, queste sono di solito indicate con l'espressione condizioni ideali (un esempio, nel caso dell'esperimento del piano inclinato è l'assunzione che la forza di attrito sia trascurabile).

      3.      Esecuzione di un esperimento. L'esperimento consiste nella ripetizione in condizioni controllate di osservazioni di un fenomeno fisico e nell'esecuzione di misure delle grandezze coinvolte nel fenomeno stesso.

      4.       Analisi e interpretazione dei risultati (conferma o smentita dell'ipotesi iniziale).

Dato che le condizioni in cui viene svolto l'esperimento non sono mai ideali, al contrario di quanto supposto dalle ipotesi, è spesso necessario svolgere un elevato numero di misure e analizzare i risultati con metodi statistici.

Nel caso in cui l'ipotesi sia confermata la relazione che essa descrive diviene una legge fisica, essa è ulteriormente sviluppabile attraverso:

    •     Elaborazione di un modello matematico

    •     Unificazione di leggi simili in una teoria di validità generale

    •     Previsione di nuovi fenomeni naturali

Ogni osservazione di un fenomeno costituisce un caso a sé stante, una particolare istanza del fenomeno osservato. Ripetere le osservazioni vuol dire moltiplicare le istanze e raccogliere altri fatti, cioè altre "misure"6. Le diverse istanze saranno certamente diverse l'una dall'altra nei dettagli (ad esempio a causa di errori sperimentali), anche se nelle loro linee generali ci indicano che il fenomeno, a parità di condizioni7, tende a ripetersi sempre allo stesso modo.

Per ottenere un risultato di carattere generale, occorre sfrondare le varie istanze dalle loro particolarità e trattenere solo quello che è rilevante e comune ad ognuna di esse, fino a giungere al cosiddetto modello fisico.

Se l'ipotesi è smentita allora essa viene rigettata ed è necessario formulare una nuova ipotesi e ripercorrere il percorso precedente.

Il ciclo conoscitivo proprio del metodo scientifico è di tipo induttivo: un procedimento che partendo da singoli casi particolari cerca di stabilire una legge universale. Nella prima metà del XX secolo, il filosofo e logico inglese Bertrand Russell e il filosofo austriaco Karl Popper sollevarono delle obiezioni riguardo al metodo dell'induzione. L'induzione non ha consistenza logica perché non si può formulare una legge universale sulla base di singoli casi; ad esempio, l'osservazione di uno o più cigni dal colore bianco non autorizza a dire che tutti i cigni sono bianchi; esistono infatti anche dei cigni di colore nero. Popper osservò che nella scienza non basta "osservare": bisogna saper anche cosa osservare. L'osservazione non è mai neutra ma è sempre intrisa di teoria, di quella teoria che, appunto, si vorrebbe mettere alla prova. Secondo Popper, la teoria precede sempre l'osservazione: anche in ogni approccio presunto "empirico", la mente umana tende inconsciamente a sovrapporre i propri schemi mentali, con le proprie categorizzazioni, alla realtà osservata.

Il metodo sperimentale non garantisce quindi che una legge fisica possa essere verificata in modo definitivo, ma si può limitare solamente a fornire la prova della falsità di un'ipotesi.

« Nessuna quantità di esperimenti potrà dimostrare che ho ragione; un unico esperimento potrà dimostrare che ho sbagliato. »

(Albert Einstein, lettera a Max Born del 4 dicembre 1926)

Misure



Per approfondire, vedi metrologia.

La misura è il processo che permette di conoscere una qualità di un determinato oggetto (ad esempio la lunghezza o la massa) dal punto di vista quantitativo, tramite un'unità di misura, cioè una grandezza standard che, presa N volte, associ un valore univoco alla qualità da misurare. La branca della fisica che si occupa della misurazione delle grandezze fisiche è chiamata metrologia. Il suo scopo è quello di definire alcune grandezze fisiche indipendenti, dette fondamentali, dalle quali è possibile ricavare tutte le altre (che sono dette derivate), di definire i corretti metodi di misurazione e di costruire i campioni delle unità di misura adottate, in modo da avere un valore standard a cui fare riferimento in qualsiasi momento.

Il sistema di unità di misura universalmente accettato dai fisici è il Sistema Internazionale (SI): esso è basato su sette grandezze fondamentali, dalle quali derivano tutte le altre, ovvero:

    •     il metro (m), per le misure di lunghezza;

    •     il secondo (s), per gli intervalli di tempo;

    •     il chilogrammo (kg), per le misure della massa;

    •     l'ampere (A), per le intensità di corrente;

    •     il kelvin (K), per le misure di temperatura;

    •     la mole (mol), per la quantità di sostanza;

    •     la candela (cd), per l'intensità luminosa.

Questo sistema di misurazione deriva direttamente dal sistema MKS, il quale ha come grandezze fondamentali solamente il metro, il secondo e il chilogrammo ed è stato sostituito con il sistema attuale poiché non sono considerati anche i fenomeni termodinamici, elettromagnetici e fotometrici

Altri sistemi usati in passato sono stati il sistema CGS, in cui le unità fondamentali sono il centimetro, il grammo e il secondo e il Sistema imperiale britannico (o anglosassone). Inoltre negli USA si utilizza attualmente il Sistema consuetudinario statunitense, derivato dal Sistema imperiale britannico.

Gli errori sperimentali

Rappresentazione della comparsa di errori sistematici ed errori casuali (random).

In ogni procedimento di misura di una grandezza fisica, la misura è inevitabilmente accompagnata da un'incertezza o errore sul valore misurato. Una caratteristica fondamentale degli errori che influenzano le misure di grandezze fisiche è la sua ineliminabilità, ossia una misura può essere ripetuta molte volte o eseguita con procedimenti o strumenti migliori, ma in ogni caso l'errore sarà sempre presente. L'incertezza fa parte della natura stessa dei procedimenti di misura. In un esperimento, infatti, non è mai possibile eliminare un gran numero di fenomeni fisici che possono causare dei disturbi alla misura, cambiando le condizioni nelle quali si svolge l'esperimento. Una misura può quindi fornire solamente una stima del valore vero di una grandezza coinvolta in un fenomeno fisico.

Le incertezze che influenzano una misura sono solitamente suddivise a seconda delle loro caratteristiche in:

    •    incertezze casuali. Quando la loro influenza sulla misura è completamente imprevedibile e indipendente dalle condizioni in cui si svolge la misura stessa8. Queste incertezze influenzano la misura in modo casuale, ossia conducono alcune volte ad una sovrastima del valore della grandezza misurata, altre volte ad una sottostima. Misure affette solo da errori casuali possono essere trattate con metodi statistici in quanto si distribuiscono intorno al valore vero secondo la distribuzione gaussiana (o distribuzione normale).

    •    incertezze sistematiche. Le incertezze sistematiche influenzano una misura sempre in uno stesso senso, ossia conducono sempre a una sovrastima o ad una sottostima del valore vero. Sorgenti comuni di errori sistematici possono essere: errori di taratura di uno strumento o errori nel procedimento di misura9. Contrariamente agli errori casuali, le incertezze sistematiche possono essere eliminate anche se la loro individuazione è difficile, infatti è possibile osservare l'effetto di incertezze sistematiche solo conoscendo a priori il valore vero della grandezza che si intende misurare o confrontando i risultati di misure svolte con strumenti e procedimenti diversi.

Nell'immagine a lato è rappresentato l'effetto delle incertezze su di una misura per analogia con il gioco delle freccette. Il valore vero della grandezza è il centro del bersaglio, ogni tiro (puntini blu) rappresenta una misura.

Quando si fa una misura, quindi, si deve procedere alla stima dell'incertezza ad essa associata, o, in altre parole, alla stima dell'errore sulla misura. Ogni misura deve essere quindi presentata accompagnata dalla propria incertezza segnalata dal segno di ± e dalla relativa unità di misura:

G=(l±σ)u.m. In cui

G è il simbolo relativo alla grandezza misurate,

l è la stima del valore della misura,

σ è l'incertezza e

u.m. è l'unità di misura10.

Quando una misura viene ripetuta molte volte è possibile valutare le incertezze casuali calcolando la deviazione standard delle misure (di solito indicata con la lettera greca,

σ), la stima del valore vero si ottiene invece calcolando la media aritmetica dei valori delle misure11. Se le misure sono ripetute poche volte si utilizza come incertezza la risoluzione dello strumento. L'incertezza deve fornire un intervallo di valori in cui, secondo la misura condotta dallo sperimentatore, cade il valore vero della misura secondo un certo livello di confidenza1213.

Ci si può servire dell'incertezza assoluta per quantificare la precisione della misura, il valore dell'incertezza con la relativa unità di misura è detto incertezza assoluta, l'incertezza relativa si calcola come il rapporto fra l'incertezza assoluta e il valore vero della grandezza, in genere stimato dal valor medio delle misure effettuate. L'incertezza relativa è un numero adimensionale (ossia senza unità di misura). È possibile esprimere l'incertezza relativa anche con una percentuale.1415

Le incertezze si propagano quando i dati afflitti da incertezze vengono utilizzati per effettuare successivi calcoli (come ad esempio il calcolo dell'area di un tavolo a partire dalla lunghezza dei suoi lati), secondo delle precise regole dette della propagazione delle incertezze.

Infine, bisogna notare che in Fisica classica in linea di principio gli errori possono essere sempre ridotti fino alla sensibilità tipica dello strumento di misura, peraltro idealmente o in linea teorica sempre migliorabile, mentre in meccanica quantistica questo non è possibile a causa del principio di indeterminazione di Heisenberg.

Modello



Per approfondire, vedi Modello (scienza) e Modello fisico.

Il modello fisico è una versione approssimata del sistema effettivamente osservato. Il suo impiego indiscriminato presenta dei rischi, ma ha il vantaggio di una maggiore generalità e quindi dell'applicabilità a tutti i sistemi simili al sistema in studio.

La costruzione del modello fisico è la fase meno formalizzata del processo conoscitivo, che porta alla formulazione di leggi quantitative e di teorie. Il modello fisico ha la funzione fondamentale di ridurre il sistema reale, e la sua evoluzione, ad un livello astratto ma traducibile in forma matematica, utilizzando definizioni delle grandezze in gioco e relazioni matematiche che li leghino. Tale traduzione può essere portata a termine anche attraverso l'uso del calcolatore, con programmi detti di simulazione, con i quali si studiano i fenomeni più disparati.

Il modello matematico, che ovviamente si colloca ad un livello di astrazione ancora superiore a quello del modello fisico, ovvero al massimo livello di astrazione nel processo conoscitivo, è costituito normalmente da equazioni differenziali che, quando non siano risolvibili in maniera esatta, devono essere semplificate opportunamente o risolte, più o meno approssimativamente, con metodi numerici (al calcolatore). Si ottengono in questo modo delle relazioni analitiche o grafiche fra le grandezze in gioco, che costituiscono la descrizione dell'osservazione iniziale.

Tali relazioni, oltre a descrivere l'osservazione, possono condurre a nuove previsioni. In ogni caso esse sono il prodotto di un processo che comprende diverse approssimazioni:

      1.       nella costruzione del modello fisico

      2.       nelle relazioni utilizzate per costruire il modello matematico

      3.       nella soluzione del modello matematico.

La soluzione del modello matematico va quindi interpretata tenendo conto delle varie approssimazioni che sono state introdotte nello studio del fenomeno reale, per vedere con quale approssimazione riesce a rendere conto dei risultati dell'osservazione iniziale e se le eventuali previsioni si verificano effettivamente e con quale precisione. Questo può venire confermato solo dall'esperienza, creando una sorta di schema in retroazione, che è il ciclo conoscitivo.

Spazio e Tempo



Per approfondire, vedi Spazio (fisica) e Tempo (fisica).

Il tempo e lo spazio sono delle grandezze fondamentali della fisica, assieme a massa, temperatura, quantità di sostanza, intensità di corrente, e intensità luminosa: tutte le grandezze della fisica sono riconducibili a queste ultime.

L'unità di misura del tempo è il secondo, che è definito come la durata di 9 192 631 770 periodi della radiazione corrispondente alla transizione tra due livelli iperfini, da (F=4, MF=0) a (F=3, MF=0), dello stato fondamentale dell'atomo di cesio-133, mentre il metro è l'unità fondamentale dello spazio ed è definito come la distanza percorsa dalla luce nel vuoto in un intervallo di tempo pari a 1/299 792 458 di secondo.

Prima del Novecento i concetti di spazio e di tempo erano considerati assoluti e indipendenti: si pensava che lo scorrere del tempo e le estensioni spaziali dei corpi fossero indipendenti dallo stato di moto dell'osservatore che le misurava, ovvero dal sistema di riferimento scelto. Dopo l'avvento della teoria della relatività di Einstein i fisici dovettero cambiare opinione: le lunghezze e gli intervalli temporali misurati da due osservatori in moto relativo l'uno rispetto all'altro, possono risultare più o meno dilatati o contratti, mentre esiste un'entità, l'intervallo di Minkowski, che è invariante e se misurata da entrambi gli osservatori fornisce il medesimo risultato; quest'entità è costituita dalle 3 coordinate spaziali più una quarta, quella temporale, che rendono questo oggetto appartenente ad uno spazio a 4 dimensioni. Così facendo, lo spazio e il tempo non sono più due quantità fisse e indipendenti tra loro, ma sono correlate tra loro e formano un'unica e nuova base su cui operare, lo spazio-tempo.

Con la relatività generale, poi, lo spazio-tempo viene deformato dalla presenza di oggetti dotati di massa o energia (più in generale, di energia-impulso, vd. tensore energia impulso).

Massa



Per approfondire, vedi Massa (fisica).

La massa è una grandezza fisica fondamentale. Essa ha come unità di misura nel Sistema internazionale il chilogrammo e viene definita nella meccanica newtoniana come la misura dell'inerzia offerta dai corpi al cambiamento del proprio stato di moto. Nella teoria della gravitazione universale di Newton svolge inoltre il ruolo di carica della forza gravitazionale. Questa doppia definizione della massa viene unita nella teoria della relatività di Einstein, tramite il principio di equivalenza, ed inoltre essa viene legata all'energia di un corpo tramite la formula E = mc². La massa resta sempre costante a differenza del peso. Esempio: sulla luna la massa resta costante, mentre il peso diventa un sesto.

Forza e Campo



Per approfondire, vedi Forza (fisica) e Campo (fisica).

Rappresentazione a mezzo delle linee di campo del campo magnetico di un magnete.

Nell'ambito della fisica, la forza viene definita come la rapidità di variazione della quantità di moto rispetto al tempo. Nel caso in cui la massa del corpo sia costante, la forza esercitata su un corpo è pari al prodotto della massa stessa per l'accelerazione del corpo.

In formule:

         

         F⃗=d(mv⃗)dt=ma⃗

La forza esprime quantitativamente l'interazione di due corpi. L'interazione tra i corpi può avvenire attraverso una cosiddetta "area di contatto" (spesso assimilabile ad un punto) oppure può manifestarsi a distanza, attraverso quello che viene definito campo di forze. Il concetto di campo di forze può essere chiarito se si pensa alla natura vettoriale della forza: la forza infatti viene descritta dal punto di vista matematico da un vettore, per cui un campo di forze è descritto in matematica come un campo vettoriale, cioè il campo di forze indica punto per punto la direzione, il verso e il modulo (o intensità) della forza che viene esplicata tra due corpi. Il campo di forze può essere visualizzato tramite le sue linee di campo o le linee di flusso.

Alcuni esempi di campi di forze sono: il campo magnetico, il campo elettrico e il campo gravitazionale.

Principali fenomeni fisici e teorie fisiche

La fisica si compone di più branche che sono specializzate nello studio di diversi fenomeni oppure che sono caratterizzate dall'utilizzo estensivo delle stesse leggi di base.  In base alla prima classificazione si possono distinguere quattro classi principali di fenomeni fisici:  

    •     i fenomeni corpuscolari che coinvolgono oggetti dotati di massa propria sia a livello macroscopico che microscopico (meccanica classica e meccanica quantistica) caratterizzandone la cinematica, la dinamica nello spazio-tempo a partire dalla cause che generano il moto (forze) e la loro energia meccanica.

    •     i fenomeni ondulatori che coinvolgono i fenomeni di propagazione di energia sotto forma di onde sia a livello macroscopico che microscopico (onde meccaniche, acustica, ottica, elettrodinamica, meccanica quantistica).

    •     i fenomeni termici che coinvolgono il trasferimento del calore da un corpo ad un altro (calorimetria e termometria) e la sua trasformazione in lavoro meccanico (termodinamica), comprese nella termologia.

    •     i fenomeni elettrici e magnetici stazionari nel tempo che coinvolgono le cariche elettriche (elettricità) e i materiali magnetici.



Ciascuna classe di fenomeni osservabili in natura è interpretabile in base a dei principi e delle leggi fisiche che insieme definiscono una teoria fisica deduttiva, coerente e relativamente autoconsistente. Benché ogni teoria fisica sia intrinsecamente falsificabile per la natura tipicamente induttiva del metodo di indagine scientifico, allo stato attuale esistono teorie fisiche più consolidate di altre seguendo il percorso storico di evoluzione della fisica stessa.  

In base alla seconda classificazione si può invece distinguere tra fisica classica e fisica moderna, poiché quest'ultima fa uso continuamente delle teorie relativistiche, della meccanica quantistica e delle teorie di campo, che non sono invece parte delle teorie cosiddette classiche.

Fisica classica



Per approfondire, vedi Fisica classica.

Illustrazioni di meccanica in un'enciclopedia del 1728.

La fisica classica studia tutti i fenomeni che possono essere spiegati senza ricorrere alla relatività generale e alla meccanica quantistica. Le teorie principali che la compongono sono la meccanica classica (in cui si ricomprende l'acustica), la termodinamica, l'elettromagnetismo (in cui si ricomprende l'ottica) e la teoria newtoniana della gravità. Sostanzialmente tutte le teorie che sono state prodotte prima dell'inizio del XX secolo fanno parte della fisica classica. Le leggi della fisica classica, nonostante non siano in grado di spiegare alcuni fenomeni, come la precessione del perielio di Mercurio, o l'effetto fotoelettrico, sono in grado di spiegare gran parte dei fenomeni che si possono osservare sulla Terra. Le teorie, invece, falliscono quando è necessario spingersi oltre i limiti di validità delle stesse, ovvero nelle scale atomiche e subatomiche, o in quello dei corpi molto veloci, per cui è necessario fare ricorso alle leggi della fisica moderna.

La fisica classica utilizza un numero relativamente ridotto di leggi fondamentali che a loro volta si basano su una serie di principi assunti alla base della teoria. Fra questi quelli più importanti sono i concetti di spazio assoluto e tempo assoluto che sono poi alla base della relatività galileiana. Molto importanti sono anche i principi di conservazione.

Fisica moderna



Per approfondire, vedi Storia della fisica.

Se la fisica classica aveva di per sé esaurito brillantemente quasi del tutto lo studio dei fenomeni fisici macroscopici, con il successivo passo, ovvero con la fisica moderna, lo studio fisico si incentra su tutti quei fenomeni che avvengono a scala atomica e subatomica o con velocità prossime a quelle della luce; le teorie principali che costituiscono questa nuova fisica sono la meccanica quantistica e la relatività generale. Più precisamente fanno parte di questa categoria tutte le teorie che sono state prodotte a partire dal XX secolo per cercare di spiegare alcuni fenomeni che le teorie classiche non riuscivano a dimostrare.

Queste nuove teorie rappresentarono una "spaccatura" netta nel disegno teorico tracciato dalla fisica classica precedente in quanto ne hanno completamente rivisto idee e concetti di fondo in cui l'uomo aveva sempre creduto fin dai tempi più antichi:  

    •     lo spazio e il tempo non sono più considerati assoluti, ma sono relativi al sistema di riferimento che si sceglie, e non sono separati, ma formano un'unica entità chiamata spazio-tempo.

    •     la velocità della luce è la massima velocità possibile nell'universo.

    •     il concetto di misura e osservabile fisico vengono completamente rivisti in quanto con il principio di indeterminazione si stabilisce che esistono coppie di grandezze fisiche non misurabili simultaneamente con precisione arbitraria.

    •     la stessa materia fisica dell'universo mostra inoltre una doppia natura, corpuscolare e ondulatoria, attraverso il noto dualismo onda-particella espresso nel principio di complementarità.



Ambiti di validità delle teorie principali della fisica.

Fisica sperimentale e fisica teorica



Per approfondire, vedi Fisica sperimentale e Fisica teorica.

 Un'altra classificazione vuole la distinzione tra fisica sperimentale e fisica teorica in base alla suddivisione del processo di indagine scientifica rispettivamente nella fase dell'osservazione dei dati dell'esperimento e della loro successiva interpretazione ed elaborazione all'interno di teorie fisico-matematiche: stretto è dunque il loro legame di collaborazione. Entrambe queste distinzioni possono essere fatte all'interno sia della fisica classica che della fisica moderna.

Branche della fisica

Fisica matematica



Per approfondire, vedi Fisica matematica.

La fisica matematica è quella disciplina scientifica che si occupa delle applicazioni della matematica ai problemi della fisica e dello sviluppo di metodi matematici adatti alla formulazione di teorie fisiche ed alle relative applicazioni. È una branca della fisica tipicamente teorica.

In tempi recenti l'attività dei fisici-matematici si è concentrata principalmente sulle seguenti aree:

    •    meccanica statistica: in particolare la teoria delle transizioni di fase;

    •    meccanica quantistica (operatore di Schrödinger): con i collegamenti a quell'insieme di discipline che spesso vengono indicate come fisica dello stato solido;

    •     teoria dei sistemi dinamici non lineari: in particolare i sistemi caotici e i sistemi hamiltoniani completamente integrabili (e le perturbazioni di questi ultimi), anche  infinito-dimensionali (equazioni solitoniche);

    •    teoria quantistica dei campi: con particolare riferimento alla costruzione di modelli;

    •    teorie relativistiche del campo gravitazionale: incluse le applicazioni alla cosmologia e i tentativi di costruire una teoria quantistica della gravità.



L'evoluzione della fisica in questo senso va verso la cosiddetta teoria del tutto ovvero una teoria omnicomprensiva che spieghi la totalità dei fenomeni fisici osservati in termini delle interazioni fondamentali a loro volta unificate.

Fisica dello stato solido



Per approfondire, vedi Fisica dello stato solido.

La fisica dello stato solido è la più ampia branca della fisica della materia condensata (comunemente detta fisica della materia) e riguarda lo studio delle proprietà dei solidi, sia elettroniche, che meccaniche, ottiche e magnetiche.

Il grosso della ricerca teorica e sperimentale della fisica dello stato solido è focalizzato sui cristalli, sia a causa della loro caratteristica struttura atomica periodica, che ne facilita la modellizzazione matematica, che per il loro ampio utilizzo tecnologico.

Con il termine stato solido in elettronica ci si riferisce in generale a tutti i dispositivi a semiconduttore. A differenza dei dispositivi elettromeccanici, quali ad esempio i relè, i dispositivi a stato solido non hanno parti meccaniche in movimento. Il termine viene utilizzato anche per differenziare i dispositivi a semiconduttore dai primi dispositivi elettronici: le valvole ed i diodi termoionici.

Il punto di partenza di gran parte della teoria nell'ambito della fisica dello stato solido è la formulazione di Schrödinger della meccanica quantistica non relativistica. La teoria si colloca generalmente all'interno dell'approssimazione di Born - Oppenheimer e dalla struttura periodica del reticolo cristallino si ricavano le condizioni periodiche di Born-von Karman ed il Teorema di Bloch, che caratterizza la funzione d'onda nel cristallo. Le deviazioni dalla periodicità sono trattate ampiamente tramite approcci perturbativi o con altri metodi più innovativi, quali la rinormalizzazione degli stati elettronici.

Appartiene alla fisica dello stato solido anche la fisica delle basse temperature la quale studia gli stati della materia a temperature prossime allo zero assoluto e i fenomeni ad essi connessi (ad es. condensato di Bose-Einstein, superconduttività ecc..).

Fisica nucleare



Per approfondire, vedi Fisica nucleare.

La fisica nucleare è la branca della fisica che studia il nucleo atomico nei suoi costituenti protoni e neutroni e le loro interazioni.

La fisica nucleare si distingue dalla fisica atomica che invece studia l'atomo, sistema composto dal nucleo atomico e dagli elettroni.

La fisica nucleare si distingue a sua volta dalla fisica delle particelle o fisica subnucleare che invece ha come oggetto lo studio delle particelle più piccole del nucleo atomico. La fisica delle particelle o subnucleare è stata per molto tempo considerata una branca della fisica nucleare. Il termine fisica subnucleare sta cadendo in disuso poiché si riferiva allo studio di particelle interne al nucleo, mentre oggi la maggior parte delle particelle note non sono costituenti nucleari.

L'energia nucleare è la più comune applicazione della fisica nucleare, ma il campo di ricerca è anche alla base di molte altre importanti applicazioni, come in medicina (medicina nucleare, risonanza magnetica nucleare), in scienza dei materiali (implantazioni ioniche) o archeologia (radiodatazione al carbonio).

Fisica delle particelle elementari



Per approfondire, vedi Fisica delle particelle elementari.

La fisica delle particelle è la branca della fisica che studia i costituenti fondamentali e le interazioni fondamentali della materia; essa rappresenta la fisica dell'infinitamente piccolo. Talvolta viene anche usata l'espressione fisica delle alte energie, quando si vuole far riferimento allo studio delle interazioni tra particelle elementari che si verificano ad altissima energia e che permettono di creare particelle non presenti in natura in condizioni ordinarie, come avviene con gli acceleratori di particelle.

In senso stretto, il termine particella non è del tutto corretto. Gli oggetti studiati dalla Fisica delle particelle, obbediscono ai principi della meccanica quantistica. Come tali, mostrano una dualità onda-corpuscolo, in base alla quale manifestano comportamenti da particella sotto determinate condizioni sperimentali e comportamenti da onda in altri. Teoricamente, non sono descritte né come onde né come particelle, ma come vettori di stato in un'astrazione chiamata spazio di Hilbert.

Astrofisica



Per approfondire, vedi Astrofisica.

Illustrazione dell'esperimento sulla relatività generale effettuato con l'ausilio della sonda Cassini.

L'astrofisica è una scienza che applica la teoria e i metodi delle altre branche della fisica per studiare gli oggetti di cui è composto l'universo, quali ad esempio le stelle, i pianeti, le galassie e i buchi neri.

L'astrofisica si differenzia dall'astronomia in quanto l'astronomia si pone come obiettivo la comprensione dei movimenti degli oggetti celesti, mentre l'astrofisica tenta di spiegare l'origine, l'evoluzione e il comportamento degli oggetti celesti stessi, rappresentando quindi la fisica dell'infinitamente grande. Un'altra disciplina con cui l'astrofisica è intimamente correlata è la cosmologia, che ha come oggetto di studio l'origine dell'universo.

I telescopi spaziali (tra cui va ricordato il telescopio spaziale Hubble) sono strumenti indispensabili alle indagini dell'astrofisica: grazie ad essi gli astrofisici hanno trovato conferma di molte teorie sull'universo.

Fisica cibernetica



Per approfondire, vedi Cibernetica.

 Questa branca della fisica (la fisica cibernetica), nata nella seconda metà del XX secolo, si è sviluppata a tal punto che è ora ricompresa all'interno di varie discipline tecnico-applicative quali l'automatica, la meccatronica e l'informatica (intelligenza artificiale).

Fisica medica



Per approfondire, vedi Fisica medica.

La fisica medica o fisica sanitaria è un'attività che riguarda, in generale, tutti i settori della fisica applicata alla medicina e alla radioprotezione. Più in particolare, le strutture di fisica sanitaria ospedaliere si occupano, in prevalenza, dell'impiego delle radiazioni ionizzanti e non ionizzanti (diagnostica per immagini, radioterapia, medicina nucleare, ...), ma anche di informatica, di modellistica, ecc.

Geofisica



Per approfondire, vedi Geofisica.

La geofisica (anche detta fisica terrestre) è in generale l'applicazione di misure e metodi fisici allo studio delle proprietà e fenomeni fisici tipici del pianeta Terra.

La geofisica è una scienza di tipo preminentemente sperimentale, che condivide il campo di applicazione sia con la fisica che con la geologia e comprende al suo interno diverse branche, quali ad esempio:

    •    meteorologia

    •    climatologia

    •    oceanografia

    •    geomagnetismo

    •    fisica dell'atmosfera

    •    sismologia

    •    fisica della terra fluida o geofluidodinamica.



La geofisica applicata studia la parte solida più superficiale della Terra e rivolge il suo campo di ricerche all'individuazione di strutture idonee per l'accumulo di idrocarburi, nonché alla risoluzione di problemi nel campo dell'ingegneria civile, ingegneria idraulica, ingegneria mineraria e per l'individuazione di fonti di energia geotermica. Le prospezioni geofisiche (prospezioni sismiche, elettriche, elettromagnetiche, radiometriche, gravimetriche) rappresentano alcuni metodi fisici utilizzati nel campo dell'esplorazione geologica.

Rapporti con le altre discipline

I principi fisici sono alla base di numerose discipline tecnico-scientifiche sia teoriche sia più vicine al campo applicativo (tecnica). Allo stesso tempo la fisica si avvale degli strumenti tecnici e matematici messi a disposizione da queste discipline per aiutarsi nel suo continuo processo di indagine scientifica dei fenomeni dell'universo.

Matematica



Per approfondire, vedi Modelli matematici in fisica.

Nel testo Il Saggiatore del 1623, Galileo Galilei afferma:

« La filosofia16 è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l'universo), ma non si può intendere se prima non s'impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, né quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro laberinto. »

(Galileo Galilei, Il Saggiatore)

In generale, gli elementi che caratterizzano il modello matematico di un sistema fisico sono due: lo spazio degli stati e la dinamica. Il primo è un insieme che contiene tutti i possibili stati in cui il sistema si può trovare, dove per stato si intende una collezione di grandezze fisiche che, se conosciute in un certo istante, sono sufficienti per predire come evolverà il sistema, cioè quali stati saranno occupati negli istanti futuri; ad esempio, per un sistema meccanico di n particelle libere di muoversi nello spazio, uno stato è un insieme di 6n numeri reali, 3n per le posizioni (3 coordinate per ogni particella), e i restanti 3n per le velocità (3 componenti per ogni particella). Lo spazio degli stati può essere molto complicato, sia geometricamente (ad esempio nella meccanica dei sistemi vincolati e nella teoria della relatività generale, dove in genere è una varietà differenziale, i.e. uno spazio "curvo") che analiticamente (ad esempio in meccanica quantistica, dove è uno spazio di Hilbert proiettivizzato, i.e. l'insieme delle rette passanti per l'origine in uno spazio di Hilbert). La dinamica, invece, è la legge che, dato uno stato iniziale, descrive l'evoluzione del sistema. Solitamente, è data in forma differenziale, cioè collega lo stato in un certo istante a quello in un istante successivo "infinitamente vicino" nel tempo.

Le più grandi rivoluzioni della fisica moderna (la teoria della relatività generale, la meccanica quantistica e la teoria quantistica dei campi) si possono ricondurre alla inadeguatezza degli spazi degli stati che si incontrano nella fisica classica a descrivere i nuovi fenomeni sperimentali riscontrati verso la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento (l'esperimento di Michelson-Morley e i vari esperimenti in cui si presentano fenomeni quantistici, tra cui, l'esperimento della doppia fenditura, il corpo nero, l'effetto fotoelettrico e l'effetto Compton).

Le maggiori aree della matematica che forniscono strumenti utili allo studio sia della forma dello spazio degli stati che della dinamica sono:

    •    topologia, topologia algebrica e differenziale: giocano un ruolo in quasi tutte le branche della fisica, dalla meccanica classica, alla teoria quantistica dei campi e le teorie delle stringhe;

    •    geometria differenziale: ha forti applicazioni nella modellazione dei sistemi meccanici classici, nella teoria della relatività generale e nelle moderne teorie delle stringhe;

    •    analisi funzionale: permette di formalizzare la meccanica quantistica, sta alla base dei tentativi di formalizzazione della teoria quantistica dei campi (assieme, recentemente, alla geometria non commutativa), ed è il principale mezzo di studio delle equazioni differenziali alle derivate parziali che si incontrano un po' ovunque in fisica (equazione di Hamilton-Jacobi, equazione di Poisson, equazione delle onde, equazione del calore e molte altre ancora);

    •    algebra: la teoria dei gruppi entra in gran parte della fisica (ogni volta che ci sono delle simmetrie nel sistema in studio), ma gioca un ruolo particolarmente rilevante nella meccanica quantistica. Il prodotto tensoriale degli spazi tangenti e dei loro duali sono usati per definire dei particolari fibrati vettoriali che svolgono un ruolo importante in geometria differenziale e quindi in tutte le branche della fisica ad essa legate. Ci sono poi le algebre di Clifford e la teoria dei spinori, usate nello studio degli operatori ellittici e di Dirac e quindi nella teoria quantistica dei campi e nelle teorie delle stringhe;

    •    teoria della misura, teoria della probabilità e teoria ergodica: nella meccanica statistica.

Statistica



Per approfondire, vedi statistica.

Regressione lineare.

Gli strumenti della statistica sono utilizzati durante la fase di rilevamento dei dati a partire dal modello fisico e nella fase successiva di trattamento dei dati.

Particolarmente utile nella prima fase di rilevamento dei dati è la metodica del campionamento statistico (in inglese sampling)17, che consiste nel selezionare una particolare serie di dati all'interno dell'intervallo di condizioni studiate.

Una volta ottenuti i dati, viene effettuata la cosiddetta analisi di regressione, che permette di ottenere dall'insieme di dati più o meno sparsi (in quanto affetti da errori di varia natura) una relazione matematica precisa. Nel caso più semplice in cui la relazione matematica tra i dati venga rappresentata da una retta, si parla di regressione lineare.

Molti concetti statistici sono poi presi a prestito dalla fisica statistica laddove non è possibile avere informazioni deterministiche sui sistemi o fenomeni a molti gradi di libertà e variabili.

Informatica



Per approfondire, vedi Informatica.

Simulazione della propagazione delle onde sonore in un ambiente marino.

I computer vengono utilizzati in più fasi del processo conoscitivo: durante la fase di osservazione possono essere utilizzati ad esempio per effettuare un campionamento delle misurazioni, ovvero il valore della grandezza da misurare viene letto ad intervalli determinati, in modo da avere più misure in un ristretto lasso di tempo. Il calcolatore può svolgere anche la funzione di strumento registratore: i dati relativi all'osservazione vengono ad essere archiviati per lo svolgimento di operazioni successive di valutazione e/o confronto con altri dati. L'intero sistema per la misurazione, il trattamento e la registrazione dei dati, costituito dal calcolatore e da strumentazioni specifiche ad esso interfacciate, viene denominato sistema di acquisizione dati (o DAQ).

Gli strumenti informatici possono quindi fungere da "strumento" durante le diverse fasi dell'esperienza, ma possono anche andare oltre, costituendo un vero e proprio sistema virtuale, che sostituisce e "imita" il sistema fisico reale; si parla in questo caso di simulazione del processo in esame. Il sistema simulato presenta il vantaggio rispetto al sistema reale di avere un controllo su tutti gli elementi di disturbo che influenzano il fenomeno studiato; d'altra parte è necessaria una precedente conoscenza del modello matematico associato al modello fisico per la creazione del modello simulato. La simulazione quindi affianca in primis l'osservazione diretta durante il processo conoscitivo, con lo scopo di convalidare il modello matematico ipotizzato, e una volta che la corrispondenza tra modello fisico e modello simulato è stata accertata, è possibile utilizzare la simulazione per effettuare delle stime in condizioni contemplate dal modello matematico, ma che sono differenti da quelle in cui è avvenuta la precedente osservazione diretta.

Chimica

La fisica è strettamente connessa alla chimica (la scienza delle molecole) con cui si è sviluppata di pari passo nel corso degli ultimi due secoli. La chimica prende molti concetti dalla fisica, soprattutto nei campi di termodinamica, elettromagnetismo, e meccanica quantistica. Tuttavia i fenomeni chimici sono talmente complessi e vari da costituire una branca del sapere distinta.

Nella chimica, come nella fisica, esiste il concetto di forza come "interazione tra i corpi". Nel caso della chimica "i corpi" hanno dimensioni dell'ordine dell'Angstrom, e sono appunto le molecole, gli atomi, gli ioni, i complessi attivati, e altre particelle di dimensioni ad essi confrontabili. Le forze di interazione tra questi corpi sono i legami chimici (legami intramolecolari) e altre forze di interazione più blande (ad esempio le forze di Van der Waals, il legame a idrogeno e le forze di London).

Ingegneria



Per approfondire, vedi Ingegneria.

 È probabilmente la disciplina che più di ogni altra si avvale dei principi della fisica per sviluppare teorie proprie dedicate all'ideazione, progettazione, realizzazione e gestione di sistemi utili alle esigenze dell'uomo e della società: nel campo dell'ingegneria edile e dell'ingegneria civile strutture edili ed opere civili (case, strade, ponti) sfruttano le conoscenze nel campo della statica e sulla resistenza meccanica dei materiali sottoposti a stress o sollecitazioni meccaniche e/o termiche; l'ingegneria meccanica e l'ingegneria motoristica sfruttano le conoscenze offerte dalla termodinamica per la progettazione e la realizzazione delle macchine termiche; l'ingegneria energetica sfrutta le conoscenze fisiche per la realizzazione di sistemi di produzione e distribuzione dell'energia (energia nucleare, energie rinnovabili, energia da combustibili fossili); l'ingegneria dell'informazione sfrutta i segnali e le onde elettromagnetiche emesse dalle sorgenti per il trasporto dell'informazione a distanza.

Economia



Per approfondire, vedi Econofisica.

L'approccio metodologico utilizzato nel campo della fisica è applicato dall'inizio degli anni novanta anche a problematiche di tipo economico nell'ambito della disciplina denominata econofisica come tentativo di superamento dell'approccio classico economico di tipo semi-quantitativo.

Ad esempio vengono studiate le fluttuazioni dei mercati finanziari e i crash del mercato azionario a partire da modelli normalmente utilizzati per studiare fenomeni di tipo fisico quali: modelli di percolazione, modelli derivati dalla geometria frattale, modelli di arresto cardiaco, criticalità auto-organizzata e previsione dei terremoti, tipicamente modelli per sistemi complessi e caotici ovvero non-lineari.

Filosofia

Prima dell'avvento del metodo scientifico, l'interpretazione dei fenomeni naturali era riservata alla filosofia, per cui per lungo tempo la fisica fu denominata "filosofia naturale".

Tra i primi tentativi di descrivere la materia in ambito filosofico, si ricorda Talete. Successivamente Democrito tentò di descrivere la materia attraverso i concetti di vuoto e atomo18.

Ad oggi la fisica mantiene stretti rapporti con la filosofia attraverso branche come l'epistemologia e la filosofia della scienza.

Contributi e sviluppi conoscitivi

 Come in ogni altra disciplina scientifica i contributi scientifici alla nascita ed allo sviluppo di teorie fisiche avvengono attraverso i ben noti e rigorosi processi di revisione paritaria.

Bibliografia

    •     Michelangelo Fazio, SI, MSKA, CGS & Co., dizionario e manuale delle unità di misura, Bologna, Zanichelli, 1995. ISBN 88-08-08962-2.

    •     Enrico Turchetti, Romana Fasi,  Elementi di Fisica, 1ª ed., Zanichelli, 1998. ISBN 88-08-09755-2.

    •    (EN) David Halliday, Robert Resnick, Jearl Walker,  Fundamentals of Physics, 9ª ed., John Wiley and Sons, 2010. ISBN 0-470-46911-0.

    •    (EN)  The Columbia Encyclopedia - "physics", New York, Columbia University Press, 2008.

Voci correlate



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Filosofia pratica

È Aristotele a definire per primo la filosofia pratica:

« È giusto anche chiamare la filosofia (philosophian) scienza della verità, poiché di quella teoretica è fine la verità, mentre di quella pratica è fine l'opera (ergon); se anche infatti i (filosofi) pratici indagano come stanno le cose, essi non considerano la causa per sé, ma in relazione a qualcosa ed ora.1 »

Storia della disciplina

 Prima dello Stagirita i sofisti assimilavano la pratica alla techné: la retorica era un sapere tecnico indirizzato alla pratica. Socrate stesso non distingueva la teoria come conoscenza intellettuale distinta dalla pratica quando sosteneva che la stessa conoscenza del bene fosse sufficiente a praticarlo.2

Così «Platone riconosce...alla politica una finalità pratica perché la considera una scienza non soltanto capace di pronunciare giudizi ma capace anche e soprattutto di comandare; ma questa è una divisione interna alla scienza conoscitiva non è un genere di scienza diverso. Ciò conferma la sua idea di una scienza insieme teoretica e pratica, la dialettica, appunto, che è anche politica.»3

Aristotele preferisce parlare più che di filosofia pratica di "scienza politica" (polithiké epistéme): egli infatti ritiene che le scienze sia pratiche che poietiche (ποιητική da ποίησις, l'azione produttiva) hanno lo scopo di realizzare un fine, identificato dalla saggezza, che si vuole raggiungere per un suo intrinseco valore o per servirsi di questo per conseguire un fine più alto: ad esempio il fine può essere accumulare denaro ma questo poi costringerà ad operare per conseguire altri fini. Il fine supremo, valido di per sé, sarà invece la felicità che si raggiungerà soddisfacendo la parte migliore ed essenziale dell'uomo: l'attività razionale. Ma se ha valore la felicità individuale tanto più varrà la felicità di tutti e per questo occorrerà esercitare la scienza politica, la suprema filosofia pratica4

Nella filosofia romana Cicerone, influenzato dagli stoici assimila la filosofia pratica alla saggezza come dimostra la sua traduzione di phronesis con prudentia, distinguendola dalla sapientia (sophia), la filosofia, «scienza delle cose umane e divine». La filosofia pratica dunque è «la scienza delle cose da perseguire e rifuggire sia nell'ambito domestico (scientia domestica) che nell'ambito politico (scientia civilis)»5

Dopo Aristotele la filosofia pratica, confusa nel periodo ellenistico con la saggezza, nell'ambito della scolastica, viene preferibilmente designata come etica: in particolare Gundisalvi (in latino Gundisallinus), sulle orme di Avicenna, nella sua opera De divisione philosophiae divide la filosofia in philosophia theorica e philosophia practica e quest'ultima in scientia civilis (ossia la politica), la scientia familiaris (o oeconomica), la scientia moralis (o ethica)6

Nel Rinascimento si torna alla concezione aristotelica della filosofia pratica ma rispetto alla tradizione medioevale precedente la si intende come uno strumento di rinnovamento religioso e politico. L'etica aristotelica servirà all'individuazione di quelle virtù politiche miranti alla costituzione di uno stato repubblicano e cristiano assieme. La contemplazione religiosa infatti con la consguente elevazione spirituale non è più riservata soltanto ai filosofi ma può appartenere anche al popolo cristiano.7

Nel '700 la filosofia pratica conosce le ulteriori definizioni di Giambattista Vico (1668–1744) e di Christian Wolff (1679–1754). Il filosofo napoletano  nel De nostri temporis studiorum ratione mette a confronto il metodo cartesiano, che sostiene che si possa accettare come vero solo ciò di cui si è assolutamente certi, restringendo quindi al vero sapere solo quello fondato sulla certezza matematica, con quello della speculazione antica greco-romana fondato sulla constatazione che nella realtà non si raggiunge la certezza dell'evidenza cartesiana e che quindi soccorre bene la filosofia pratica intesa nel senso della "prudenza civile", che non è una scienza ma una forma di saggezza.8

Con l'avvento del pensiero  kantiano, fondato sulla distinzione tra ragione teoretica e ragion pratica, si comincia a distinguere la pratica, riservata al mondo dell'azione, dall'etica o morale, che deve giudicare se quell'azione rientra in un agire moralmente valido.

Nell'Ottocento la nascita delle scienze dello spirito e la specializzazione del pensiero allontana le discipline pratiche dalla ricerca filosofica così che la distinzione kantiana si perde nell'idealismo attualistico di Giovanni Gentile, che identifica la teoria con la prassi e nega la stessa possibilità di una filosofia della pratica.

Dalla seconda metà del XXI secolo rinasce l'interesse per la filosofia pratica riabilitata e riproposta nell'ambito delle principali scuole filosofiche tedesche, su istanza di una rinnovata riflessione critica sui temi dell'agire e della razionalità politica

Negli anni Sessanta in Germania un gruppo di filosofi ha riproposto infatti la "riabilitazione" della filosofia pratica (uscì una voluminosa antologia: Rehabilitierung der praktischen Philosophie, Frieburg 1972-74).

Al di là delle differenze interne, il movimento della riabilitazione della filosofia pratica si caratterizza nella critica alla concezione moderna del sapere, ovvero all'identificazione della ragione con la ragione scientifica, alla riduzione della filosofia a pura analisi del linguaggio, alla supposizione che l'agire etico sia totalmente irrazionale.

Di contro i filosofi della riabilitazione sostengono che l'ambito della ragione sia molto più ampio di quello prettamente scientifico, che la filosofia non ha solo funzione di analisi ma anche di valutazione e elaborazione di norme, che l'agire etico e politico sia razionalmente argomentato tramite un "etica del discorso".9

La "Philosophische Praxis"

« Nei periodi ellenistico e imperiale, il concetto socratico del «prendersi cura di sé» divenne un tema filosofico comune, universale. La «cura di sé» fu accettata da Epicuro e dai suoi seguaci. dai cinici, dagli stoici come Seneca, Gaio Musonio Rufo, Galeno. i pitagorici si interessarono molto al concetto di una vita ordinata e comunitaria. La cura di sé non costituiva una raccomandazione astratta, ma una attività ampiamente diffusa, una rete di obblighi e servigi resi alla propria anima.10 »

Nel senso comune parlare di "filosofia pratica" ha sempre implicato una contraddizione in termini essendo la filosofia intesa come pura astrazione che non ha niente a che fare con le cose reali ed anche «per la mentalità odierna la filosofia non ha più nulla da dire perché il campo è ormai dominato dalla presenza sempre più invadente dell’arte, della politica, della religione e soprattutto della scienza...Si tratta di mettere in luce la verità insita nell'azione, cioè l'originarietà della pratica. Per rapportarsi alla verità la pratica non ha più alcun bisogno della mediazione della filosofia...»1112

Eppure la filosofia ai suoi inizi aveva assunto i caratteri della conduzione del "modo di vita", ad esempio nell'applicazione concreta dei principi desunti attraverso la riflessione.

Questa esigenza di concretezza si era poi persa nel prosieguo della dottrina sino a quando, con l'avvento dei  sofisti, la filosofia pretese di divenire l'insegnamento di un sapere tecnico indirizzato alla pratica.13 L'atteggiamento critico dei sofisti si rivolgeva nei confronti della speculazione filosofica a loro precedente e in particolare della filosofia socratica accusata di essere astratta e lontana dalle necessità reali dell'individuo, persa nelle "nuvole" di aristofanesca memoria.

Accusa ingiustificata questa nei confronti di Socrate che, invece, con il suo dialogare dimostrava come fosse impossibile per la filosofia arrivare a risposte definitive che servissero a risolvere questioni pratiche ma che essa si risolveva nel praticare quel confronto dialogico, quella "scienza del bene e del male", il dialeghestai, definito come to meghiston agathòn, il sommo bene.14

Nell'età ellenistica poi l'epicureismo presentava il filosofo come "medico dell'anima" per curarla dalle paure degli dei, della morte, del dolore restituendo così all'uomo la pace interiore.15

Sulla base di questi presupposti e in presenza della crisi della filosofia in genere e della filosofia pratica in particolare, Gerd Achenbach, riprendendo l'antica terminolgia, fonda a Bergisch Gladbach nel maggio del 1981 la Philosophische Praxis.

Achenbach decide cioè di intraprendere la strada della filosofia applicata spinto dall'insoddisfazione nei confronti della filosofia accademica, da lui accusata di essersi eccessivamente lontana dal mondo reale, chiudendosi in percorsi di studio ad uso e consumo dei soli filosofi. La filosofia in crisi ha preteso di trasformarsi in una scienza che non serve altri che sé stessa, una posizione assolutamente unica nel campo degli studi accademici.

Scrive in proposito Achenbach: «la filosofia non più o non ancora pratica sopravvive in un ghetto accademico, dove ha perduto il rapporto con qualsiasi problema che opprime realmente gli uomini. Questa alienazione, che produce sterilità nella filosofia e perdita di senso nella vita quotidiana, viene superata dalla Philosophische Praxis.»16  È presente anche una seconda ragione nella decisione di Achenbach di dar vita a questa nuova pratica professionale, l'insoddisfazione nei confronti delle professioni di aiuto, ancorate al paradigma strumentale o terapeutico.

Nasce così la cosiddetta consulenza filosofica un'attività nata in Germania come Philosophische Praxis e poi diffusasi con diverse caratteristiche in altre parti del mondo, prima come Philosophy Practice e poi come Philosophical counseling.

Nella sua forma originaria la nuova filosofia pratica non si configura come una professione di aiuto, ma come un dialogo filosofico che si avvia dalla narrazione delle difficoltà del consultante ma non ha di mira risposte risolutive, bensì la ricerca di diverse modalità di pensare il mondo secondo una linea che ricorda la funzione dell'antico dialogo socratico.

Si è discusso se la consulenza filosofica possa considerarsi una forma di quella filosofia pratica che voleva soddisfare l'esigenza che il pensiero potesse razionalizzare l'agire umano nel campo della morale e della politica.

Si è già detto come genericamente nella filosofia  questo bisogno di applicare concretamente i principi elaborati dal pensiero fosse presente sin dall'inizio: questa esigenza si è riaffermata oggi anche nel mondo accademico dove non si dubita più che una nuova espressione della filosofia pratica, ormai in crisi,17, possa essere rappresentata dalla «consulenza pedagogica e filosofica come risposta alla richiesta di cura che nasce da un diffuso disagio esistenziale non contrassegnato da specifiche patologie, ma dalle difficoltà ad affrontare situazioni per le quali si richiede un aiuto in termini di comprensione cognitiva e affettiva»18

Altri autori infine ritengono che la consulenza filosofica come pratica filosofica, in una accezione dilatata rispetto alle sue origini, sia l'erede della filosofia pratica.19

Bibliografia essenziale

    •     N. Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino 1971 (seconda edizione).

    •     F. Brezzi, Dizionario dei termini e dei concetti filosofici, Newton Compton, Roma 1995.

    •     Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario dei filosofi, Sansoni, Firenze 1976.

    •     Centro Studi Filosofici di Gallarate, Dizionario delle idee, Sansoni, Firenze 1976.

    •     E.P. Lamanna / F. Adorno, Dizionario dei termini filosofici, Le Monnier, Firenze (rist. 1982).

    •     L. Maiorca, Dizionario di filosofia, Loffredo, Napoli 1999.

    •     D.D. Runes, Dizionario di filosofia, 2 voll., Mondadori, Milano 1972.

    •     Enrico Berti, Filosofia pratica, Guida Editori, 2004

    •     Achenbach Gerd, La consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2004

    •     Galimberti Umberto, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Milano, Feltrinelli, 2005

    •     Raabe Peter, Teoria e pratica della consulenza filosofica, Milano, Apogeo, 2006

    •     Shlomit C. Schuster, La pratica filosofica. Una alternativa al counseling psicologico e alla psicoterapia, tr. it. a cura di F. Cirri, Apogeo, Milano 2006.

Collegamenti esterni

    •     Filosofia pratica in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Etica

 L'etica (dal greco antico εθος (o ήθος)1, èthos, "carattere", "comportamento", "costume", "consuetudine") è un ramo della filosofia che studia i fondamenti oggettivi e razionali che permettono di assegnare ai comportamenti umani uno status deontologico ovvero distinguerli in buoni, giusti, moralmente leciti, rispetto ai comportamenti ritenuti cattivi o moralmente inappropriati.

Descrizione

L'etica può anche essere definita come la ricerca di uno o più criteri che consentano all'individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto degli altri. Essa pretende inoltre una base razionale, quindi non emotiva, dell'atteggiamento assunto, non riducibile a slanci solidaristici o amorevoli di tipo irrazionale. In questo senso essa pone una cornice di riferimento, dei canoni e dei confini entro cui la libertà umana si può estendere ed esprimere. In questa accezione ristretta viene spesso considerata sinonimo di filosofia morale: in quest'ottica essa ha come oggetto i valori morali che determinano il comportamento dell'uomo.

Ma l'etica si occupa anche della determinazione di quello che può essere definito come il senso, talvolta indicato con il maiuscolo Il Senso dell'esistere umano, il significato profondo etico-esistenziale (eventuale) della vita del singolo e del cosmo che lo include. Anche per questo motivo è consuetudine differenziare i termini 'etica' e 'morale'. Un altro motivo è che, sebbene essi spesso siano usati come sinonimi, si preferisce l'uso del termine 'morale' per indicare l'assieme di valori, norme e costumi di un individuo o di un determinato gruppo umano. Si preferisce riservare la parola 'etica' per riferirsi all'intento razionale (cioè filosofico) di fondare la morale intesa come disciplina non soggettiva.

L'etica può essere descrittiva se descrive il comportamento umano, mentre è normativa (o prescrittiva) se fornisce indicazioni. In ogni caso l'indagine verte sul significato delle teorie etiche. Può essere anche soggettiva, quando si occupa del soggetto che agisce, indipendentemente da azioni od intenzioni, ed oggettiva, quando l'azione è relazionata ai valori comuni ed alle istituzioni.

Filosofia pratica e Metaetica analitica

 Per comprendere l'oggetto dell'etica è utile mettere a confronto due modelli teorici.

Metaetica analitica

Essa trova la sua prima esemplificazione nei Principia Ethica di Moore. Moore si propone di analizzare in modo rigoroso il linguaggio morale e di definire il significato dei concetti propriamente morali (quali buono, doveroso, obbligatorio etc.). Moore, quindi propone una distinzione fra vita morale e sapere e, di conseguenza, propone una distinzione fra vita morale ed etica. L'etica non costituisce alcuna forma di conoscenza, ma ha solo a che fare con emozioni, raccomandazioni e prescrizioni. La questione posta dalla metaetica relativa alla giustificazione dei princìpi morali, è necessaria per dipanare l'intreccio di motivi e di princìpi che sono alla base della stessa conflittualità morale. La metaetica vuole dunque operare una chiarificazione concettuale in modo tale da ridimensionare le pretese accampate da prospettive morali particolari. Essa delimita l'ambito dell'etica rispetto alle diverse espressioni dell'ethos.

Filosofia pratica

La filosofia pratica reagisce contro la pretesa neutralità rivendicata dalla metaetica analitica. Infatti, pur rinunciando ad una sua propria scientificità, non si può, secondo la filosofia pratica, pretendere dall'etica il medesimo rigore e la medesima precisione che si richiedono alla matematica. Le dimostrazioni della matematica sono sempre valide, quelle etiche lo sono per lo più. Quindi, l'etica non è una scienza fine a sé stessa, ma vuole orientare la prassi. In definitiva, la filosofia pratica concepisce il sapere pratico come strettamente agganciato all'esperienza.

Teorie teleologiche e deontologiche

 Il problema da cui nascono queste due opposte ramificazioni è insito nella domanda: "Come possiamo stabilire che cosa è moralmente giusto fare per un certo agente?"

    •     In base alla teoria teleologica un atto è "giusto" se e solo se esso (o la norma in cui esso rientra) produce, produrrà o probabilmente produrrà una prevalenza di bene sul male almeno pari a quella di qualsiasi altra alternativa accessibile. In altre parole, in questa teoria il fine dell'azione è posto in primo piano rispetto al dovere ed all'intenzione dell'agente.

    •     Secondo la teoria deontologica, invece, le modalità dell'azione sono l'azione stessa, ovvero nel valutare un'azione non si può prescindere dall'intenzione dell'agente. Ne deriva che il dovere e l'intenzione sono poste prima del fine dell'azione.

Le teorie deontologiche possono asserire che i giudizi basilari di obbligo sono tutti e solamente particolari e che i giudizi generali sono inutilizzabili o inutili o derivanti da giudizi particolari (in questo caso abbiamo una teoria deontologica dell'atto). Un'altra teoria deontologica (detta teoria deontologica della norma) sostiene invece che il codice del giusto e del torto consiste in una o più norme e, quindi, che le norme sono valide indipendentemente dal fatto che esse promuovano il bene. Tali norme sono basilari e non sono derivate per induzione da casi particolari.

Il Bene e il Giusto

 Riguardo alla questione se sia prioritario il bene o il giusto, vi sono diverse teorie:

    •     il liberalismo riconosce una certa autonomia del giusto rispetto al bene, per cui è doverosa quell'azione che è conforme ad una norma giusta e dobbiamo scegliere in base ai princìpi di giustizia. Tale teoria vede una sua nascita in Locke e in Kant e una ripresa, nel ventesimo secolo, in molti autori: da John Rawls a Robert Nozick.

    •     per il comunitarismo la giustizia non è una questione di regole e procedure, ma qualcosa che concerne il comportamento delle persone rispetto ai propri simili, la giustizia è una virtù della persona.

    •    Charles Taylor, invece, ritiene illusorio immaginare che il giusto possa prescindere dal riferimento al bene. Egli vede, dunque un primato del bene sul giusto, dove per bene non si intende l'utile, ma "tutto ciò che spicca sulle altre cose in virtù di una distinzione qualitativa". La moralità non concerne solo obblighi e regole pubbliche, ma concerne prima di tutto le distinzioni qualitative.

    •     l'Assiologia, ovvero lo studio del valore, ovvero della qualità. La teoria dei valori si occupa principalmente della natura del valore e della bontà in generale.

L'utilitarismo

 L'utilitarismo sostiene come criterio ultimo quello del principio di utilità, per cui il fine morale da ricercare in tutto quanto facciamo è la maggiore rimanenza possibile del bene sul male. In questo caso si parla, evidentemente, di bene e male non-morali. Ci sono tre tipi fondamentali di utilitarismo.

Utilitarismo dell'atto

 Il principio base rimane sempre quello della rimanenza del bene sul male, ma diviene fondamentale sottolineare il particolarismo, ossia che la domanda da porsi è cosa io debba fare in questa determinata situazione e non cosa tutti dovrebbero fare in certi tipi di situazioni. Quindi anche la rimanenza che si ricerca è riferita immediatamente al soggetto singolo e non è una rimanenza di bene generale.

Utilitarismo generale

 Questo si basa su due caratteristiche fondamentali:

    •     il principio base dell'utilitarismo

    •     il principio dell'universalizzabilità.



Quindi nell'agire, ciascuno si deve chiedere cosa accadrebbe se tutti agissero così in tali casi. L'idea sottostante l'utilitarismo generale è relativa al fatto che, se è giusto che una persona in una certa situazione faccia una certa cosa, allora è giusto che quell'azione sia fatta da qualsiasi altra persona in situazioni simili.

Utilitarismo della norma (filosofia)norma

 Esso pone in evidenza la centralità delle norme ed asserisce che generalmente, se non sempre, dobbiamo stabilire che cosa fare nelle situazioni particolari, appellandoci alle norme. Si differenzia dal deontologismo perché aggiunge a questo il fatto che dobbiamo sempre determinare le nostre norme domandandoci quale norma promuoverà il maggior bene generale per tutti. Quindi tutta la questione, nell'utilitarismo della norma, ruota intorno alla domanda: quale norma è più utile per il maggior numero di persone?

Etica laica ed etica religiosa



Per approfondire, vedi Etica ebraica.

 Alla base di ciascuna concezione dell'etica sta la nozione del bene e del male, della virtù ed una determinata visione dell'uomo e dei rapporti umani. Tali idee sono spesso correlate ad una particolare religione, o comunque ad una ideologia.

L'etica a base religiosa infatti, fissa norme di comportamento che pretende valide per tutti, mentre l'etica laica non mira ad imporre valori eterni e si dimostra solitamente attenta alle esigenze umane che tengano conto delle condizioni e delle trasformazioni storiche. In realtà parlare di una etica laica presuppone già il confronto con l'etica religiosa, ovvero con un sistema di valori dogmaticamente e universalmente individuati; in realtà è più opportuno parlare di un approccio laico al problema etico, definendo questo approccio come scevro da riferimenti a una ideologia predeterminata e più portato a misurarsi con le problematiche dell'individuo e del concreto contesto storico in cui esso si esprime.

Etica cristiana

Il fondamento dell'etica cristiana è l'esercizio dell'amore verso il prossimo, mediante il quale si esprime l'amore verso il Creatore. Per il cristiano, il problema morale coinvolge quelli della salvezza dell'anima e del libero arbitrio. Etica della verità ed etica della carità, laddove per carità intendiamo l'amore di Cristo, ovvero non quello cosiddetto naturale, ma quello che acquisisce la persona che si impegna a diventare santa, mentre per verità si intende un insieme di proposizioni dottrinali che si esprime in codici di credenze e comportamenti astratti.

La carità è vissuta, agisce dall'interno delle coscienze e considera ogni essere umano come individuo irriducibile ed inconfondibile (persona), non sopporta regole generali, si incarna negli esseri umani, rifugge dalle condanne, perdona e riconcilia. La verità conosciuta, agisce dall'esterno, considera ogni essere come individuo riconducibile e assimilabile ad altri, classi categorie, produce regole generali, formula precetti e commina sanzioni, separa i buoni dai reprobi.

Per etica cristiana si intende la vita nuova in Cristo che viene partecipata al discepolo che ha ricevuto il Battesimo (si confronti la dottrina di Paolo apostolo nel Nuovo Testamento) Attraverso il Battesimo, il Cristo rende partecipe il credente del suo stesso amore. In ragione di questo evento, il credente non appartiene più a sé stesso ma al Cristo che è morto per lui e riceve in dono il comandamento di amare come ha amato Gesù il Cristo.

    •    Lo Spirito Santo, che abita nel cuore del credente, è il principio di tutta la vita in Cristo, perché è Colui che interiorizza la verità dell'Amore di Cristo.

I fondamenti dell'etica cristiana per tutte le chiese sono dati dall'etica neotestamentaria (che discende dagli insegnamenti di Gesù il Cristo). Per l'etica cattolica dobbiamo poi aggiungere il pensiero espresso nella Tradizione e nel Magistero della Chiesa lungo i secoli, oggi racchiuso, attualizzato e sviluppato nei più recenti documenti come quelli del Concilio Vaticano II (Gaudium et Spes, ...), nelle varie encicliche dei papi del Novecento e soprattutto di Papa Giovanni Paolo II (tra cui Fides et Ratio e Veritatis Splendor), e nell'approfondimento dei teologi che indagano le verità cristiane e le verità morali. In maniera simile anche nelle altre chiese l'etica ha ricevuto supporti successivi (e ancor oggi li riceve): basti pensare all'attenzione riservata ai Padri orientali da parte dell'ortodossia, ai sinodi delle chiese protestanti e ortodosse, alle prese di posizione ufficiali delle varie Chiese nella loro conciliarità, ...

L'etica cristiana non considera se stessa un'imposizione al "mondo". A fondamento dell'etica cristiana sta l'"avvenimento" Cristo e il suo mistero pasquale; all'origine di tutto ciò che il cristiano deve fare, sta il suo essere collocato dentro l'avvenimento del mistero pasquale di Cristo. Per cui l'etica cristiana è una

    •     etica cristocentrica: ha al centro l'"avvenimento" Cristo, mistericamente presente e partecipato;

    •     etica della grazia: perché il dono di Dio precede e rende possibile ciò che il cristiano è chiamato a portare avanti nel comandamento dell'amore;

    •     etica della fede: solo nella fede essa trova il suo significato.

Questa etica, così particolare e specifica, vuole essere in dialogo con ogni altra etica, perché ha il compito di servire e liberare l'uomo dall'egoismo. Essa si "ritrova" in tutto ciò che di buono e di degno va a fondare l'azione degli uomini, perché riconosce fermamente che lo Spirito agisce anche al di fuori del popolo dei battezzati. Certamente questa etica difende la sua identità, perché fondata sulla parola di un Cristo, ritenuto nella fede di tutte le chiese cristiane il Figlio di Dio. Essa non può essere cambiata secondo il "sentire" delle epoche o il fluttuare delle mode e dei modelli di comportamento, alcune volte creati ad hoc da strumenti di potere che controllano l'economia, la cultura o altro, perché avrà sempre il suo diretto riferimento alla parola del creatore.

Valore morale e responsabilità

 Quando si parla di buono o cattivo, possiamo farlo in termini morali o non-morali. Possiamo infatti parlare di una buona vita o di una vita buona e solo nel secondo caso intendiamo dare un giudizio morale sulla condotta della vita, mentre nel primo la felicità della persona, può non dipendere dalla persona stessa. Nel corso della sua storia, la moralità si è occupata di coltivare certe disposizioni dell'uomo, tra cui figurano certamente il carattere e la virtù:

    •     le virtù sono disposizioni, o tratti, non interamente innate. Esse devono essere acquisite, almeno in parte, attraverso l'insegnamento e la pratica continua di tali insegnamenti. Di fatto la moralità dovrebbe essere concepita primariamente come acquisizione e coltivazione di tali tratti, ossia il fare delle virtù un vero e proprio habitus.



Il concetto di responsabilità si esercita nell'ambito dei rapporti interpersonali, infatti deriva dal latino spondeo “prometto, do la mia parola”, ed è evidente il collegamento con la parola “risposta”, come in tedesco (Verantwortung) e Antwort (risposta) che implica gli altri. Questo termine ha trovato una prima utilizzazione in ambito giuridico e politico con G.W.F. Hegel (1770 – 1831) in “Lineamenti della filosofia del diritto” in cui parla della responsabilità in riferimento al problema del male che viene compiuto, al tema della pena e soprattutto alla questione della possibile riparazione del danno che si è prodotto, che rinvia al futuro.

Max Weber (1864 – 1920) in una conferenza nel 1919 afferma che l'etica della responsabilità consiste nel fatto che poiché il futuro si prospetta nella sua incertezza l'uomo politico deve rispondere delle conseguenze (prevedibili) delle proprie azioni che hanno un peso sulla vita dei propri simili, attraverso lo scontro politico. Distingue l'etica della responsabilità dall'etica della convinzione e della intenzione. Critica il pacifismo e l'uso di mezzi immorali partendo da principi puri. Richiede lo sviluppo dell'argomento ad consequentiam: la valutazione di un atto o di un evento dipende dalle conseguenze attese, conseguenze che sono ritenute altamente probabili sulla scorta dell'esperienza fatta.

Sul finire del XX secolo Karl-Otto Apel estende l'etica di Weber come modalità propria di tutti gli uomini, con la sua etica discorsiva che è una trasformazione dell'universalistica etica deontologica di Kant. Secondo Apel l'a priori da cui Kant faceva dipendere la possibilità della conoscenza e dell'universalità della scienza (per cui la ragione singola dell'individuo si chiede se il suo principio pratico può essere universalizzato) non è una struttura profonda della ragione, ma è il linguaggio, che a propria volta è retto da un a priori secondo cui tutti rispondono idealmente all'osservanza delle 4 pretese di validità di una comunicazione. Quindi l'etica discorsiva riflette su ciò che assieme, vogliamo riconoscere nell'argomentazione come moralmente obbligante, volgendosi alla macroetica planetaria.

Secondo Emmanuel Lévinas si deve parlare di etica come responsabilità, perché non vi è alcun senso etico al di fuori della responsabilità verso altri. Hans Jonas (1903-1993) è tra gli autori contemporanei che hanno contribuito alla riflessione morale sul concetto di responsabilità nell'era tecnologica. Per Jonas il principio della responsabilità e la sua prassi acquistano una dimensione nuova considerando la minaccia incombente del progresso tecnologico nei confronti dell'uomo e della natura. Il superamento del dualismo e del nichilismo moderno si fa dunque tramite questa nuova guida dell'agire umano nella riscoperta di quegli scopi e valori intrinseci alla natura, ma messi a tacere dal trionfo della ragione strumentale.

L'etica della virtù

 Un'etica della virtù si basa evidentemente sul concetto di virtù. Con questo termine si intende una disposizione, un habitus, una qualità o un tratto del carattere che un individuo ha o cerca di avere. Questa etica non assume i princìpi deontici come base della moralità, ma considera basilari i giudizi areteici. I princìpi deontici derivano da quelli areteici e se non derivano da questi, sono superflui. Un'etica della virtù considera i giudizi areteici sulle azioni come giudizi secondari e basati sui giudizi areteici sulle persone e sui loro motivi o tratti del carattere. Quindi per l'etica della virtù la moralità non ha a che fare con l'obbligatorietà dell'azione. Per essere morali bisogna essere un certo tipo di persona, non semplicemente agire in un certo modo. Si guarda, dunque, primariamente alla persona ed al suo essere piuttosto che all'azione che essa compie.

Le disposizioni del carattere che sono virtù morali, secondo questa etica, sono:

    •    egoismo del tratto: le virtù sono quelle disposizioni che maggiormente contribuiscono al bene o al benessere personale; (la virtù cardinale è qui il bene personale)

    •     utilitarismo del tratto: le virtù sono quei tratti di carattere che maggiormente promuovono il bene generale (la virtù cardinale è qui la benevolenza).



Responsabilità morale

 Con questo termine generalmente si vuole attribuire un'azione ad un agente. Possiamo operare tale attribuzione in tre modi fondamentali:

    •     dicendo che una persona è responsabile

    •     dicendo che una persona X è responsabile di un'azione Y

    •     dicendo che una persona X è responsabile di un'azione Y, intendendo con Y qualcosa ancora da farsi, intendendo quindi che la persona X ha la responsabilità di fare Y.

Il problema è: "a quali condizioni è corretto giudicare o dire che X è responsabile di Y?" Ci sono convenzionalmente due condizioni necessarie tramite le quali possiamo definire X responsabile:

    •     che X sia abile a compiere Y

    •     che X faccia Y.

Ora, il problema è: queste condizioni sono necessarie. Ma sono anche sufficienti? Aristotele riteneva che un soggetto è responsabile nel momento in cui

    •     la causa dell'atto è interna al soggetto, cioè se il soggetto non è costretto ad agire da qualcuno o qualcosa di esterno

    •     l'atto non è risultato dall'ignoranza, cioè se il soggetto è anche cosciente dell'azione che compie.

Da queste problematiche nascono anche le teorie del determinismo etico e quella dell'indeterminismo etico.

Filosofia della scienza; etica applicata alla scienza (bioetica, ecosofia)

 Premesso il richiamarsi agli studi e dibattiti di Filosofia della scienza, l'etica applicata fa la comparsa all'inizio degli anni Settanta con l'intento di promuovere una riflessione etica non di tipo generale o fondamentale, ma strettamente agganciata alle problematiche particolari, per tenere testa allo sviluppo tecnologico e scientifico, sforzandosi d'integrare la propria competenza con l'acquisizione di nozioni e dati che provengono dalle scienze naturali, biologiche, sociali ecc. “Lo studio sistematico del comportamento umano nel campo delle scienze della vita e della salute, in quanto questo comportamento è esaminato alla luce di valori e principi morali”.

Arne Naess (1912-2009) filosofo Norvegese. Opere: il movimento ecologico: ecologia superficiale ed ecologia profonda. Si contrappone all'antropocentrismo (rifiuto dell'immagine dell'uomo nell'ambiente) con il biocentrismo (immagine relazionale) in “ linea di principio” perché non tutto è evitabile, ed è “inevitabile una certa quantità di uccisioni, sfruttamento e soppressione”. Il mancato riconoscimento dell'egualitarismo e dell'interdipendenza tra le specie viventi compromette la qualità della propria vita perché la isola dalle altre (crisi ambientale), quando invece c'è bisogno di identificarsi in profondità con gli altri esseri (Spinoza). L'ambiente è una rete che collega una molteplicità di nodi, e la qualità della vita di un singolo nodo dipende dalla relazione instaurata con gli altri nodi. Teorico dell'ecologia profonda (deep ecology) che contrappone nel 1973 all'ecologia superficiale, è stato il primo a utilizzare il termine ecosofia (oikos=casa-terra). Revisiona il secondo imperativo categorico di Kant: “non usare mai un'altra persona solo come mezzo”, con “non usare mai un essere vivente solo come mezzo” perché hanno tutti un valore intrinseco.

Hans Jonas (1903 – 1993) filosofo tedesco di origine ebraica. opere: il principio responsabilità. Un'etica per la civiltà tecnologica. (1979) - tecnica, medicina ed etica (1985). Il bene è l'essere, e congiungendo ciò che Aristotele nell'etica nicomachea separava, l'agire (praxis) e il produrre, promuove le condizioni per la sopravvivenza del genere umano e dell'ecosistema vedendo un fine per l'agire della natura umana la quale, avendo delle capacità specifiche in più, come quella di distruzione con la produzione di armi atomiche, deve attuare il principio di responsabilità, prendendosi cura della natura e del futuro del pianeta terra. La reciprocità consiste che al dovere dell'uno corrisponde il diritto dell'altro e viceversa. In questo caso il diritto delle generazioni future. La sua riflessione è un'etica fondata sulla metafisica, perché nega la fallacia naturalistica secondo la quale l'etica non può derivare dall'ontologia, il dover essere dall'essere, da una descrizione avalutativa dell'essere non si può derivare una prescrizione valutativa per l'essere.

Il termine bioetica, coniato nel 1970 dal cancerologo statunitense Van Rensselaer Potter, indica un'etica non incentrata sugli esseri umani e le loro azioni reciproche, quanto piuttosto sull'assunzione di responsabilità dell'uomo per il sistema complessivo della vita. Con lo stesso termine, in seguito, si venne a delineare lo studio della condotta umana nell'area delle scienze della vita e della cura della salute, esaminata alla luce di valori e princìpi morali. La bioetica si sviluppa negli anni settanta fra il Kennedy Institute of Ethics (a Washington) e l'Hastings Center (a New York), in cui nasce la più importante rivista di bioetica "The Hastings Center Report". La bioetica nasce perché lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie biomediche hanno posto problemi che travalicano l'ambito del sapere scientifico per investire quello della responsabilità morale e della regolamentazione giuridica. Possiamo elencare alcune importanti novità che effettivamente hanno portato alla nascita della bioetica:

    •     la scoperta della struttura a doppia elica del DNA (1952)

    •     la conseguente ingegneria genetica

    •     la preparazione della pillola di Pincus per la contraccezione ormonale (1953)

    •     lo sviluppo del trapianto d'organo (1967)

    •     il sostegno artificiale delle funzioni vitali (1968 - 1970)

    •     il concepimento in vitro (1978)

    •     la clonazione (1997).



Queste sono le questioni che hanno dato luce alla bioetica e che fondamentalmente la tengono in vita, dando origine a due posizioni:

    •     la bioetica può assumere la figura di una riaffermazione di alcuni valori centrali già presenti nell'etica tradizionale di derivazione ippocratica (dignità della vita umana individuale e sua inviolabilità) e quindi può porre un argine allo sviluppo indiscriminato delle tecnologie;

    •     può diventare il luogo di una nuova etica per molti aspetti rivoluzionaria sic et simpliciter.



Engelhardt (New Orleans 1941) filosofo e bioetico statunitense è propugnatore di una bioetica laica. Solo una persona gode di uno status morale poiché possiede quattro caratteristiche:  

      1.       l'autocoscienza,

      2.       la razionalità,

      3.       un senso morale minimo,

      4.       la libertà.



Il nucleo centrale della sua riflessione è costituito dalla difesa della diversità morale nella società pluralistica contemporanea, abitata da individui che non appartenendo alla stessa comunità etica compiono scelte morali differenti e contrastanti. Le controversie possono essere risolte con l'accordo. Egli introduce il principio del permesso e subordinato il principio di beneficenza, che consiste nel fare agli altri il loro bene. Senza un impegno per la beneficenza, l'impresa morale sarebbe priva di senso. Il contenuto dei doveri di beneficenza può derivare anche da accordi espliciti.

L'etica dei media e della comunicazione

 Dagli anni Ottanta, con la crescita di importanza dell'impatto sociale delle Tecnologie dell'Informazione e della Comunicazione, ed in particolare di Internet, è maturata una riflessione sugli aspetti etici dell'uso dei mezzi di informazione e comunicazione. Questa disciplina, chiamata appunto etica dei media ha poi dato luogo ad altri sottosettori disciplinari come la webetica.

Neuroetica

 Negli ultimi anni, inoltre, con lo sviluppo delle neuroscienze, si è sviluppata una disciplina conoscitiva che si occupa dello studio neuroscientifico delle questioni proprie dell'etica, la neuroetica.2

Etica dell'ambiente, ecosofia ed ecoteologia



Per approfondire, vedi Etica ambientale.

 La riflessione dell'etica dell'ambiente riguarda la qualità ontologica della relazione con la natura. L'esigenza dell'etica dell'ambiente è sorta quando il quadro generale delle condizioni del pianeta ha registrato un netto deterioramento delle risorse disponibili rinnovabili e non. L'uomo, soprattutto a partire dal Novecento, ha fatto in modo che la vita della natura fosse sotto il suo controllo diretto, sconvolgendo quella che da sempre era stata la visione della natura. La natura è così divenuta un "ente disponibile", manipolabile e controllabile.

Ne deriva che l'uomo è passato da una concezione qualitativa ad una percezione tendenzialmente quantitativa, da una percezione naturale ad una tecnologica, dall'idea del prodotto di Dio, all'idea del prodotto dell'uomo, all'artificio.  Appurato che l'ambiente appartiene alla sfera dell'etica, in quanto partecipante della trascendentalità umana, restano basi portanti per la dimostrazione che c'è un rapporto fondamentale tra ambiente e uomo (mezzo attraverso cui si conferma ancora l'ingresso di diritto dell'ambiente nel mondo dell'etica) le sequenzialità che:

    •     si considera etica tutto ciò che nella prassi umana importa l'idea di fine e mai di mezzo.

    •     poiché trascendentalità ed eticità formano un circolo, come sostiene anche Carmelo Vigna un essere umano, che non è solo trascendentalità, ma anche empireia, non apparterrebbe al mondo dell'etica se il rapporto tra il suo lato trascendentale e quello empirico non implicasse una certa necessità.

    •     se possiamo indicare un'inevitabile relazione tra l'uomo e la natura, guardando al lato della corporeità, allora, in certo modo, anche la natura entra nel cerchio dell'eticità, perché proprio per il nesso con la corporeità, entra nella trascendentalità.



L'etica dell'ambiente pone come basi di tutta la sua logica tre concetti:

    •     rispetto, che si ha per tutto quello che deve essere lasciato essere, cioè per tutto quello che reca in sé il sigillo della trascendentalità. In questo senso è sempre fine e mai mezzo.

    •     cura responsabile, che si ha per qualcosa che dipende in qualche modo da noi o qualcosa che ci appartiene o ci è affidato.

    •     amore per la natura, il rispetto e la cura responsabile da soli, infatti, non sono sufficienti. L'etica è sempre una dottrina dell'amore per l'altro oggetto.

    •     riconoscimenti del valore non strumentale (in alcuni casi anche intrinseco) della natura nel suo complesso o nei suoi singoli enti (organici e inorganici).3



Etica ed Economia

 La separazione fra economia ed etica consiste nel fatto che l'economia generalmente non discute dei fini, ma dei mezzi per realizzare i fini. La normatività dell'economia consiste nel fatto che essa deve cercare di ottenere i suoi fini col minor costo possibile (cioè esiste indubbiamente una ricerca di efficienza). Di fatto l'efficienza ha delle implicazioni in termini di etica delle istituzioni e dei comportamenti. Il punto di partenza dell'analisi economica è l'individuo considerato come essere razionale e di massimizzare tali preferenze. Ora, le preferenze fanno certamente riferimento al miglioramento nella disponibilità di beni e di servizi. In questo modo l'efficienza non viene giudicata in base ai criteri della giustizia distributiva. Esiste un dibattito a proposito dell'etica e del mercato economico. Infatti sotto il profilo del rapporto tra mezzi e fini, il mercato si presenta come un mezzo e l'etica che ne deriva è un'etica dei mezzi. Da ricordare come le sperimentazioni, oggi, generalmente, necessitano di ingenti risorse finanziarie.

John Locke attribuiva al mercato un valore morale in nome di una teoria della legge naturale. In economia il fine assegnato al mercato è l'efficienza nella produzione e nello scambio di beni privati tra individui le cui preferenze sono basate sull'interesse proprio. Qualsiasi intervento pubblico, secondo tale visione, che ostacolasse il libero svolgere degli scambi dei diritti privati di proprietà, entrerebbe in conflitto con la stessa legge naturale. Completamente opposta a tale visione, quella che vuole l'operare di istituzioni di controllo del mercato (controllo tra le imprese, tra le imprese e i consumatori, tra le imprese e i lavoratori) e che altrettanto chiama a gran voce lo sviluppo di codici etici, senza i quali gli stessi risultati di efficienza sono destinati a essere messi in crisi.

Etica del lavoro

 Negli ultimi due secoli il concetto di lavoro è venuto a scontrarsi con quello di etica dando origine a due posizioni davvero interessanti:

    •    critica all'alienazione nel lavoro; si tratta della speculazione derivante dal filone marxista e neomarxista. Segue la logica di svuotamento del lavoro e di alienazione rese idee concrete da Marx, secondo cui il lavoratore viene ad essere uno strumento dello strumento.

    •    critica dell'alienazione da lavoro; questa denuncia la connotazione alienata di un lavoro non misurato nella sua giusta dimensione e portato a schiacciare l'umano, e con esso l'ambiente naturale. Ne deriva che l'imperativo sia quello di avere una comprensione del lavoro come momento parziale dell'umano. Infatti l'alienazione da lavoro non può essere superata se non guardando e proiettandosi in ciò che è altro-dal-lavoro, operando cioè, come sostiene Francesco Totaro, una "ricalibratura della prassi4" rispetto al lavoro e alla persona.

Il modello ideale del lavoro deve soddisfare ad una triplice relazione:  

    •     con il proprio mondo

    •     con il mondo degli oggetti prodotti

    •     con il mondo degli altri soggetti.

Il lavoro, secondo le correnti di etica del lavoro, è autentico (in senso heideggeriano) solo se offre al soggetto la motivazione per esprimere la propria personalità in ciò che fa lavorando.

Cenni storici

 La storia dell'etica è costituita dalla successione delle riflessioni sull'uomo e sul suo agire. I filosofi hanno da sempre riservato un notevole spazio ai problemi etici. Tra essi si ricordano in particolare Socrate, Platone, Aristotele, Niccolò Machiavelli, Ugo Grozio, Jean-Jacques Rousseau, Kant, Max Scheler. Furono interessati al tema anche Giambattista Vico, Johann Gottfried Herder, Friedrich Schiller, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Ralph Waldo Emerson, Arthur Schopenhauer, Friedrich Nietzsche, Sigmund Freud.

La riflessione occidentale sull'etica nasce con Socrate, Platone ed Aristotele, viene poi approfondita dalla Scolastica, ma si afferma in modo deciso soprattutto con l'illuminismo e in particolare con Immanuel Kant, che tenta di definire i presupposti razionali dell'agire morale dell'uomo, richiamandosi alla necessità di un'etica del tutto svincolata da ogni finalità esteriore e impostata su un rigoroso senso del dovere e del rispetto della libertà altrui.

Per quanto riguarda le culture extraeuropee, grande rilevanza ha il pensiero filosofico cinese. I filosofi cinesi hanno sempre dato una grande importanza all'etica, trattando di essa con maggior interesse e profondità rispetto ad altri argomenti filosofici. I più importanti filosofi cinesi che si sono interessati di etica sono Confucio, sicuramente il più importante, Mencio, Laozi, Mozi. Poiché nelle culture orientali la distinzione tra filosofia e religione spesso non è chiara e netta, molto importanti per il pensiero etico sono stati anche il Taoismo e il Buddhismo.

Senofane e Solone

Senofane, Solone e i poeti della comunità, misero in rilievo come il valore del virtuoso si delinei attraverso l'arte del buon governo. La virtù diviene capacità di esprimere e seguire le leggi. La civiltà ateniese è la patria, dunque, della virtù e dei virtuosi, dal momento che spiccava per la sua stabilità. Atene era basata su buone leggi fatte da persone che si potevano affiancare per virtù ai guerrieri omerici.

Pitagora ed Empedocle

 L'etica, secondo Pitagora, è dotata di una forte valenza conoscitiva: virtuoso è colui che possiede la sapienza, in particolare il matematico. In Pitagora sono inoltre presenti elementi della tradizione orfica esoterica.

Empedocle fornisce una testimonianza di quanto sia la dottrina orfico-pitagorica sia incentrata sull'etica, parlando di una pena dolorosa che l'anima deve scontare per una colpa (amartema) dovuta a uccisione o spergiuro (si pensi al mito di Prometeo). La caduta nel corpo mortale è dunque una punizione conseguente alla colpa, ma è anche l'unico mezzo di riscatto per arrivare alla salvezza. È solo mediante l'esercizio ascetico, infatti, praticato durante la vita corporea, che l'anima può purificarsi, scontare la sua colpa, uscire dal ciclo delle reincarnazioni e tornare presso il divino da cui proviene.

I sofisti

 I sofisti svolgono un ruolo importante. Essi distinguono fra virtù arcaiche e virtù del cittadino. Il compito del cittadino è, nella loro visione, quello di porsi come mediatore fra i cittadini comuni e la legge (ognuno deve essere giudice di sé e degli altri). I sofisti sono dunque i primi educatori civili, perché sono i primi a sostenere che le virtù sono molteplici e insegnabili. I sofisti sono dei relativisti morali, ossia ritengono che le leggi siano relative all'uomo che le emana; essi pertanto le contestualizzano, privandole dell'aura di Assoluto e di Universalità di cui fino ad ora esse godevano. Le leggi, e quindi la morale, sono convenzioni che dobbiamo creare per il buon vivere civile.

Socrate e Platone

Socrate (469-399 a.C.) è considerato il padre fondatore dell'etica: la sua riflessione è antropologica (da ànthropos, "uomo") ed etica (da èthos, "comportamento"), quindi incentrata sul comportamento dell'uomo. Non ha lasciato nessuno scritto, la conoscenza della sua teoria etica è resa possibile solo attraverso i dialoghi di Platone. L'interrogazione sul tò agathòn ("Bene") avviene ricercando la sophia ("sapienza") attraverso criteri razionali basati su una concezione universale della morale, in antitesi alla sofistica. La sua etike theoria ("teoria etica") consiste nell'intellettualismo etico, secondo cui il bene si realizza praticando la virtù del sapere: per fare il bene occorre conoscerlo. La ricerca del bene finalizzato alla verità si attua nel dialogos (l'argomentare della conversazione) che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (confutazione), applicandolo prevalentemente all'esame in comune (extazein) di concetti morali fondamentali, tendendo alla verità su sé stessi (dàimon) per perseguire sia il bene privato, sia quello della polis (città).

Ciò è possibile sviluppando in sé l'areté (virtù o disposizione) che consiste nella sapienza, ovvero nella scienza del bene e in un legame di solidarietà e giustizia tra gli uomini. Socrate vuole combattere sia il relativismo etico dei sofisti, sia l'atteggiamento dei cosiddetti eristi, dediti al discorso basato sulla pura convenzionalità del linguaggio senza alcuna preoccupazione per il suo contenuto di verità. Per realizzare il suo scopo Socrate ritorna in un certo senso alla tradizione, al fine di estrapolare da essa gli elementi che rendono l'uomo migliore, recuperando la concezione di ordine morale inteso come riflesso dell'ordine del cosmo. Socrate tenta di stabilire la natura stessa della virtù, si pone il problema della definibilità della virtù e giunge alla determinazione concettuale della definizione attraverso il τι εστι (la domanda "che cosa è?"). Non si preoccupa di stabilire quali sono i casi particolari in cui si esprime la giustizia, ma è interessato alla giustizia in sé, a partire da un'ottica universale. L'argomentazione di Socrate si basava sulla famosa maieutica socratica, rivolta all'interpretazione della natura umana, ma a differenza dei sofisti per Socrate l'etica non è insegnabile: il filosofo può solo aiutare gli allievi a partorirla da soli.

La riflessione di Platone (427-347 a.C.), pur essendo anche metafisica e ontologica, è analogamente incentrata sull'uomo e sull'etica. Le principali opere che vertono sull'etica sono: Apologia di Socrate, Repubblica, Gorgia, Filebo. Per Platone il tò agathòn (bene o buono) consiste nell'idea (eidos) del Bene, origine di tutto, che è la conoscenza massima, situata al di sopra della conoscenza discorsiva o razionale (diànoia): come in Socrate, pertanto, essa non può essere insegnata o trasmessa verbalmente, non essendo sottoponibile a una discussione pubblica intorno alla sua essenza; soltanto il sapiente potrà riconoscere l'indefinibilità assoluta del bene, possedendo la scienza di ciò che è utile per la comunità intera.

Se non è possibile dire cosa è il bene, si può almeno dire cosa non è: esso è diverso dal piacere5 come grattarsi una ferita che prude; è diverso dal bello6 perché non è automaticamente utilità o vantaggio. Per giungere a conoscere l'idea del Buono occorre fare uso del dialogos socratico, al fine di purificare il sapere tipico della dianoia (ragione) e del nous (intelligenza), elevandosi al di sopra della doxa (opinione) per giungere infine all'episteme (scienza), passando attraverso i quattro gradi del conoscere:

      1.       Immagini sensibili (eikasia);

      2.       Credenza (pistis);

      3.       Ragione discorsiva (dianoia);

      4.       Intellezione (nous o noesis).

Si arriva così alla fine a conoscere la relazione tra tutte le idee (dialettica) fino all'idea suprema di Bene, Una e universale, "al di là dell'essere" (epekeina tes ousias), cercata per sé stessa poiché compiuta (teleon).

Rifacendosi alle concezioni orfico-pitagoriche, Platone gioca sull'assonanza sema e soma ("corpo" e "tomba" dell'anima, costretta a espiare una colpa attraverso la caduta nel corpo); nel Fedro egli sostiene che l'anima possa uscire provvisoriamente dal ciclo delle reincarnazioni, per poi tornarvi in forma degenerata, oppure, in alternativa uscirne definitivamente e tornare presso gli dèi. Nel Fedone, invece, Platone si mantiene più vicino alla tradizione orfica e sostiene che l'anima o raggiunge gli dèi o si reincarna sempre. Non si può essere felici senza essere morali.

Ritorna inoltre in Platone l'intellettualismo etico, perché l'aretè ("virtù") consiste per i filosofi nella sophia ("sapienza"), mentre per i guerrieri nell'andreia ("coraggio"), e per la classe dei produttori nella sophrosyne ("temperanza"), secondo la sua concezione dello Stato filosofico. La dikaiosyne ("giustizia") scaturisce per la città dalla conoscenza e dall'armonico conseguimento del rispettivo bene da parte di ognuna delle tre classi.

Aristotele e la sua Etica

Aristotele (vissuto fra il 384 ed il 322 a.C.) ha dedicato molti scritti alla questione dell'etica, di cui ha anche coniato il termine etiké theoria o techné. La sua riflessione è antropologica e ontologica. Opere:  

    •    Etica Nicomachea

    •    Etica Eudemia

    •    Grande Etica, conosciuta anche come Magna Moralia

    •     Περι Αρετων και Κακιων, conosciuta come De Virtutibus et vitiis.



In realtà, della paternità aristotelica dell'Etica Nicomachea ha dubitato Cicerone e nel XIX secolo si è cominciato a pensare che l'Etica Eudemia fosse stata scritta da Eudemio Rodio, un discepolo di Aristotele. I Magna Moralia sono comunemente considerati uno scritto di scuola, probabilmente successivo agli anni dell'insegnamento di Aristotele. Tralasciando le questioni di autenticità, possiamo sostenere che le opere di Aristotele hanno una struttura simile e i temi principali vengono affrontati sempre nella medesima successione:

    •     Il concetto del Bene Supremo e della Felicità

    •     La virtù etica in generale e le virtù etiche in particolare

    •     Le virtù dianoetiche o intellettuali

    •     I vizi, la mancanza di autocontrollo

    •     L'amicizia

    •     La virtù perfetta, la felicità completa.

Lo scopo dell'etica aristotelica è la realizzazione di ciò che è il bene per il singolo individuo. Egli non pensa che il fine dell'etica sia il raggiungimento del bene assoluto come lo intendeva Platone, di quell'idea del bene supremo principio della realtà e del mondo delle idee e quindi estraneo alla vita pratica dell'uomo. Tuttavia il bene supremo è alla portata dell'uomo con il conseguimento della eudaimonia, la felicità, che si può conseguire solo quando questa è autosufficiente, nel senso che la felicità ad esempio non può essere la ricchezza poiché questa è un mezzo da utilizzare per altri fini. Per Aristotele la felicità deve essere qualcosa di desiderabile per sé stessa, e questa è solo «l'opera (o attività) propria dell'uomo» cioè l'esercizio di quella facoltà che caratterizza l'uomo, l'attività razionale, un agire pratico secondo la ragione che però arrecherà felicità solo se compiuto in modo eccellente. Per l'uomo quindi la felicità sarà l'esercizio eccellente di opere conoscitive e pratiche della ragione.

In Aristotele cade l'idea platonica per cui il bene del singolo è il bene assoluto che è l'essere. L'etica non è più scienza dell'essere, ma scienza del divenire. Aristotele, dunque si propone la fondazione dell'etica come sapere pratico autonomo. Egli, dunque è un cognitivista etico, al pari di Kant. La filosofia deve, quindi, formare l'uomo nel suo scoprire il modo di agire per raggiungere il bene. L'Etica Nicomachea innanzi tutto non è destinata alla lettura dei giovani, per la mancanza dell'esperienza necessaria alla comprensione dell'opera e per il loro lasciarsi trasportare dalle passioni. L'opera è rivolta a chi già possiede le virtù, ma è incapace di operare una scelta morale. Il testo parte proprio dal concetto di praxis, poiché in essa è insita l'etica stessa.

Aristotele si domanda in primo luogo cosa è il bene per l'uomo, cosa è l'ευδαιμονια (generalmente tradotta come "felicità", ma forse questa è una traduzione un po' riduttiva). E il bene per l'uomo è "ciò verso cui ogni cosa per natura tende". Ogni cosa, per Aristotele è in costante evoluzione, proprio perché ogni cosa si evolve, cerca di raggiungere un fine superiore alla posizione in cui si trova, tende, dunque, ad un fine ultimo che è il suo proprio fine naturale. Ogni cosa tende a realizzare sé stessa, per essere sé stessa.

Aristotele propone una distinzione fondamentale fra virtù etiche e virtù dianoetiche:

    •     sono etiche quelle virtù della orexis, della zona desiderante e passionale;

    •     sono dianoetiche quelle virtù che si conseguono attraverso l'insegnamento, per cui il loro spazio è quello della scuola e del sapere teorico.



Ciò che è fondamentale per Aristotele è la phronesis, la prudenza, perché questa è il sapere che orienta all'azione e solo la phronesis, facendosi habitus (o disposizione morale), consente non solo di discernere i fini da perseguire, ma anche di individuare i mezzi con cui realizzarli. Aristotele critica duramente Platone e la sua concezione della morale. Platone sosteneva che l'immortalità dell'anima è il vero soggetto della felicità morale; Aristotele rinuncia ad una concezione dell'anima come individualmente immortale. Il premio per chi agisce bene è, per Aristotele, la felicità in questa vita e in questo mondo e, di conseguenza, non vi sarà altro dolore e punizione per chi agirà male che l'infelicità in questa vita ed in questo mondo. Aristotele critica Platone anche per la sua idea che il bene sia qualcosa di comune che si dice con una sola idea. Per Aristotele ogni forma di sapere, ogni praxis, ogni scelta sono orientate ad un loro specifico fine e, dato che il bene è ciò verso cui ogni cosa tende, la molteplicità fattuale di questa tendenza produce un altrettanto irriducibile molteplicità di fini, e quindi, di beni.

Non è possibile parlare di bene in senso unitario se non per analogia, come di una posizione fondamentale comune che designa ciò che costituisce il fine di ogni singola azione orientata. Infatti per Aristotele ci sono tre tipi di bene:

    •     il bene in sé, vale a dire l'eudaimonia

    •     il bene per altro, ossia un effetto desiderato in funzione di un altro fine, per cui questo bene risulta essere un mezzo più che un vero e proprio fine.

    •     il bene universale, dei molti, dei cittadini della polis che vale più del singolo bene per cui la politica viene a coincidere con la ricerca del bene di tutti.



Stoicismo ed Epicureismo

 Il termine di riferimento nella speculazione stoica ed epicurea è principalmente la natura.

Per gli stoici l'etica consiste nel conformarsi alle leggi della natura, che per l'uomo si traducono nel vivere secondo ragione; il cosmo è retto da un ordine razionale e l'uomo può entrare far parte di questo ordine tramite le virtù dell'autocontrollo, dell'ascetismo e del distacco dalle passioni. "Vivere secondo natura" significa dunque "vivere secondo virtù". La virtù è qualcosa di razionale, è tutto ciò che si oppone alle emozioni. Essa è Una, perché le altre virtù non sono altro che manifestazioni dello stesso Logos in situazioni diverse e con scopi diversi. Le emozioni che vengono a turbare l'anima sono, per gli stoici, quattro:

    •     dolore

    •     piacere

    •     desiderio

    •     paura.



L'uomo deve saper dominare queste emozioni e vivere secondo dovere. Il dovere è una prescrizione, una regola. Per gli epicurei, invece, la natura è indifferente all'uomo, essa non può né salvarlo, né danneggiarlo. Essi vivono la natura come qualcosa di causale, per cui non distinguono tra vizio e virtù. Le azioni dell'uomo vanno valutate in sé stesse, per la loro immediata fruibilità. Il criterio di misura attraverso cui giudicare le azioni è il piacere. Esso è princìpio e fine della vita beata e consiste fondamentalmente nella mancanza di dolore. Il piacere è, dunque, direttamente collegato con l'atarassia. L'unica possibilità di vita serena, e nello stesso tempo non solitaria, è vivere con un gruppo di amici con i quali discutere pacatamente, evitando qualsiasi desiderio e bisogno non strettamente necessario.

Confucianesimo

Il più importante e influente filosofo cinese è senza dubbio Confucio. Il suo pensiero è alla base stessa della cultura orientale e in particolare egli si è soffermato sull'etica e la morale. Secondo lui, la virtù deriva dall'armonia nel rapporto con gli altri. Alla base di ogni rapporto e società c'è il lĭ, traducibile con rito, ovvero quella serie di comportamenti o tradizioni che regolano i rapporti sociali e permettono la stabilità e prosperità della società. Al fianco del lĭ vi è lo yì, cioè la rettitudine, intesa come perseguimento del bene superiore, il fine di ogni cosa. La differenza tra lĭ e yì è sottile: secondo il lĭ la ricerca del proprio bene particolare non è condannabile finché non entra in contrasto con le regole della società, ma per lo yì sarebbe preferibile la ricerca del bene comune. Fondamentale è anche il concetto di rén, la benevolenza, cioè la virtù di adempiere perfettamente ai doveri verso gli altri, che contiene quindi i nostri concetti di umanità, pietà, compassione. Da ciò deriva quindi la regola d'oro secondo il confucianesimo: non fare agli altri ciò che non vorremmo per noi.

Pietro Abelardo

Il pensiero medioevale vede come uno dei massimi problemi la diatriba dialettica fra fede e ragione. Il compito che la filosofia scolastica si propone è proprio quello di risolvere tale questione. Abelardo insegna per un lungo periodo logica a Parigi. Egli segna l'avvio ad una teologia sistematica attraverso l'applicazione che egli fa dell'analisi logica alla riflessione del dato rivelato. Nel testo Sic et Non, Abelardo esamina 158 casi in cui le autorità patristiche e conciliari si trovano in disaccordo e, per risolvere tali questioni, propone di mettere in atto una ricerca personale, la sola capace di portare alla scoperta della verità. L'applicazione di tale metodo è definibile "socratica" ed è rintracciabile nella tipica disputatio dei XIII-XVI secc.

Vale a dire che dato l'argomento di discussione (Quaestio) si studiano le argomentazioni ad essa favorevoli (videtur quod sic) e quelle contrarie (sed contra) per arrivare poi alla conclusione (Respondeo). Abelardo non intende in questo modo mettere in discussione le autorità o sottomettere la fede alla ragione, dal momento che egli difende costantemente la superiorità del dato rivelato, mentre invoca la dialettica per definire le questioni non chiaramente stabilite dalle Sacre Scritture. Per Abelardo, dunque, il criterio della moralità degli atti non è fissato dalla sola norma esteriore, ma anche dalla coscienza, dall'intenzione con cui il soggetto compie un'azione: buono è solo l'atto che sia rettamente inteso e voluto come tale.

Bernardo di Chiaravalle

Bernardo di Chiaravalle è in un primo ordine di considerazioni un mistico medioevale. Ciò significa soprattutto che per Bernardo non è importante parlare di Dio o dimostrarne l'esistenza, ammesso che si possa, ma è importante parlare con Dio, discretamente, in silenzio. Essere un mistico nel medioevo significa anche credere nella "mortificazione del corpo" (il termine ascesi è infatti direttamente collegato al "mortum facere corpum", ossia al distacco dal corpo e da tutto quello che ad esso è collegato). L'uomo per questo autore, non si salva se non attraverso la mistica e l'ascesi. In Bernardo di Chiaravalle l'uomo è rappresentato dal basso, è "generato dal peccato, peccatore e generatore di peccatori. È ferito fin dall'ingresso in questo mondo, quando ci vive, quando ne esce. Dalla sommità del corpo alla punta dei piedi non ha nulla di sano".

Gioacchino da Fiore

Nel XIII secolo Gioacchino da Fiore esercitò una notevole influenza sulla filosofia scolastica, soprattutto quella di origine francescana, ed esercitò un ruolo di importanza strategica fra Papi e sovrani, che lo consideravano quasi un profeta o un indovino. Fu così clamoroso il suo annuncio dell'imminente fine del mondo. Il monaco cistercense scrisse un testo in cui espose un'Apocalisse nuova. Nella sua escatologia, Gioacchino da Fiore insiste in modo particolare sul fatto che l'Antico Testamento anticipi il Nuovo e che il Nuovo Testamento sia compimento dell'Antico. Egli sostiene la fine di una vecchia Chiesa, di un vecchio mondo e di una vecchia età. Ne seguirà necessariamente l'avvento di una nuova spiritualità.

Tommaso d'Aquino

Nel quarto libro della sua Summa contra Gentiles, Tommaso d'Aquino spiega il concetto di etica e quello di felicità come concetti cristiani, teonomizzati, ossia sotto la legislazione di Dio, non autonomi. Dio è il sommo bene che dà la felicità suprema. La concezione della vita non si riferisce ai beni immediati, materiali, ma a quelli superiori, alle virtù che in Aristotele sono soprattutto virtù dianoetiche. Per Tommaso d'Aquino la felicità suprema dell'uomo non si realizza su questa terra. La morale, l'etica, vanno quindi, in Tommaso d'Aquino, oltre la prospettiva rigorosamente intellettualistica aristotelica, anche se la concezione dell'uomo è ripresa in gran parte proprio da Aristotele.

Montaigne

Nel Rinascimento abbiamo una corrispondenza fra microcosmo e macrocosmo. L'uomo è al centro del mondo. Nasce la scienza e con essa, l'etica si ritira nei luoghi della saggezza. Montaigne costruisce una "morale del dotto", secondo cui gli uomini agiscono in base alle abitudini acquisite. Egli opera un'accurata descrizione dell'uomo nella sua variabilità d'animo. Montaigne nutre una smisurata sfiducia nel fatto che la scienza possa stabilire un rapporto univoco fra microcosmo e macrocosmo: la parte, secondo il filosofo, non può conoscere il tutto di cui è parte. Variabilità e varietà sono, dunque le due caratteristiche della conoscenza morale, proprio in quanto consubstanziali dell'uomo.

Il giusnaturalismo

Il giusnaturalismo ricerca fondamentalmente una legge dell'agire umano come descrizione (ossia una legge con valenza conoscitiva dell'etica) ed una legge dell'agire umano come prescrizione (ossia una legge con valenza regolativa). Questa linea di pensiero si basa sul presupposto che il diritto abbia un fondamento oggettivo insito nella natura stessa. Ne deriva che è necessario prescrivere a ciò che è, ciò che deve essere. Il diritto, quindi, ha fondamento nella costituzione naturale dell'uomo.

Ralph Waldo Emerson

Ralph Waldo Emerson è stato tra i primi a proporre un'etica individuale basata sulla fiducia in sé e della messa in discussione dei valori tradizionali, e uno dei pochi ad averlo fatto mantenendo il rispetto per la vita e l'esistenza, contrariamente, ad esempio, ad alcuni pensatori del nichilismo europeo.

L'etica materiale di Max Scheler

 In Max Scheler (1874-1928) è rintracciabile non una generica rivalutazione dei sentimenti, ma una precisa delimitazione di un sentire intenzionale su cui fondare l'etica. Se per Kant il discorso morale era universale proprio in quanto formale, in Max Scheler si basa su di una legge dell'individuo, su di un dover essere individuale che non è soggettivo o relativista in quanto è materiale cioè fondato nella sfera del sentire. Fine dell'etica è la formazione (Bildung) del sentire intenzionale della persona, che si articola in un preciso ordo amoris, attraverso l'esemplarità (Vorbild) dell'altro.7 I valori non sono oggetti ideali, ma dati di fatto, fenomeni originali (Urphänomen),8 che vengono colti dal sentire alle spalle e prima della rappresentazione e del giudizio. Scheler distingue tra valori e beni: mentre i primi sono qualità assiologiche, i secondi sono le singole cose concrete mediante le quali vengono veicolati i valori (ad esempio: l’amicizia è un valore; l’amico è un bene). E mentre i valori possono diventare universali, i beni sono contingenti: se infatti l’amicizia è e resta tale, l’amico può tradire.

Scheler imputa a Kant l’aver confuso indebitamente beni e valori. Il sentire intenzionale rivela inoltre l'esistenza di leggi a priori che determinano una gerarchia oggettiva tra i valori, appresa attraverso l'atto del preferire, sul quale si fondano le scelte e correlata a gradi diversi della sfera affettiva. Scheler scrive espressamente che “il regno dei valori, tutt’intero, è sottomesso a un ordine che gli è costitutivo”. I valori sono più alti quanto più si allontanano dalla chiusura ambientale. Esaminiamo in concreto la gerarchia dei valori:  

      1.       i sentimenti sensibili o della sensazione, a cui sono correlati i valori sensibili compresi nella gamma tra gradevole e sgradevole;  

      2.       i sentimenti corporei, legati allo stato del corpo, correlati ai valori del nobile e del volgare, dell'utile e del dannoso, su cui si fonda anche la vita associata, e i sentimenti vitali, legati alle funzioni del corpo, ai quali sono correlati i valori vitali come la generosità, il coraggio e così via;  

      3.       i sentimenti legati all'anima o all'io, a cui sono correlati i valori spirituali e conoscitivi del vero e del falso, del bello e del brutto, del giusto e dell'ingiusto;  

      4.       i sentimenti propri della persona ai quali sono correlati i valori religiosi del sacro. Questi sono i valori più alti e sono colti ad es. dagli atti dell'amare e odiare.



Gli atti di amore hanno infatti la prerogativa, stando a Scheler, di essere intenzionalmente diretti sempre verso persone, e la persona si colloca ad un livello superiore rispetto all'io ed è legata alla sfera del sacro; in questa sfera il valore è fondamentalmente personale. La gerarchia dei valori è disposta secondo strati che vanno dal livello corporeo a quello spiritualmente più puro della persona. Su questa base Scheler può criticare Husserl per aver posto al vertice l'io trascendentale che è una funzione universale puramente conoscitiva e impersonale: ciò significa, per Scheler, non riconoscere il primato della persona, ridotta a pura esemplificazione empirica di questa funzione conoscitiva universale. La vita morale consiste, invece, nella piena realizzazione della persona umana e, quindi, include costitutivamente sentimenti ed emozioni, in particolare la simpatia e l'amore. La persona è, per usare le parole di Scheler, “l’unità immediata del vivere per l’esperienza vissuta”: è, detto altrimenti, una “unità immediata covissuta”, ossia un’immediatezza unitaria avvertita tramite le molteplici esperienze che il soggetto vive rapportandosi agli altri. Anche nella definizione del concetto di persona, Scheler si oppone a Kant, per il quale la persona era riducibile all’Io ed era contraddistinta da una totale aseità trascendentale. Per Scheler, al contrario, il concetto di persona dev’essere distinto da quello di anima, la quale implica il dualismo anima/corpo: la persona è una “unità bio-psichica” di anima e corpo.

Bibliografia

    •     Max Scheler, Il formalismo nell'etica e l'etica materiale dei valori, (1913-1917).

    •     Martha C. Nussbaum, La fragilità del bene. Fortuna ed etica nella tragedia e nella filosofia greca, a cura di G. Zanetti, Il Mulino, Milano 2004 ISBN 88-15-10194-2

    •     Arthur Adkins, La morale dei greci da Omero ad Aristotele, trad. di R. Ambrosini, Ed. Laterza, Bari 1987 ISBN 88-420-2973-4

    •     G. Compagnino, La poesia e la città. Ethos e mimesis nella Repubblica di Platone, in «Siculorum Gymnasium», 1990, pp. 3–89.

    •     Francesco Totaro, Non di solo lavoro. Ontologia della persona ed etica del lavoro nel passaggio di civiltà, Vita e Pensiero, Milano 1998 ISBN 88-343-1903-6

    •     Michel d'Urance, Fondamenti per un'etica ribelle. Assi, tennsioni, matrice, Controcorrente, Napoli 2007 ISBN 88-89015-45-4

    •     Maria G. Di Domenico, Danzando sull'orlo del mondo. Una riflessione sulla bioetica ambientale, Luciano Editore, Napoli 2004 ISBN 88-88141-78-2

    •     Sergio Cremaschi, L'etica del novecento dopo Nietzsche, Carocci Editore, Roma 2005 ISBN 88-430-3012-4

    •     Vanna Gessa Kurotschka, Etica, Alfredo Guida Editore, Napoli 2006 ISBN ISBN 88-6042-175-6

    •     Vanna Gessa Kurotschka "Dimensioni della moralità", Liguori Editore 1999, ISBN 88-207-2868-0

    •     Serena Passarello, Dilemmi etici, Giunti Editore, Firenze-Milano 2008 ISBN 978-88-09-05565-0

    •     Luigi Alici, Filosofia morale, La Scuola, Brescia 2011,ISBN 978-88-350-2627-3

    •     Matteo Andreozzi (a cura di), Etiche dell'ambiente. Voci e prospettive, LED: edizioni universitarie, 2012, ISBN 978-88-7916-612-6

Voci correlate

    •    Banca con criteri legati all'etica

    •    Bioetica

    •    Civismo

    •    Crisis mapping

    •    Etica dei media

    •    Etica della libertà

    •    Etica della responsabilità

    •    Etica hacker

    •    Etica militare

    •    Etica militare in Italia

    •    Etica mondiale

    •    Matrimonio e morale

    •    Morale

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    •    Relativismo

Collegamenti esterni

    •     Etica ed economia

    •     L'etica conviene, sul portale RAI Economia

    •     Etica in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.

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Estetica

 L'estetica è un settore della filosofia che si occupa della conoscenza del bello naturale, artistico e scientifico, ovvero del giudizio, morale e spirituale.

Il filosofo tedesco Alexander Gottlieb Baumgarten pubblicò Aesthetica in latino nel 1750, usando un termine già da lui coniato nel 1735 nella sua tesi di laurea intitolata Meditazioni filosofiche su argomenti concernenti la poesia. La parola "aesthetica" ha origine dalla parola greca αἴσθησις, che significa "sensazione", e dal verbo αἰσθάνομαι, che significa "percepire attraverso la mediazione del senso". Originariamente l'estetica infatti non è una parte a sé stante della filosofia, ma l'aspetto della conoscenza che riguarda l'uso dei sensi.

Immanuel Kant tratta dell'"estetica trascendentale" nella Critica della ragion pura come dottrina della percezione sensibile, basata sulle funzioni trascendentali. Riprende il termine estetica nella Critica del Giudizio nel 1790, dove a proposito del "giudizio estetico" espone la sua teoria sul bello soggettivo e su quello naturale (oggettivo) che si esprime nel sentimento del sublime. Nello specifico, trattando della teoria dell'arte bella, Kant fa appunto riconfluire nell'estetica i due filoni di pensiero sull'arte e sul bello, fondendo perciò insieme la semplice dottrina della sensibilità antica e il discorso settecentesco sull'arte e sul sentimento del bello (e del sublime), e gettando di fatto le basi dell'estetica moderna. Più tardi, Hegel, nella sua Estetica, salderà ulteriormente tra loro l'arte e la riflessione filosofica, pronunciando la celebre sentenza secondo cui l'arte si sarebbe dovuta prossimamente estinguere nel suo concetto, cosa che le avanguardie e le transavanguardie novecentesche hanno poi puntualmente inverato, sebbene a più di un secolo di distanza.

Storia

Grecia ed ellenismo

 La civiltà greca fu forse il primo ambito culturale nel quale le attività artistiche acquistarono una loro definizione, tale da distinguerle dalle comuni attività della vita sociale; tuttavia erano concepite in modo molto diverso da oggi: il termine usato per la produzione di oggetti artistici era infatti il generico techné, che indicava ogni operazione dell'uomo tesa a modificare e trasformare le cose di natura, e più in generale tutto ciò che era identificabile come artificio non naturale. Venivano definite e accomunate da questo termine tanto ciò che per noi oggi è comunemente l'arte quanto ciò che noi distinguiamo come artigianato, e addirittura la furbizia e la frode potevano essere considerate delle technai. Soltanto abbastanza tardi venne coniato lo specificativo technai eleutherioi. Ma la techné si esprimeva anche come un "fare" umano al di fuori delle esigenze quotidiane, e in tal senso era il verbo poiein ad indicarlo, e il derivato poiesis l'attività artistica in generale. All'interno delle technai eleutherioi vennero a poco a poco raccolte tutte quelle forme espressive concernenti le nostre cosiddette arti visive (quali architettura, scultura, pittura), quelle letterarie e quelle dello spettacolo. Le Olimpiadi erano le occasioni in cui sia i professionisti che gli intellettuali dilettanti potevano cimentarsi nelle attività da esse previste oltre a quelle sportive.

Per Platone arte e scienza vanno valutate sullo stesso piano in quanto tentativi di rappresentazione dell'idea del bello nel primo caso, della verità nel secondo. Platone però non accettò l'arte tra le discipline di educazione sociale perché incita la passione invece di disciplinarla. Inoltre l'arte, vista come tentativo di imitazione della natura, ne è solo una incompleta rappresentazione che non può tendere all'idea del bello.

Per tutta l'antichità e per molti secoli a venire, l'arte in tutta la sua produzione fu imitazione della natura. Aristotele, nella sua Poetica, ne evidenziò il rapporto, indicando come da questa attività l'uomo tragga insegnamento e diletto. Aristotele, a differenza di Platone, evidenziò inoltre come la creazione dell'opera d'arte permetta la materializzazione dell'idea e quindi la sua manifestazione. Quest'idea però scaturisce esclusivamente dalla mente dell'artista e non può essere equiparata alla concezione platonica di bellezza assoluta.

Fatto salvo il Trattato del Sublime, di incerta attribuzione, che descrive i sentimenti connessi con l'uso di particolari artifici retorici, un ultimo tentativo di rilievo che portò la teoria dell'arte fino al Medioevo è quello di Plotino, che ristabiliva il collegamento tra opera d'arte e regno delle idee, supponendo una visione interiore già espressa anche da Platone, che permette all'artista di attingere dalla forma ideale del bello la sua rappresentazione materiale. Anche questo tentativo portò comunque al conflitto per cui la bellezza assoluta non può essere contaminata dalla materia dell'opera prodotta, evidenziando ulteriormente il valore negativo del procedimento artistico.

Nascita dell'estetica

 La nascita dell'estetica si fa di solito risalire al 1750 con la pubblicazione del libro Aesthetica da parte di Alexander Gottlieb Baumgarten, che la definì come "scienza del Bello, delle arti liberali e gnoseologia inferiore, sorella della Logica". In pratica, essa era preposta allo studio dei concetti di Bello come categoria a sé stante e con propri criteri di valore; delle arti liberali, ovvero delle attività oggi definite come artistiche, ad esempio la pittura o la danza; infine, si trattava anche di una "gnoseologia inferiore", in quanto era intesa come studio delle percezioni sensibili, della conoscenza ottenibile attraverso i sensi, opposta e complementare a quella ottenibile attraverso la mente: il termine greco "aisthesis", difatti, indica le informazioni ricevute attraverso i sensi, o il corpo, e da questo termine Baumgarten deriva il neologismo "aesthetica".

L'estetica illuminista trova in Denis Diderot l'abbandono degli schemi idealistici, dato che il senso estetico e la bellezza divengono per lui il frutto di un “rapporto” tra l'oggetto artistico e chi lo percepisce con la propria sensibilità individuale. In questo modo l'“estetico” non è più l'oggetto in sé, ma il “rapporto” soggetto-oggetto. Questo rapporto ha delle tipologie estremamente variabili, pluralistiche, non prive di casualità. Sono perciò tali rapporti a fondare il bello in generale, mentre ogni singolo bello particolare (di ogni oggetto artistico) non è riferibile ad alcuno degli schemi codificati di bellezza. Nel Traité du Beau Diderot precisa il suo pensiero relativamente al “bello” con un'ulteriore relativizzazione, conferendo una base filosofica all'estetica che è lontana sia dal sensismo puro che dall'astrazione intellettualistica.

Immanuel Kant scrisse uno dei libri più importanti sull'estetica, la Critica del Giudizio nel 1790, ma per Kant l'estetica si limita alla percezione sensoriale, di cui spazio e tempo sono condizioni irrinunciabili. Se in seguito Friedrich Schelling supera le premesse kantiane dell'estetica facendone una vera e propria filosofia dell'arte, Hegel, con la sua Estetica, ufficializza finalmente l'ambito di studi inaugurato anni prima da Baumgarten, ma solo al prezzo della riduzione dell'arte a oggetto ideale, destinato a sublimare nel concetto filosofico e quindi a venirne progressivamente soppiantato.

L'estetica contemporanea

 Dopo la stagione della fenomenologia, gli ultimi decenni di ricerca estetologica sono stati caratterizzati da una riconsiderazione della storia della disciplina che è sfociata nel superamento e nell'abbandono dei paradigmi ereditati dal Settecento e dall'Ottocento, anche grazie ai contributi fondamentali di Martin Heidegger e di Hans-Georg Gadamer. In particolare, si sono distinte due diverse - e per molti versi opposte - scuole di pensiero: l'estetica analitica americana e l'estetica continentale. Se la prima si è dedicata a un'analisi delle condizioni di esistenza dell'arte, concentrando i propri sforzi sulla sua caratterizzazione concettuale, la seconda ne ha invece tratteggiato i presupposti storico-culturali, culminando nella riattualizzazione dell'estetica come "percettologia", cioè come scienza della percezione, che non ha più a che fare in modo precipuo o esclusivo con l'arte (si vedano, per quest'ultima accezione, i lavori di Maurizio Ferraris). Un ultimo accenno va fatto anche alla neuroestetica, disciplina recente e di confine che applica al campo artistico le tecniche di brain imaging sviluppate nell'ambito delle neuroscienze.

Personalità importanti e loro opere

 Personalità

 Periodo storico

 Opere

Aristotele
Anonimo
Yves-Marie André
Giambattista Vico
A. Gottlieb Baumgarten
Edmund Burke
Immanuel Kant
Friedrich Schiller
Friedrich Schelling
Johann Gottfried Herder
G. W. F. Hegel
Arthur Schopenhauer
Ralph Waldo Emerson
Friedrich Nietzsche
Benedetto Croce
Martin Heidegger
Walter Benjamin
Cvetan Todorov
Maurice Merleau-Ponty
Theodor W. Adorno
Nelson Goodman
Gérard Genette
Maurizio Ferraris

 Età antica
 Età antica
 Età moderna
 Età moderna
 Età moderna
 Età moderna
 Età moderna
 Età moderna
 Età moderna
 Età moderna
 Età moderna/contemporanea
 Età moderna/contemporanea
 Età moderna/contemporanea
 Età moderna/contemporanea
 Età contemporanea
 Età contemporanea
 Età contemporanea
 Età contemporanea
 Età contemporanea
 Età contemporanea
 Età contemporenea
 Età contemporenea
 Età contemporanea

Poetica
Trattato del Sublime
Essai sur le beau (1715)
Princìpi di Scienza nuova d'intorno alla comune natura delle nazioni (1744)
Aesthetica (1750)
Un'indagine filosofica sull'origine delle nostre idee di Sublime e Bello (1757)
Critica del Giudizio (1790)
Kallias, o della bellezza (1794)
Lettere sull'educazione estetica dell'uomo (1795)
Sulla poesia ingenua e sentimentale (1795)
Sistema dell'idealismo trascendentale (1800)
Calligone (1800)
Estetica (1835)
Il mondo come volontà e rappresentazione (1818)
Natura (1836), Arte (1842), Il poeta (1844), Maniere (1844), Bellezza (1860)
La nascita della tragedia dallo spirito della musica (1872)
Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale (1902)
L'origine dell'opera d'arte (1935)
L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (1936-37)
Filosofia della nuova musica (1949)
L'occhio e lo spirito (1964)
I linguaggi dell'arte (1968)
Teoria estetica (1970)
La letteratura fantastica (1970)
L'opera dell'arte, 2 voll. (1997)
Estetica razionale (1997)

L'estetica in Italia



    •    Giambattista Vico

    •    Benedetto Croce

    •    Luciano Anceschi

    •    Antonio Banfi

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    •    Luigi Pareyson

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    •    Mario Perniola

    •    Giorgio Agamben

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    •    Giancarlo Majorino



Estetica ed etica

 Richiamando il succitato significato etimologico della parola estetica, e cioè il collegamento con la percezione sensoriale, si può pensare che dall’osservazione delle cose sembrerebbe che l’uomo – e probabilmente anche gli animali – tende al suo piacere. Questa non è un’idea nuova: Virgilio, nella Egloga II, al versetto 65, dice: “Trahit sua quemque voluptas”. Cioè ciascuno, se può, tende a ciò che gli piace: è  un po’ il principio del piacere di cui parlava Freud, che è quello dell’immediata soddisfazione dei bisogni dell’organismo, ma è da  comprendere anche tutto ciò che ci porta a uno stato di piacevolezza, allo stare bene; insomma sia quello fisico sia quello spirituale, i quali sono, in fondo, la medesima cosa. Ovviamente si tende a evitare il dispiacere.  Chi eventualmente vede il dovere come valore guida nella vita, come Kant, per esempio, si direbbe che a costui piace il dovere. Oppure piace ciò che può ottenere con l’applicazione del dovere. Dipende dai gusti. Qualsiasi comportamento o idea – anche banali – sono guidati dalla nostra volontà  verso il piacere, che può essere variamente graduato, dal più grande al più piccolo piacere. Anche il credere a qualcosa, a qualche idea o a Dio o ad altro è credere in ciò che piace. Questo tuttavia non sempre: soltanto quando si può; varie volte si è costretti a credere a ciò che non piace (per esempio si è costretti a credere che ci sono le sofferenze, etc.). Si può credere a queste stesse idee qui dette se la cosa piace.  Quindi ogni giorno diamo innumerevoli giudizi su ciò che ci piace - quindi estetici - che guidano i nostri comportamenti nella quotidianità. L’estetica individuale così è espressione dell’io (anche a livello inconscio): inoltre le nostre idee morali sono il frutto di giudizi estetici. La morale o etica è soltanto la media normalmente seguita di singoli soggettivi giudizi estetici, dati uniformemente nel tempo da tanti individui in una comunità. Il che è dire che su una qualche questione non si danno giudizi etici, ma estetici e, anche se ci si rifà alla morale corrente e si affronta la questione con pregiudizi, comunque si dà un giudizio estetico su un giudizio estetico precedentemente dato da qualcun altro. Se vogliamo fare un esempio estremo, potremmo dire che la valutazione di un fatto come un’uccisione, considerata universalmente una questione riservata alla morale, in realtà è anch’essa una questione di estetica, cioè che può piacere oppure no.    

Bibliografia

    •     Hans Rainer Sepp, Lester Embree (ed.), Handbook of Phenomenological Aesthetics, Dordrecht/ Heidelberg/ London/ New York, Springer, 2010. ISBN 978-90-481-2470-1

    •     Michael Kelly (ed.), Encyclopedia of Aesthetics, New York, Oxford, Oxford University Press, 1998. ISBN 978-0-19-511307-5

    •    Gianni Carchia, L'estetica antica, Roma-Bari, Laterza, 1999. ISBN 88-420-5699-5

    •    Gianni Carchia e Roberto Salizzoni (a cura di), Estetica e antropologia. Arte e comunicazione dei primitivi, Rosemberg & Sellier, 1986

    •    Giulio Angioni, Sentire, in Fare, dire, sentire. L'identico e il diverso nelle culture,  il Maestrale, 2011, ISBN 978-88-6429-020-1

    •    Alfred Gell, Art and Agency: An Anthropological Theory, Oxford, Clarendon, 1998.

    •     Simona Chiodo (a cura di), Che cosa è arte. La filosofia analitica e l'estetica, Torino, UTET, 2007. ISBN 978-88-6008-110-0

    •     Giorgio Fonio, Apollo e la sua ombra. Il corpo e la sua raffigurazione, Milano, Costa & Nolan, 2007, pp. 379, ill., ISBN 978-88-7437-069-6

    •    Sergio Givone, Storia dell'estetica, Roma-Bari, Laterza, 1988. ISBN 88-420-3291-3

    •    Mario Perniola, Estetica contemporanea. Un panorama globale, Bologna, Il Mulino, 2011. ISBN 978-88-15-14938-1

    •    Mario Perniola, Strategie del bello. Quarant'anni di estetica italiana (1968-2008), «Agalma», 18 (2010), Milano, Mimesis, 2009. ISBN 978-88-8483-980-0

    •    Mario Perniola Presa diretta - Estetica e politica da Nietzsche a Breivik in Agalma n°24, Milano-Udine, Mimesis, 2012 ISBN 978-88-5751-191-7

    •     Christian Vassallo, La dimensione estetica nel pensiero di Plotino. Proposte per una nuova lettura dei trattati "Sul bello" e "Sul bello intelligibile", Napoli, Giannini, 2009. ISBN 978-88-7431-431-7

    •     Federico Vercelone,  Alessandro Bertinetto, Gianluca Garelli,  Storia dell'estetica moderna e contemporanea, Bologna, il Mulino, 2003. ISBN 978-88-15-09040-9

    •     Federico Vercelone,  Alessandro Bertinetto, Gianluca Garelli,  Lineamenti di storia dell'estetica. La filosofia dell'arte da Kant al XXI secolo", Bologna, il Mulino, 2008. ISBN 978-88-15-12556-9

Voci correlate

    •    Arte

    •    Bello

    •    Bellezza

    •    Comico

    •    Drammatico

    •    Filosofia dell'arte

    •    Tragico

Collegamenti esterni

    •     Estetica in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.

    •    Mario Perniola Presa diretta, Estetica e politica da Nietzsche a Breivik in Agalma n° 24 - Website http://www.agalmaweb.org/sommario.php?rivistaID=24

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Filosofia del diritto

Georg Wilhelm Friedrich Hegel, primo divulgatore della locuzione «filosofia del diritto».

 (DE) 
« Die philosophische Rechtswissenschaft hat die Idee des Rechts, den Begriff des Rechts und dessen Verwirklichung, zum Gegenstande. »

 (IT) 
« La scienza filosofica del Diritto ha per oggetto l'Idea del Diritto, cioè il concetto del Diritto e la realizzazione di questo concetto. »

(Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, § 1.1)

 La filosofia del diritto, disciplina interessante sia la filosofia che il diritto, si occupa, a seconda dei diversi autori che ne trattano, di ricerche composite, le quali condividono solo un carattere negativo, ossia quello di affrontare questioni intorno al fenomeno giuridico sovente trascurate dai dottori nell'interpretazione del diritto positivo.2

Sviluppo del pensiero intorno al diritto

 L'espressione «filosofia del diritto» ha visto la luce per la prima volta nel

 con la pubblicazione dell'opera

 

 (

), raggiungendo il successo, fra il

 e

, anche come disciplina

 a sé, attraverso l'opera in due volumi di

 che, appunto, porta il titolo di

.

 Cionondimeno, come nota

 nella premessa alla sua

, «fra gli aspetti dell'esperienza umana che fin dai tempi antichissimi hanno indotto a meditazione filosofica vi è senza dubbio il diritto».

 È necessario sottolineare, tuttavia, l'assurdità di una separazione fra «una filosofia che non sia la filosofia puramente e semplicemente» e, dunque, si deve concludere che di «una filosofia del diritto distinta dalla filosofia pura e semplice non si dovrebbe parlare»

, anche perché, come sostiene il

, una qualsiasi storia della filosofia del diritto si ridurrebbe a meri «elenchi di dottrine piuttosto eterogenee», i quali, per quanto disposti in ordine cronologico, non godranno mai di un ordine logico che la storia reale di tanti secoli non ha e non può avere.

Giusnaturalismo



Per approfondire, vedi Giusnaturalismo.

 Il giusnaturalismo, anche noto come dottrina del diritto naturale, è caratterizzato da un importante dualismo secondo cui al di sopra dell'ordinamento statale positivo si suppone un ordinamento naturale o razionale il quale pretende che il diritto positivo (o scritto) gli corrisponda: tale ordinamento superiore è la giustizia o, ciò che è meglio, l'ideale di una giustizia immaginata in un modo qualsiasi ovverosia quello che ciascun uomo pensa che sia la giustizia. I fautori del giusnaturalismo europeo, partendo da Ugo Grozio (che fu il fondatore del giusnaturalismo moderno), passando per Thomas Hobbes e Locke, Samuel von Pufendorf, Christian Thomasius, Jean Domat, Robert Joseph Pothier, i filosofi della seconda Scolastica, Michel de Montaigne, finendo a Rousseau e Immanuel Kant solo per citarne alcuni, malgrado la notevole diversità e la spiccata vivacità del loro pensiero, hanno percorso un sentiero comune: una sorta di viaggio tra la storia che, dal seicento fino ai giorni nostri, ha avuto ad oggetto la ricerca del fondamento assoluto con il quale poter giustificare i diritti umani e, dunque, una meta sconosciuta. Essi erano animati dalla profonda convinzione che a forza di accumulare e vagliare ragioni e argomenti, prima o poi sarebbe stata trovata la ragione o l'argomento ultimo, indiscutibile, a cui nessuno avrebbe potuto resistere. I Giusnaturalisti del XVII e XVIII secolo credettero di averla individuata nella "natura" o 'essenza' dell'uomo, soltanto grazie alla quale un qualsiasi diritto umano acquisito avrebbe potuto esserlo una volta per tutte.

Il carattere assolutistico della dottrina del Diritto Naturale si ravvisa nei due noti dogmi del razionalismo etico, definiti anche come le due illusioni del Giusnaturalismo (Bobbio): il primo consiste nella persuasione che i valori ultimi si possano dimostrare come teoremi (Hobbes); il secondo, che basta averli dimostrati, cioè resi in un certo qual modo irresistibili e inconfutabili, perché possano essere attuati. Secondo i giusnaturalisti, dunque, dimostrare la razionalità di un valore è condizione non già necessaria ma sufficiente per la sua attuazione. Quindi, mentre il primo dogma assicura la potenza della ragione, il secondo ne assicura il primato (Bobbio). Ad ogni modo, nonostante la dottrina del Diritto Naturale sia stata notevolmente presente e influente nella storia del diritto, il che è comprovato dall'esperienza Europea dello ius commune (XII-XVIII sec.) nel quale il diritto naturale non solo è scritto ma persino applicato in giudizio, essa è entrata in crisi già nel settecento a causa delle forti contraddizioni interne alla teoria; crisi coadiuvata dal sorgere, nella seconda metà del Settecento, di nuovi indirizzi filosofici, fra i quali un notevole peso l'ha avuto l'Immanentismo, al quale non può non aggiungersi, all'inizio del XX sec., l'orientamento storicistico. Proprio con l'avvento del relativismo storico si è sciolto definitivamente ogni dubbio sulla ricerca di un fondamento, che ora si ritiene generalmente essere solo temporalmente e culturalmente relativo.

Positivismo giuridico



Per approfondire, vedi Positivismo giuridico e Giusformalismo.

 Il positivismo giuridico è quell'indirizzo giusfilosofico secondo il quale il diritto se è naturale non è diritto e se è diritto non è naturale. Più precisamente, i suoi rappresentanti ritengono che la giustizia sia soltanto un ideale irrazionale, il cui contenuto non può costituire in alcun modo oggetto della conoscenza scientifica, cioè di una conoscenza razionale orientata verso l'esperienza, proprio come l'idea platonica. All'uomo, dice il giuspositivista - senza per questo disconoscere che la giustizia sia comunque utile alla volontà e all'azione umana - è dato solo di conoscere il diritto positivo come oggetto di ricerca, cioè il diritto così come è presentato agli organi legislativi, giudiziari, amministrativi e ai sudditi dai testi giuridici. Sotto questo aspetto essa pare essere una teoria giuridica tendenzialmente più realistica rispetto a quella del Diritto Naturale. Un'importante teoria giuspositivistica fu quella di Jeremy Bentham, successivamente resa popolare dal suo discepolo John Austin. La versione di Austin del Giuspositivismo era basata sull'idea della legge come comando del sovrano, reso efficace dalla minaccia di una punizione. Da ciò è nata la teoria dell'efficacia dell'ordinamento giuridico secondo la quale il diritto deve essere positivamente considerato come una specifica tecnica sociale per cui il legislatore raggiungerà o tenterà di raggiungere lo stato sociale che desidera, collegando al comportamento umano ritenuto (dal legislatore) socialmente nocivo un determinato atto coattivo dello Stato. Ed è con la minaccia di tale atto coattivo, avvertito dai sudditi come un male da evitare, che l'ordinamento giuridico persegue l'intento di indurre gli uomini a tenere un comportamento contrario (quello desiderato). Ciò deriva dalla concezione d'illecito elaborata dalla dottrina positivistica del XIX sec., secondo la quale illecito è quel dato comportamento umano posto nella proposizione giuridica come la condizione alla quale è unito l'atto coattivo dello Stato, posto nella proposizione stessa come la conseguenza giuridica e solo per questo la condizione è qualificabile come illecito e la conseguenza giuridica come conseguenza dell'illecito. In altre parole, mentre nella legge naturale la forma della connessione dei fatti è la causalità (se c'è A, deve necessariamente esserci B), nella legge giuridica è l'imputazione (se c'è A, deve esserci B; senza che ciò dica nulla sul valore morale o politico di tale rapporto).

La tradizione della teoria positivistica del XIX sec. È stata continuata dalla Dottrina Pura del Diritto (che sostanzialmente ne rappresenta la storica evoluzione giuridica, ma in senso più radicale), il cui esponente più rappresentativo è indubbiamente il giurista cecoslovacco Hans Kelsen, noto per la sua teoria normativistica(e giuspositivistica) del diritto. Va detto anzitutto che Kelsen è un immanentista nella misura in cui mostra una continua tendenza a eliminare tutti i dualismi (individuo e comunità; stato e diritto; diritto statale e diritto internazionale...) nei quali si articolano gli ordinamenti giuridici che osserva, riducendoli ad unità. Kelsen si sforza di purificare il diritto. Staccarlo il più possibile dalla natura da cui promana e liberarlo da ogni legame con i fenomeni dello spirito, in ispecie la morale, che lo contaminano; tenta di ridurlo al suo proprium normativo, privo di ogni elemento che possa trascenderlo in quanto mezzo. Lui, dunque, ritiene che se si considera l'ordinamento giuridico (positivo) come ordinamento normativo e la scienza giuridica come scienza limitata esclusivamente alla conoscenza di norme giuridiche (positive), si delimita il diritto di fronte alla natura e la scienza del diritto, come scienza normativa, rispetto a tutte le altre scienze che tentano di spiegare i fenomeni o gli accadimenti naturali mediante la legge di causalità. Fenomeni i quali, qualificati dalle norme giuridiche, si presentano come atti giuridici. Dunque, la Dottrina Pura del Diritto, come specifica scienza giuridica, considera le norme giuridiche come strutture qualificative volute o rappresentate.

Tuttavia, il normativismo kelseniano è teoria formalistica del diritto, per cui la norma valida è quella posta in essere nel modo stabilito dall'ordinamento giuridico. La dottrina Pura del Diritto, infatti, attribuisce alla norma fondamentale il cd. fondamento ipotetico, vale a dire se la Costituzione si presuppone valida allora sarà valido l'intero ordinamento che su di essa si fonda. Ma presupporre la validità di una norma non significa giustificarne l'obbligatorietà, che pertanto resta sempre e del tutto ricusabile (Cotta).

Realismo giuridico

 Il realismo giuridico, americano e scandinavo, offre una teoria non già formalistica ma fattualistica della validità del diritto. Dunque, secondo i suoi rappresentanti valida è la norma sorretta dalla pressione psicosociologica dell'intero ordinamento giuridico. In altri termini, il diritto è valido in quanto le sue norme sono effettivamente applicate, sia perché i cittadini le rispettano sia perché i giudici hanno il potere di farle rispettare. Tuttavia, vi è chi ritiene (così Cotta) che tale dottrina giuridica non fornisca alcuna giustificazione della validità della regola ma solo una spiegazione della sua obbedienza, ragion per cui essa sarebbe sempre e del tutto ricusabile.

Ermeneutica giuridicaTeoria interpretativa

 La teoria interpretativa (cui si ricollega l'ermeneutica giuridica) sostiene che la legge non è un insieme di dati o di fatti, ma è ciò che gli uomini di legge tendono a costruire o ottenere quando mettono in pratica la loro gerarchia di valori morali.

Sviluppi recenti

 Nel ventesimo secolo due giuristi hanno influenzato profondamente la filosofia del diritto. Sul continente, Hans Kelsen è stato il teorico più importante e la sua nozione di Grundnorm o norma legale ultima e fondamentale è ancora influente.

Nel mondo anglosassone la figura più influente fu H.L.A. Hart, il quale sosteneva che il diritto dovrebbe essere capito come un sistema di norme sociali. Hart rifiutava l'idea di Kelsen che le sanzioni fossero essenziali per la legge e che un fenomeno sociale normativo, come il diritto, potesse essere basato su fatti sociali non normativi. La teoria di Hart, per quanto apprezzata diffusamente, fu criticata da svariati filosofi del diritto della fine del ventesimo secolo, tra cui Ronald Dworkin, John Finnis e Joseph Raz.

Negli anni recenti, le dispute sulla natura del diritto si sono accentrate su due argomenti. Il primo di essi è una diatriba tra due scuole di pensiero all'interno del positivismo giuridico.  

    •     La prima scuola è detta giuspositivismo esclusivo ed è associata al punto di vista che la validità legale di una norma non possa mai dipendere dalla sua validità etica.

    •     La seconda scuola è detta giuspositivismo inclusivo ed è associata al punto di vista che le considerazioni etiche possono determinare la validità legale di una norma, ma ciò non avviene necessariamente. Qualsiasi teoria sostenga che ci sia un legame "necessario" tra diritto ed etica non sarebbe una forma di positivismo giuridico.

La seconda disputa importante degli anni recenti riguarda la teoria dell’interpretazione giuridica, un punto di vista associato strettamente a Ronald Dworkin. Una teoria interpretativa del diritto sostiene che i diritti ed i doveri legali sono determinati dalla migliore interpretazione delle pratiche politiche all’interno di una comunità. In base alla teoria di Dworkin di legge come integrità l’interpretazione ha due aspetti. Per eseguire un’interpretazione, la lettura di un testo deve soddisfare il criterio dell’adeguatezza. Ma, tra le interpretazioni adeguate, Dworkin sostiene che quella corretta è quella che mette nella loro luce migliore le pratiche politiche della comunità, cioè fa di esse "il meglio possibile".

Teorie normative del diritto

 La filosofia del diritto si interessa poi alle teorie normative del diritto, le quali studiano gli indirizzi ed i fini del diritto.

Quali teorie politiche ed etiche forniscono i fondamenti del diritto? Nella filosofia morale e politica contemporanea ci sono tre approcci influenti, riflessi in distinte teorie normative del diritto.

    •     L’Utilitarismo è il punto di vista secondo il quale la legge dovrebbe essere formulata in modo da fornire i migliori risultati. Storicamente esso si associa al filosofo Jeremy Bentham. Nella filosofia del diritto contemporanea l’approccio utilitaristico è spesso sostenuto da studiosi nel campo dell’analisi economica del diritto. Per utilitarismo dobbiamo intendere il termine non dal punto di vista volgare e comune quale è l'egoismo. Infatti si pone contro ogni tipo di egoismo etico. Possiamo distinguere un utilitarismo a livello quantitativo e uno QUALITATIVO il quale a sua volta si distingue in: IDEALE, EDONISTA.

    •     La Deontologia è il punto di vista secondo il quale la legge dovrebbe proteggere l’autonomia, la libertà ed i diritti individuali. Il filosofo Immanuel Kant formulò una teoria deontologica del diritto, che comunque non è la sola possibile. Un approccio deontologico contemporaneo è quello del filosofo del diritto Ronald Dworkin.

    •     Le teorie morali areteiche, come l’etica della virtù contemporanea esaltano il ruolo del carattere nella morale. La giurisprudenza della virtù è il punto di vista secondo il quale le leggi dovrebbero promuovere lo sviluppo di un carattere virtuoso nei cittadini. Questo approccio si associa storicamente ad Aristotele. La giurisprudenza della virtù contemporanea è ispirata dalle opere filosofiche sull’etica della virtù.

Ci sono molti altri approcci normativi alla filosofia del diritto, tra cui la teoria critica del diritto e le teorie libertarie del diritto.

Approcci filosofici a problematiche legali

 I filosofi del diritto si interessano ad una varietà di problemi filosofici che nascono in particolari ambiti legali, come il diritto costituzionale, il diritto contrattuale, il diritto penale e la responsabilità civile.

Così la filosofia del diritto classifica questi svariati argomenti come teorie del diritto contrattuale, teorie sulla punizione dei criminali, teorie della responsabilità civile e la questione se sia giustificata una revisione giudiziaria.

Bibliografia

    •     (IT)  Mauro Barberis, Manuale di filosofia del diritto, Giappichelli, 2011. ISBN 978-88-348-1834-3.

    •     (IT)  Mauro Barberis, Breve storia della filosofia del diritto, Il Mulino, 2004. ISBN 88-15-09955-7.

    •     (IT)  Norberto Bobbio, Teoria generale del diritto, Giappichelli, 1993. ISBN 88-348-3071-7.

    •     (IT)  Norberto Bobbio, Giusnaturalismo e positivismo giuridico, Editori Laterza, 2011. ISBN 978-88-420-8668-0.

    •     (IT)  Angelo Falzea, Introduzione alle scienze giuridiche. Il concetto del diritto, Giuffrè, 2008. ISBN 88-14-13778-1.

    •     (IT)  Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. I: Antichità e medioevo, Editori Laterza, 2012. ISBN 978-88-420-6239-4.

    •     (IT)  Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. II: L'età moderna, Editori Laterza, 2012. ISBN 978-88-420-6240-0.

    •     (IT)  Guido Fassò, Storia della filosofia del diritto, vol. III: Ottocento e Novecento, Editori Laterza, 2012. ISBN 978-88-420-7936-1.

    •     (IT)  Hans Kelsen, Teoria generale del diritto e dello Stato, Etas, 2000. ISBN 88-453-1016-7.

Collegamenti esterni

    •     Filosofia del diritto in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Filosofia politica

La filosofia politica è lo studio delle attività dell'uomo legate a tutto ciò che riguarda gli affari dello Stato.

Questa disciplina si occupa, soprattutto, della politica intesa come l'insieme di mezzi che permettono di ottenere gli effetti voluti: così si esprimeva Aristotele, il quale, nel suo trattato Politica, oltre a definire le funzioni dello Stato e le sue forme di governo, formula ipotesi per realizzare il buon governo della città.

Uno dei problemi fondamentali della filosofia politica è il rapporto tra l' agire politico e l' agire morale. L'azione umana riconosciuta moralmente giusta non corrisponde necessariamente ad un'azione politicamente valida e viceversa: questo perché il modo di agire della politica si materializza nell'uso del potere, mentre l'azione moralmente valida si realizza facendo riferimento ad un "sentire comune" che si basa su principi riconosciuti come moralmente giusti dalla comunità.

La filosofia politica nel pensiero antico

Platone



Per approfondire, vedi La Repubblica (dialogo).

Resti archeologici dell'Accademia di Platone.

 Tutta la filosofia di Platone è legata alla riflessione sulla politica. A questo proposito è particolarmente rilevante la trattazione che ne fa nel dialogo La Repubblica.

Qui Platone profila uno Stato ideale, una città utopica dove vige la giustizia perfetta. Platone modella questa città non solo per studiare la migliore città immaginabile, ma anche per scoprire come gli individui dovrebbero vivere al meglio. La città ideale, secondo Platone dovrebbe avere tre classi sociali: gente (dall'anima) aurea (governanti), gente (dall'anima) argentea (guerrieri) e gente (dall'anima) bronzea (lavoratori).

    •     classe dei lavoratori (popolo, caratteristica la temperanza (sophrosúnê); La parte dell'anima: concupiscibile)

    •     classe dei guardiani (phylakes o guerrieri, caratteristica il coraggio (andreia); parte dell'anima: irascibile)

    •     classe governativa (filosofi sovrani, caratteristica saggezza (sophía); parte dell'anima: razionale);

Quest'ultima classe deve essere al potere, in quanto classe di innata sensibilità, di inesauribile curiosità intellettuale; i filosofi vogliono capire e non solo constatare, ma anche far funzionare la convivenza.

Plutarco

Il filosofo greco Plutarco.



Per approfondire, vedi Vite Parallele.

Plutarco, scrittore e filosofo greco, studiò ad Atene e fu fortemente influenzato dalla filosofia di Platone e dall'idea del filosofo come politico.

Le sue Vite Parallele, pur essendo un'opera biografica, influenzarono la cultura (soprattutto la cultura dell'élite sociale) per lungo tempo. Si tratta di una serie di biografie di uomini celebri, giustapposte a coppie (una personalità greca ed una romana) allo scopo di profilare vizi o virtù morali comuni ad entrambi.

Sono pervenute ventitré coppie di biografie, oltre a quattro biografie spaiate.

La filosofia politica nel pensiero della modernità

Niccolò Machiavelli



Per approfondire, vedi Il principe.

Niccolò Machiavelli fu il primo a separare la politica (quindi l'agire attraverso il potere) dalla morale (quindi l'agire secondo principi e valori riconosciuti giusti dalla comunità). Secondo Machiavelli la politica era a-morale (cioè priva di morale ma non immorale). Con lui la politica diventa una scienza vera e propria, che non segue più la morale religiosa ma ne ha una propria. Nella sua opera più nota, Il Principe, specifica che chi governa (cioè il Principe), non segue modelli assoluti per legiferare (Positivismo Giuridico), ma deve fare tutto ciò che è possibile perché i sudditi vivano bene, anche mentire o uccidere. L'uomo virtuoso per Machiavelli è colui che riesce a trasformare ogni danno in una risorsa. Proprio da questo deriva la famosa massima "il fine giustifica i mezzi". (La frase comunque non è di Machiavelli).

Lorenzo Bartolini, Statua di Niccolò Machiavelli sulla facciata esterna degli Uffizi di Firenze.

Historia magistra vitae (La Storia maestra di vita). Ogni situazione particolare può essere analizzata e catalogata in base a caratteri generali. Per ogni problema è possibile quindi risalire ad una soluzione adatta in tutti gli altri casi in circostanze simili, e, rispettando questi criteri, funzionerà sempre. Anche la Fortuna (la sorte) gioca un ruolo importante. È dovere del principe prevenire i colpi della sorte pur non conoscendola. È celebre la metafora del fiume soggetto a piene stagionali. Di certo il principe non può sapere se e quando inonderà le terre vicine, né i danni che potrebbe causare, ma il probabile pericolo può essere evitato costruendo degli argini resistenti.

Thomas Hobbes

Il Leviatano, opera di filosofia politica di Thomas Hobbes, in un'edizione del 1651.



Per approfondire, vedi Leviatano (Hobbes).

 Per Hobbes il potere politico doveva essere concentrato nelle mani di un sovrano assoluto o di un gruppo di uomini, questo perché secondo lui nello stato originario degli uomini (stato di natura) si è perennemente in guerra (bellum omnium contra omnes) e non ci si può dedicare ad altre attività.

John Locke

John Locke invece è contrario al potere assoluto. Ciò deriva quindi da un diverso modo di concepire l'essere umano. Secondo molti, John Locke è stato (inconsapevolmente) l'architetto della moderna concezione di democrazia liberale (fondata cioè sulla priorità della libertà e dei diritti naturali). Le sue idee, espresse nella sua maggiore opera Secondo trattato sul governo civile, hanno esercitato grande influenza sulla formazione della filosofia politica dei padri fondatori delle repubbliche liberali statunitense e francese. Sono chiaramente di derivazione lockiana le seguenti frasi tratta dalla Dichiarazione di Indipendenza e dalla Costituzione degli Stati Uniti d'America:

« ...tutti gli uomini sono creati uguali1 »

« ...la vita, la libertà, la ricerca della felicità... noi riteniamo queste verità evidenti in se stesse. »

(dalla Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America (1776).)

Le tesi di Locke si oppongono quasi radicalmente all'impianto filosofico hobbesiano, nonostante alcuni punti di convergenza.

Il filosofo John Locke in un ritratto di Herman Verelst.

 Intanto, Locke distingue lo stato di natura (o stato pre-politico) dallo stato di guerra: quest'ultimo infatti, a differenza del primo, può manifestarsi anche in società già pienamente strutturate. Nello stato pre-politico (che rimane sempre una costruzione filosofica più che un vero e proprio stadio antropologico) gli uomini vivevano senza un corpo di leggi definito, e vivevano in pace, tranquillamente, preoccupandosi esclusivamente della propria sussistenza e del proprio benessere. Così come ipotizza Hobbes, anche nella costruzione lockiana l'uomo nasce libero e uguale agli altri, ma la grande novità è che non possiede più quel connotato, quasi infernale, di homo homini lupus che gli era stato attribuito dal padre del contrattualismo. Ha certamente istinti egoistici ma prova anche compassione e altruismo per il prossimo (sebbene rimangano sentimenti privi di vera e propria moralità). Non ci sono leggi che lo governano, ad eccezione della legge di natura: «Nessuno deve recar danno agli altri nella vita, nella salute o nei possessi», a meno che non sia strettamente necessario alla propria sopravvivenza (e proprio per questo motivo Locke formalizza anche un legittimo diritto all'autodifesa). Tuttavia, sebbene gli uomini vivano pacificamente, è possibile che certi uomini trasgrediscano la legge di natura (la pace non è garantita, così come avviene in Hobbes), ed è qui che nasce la legge civile, ovvero il contratto secondo il quale i diritti individuali vengono garantiti da un'autorità pubblicamente accettata («rule of law», o stato di diritto). Infatti, nello stato di natura, ogni uomo è giudice di se stesso: la giustizia è dunque soggettiva, il che e la mano, e così via. Inoltre, nello stato di natura, non tutti possono realizzare la giustizia, e c'è il rischio che chi viene punito si vendichi perché ritiene di aver subito un'ingiustizia: manca un giudice neutrale e obiettivo. Questo concetto è particolarmente importante sulle questioni riguardanti la proprietà, che Locke considera un diritto naturale inviolabile, al pari della libertà. Ma chi decide dove comincia la proprietà? In che momento un uomo può dire "questo è mio"? Nell'impianto filosofico lockiano si distinguono beni naturali e beni artificiali: i primi sono forniti direttamente dalla natura (come la frutta o l'acqua di un fiume), i secondi scaturiscono dall'applicazione del lavoro da parte dell'uomo. Dunque un bene naturale (come una mela) può diventare artificiale dal momento che viene colta, attraverso quindi l'impiego di lavoro umano. In quel preciso istante in cui l'uomo coglie la mela (il «punto di prima applicazione») nasce la proprietà. Con questi presupposti filosofici, Locke mette in relazione (per la prima volta nella storia dell'uomo) lavoro umano e valore dei beni, commisurando quest'ultimo in base alla quantità del primo - tesi che, molto tempo dopo, verrà ripresa e sviluppata dallo stesso Marx nelle sue opere, in chiave del tutto diversa, ovviamente. Per quanto riguarda i limiti del potere sovrano, Locke ritiene, al contrario di Hobbes, che il sovrano stesso sia parte integrante del contratto e quindi non può esser considerato al di sopra della legge; non può violare i diritti naturali di alcun individuo e non si può porre in una condizione assolutista: se ciò avvenisse il contratto decadrebbe e la società piomberebbe di nuovo nello stato di guerra, in cui ognuno è tenuto a giudicare e farsi giustizia da sé. Lo stato di guerra lockiano è, per molti versi, simile allo stato di natura hobbesiano. Inoltre, vi sono una serie di diritti che l'uomo possiede dalla nascita, indipendentemente dalla società, e di conseguenza non possono esser tolti o essere oggetto di limitazione (diritto alla libertà, uguaglianza, proprietà).

Montesquieu

 Filosofo per eccellenza della moderazione, Montesquieu è il padre del principio della divisione dei poteri e di quello dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Il punto di partenza della sua riflessione, contenuta essenzialmente nell'opera Lo spirito delle leggi (1748), è la definizione del diritto naturale: per Montesquieu le leggi naturali sono rapporti necessari tra una serie di elementi costanti; il diritto naturale è dunque invariabile ed eterno proprio perché riguarda caratteristiche proprie dell'essere umano. Le leggi positive, viceversa, sono connotate come rapporti costanti tra elementi variabili e queste variabili sono dette variabili empirico - naturaliste. Quando elementi variabili si combinano danno dunque luogo alle leggi positive, le quali, proprio per questo motivo, sono prettamente mutevoli, a differenza delle leggi naturali. Il fattore variabile più importante nella creazione delle leggi positive è la forma di governo che contraddistingue un popolo; pertanto per conoscere le leggi positive proprie di un popolo è necessaria una catalogazione delle forme di governo. Montesquieu individua tre diverse forme di governo: monarchia, repubblica e tirannide. Riprendendo l'impianto classificatorio di matrice platonico - aristotelica, Montesquieu distingue le specie di governo fisiologiche da quelle patologiche; tuttavia, a differenza di Platone e di Aristotele, individua la scriminante nella legge. Utilizzando il metodo comparativo, Montesquieu arriva ad affermare che una forma di governo non è patologica solo se il potere è sottoposto alla legge e a tal fine è necessaria non solo una separazione orizzontale dei poteri ma anche il loro reciproco controbilanciamento. In particolare secondo Montesquieu proprio il potere giurisdizionale, da lui definito come funzione delle cose che dipendono dal diritto civile, è quello che più tende a soverchiare il continuum legislativo-esecutivo. Per tale ragione Montesquieu, guardando al modello della giuria popolare inglese, arriva ad affermare che il giudice deve solo applicare e non interpretare la legge: deve essere insomma la bocca della legge. Oltre alla supremazia della legge ed alla divisione dei poteri, un terzo elemento caratterizza una forma di governo fisiologica: la garanzia della libertà. A tale scopo è necessario che le leggi siano in generale chiare, conoscibili e comprensibili al popolo e in particolare quelle penali devono rispettare i principi di legalità, umanità e proporzionalità della pena.

Purtroppo quella che è stata il frutto di un dura lotta, pagata anche con il sangue, e che ha dato la stura allo stato moderno, in molti paesi oggi rischia di diventare un retaggio del passato, nell'indifferenza di istituzioni malate prive di direttrici ed assetate da pulsioni esterne che non dovrebbere essere degne di tutela. Se la tutela indiretta non è un diritto, non è una garanzia del cittadino, non resta che abdicare a favore della tutela diretta, con un salto nel buio e all'indietro di secoli. E allora non resta che dire viva la libertà dallo stato, dalle leggi, e dagli uomini!

Jean-Jacques Rousseau



Per approfondire, vedi Il contratto sociale.

 Nel XVIII secolo Rousseau, attraverso l'idea di contratto sociale, afferma la necessità di una struttura politica  democratica volta a tutelare al meglio i diritti dei cittadini, realizzando la volontà generale.

La filosofia politica nel pensiero illuminista e idealista

Immanuel Kant



Per approfondire, vedi Per la pace perpetua.

Immanuel Kant analizza l'uomo e in lui trova una tendenza egoistica, ovverosia una insocievole socievolezza: gli uomini tendono a unirsi in società, ma con una riluttanza a farlo davvero. Essi si associano per la propria sicurezza e si dissociano per i propri interessi. Ma è proprio questa conflittualità a favorire il progresso e le capacità del genere umano, perché gli uomini lottano per primeggiare sugli altri, come gli alberi: si costringono reciprocamente a cercare l'uno e l'altro al di sopra di sé, e perciò crescono belli dritti, mentre gli altri, che, in libertà e isolati fra loro, mettono rami a piacere, crescono storpi, storti e tortuosi. Secondo Kant, il diritto consiste nella limitazione della libertà di ciascuno alla condizione che essa si accordi con la libertà di ogni altro. La libertà di ognuno coesiste con la libertà degli altri. Ovviamente l'uomo kantiano non può non avere bisogno di un padrone, ma il padrone non è un altro uomo, bensì il diritto stesso. Kant conosce le tesi di John Locke sul liberalismo ed anch'egli afferma che lo Stato mira a garantire la libertà di ogni persona contro chiunque altro. Lo "Stato repubblicano" che delinea si basa su "Tre principi della ragione":

    •     La Libertà:

    •     L'Uguaglianza di tutti di fronte alla legge;

    •     L'Indipendenza dell'individuo (in quanto cittadino).

Questa visione dello Stato va in conflitto con un qualsiasi dispotismo presente, anche paternalistico. Secondo Kant infatti, «un governo paternalistico è il peggiore dispotismo che si possa immaginare», dato che costringe i sudditi ad attendere che il capo dello Stato giudichi solo mediante la sua bontà. C'è solo una soluzione a questo problema: essere liberi per poter esercitare le proprie forze nella libertà.

Karl Marx



Per approfondire, vedi Karl Marx.

 Per Karl Marx il governo è, come dice nel Manifesto del Partito comunista, il comitato d’affari della borghesia di quella nazione. È quindi necessaria una frattura rivoluzionaria per passare al comunismo. Resta comunque il concetto di stato, in un primo momento, la cosiddetta 'dittatura del proletariato'. In realtà il punto di arrivo è in comune con la visione di Lenin: lo Stato borghese si abbatte e non si cambia. L'assenza di stato è il vero comunismo del futuro.

La filosofia politica nel pensiero contemporaneo

Karl Popper



Per approfondire, vedi La società aperta e i suoi nemici.

 Parallelamente al suo pensiero epistemologico Karl Popper sviluppa un’innovativa dottrina politica. Popper critica infatti il pensiero politico sia di Hegel che di Marx imputando loro l'errore di pretendere di conoscere il corso del futuro della storia, svuotando così inevitabilmente il presente di responsabilità morale. La loro diviene dunque una visione utopica che nasconde una componente di violenza e di prevaricazione che si concretizza nella nascita di una società totalitaria, da lui definita, con il termine coniato da Henri Bergson di società chiusa. All’utopia Popper contrappone l’ipotesi di una società aperta, retta da istituzioni democratiche autocorreggibili, fondata sulla libertà, sul dialogo e sulla tolleranza

John Rawls



Per approfondire, vedi Una teoria della giustizia e Liberalismo politico.

 La teoria neocontrattualistica di John Rawls pone l’accento sul fatto che per decidere su quali principi la società debba regolarsi, sia in qualche modo necessario un accordo, condividendo non un principio ma una procedura (il c.d. velo di ignoranza), che permette di trovare un accordo che, nella teoria della giustizia, è un patto sui principi di giustizia che devono regolare la nostra società. In particolare i principi sono due. Il primo principio riguarda le istituzioni politiche ed è il principio di massimizzazione della libertà tanto caro a John Stuart Mill. Vi è poi il principio di differenza. Questo principio riguarda l’idea per la quale ciascun vantaggio o bene sociale primario di cittadinanza deve essere distribuito egualmente a meno che una qualche ineguaglianza nella sua distribuzione non vada a vantaggio di chi è più svantaggiato. John Rawls realizza così una teoria della giustizia basata sull'equità, fondendo insieme tra loro i due grandi termini del vocabolario politico della tradizione democratica: libertà ed uguaglianza.

I Contrattualisti



Per approfondire, vedi Contrattualisti.

 Nell'epoca contemporanea la filosofia politica, oltre ad occuparsi secondo schemi tradizionali dello studio dello Stato (inteso come centro del potere politico), analizza e studia tutto ciò che riguarda il pubblico e in questo senso anche problemi di natura sociale ed economica. In particolare Salvatore Veca, in un'epoca caratterizzata dalla crisi della statualità, è fautore, specificatamente nell'opera La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull'idea di giustizia, di una teoria della giustizia globale, ovvero un ripensamento cosmopolitico e sovranazionale delle logiche politiche moderne (basate su legalità, costrizione e monopolio della violenza).

Salvatore Veca al Festival della Mente 2011.

 Contrapposta a questa visione contrattualista si erge invece la prospettiva di quanti, come Robert Nozick, Murray Newton Rothbard e Hans-Hermann Hoppe propendono per il superamento di ogni struttura di potere centralizzato e egemone, e propongono - all'interno di un quadro concettuale libertario e liberale - un ordine policentrico e concorrenziale di agenzie protettive in libera concorrenza tra loro. Di importanza cruciale a proposito è il testo di riferimento della teoria liberale e anarco-individualista di Murray Newton Rothbard "L'Etica della Libertà".

Bibliografia

    •     Giacomantonio, Francesco(a cura di). La filosofia politica nell'età globale(1970-2010) , Milano: Mimesis, 2013.

    •     Marzocchi, Virginio. Filosofia politica. Storia, concetti, contesti, Bari: Laterza, 2011.

    •     Gatti, Roberto. Filosofia politica. Gli autori, i concetti, i problemi, Brescia: La Scuola, 2011.

    •     Petrucciani, Stefano. Modelli di filosofia politica, Torino: Einaudi, 2003.

    •     Andreatta Alberto - Baldini Artemio Enzo - Dolcini Carlo - Pasquino Gianfranco (a cura di). Il pensiero politico. Idee, teorie, dottrine, 4 voll. e Antologia,  Torino: UTET 1999.

    •     Cropse, Joseph & Strauss, Leo. Storia della filosofia politica, Vol. 1: Da Tucidide a Marsilio da Padova (1993); Vol. 2: Da Machiavelli a Kant (1995); Vol. 3: Da Blackstione a Heidegger (2000) Genova: Il Nuovo Melangolo.

Voci correlate

    •    Scienza politica

    •    Storia delle dottrine politiche moderne

    •    Partito politico

    •    Partecipazione politica

    •    Politics

    •    Rappresentanza politica

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Collegamenti esterni

    •     Bollettino telematico di filosofia politica

    •     Società Italiana di Filosofia Politica

    •     Filosofia politica in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.

    •     Biblioteca elettronica su Montesquieu e dintorni



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Filosofia della religione

Simboli religiosi

 La filosofia della religione è quella branca della filosofia che riflette sul significato della religione per l'essere umano.

Essa studia il rapporto dell'uomo con la sfera del religioso cercando di inquadrare il fenomeno religioso attraverso gli strumenti logici della comprensione e dell'interpretazione filosofica. Si differenzia dalla fenomenologia della religione, dalla psicologia della religione e dalla sociologia della religione, per quanto attiene al metodo; ma differisce pure dalla teologia, sebbene ci siano delle tangenze nel campo della teologia naturale e della teologia fondamentale, per quanto riguarda i propositi (apologetici) di quest'ultima.

La filosofia della religione può essere praticata in termini universali, in quanto è interessata al problema religioso e cerca di analizzarlo intellettualmente e in modo sistematico. Ma può anche focalizzare ambiti individuali e specifici, come ad esempio quelli della filosofia della religione ebraica, cristiana o islamica. La disciplina studia i fondamenti epistemici, morali ed etici di ogni credo religioso e ne configura il limite nell'approccio fideistico, ossia nel credere senza ragionare. Il grande dilemma dello studio filosofico delle religioni sta proprio nella dicotomia fede/ragione e nel cercare di determinare e chiarire (se esiste) il confine tra l'una e l'altra.

Lo statuto epistemico

 Raccogliendo un invito formulato da più parti, secondo il quale è preferibile evitare di circoscriverne l'ambito di indagine attraverso una definizione preliminare (problematica come tutte le definizioni), si può forse optare per una brevissima delucidazione della nozione di "filosofia della religione" che ne chiarisca almeno alcuni aspetti salienti. Molti studiosi hanno cercato di determinare in via negativa lo spettro semantico di questo concetto, ponendo in evidenza per es. le differenze che intercorrono tra la filosofia della religione propriamente detta e le discipline affini, quali sono da un lato le "scienze delle religioni" (storia, antropologia, etnologia, psicologia, sociologia delle religioni e via discorrendo) e dall'altro la teologia in tutte le sue espressioni.

Come nota opportunamente Adriano Fabris nella sua Introduzione alla filosofia della religione (Laterza, Roma-Bari 1996), la Filosofia della religione differisce da esse nella misura in cui, a differenza delle scienze delle religioni, essa «non considera il proprio tema necessariamente come un "oggetto" di indagine. Essa non si rivolge cioè alla sfera religiosa applicando un metodo ben definito che le potrebbe consentire di ricondurre quest'ambito entro schemi stabiliti preventivamente [...]»; anzi «sa che è pregiudiziale e riduttivo considerare i fenomeni del culto e della fede come semplici oggetti, sa che in tal modo va perduto lo spessore vitale di questa dimensione, ed è quindi disposta anzitutto a farsi suggerire dai documenti e dalle testimonianze religiose gli spunti più adeguati per la propria interrogazione su di essi»; inoltre, nell'ambito degli studi filosofico-religiosi «non ci si accontenta di ciò che appare storicamente, nella sua contingenza o nella sua ricorrente storicità. Ci si domanda invece che cos'è ciò che a una tale esperienza si manifesta, quali sono i suoi caratteri distintivi, che cosa lo costituisce».

E dalla teologia invece differisce in quanto non si fa carico di compiti di natura apologetica, limitandosi a raccogliere «quella domanda sul senso che anima l'atteggiamento religioso articolandone le ragioni al di là della sfera a cui si limitano le sue giustificazioni»; vale a dire, essa «non fornisce buone ragioni né per credere né per non credere. Essa piuttosto parla di Dio solo in maniera indiretta, passando cioè per il tramite di un'analisi dell'ambito religioso», vale a dire una analisi rigorosa della dimensione religiosa nel complesso.

Filosofia della religione o delle religioni?

 Conviene prendere almeno brevemente in considerazione le obiezioni sollevate nei confronti della denominazione al singolare che caratterizza l'espressione "filosofia della religione". Infatti per questa via pare possibile chiarire ulteriormente l'autentica vocazione degli studi filosofico-religiosi. È stato giustamente asserito che l'alternativa tra la dizione "filosofia della religione" e quella di "filosofia delle religioni" (eletta erroneamente da alcuni a garanzia del pluralismo religioso) costituisce un falso problema in quanto « con la denominazione di filosofia della religione si intende infatti, in via generale, l'autonomo accostarsi del pensiero filosofico al fatto religioso concepito nella sua integralità e lo sforzo, operato dalla riflessione, di coglierne e penetrarne l'essenza e i caratteri; e lo stesso parlare di "fatto religioso" nella sua generalità sottintende una radicale apertura, non solo interconfessionale ma genuinamente interreligiosa, a ogni manifestazione del sacro e a ogni contenuto di fede e di esperienza del divino.

Non si tratta pertanto, nemmeno nella denominazione usuale, di una particolare religione ma della religione come fenomeno universalmente umano, del suo darsi ed emergere quale comun denominatore delle sue più diverse e lontane apparizioni: e in questo senso il plurale che si vorrebbe preservare è già tutto inscritto nel singolare "collettivo" adoperato tradizionalmente. Tanto varrebbe altrimenti, come fu ironicamente a suo tempo suggerito, porre la medesima questione (smascherandone così la mancanza di senso) a proposito - tanto per fare alcuni esempi illuminanti - di filosofia "dei diritti", di filosofia "delle politiche", di filosofia "dei linguaggi", o "delle storie" [...] » (cfr. Marco Ravera, Introduzione alla filosofia della religione, Utet, Torino 1995).

Filosofia analitica della religione

 Il decisivo interesse riservato al linguaggio all'interno della filosofia del Novecento ha favorito la nascita e lo sviluppo di una vera e propria Filosofia analitica della religione, vale a dire di una serie di « tendenze filosofiche che nel pensiero contemporaneo hanno applicato tecniche e strumenti analitici al discorso religioso in ciascuna delle varie fasi dello sviluppo dell'analisi filosofica e del suo complesso rapporto con la ricerca epistemologica. Nella applicazione al problema religioso la svolta linguistica si manifesta per lo più nella caratterizzazione della filosofia della religione come una ricerca sui tipi di enunciati che esprimono la credenza religiosa e sulla logica del discorso in cui la credenza trova espressione » (cfr. Mario Micheletti, Introduzione alla filosofia analitica della religione. Un'introduzione storica, Brescia 2002).

Letture consigliate

    •     H. Spano,  Sul domandare filosofico-religioso Dialegesthai 2010 (ISSN 1128-5478)

    •     P. De Vitiis, Filosofia della religione tra ermeneutica e postmodernità, Morcelliana, Brescia 2010.

    •     R. Di Ceglie, Dio e l'uomo. Istituzioni di filosofia della religione, Lateran University Press, Roma 2007.

    •     S. Sorrentino (Ed.), Teologia naturale e teologia filosofica, Aracne, Roma 2006.

    •     C. Hughes, Filosofia della religione. La prospettiva analitica, Laterza, Roma-Bari 2005.

    •     S. Sorrentino, Realtà del senso e universo religioso, Carocci, Roma 2004.

    •     C. Greco, L'esperienza religiosa. Un itinerario di filosofia della religione, San Paolo, Milano 2004.

    •     J.H. Sobel, Logic and Theism, Cambridge University Press, Cambridge 2004.

    •     P. Colonnello - P. Giustiniani, Ragione e rivelazione. Introduzione alla filosofia della religione, Edizioni Borla, Roma 2003.

    •     M. Micheletti, Filosofia analitica della religione. Un'introduzione storica, Morcelliana, Brescia 2002.

    •     D.Z. Phillips - T. Tessin (Eds.), Philosophy of Religion in the 21st Century, Palgrave, Basingstoke 2001

    •     C. Angelino (Ed.), Filosofia della religione, Marietti, Genova 1999.

    •     K.E. Yandell, Philosophy of Religion. A contemporary Introduction, Routledge, London and New York 1999.

    •     A. Fabris, Introduzione alla filosofia della religione, Laterza, Roma-Bari 1996.

    •     M. Ravera, Introduzione alla filosofia della religione, Utet, Torino 1995.

    •     M.M Olivetti "Filosofia della religione" in La filosofia, Le filosofie speciali, Utet, Torino 1995.

    •     M.M. Olivetti, Filosofia della rivelazione come problema storico, Cedam, Padova 1994.

    •     M. Micheletti - A. Savignano (Eds.), Filosofia della religione. Indagini storiche e riflessioni critiche, Marietti, Genova 1993.

    •     S. Sorrentino, Filosofia ed esperienza religiosa, Guerini, Milano 1993.

    •     A. Jacopozzi, Filosofia della religione, Piemme, Casale Monferato 1992.

    •     M. Perterson - W. Hasker - B. Reichenbach - D. Basinger (Eds.), Religion and Religious belief. An introduction to the Philosophy of Religion, OUP, Oxford-NewYork 1991.

Voci correlate

 S.Carraro, Filosofia del Paganesimo moderno, Arkham University, trattato.

    •    Metafisica

    •    Teologia

    •    Storia delle religioni

    •    Credenza religiosa



Altri progetti

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Collegamenti esterni

    •     (EN)   Ars Disputandi

    •     Giornale di filosofia della religione sito ufficiale AIFR

    •     Filosofia e Teologia sito ufficiale AISFET

    •    [1] spazio di condivisione on-line

    •     Filosofia della religione in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Filosofia della storia

« Hegel nota in un passo delle sue opere che tutti i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte. Ha dimenticato di aggiungere la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa. »

(Karl Marx)

L'Università di Berlino nel 1900. Fu la prima università ad accogliere la disciplina della filosofia della storia. Essa fu introdotta da Hegel agli inizi del XIX secolo.

La filosofia della storia si occupa della problematica classica del significato della storia e di un suo possibile fine teleologico. Essa si chiede se esista un disegno, uno scopo, un obiettivo o un principio guida nel processo della storia umana. Altre questioni su cui si interroga questa disciplina sono se l'oggetto della storia è la verità o il dover essere, se la storia è ciclica o lineare, o se esiste in essa il concetto di progresso.

Da un punto di vista più positivista la filosofia della storia è la disciplina filosofica che studia la fenomenologia storica degli avvenimenti in base ai canoni della scienza, superando ogni ideale ed entità metafisica.  

Il primo ad usare il termine fu probabilmente Voltaire con il suo La philosophie de l'histoire del 1765, anche se la ricerca di un senso della storia è ben precedente.

Il termine storiosofia1, coniato da Gershom Scholem2 è sostanzialmente equivalente a filosofia della storia, anche se esso va più precisamente riferito all'intersezione di storia e metafisica.

La filosofia della storia si distingue dalla storiografia, che è lo studio della storia come disciplina accademica, e quindi riguarda i suoi metodi e le sue pratiche, come pure il suo sviluppo temporale come disciplina. Allo stesso tempo, la filosofia della storia va distinta dalla storia della filosofia, la quale è lo studio dello sviluppo delle idee filosofiche nella loro sequenza temporale.

Il rapporto con la filosofia generale



Per approfondire, vedi Giudizio storico.

 Le principali differenze che si interpongono fra la filosofia "del tutto" e la filosofia storica sono molteplici.

Dal punto di vista metodologico, la filosofia propriamente detta utilizza procedimenti razionali e rigorosi, fondati su evidenze logico - concettuali. Le scienze "esatte" usano l'osservazione della natura, le logiche matematiche, quelle umane e oltre a questi metodi, ricorrono all’esperimento. La filosofia cerca un sapere che abbia un senso per l’uomo e per la sua vita.  Platone interpreta la filosofia come scienza e saggezza nella sfera del divino e dell’umano.  Nella filosofia moderna, in coincidenza con la nascita delle scienze, si trova anche un’altra interpretazione, che, a partire da Francesco Bacone, passa nel positivismo e poi nel neoempirismo: la filosofia, come “madre di tutte le scienze”, ha il compito di unificare e vagliare gli esiti e i metodi delle scienze particolari.  Non lontano da questa prospettiva si pongono John Locke, David Hume,  Immanuel Kant,  che interpretano la filosofia come dottrina generale della conoscenza - un nuovo concetto di episteme - come indagine critica dei limiti e delle possibilità del sapere umano.

Se la filosofia si è sempre occupata  

    •     del problema metafisico (oggetto della filosofia teoretica, incentrato sulla determinazione della natura dell’essere e sull’indagine dei principi primi della realtà;

    •     del problema morale (oggetto della filosofia morale o etica), che si occupa in particolare dell’analisi e della determinazione della natura dell’uomo, della finalità delle attività umane e dei mezzi per conseguirla;

    •     del problema politico (oggetto della filosofia del diritto e della filosofia della politica), caratterizzato dallo studio dei fondamenti generali del diritto, dei rapporti fra diritto e strutture giuridiche, fra individuo e Stato, fra libertà e potere;

    •     del problema scientifico (oggetto della filosofia della scienza o epistemologia), che ha per tema le strutture concettuali e gli apparati metodologici delle scienze (indipendentemente dagli oggetti specifici delle singole discipline), la verità e l’ipoteticità del discorso scientifico;

    •     del problema religioso (oggetto della filosofia della religione), incentrato sul tentativo di determinare razionalmente le principali caratteristiche del fenomeno religioso;

    •     del problema artistico (oggetto della filosofia dell’arte o estetica), che tenta di definire l’arte e la bellezza;



la filosofia della storia è una filosofia che, rispecchiando i canoni della scienza, trascendendo ogni ideale ed entità metafisica, ha per oggetto di studio la fenomenologia storica degli avvenimenti.

In questo senso, il teorema fondamentale della filosofia della storia è che la realtà storica non è un ente metafisico immutabile, anzi, essa è soggetta alle trasformazioni storico-politiche della sua epoca e attraverso varie epoche offre una varietà di aspetti.

Voci correlate

    •    Cosmogonia

    •    Cosmologia

    •    Francesco Guicciardini

    •    Niccolò Machiavelli

    •    Giambattista Vico

    •    Immanuel Kant

    •    Pensiero di Hegel

    •    Auguste Comte

    •    Materialismo storico

    •    Karl Marx

    •    Il tramonto dell'Occidente

    •    Michel Foucault

    •    Jürgen Habermas

    •    Fine della storia

    •    Francis Fukuyama

    •    Nuovo Medioevo

    •    Storicismo

Collegamenti esterni

    •     Intervista a Umberto Galimberti sulla filosofia della storia

    •    (EN)  Portale web sulla Filosofia della storia, Storiografia e la Cultura Storica

    •     Filosofia della storia in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.

    •     International Network for Theory of History



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Bioetica

 La bioetica (dal greco antico ἔθος (o ήθος)1, "èthos", carattere o  comportamento, costume, consuetudine e βίος, "bìos", vita) è una disciplina che si occupa delle questioni morali collegate alla ricerca biologica e alla medicina.

Nella bioetica sono coinvolte varie discipline come filosofia, filosofia della scienza, medicina, biologia, genetica, epigenetica, embriologia, giusnaturalismo, diritto, così come le problematiche collegate alle varie visioni morali atee, spirituali o religiose ed all'esercizio del potere politico sul corpo dei cittadini (biopolitica).

Coloro che trattano del tema della bioetica sono quindi specialisti in varie discipline, come filosofi, giuristi, sociologi che vengono chiamati con il termine di "bioeticisti", o più comunemente "bioetici".23

Teseo e il Minotauro in uno skyphos beota a figure nere del ~550 a.C.

Origine del termine e definizioni

Fritz Jahr

 La coniazione del termine bioetica è attribuita a Fritz Jahr, che nel 1927 parlò di «imperativo bioetico» riguardo allo sfruttamento di fauna e flora da parte dell'uomo.45

Van Rensselaer Potter

 Con il significato attuale il termine fu adoperato per la prima volta dall'oncologo statunitense Van Rensselaer Potter (1911-2001), che lo utilizzò nel 19706 in un articolo pubblicato sulla rivista dell'Università del Wisconsin "Perspectives in Biology and Medicine" con il titolo «Bioetica: la scienza della sopravvivenza».7 Nel 1971 lo stesso autore raccoglieva vari articoli su questi argomenti in un libro intitolato Bioethics: Bridge to the future (Bioetica: un ponte verso il futuro) dove scriveva:
 «Ho scelto la radice bio per rappresentare la conoscenza biologica, la scienza dei sistemi viventi; e ethics per rappresentare la conoscenza del sistema dei valori umani.»8

Potter spiegava il termine bioetica come la scienza che consentisse all'uomo di sopravvivere utilizzando i suoi valori morali di fronte all'evolversi dell'ecosistema. La bioetica doveva essere «un'ecologia globale di vita»9.

André Hellegers

 I ricercatori del Kennedy Institute, ed in particolare l'ostetrico olandese E. André Hellegers definirono la bioetica come una branca dell'etica dedita allo studio e alla ricerca della biomedicina10.

In senso più aderente alla filosofia André Hellegers considerava la  bioetica come un nuovo aspetto del dialogo socratico capace cioè di far interloquire la medicina, la filosofia e l'etica alla ricerca di verità condivise.

Warren Reich

 Questa definizione venne in seguito giudicata troppo riduttiva11 da Warren Reich, che nella sua Enciclopedia della bioetica elaborò questa definizione globale:  «Lo studio sistematico delle dimensioni morali - inclusa la visione morale, la condotta e le politiche – delle scienze della vita e della salute, utilizzando varie metodologie etiche e con un'impostazione interdisciplinare»12 dove si dava maggiore valore alla morale: si trattava dunque di uno «studio sistematico delle dimensioni morali delle scienze della vita e della salute includendovi anche i problemi sociali e ambientali legati alla salute».13

Altre definizioni

 La bioetica viene definita come un'area di ricerca che grazie a diverse discipline su cui si basa pone come «oggetto dei suoi studi l'esame sistematico della condotta umana nel campo della scienza della vita e della salute».

Nella Encyclopedia of Bioethics pubblicata in seconda edizione nel 1995 in 5 volumi dal Kennedy Institute of Ethics della Georgetown University di Washington (Stati Uniti d'America) la bioetica è definita: "Lo studio sistematico delle dimensioni morali - includendo, visione, decisione, comportamento e norme morali - delle scienze della vita e della salute, utilizzando una varietà di metodologie etiche in un contesto interdisciplinare"14

Altra definizione che si discosta dalle precedenti è quella che la identifica come un movimento di idee e di valori che continuamente cambiano nel corso della storia.

Successivamente T.L. Beauchamp e C. F. Childress parlano di etica biomedica evitando il termine bioetica.

Il filosofo tedesco Hans Jonas sostiene che nel campo della bioetica non possono darsi risposte definitive in quanto ogni valore morale deve commisurarsi sulla mutevole realtà a cui deve essere applicato. Auspica inoltre una piena libertà della ricerca medica fiducioso che essa abbia in sé stessa le capacità di autoregolamentarsi.

Concetti simili alle definizioni precedenti si ritrovano nel movimento transumanista, o per altri versi nella sociobiologia e nella psicologia evoluzionista.

Bioetica e religioni



Per approfondire, vedi Bioetica e religioni e Creazione (teologia).

 Una premessa necessaria, che segna alla radice il dibattito in atto in vari paesi del mondo, è il concetto di Creato. Quasi tutti i credenti di qualsiasi fede religiosa condividono l'idea che ciò che ci circonda viene da un atto di creazione, cioè da un intervento divino, sovrannaturale.  Tale impostazione iniziale, come conseguenza, porta alle problematiche che coinvolgono la bioetica, che a loro volta hanno ripercussioni su alcune tra le questioni più significative della vita umana (nascita, sessualità, morte). Sono evidenti quindi le notevoli connessioni di questi temi con la religione ed altrettanto evidenti le cause delle reazioni dei non credenti al riguardo.

Nell'Encyclopedia of Bioethics vengono analizzati molti autori di matrice religiosa, documentandone l'apporto storico e teorico alla nascita e allo sviluppo della riflessione bioetica. Esperti e studiosi di buddhismo, confucianesimo, cristianesimo, ebraismo, induismo, islamismo e taoismo infatti si sono cimentati con questa disciplina sin dai suoi inizi, offrendo, in molti casi, dei contributi di rilievo.

La necessità/giustificabilità/eticità della sperimentazione animale, rispetto alla ricerca scientifica biologica o medica, è  oggetto di accese discussioni.

Bioetica e cattolicesimo



Per approfondire, vedi Bioetica cattolica.

 Nei paesi di tradizione cattolica è rilevante il ruolo ricoperto dalla bioetica cattolica.  La bioetica cattolica ufficiale - cioè quella contenuta nei documenti del magistero della Chiesa, nelle opere degli autori che risultano in sintonia dottrinale con essi e nella comunità scientifica che ad essa fa riferimento - si muove all'interno del paradigma della sacralità e indisponibilità della vita, sostenendo che la persona umana, come non è la creatrice della vita, così non ne è la proprietaria. All'idea della sacralità e indisponibilità della vita si connettono la proibizione dell'aborto, l'illiceità del suicidio 'consapevole' ed il rifiuto dell'eutanasia. La bioetica cattolica sostiene che ciascun essere umano ha il diritto/dovere alla vita, intendendosi, con questa definizione, la forma di vita umana dal momento del suo concepimento a quello della sua morte naturale.

Bioetica laica

 Alle interpretazioni bioetiche religiose si aggiunge quella laica.  Un documento di bioetica laica è quello pubblicato nel 1996 a firma di Flamigni, Massarenti, Mori,15  e Petroni16, denominato "Manifesto di bioetica laica"17. Una citazione può sintetizzare il paradigma ispiratore del documento: Noi laici non osteggiamo la dimensione religiosa. La apprezziamo per quanto possa contribuire alla formazione di una coscienza etica diffusa. Quando sono in gioco scelte difficili, come quelle della bioetica, il problema per il laico non è quello di imporre una visione 'superiore', ma di garantire che gli individui possano decidere per proprio conto ponderando i valori talvolta tra loro confliggenti che quelle scelte coinvolgono, evitando di mettere a repentaglio le loro credenze e i loro valori. Sul tema si sono espressi anche altri studiosi, come ad esempio Giovanni Fornero18, che in un suo lavoro cita William Frankena19 quando scrive: È dubbio che qualcuno abbia mai realmente creduto che “il semplice vivere” sia un bene degno di essere perseguito, nel senso di ritenere che la vita è un bene in sé, a prescindere da come è connotata.

Il documento si conclude con l'affermazione che: La visione laica si differenzia dalla parte preponderante delle visioni religiose in quanto non vuole imporsi a coloro che aderiscono a valori e visioni diverse. Là dove il contrasto è inevitabile, essa cerca di non trasformarlo in conflitto, cerca l'accordo 'locale', evitando le generalizzazioni. Ma l'accettazione del pluralismo non si identifica con il relativismo, come troppo spesso sostengono i critici. La libertà della ricerca, l'autonomia delle persone, l'equità, sono per i laici dei valori irrinunciabili. E sono valori sufficientemente forti da costituire la base di regole di comportamento che sono insieme giusti ed efficaci.

Giovanni Fornero nei suoi lavori20 parla di due diversi paradigmi per concettualizzare la realtà, come indicato nei singoli aspetti tematici riportati nel prosieguo di questa voce.

Anche Gustavo Raffi ha espresso una propria opinione di una visione laica 21.

Umberto Veronesi, intervenendo nel 'dibattito bioetico', propone una visione fortemente critica dell'ottica religiosa.22

Per alcuni laici, pur nell'eterogeneità e pluralità di questa categoria di pensiero, si parla di embrione (frutto della fecondazione) solo dopo un certo numero di divisioni cellulari successive alla formazione dello zigote o dal momento del suo impianto nella mucosa uterina (in altre parole non prima del 14º giorno circa)23 e si parla altresì di piena dignità umana e di acquisto della capacità giuridica solo dal momento della nascita o comunque non prima del termine entro il quale è consentita l'interruzione volontaria della gravidanza.24

Teorie bioetiche vicine a quella laica

    •     La teoria utilitaristica si riferisce al tentativo di massimizzazione della qualità della vita che può essere classificata e valutata dal soggetto interessato.

    •     Una teoria bioetica si basa sulla concezione dell'"alleanza terapeutica" fra medico e paziente fondata sul particolare rapporto di fiducia del malato con chi lo cura.

    •     La bioetica femminista critica l'astrattezza del concetto di autonomia, che non terrebbe conto dei condizionamenti sociali. Il valore dell'autonomia nasconderebbe la discriminazione e l'oppressione delle donne nella società patriarcale. La cura del malato deve ispirarsi a un principio etico alternativo rispetto a quello proclamato da una bioetica impersonale, disincarnata e tradizionalista.

Tematiche



Per approfondire, vedi Aborto, Eugenetica, Clonazione (genetica), Ingegneria genetica, Trapianto (medicina), Tanatologia e Eutanasia.

 La bioetica si è occupata, tra l'altro, delle seguenti questioni riguardanti:

Aborto



Per approfondire, vedi Legislazioni sull'aborto.

In Italia è in vigore la Legge n.194 del 22 maggio 1978, che al riguardo è molto specifica, fissando limiti e condizioni precise per la sua applicazione.  Oggi si discute tuttavia della condizione ontologica dell'embrione e del feto, e si scontrano due concezioni:

    •    concezione funzionalistica, secondo la quale la persona si caratterizza dalle funzioni che esplicita.

    •    concezione ontologica, identificando l'individuo umano con una realtà in sé sussistente.



Il Comitato nazionale per la bioetica, concordemente ad analoghi pronunciamenti del Consiglio d'Europa, ha definito all'unanimità la questione "identità e statuto dell'embrione umano" in questi termini: «l'embrione è uno di noi»,2526 ovvero non è possibile prescindere dalla stretta affinità che lega il materiale biologico frutto della fecondazione, con l'essere umano che da esso prende forma.

Sebbene tutti concordino sulla necessità di accordare la maggior tutela possibile nei confronti del concepito sin dalla fecondazione, rimane però il problema di fissare un limite a questa tutela, nei confronti di altri beni come la vita della donna o il benessere fisico e psichico della madre.

Ingegneria genetica



Per approfondire, vedi Ingegneria genetica, Progetto Genoma Umano e Eugenetica.

 Tema estremamente delicato, che prende nuova vitalità dai recenti progressi nello studio del genoma umano nell'ambito del Progetto Genoma Umano. Tutte le implicazioni etiche che la manipolazione del DNA comporta sono oggetto di approfondimento e dibattito continuo. Una degenerazione, condannata sia dalla bioetica religiosa che da quella laica, con alcune importanti differenziazioni, è quella dell'eugenetica, che può portare all'aberrazione del tentativo di modificare artificialmente l'essere umano.

Eutanasia



Per approfondire, vedi Eutanasia nel mondo.

 L'eutanasia non è da confondere con il suicidio (che nessuna legislazione statale punisce con specifiche leggi).

Sperimentazione sulle Cellula staminalecellule staminali embrionali

 Tali interventi possono riguardare molti aspetti della medicina, ed occorre un'analisi delle tipologie attualmente oggetto di discussione

    •     Una tipologia di interventi riguarda l'impiego per la terapia o la prevenzione di gravi malattie delle cellule staminali embrionali che secondo alcuni devono essere sostituite con l'utilizzo di staminali dell'adulto.



Dichiarazione anticipata di trattamento o Testamento biologico



Per approfondire, vedi Dichiarazione anticipata di trattamento.

 La terminologia è controversa. Per le motivazioni sopra esposte:

    •     Un cattolico non accetta il termine testamento, perché ritiene che la vita è data da Dio, e non è un bene disponibile.

    •     Un laico invece accetta tale termine poiché, come detto precedentemente, intende la vita nella sua qualità, non nel semplice essere in vita.



Critiche alla bioetica

Mariachiara Tallacchini in "Fuga dalla bioetica" 27 considera la bioetica come una disciplina che ha avuto un impatto positivo negli anni sessanta e settanta, quando per la prima volta comparivano discorsi interdisciplinari e si considerava la responsabilità sociale della scienza, avanzando quindi istanze democratiche di partecipazione. In tale prospettiva la bioetica costituiva anche una riflessione generale sulla scienza.

In seguito la bioetica, secondo Tallacchini, sarebbe stata istituzionalizzata e burocratizzata, e ora tenderebbe a riportare il punto di vista del potere (o dei vari poteri), mediato da una quantità di commissioni che deciderebbero cosa è giusto e cosa non lo è. La bioetica sarebbe stata così degradata "a luogo di amministrazione di valori governativi". In questo senso lo stesso Comitato Nazionale di Bioetica è oggetto di critiche da più parti proprio a causa delle modalità di selezione dei suoi membri, di nomina governativa e perciò, al di là dei criteri di merito scientifico e accademico, soggetto anche a possibili influenze dovute  al variare delle maggioranze.

Altro motivo di critica riguarda la modalità di formazione del consenso all'interno del comitato stesso; si ritiene infatti, da parte di alcuni, che l'adozione di testi a maggioranza sia estranea al compito di un organismo come questo, puramente consultivo e che dovrebbe giungere alla formazione di un consenso unanimente condiviso e quindi basato su criteri di 'oggettività e laicità' (anziché su scelte ideologiche o religiose di fondo).

Alcune critiche vengono rivolte alla bioetica accusandola di escludere o di dare un'importanza minima nelle sue valutazioni ai fattori culturali individuali e sociali.

Istituzioni bioetiche

Il National Center for Bioethics in Research and Health Care della Tuskegee University a Tuskegee nell'Alabama

In Italia



Per approfondire, vedi Bioetica cattolica#Istituzioni bioetiche cattoliche.

    •     In Italia, il Comitato Nazionale per la Bioetica è sorto nel 1990 ed è un organo consultivo della Presidenza del Consiglio dei ministri, la bioetica è stata inserita come insegnamento nelle facoltà di Medicina (Storia della Medicina) e di Filosofia (Filosofia morale). Nel 2001 è nata la prima Facoltà di Bioetica, presso l'Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma.

Nel mondo

    •    UNESCO: dal 1993 è stato istituito come organismo dell'UNESCO un Comitato Internazionale di Bioetica ( International Bioethics Committee).

    •    Canada: è stata fondata la "Canadian Bioethics Society"28

Bibliografia



Per approfondire, vedi Bibliografia sulla bioetica.

    •     Giovanni Fornero, Bioetica cattolica e bioetica laica, B. Mondadori, Milano 2005, n. ed. 2009

    •     Ramon Lucas Lucas, Antropologia e problemi bioetici, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2001

    •     Ramon Lucas Lucas, Bioetica per tutti, Ed. San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2002

Voci correlate

    •    Bioetica e religioni

    •    Bioetica cattolica

    •    Biopolitica

    •    Biodiritto

    •    Diritto di morire

    •    Eutanasia

    •    Tanatologia

    •    Zoé

    •    Comitato Nazionale per la Bioetica

    •    Consulta di Bioetica (associazione culturale ONLUS)

    •    Movimento per la Vita (associazione di promozione sociale)

Altri progetti

    •     Wikisource contiene opere originali  su Bioetica

    •     Wikizionario contiene il lemma di dizionario   «Bioetica»

    •     Wikiversità contiene informazioni  su Bioetica

Collegamenti esterni

    •     Comitato Nazionale per la Bioetica

    •     Identità e statuto dell'embrione umano (parere del Comitato Nazionale per la Bioetica)

    •     Dichiarazioni anticipate di trattamento (parere del Comitato Nazionale per la Bioetica)

    •     Bioethics Portale Unesco sulla bioetica

    •     / Portale di Bioetica

    •     Bioetica in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Filosofia della mente

 (EN) 
« How it is that anything so remarkable as a state of consciousness comes about as the result of irritating nervous tissue, is just as unaccountable as the appearance of Djin when Aladdin rubbed his lamp in the story. »

 (IT) 
« Come avvenga che qualcosa di così sorprendente come uno stato di coscienza sia il risultato della stimolazione del tessuto nervoso è tanto inspiegabile quanto la comparsa del genio quando Aladino, nella favola, strofina la lampada. »

(Thomas Henry Huxley, The elements of physiology and hygiene, 1868, pagina 178)

Una mappa frenologica del cervello (Oliver Elbs, Neuro-Esthetics: Mapological foundations and applications (mappa 2003), Monaco 2005). La frenologia ha tentato fin dai primordi di correlare le funzioni mentali con parti specifiche del cervello

La filosofia della mente è lo studio filosofico della mente, degli atti, della coscienza e delle funzioni mentali e delle loro relazioni con il cervello, il corpo e il mondo. La filosofia della mente si addentra nelle questioni di fondo e nei problemi metodologici che stanno dietro la ricerca scientifica sulla mente, usando sia il metodo speculativo (attraverso esperimenti mentali), sia tenendo conto dei risultati ottenuti nella ricerca empirica e strumentale, che oggi può avvalersi della PET, la tomografia ad emissione di positroni, e della fMRI, la risonanza magnetica funzionale per immagini.

Descrizione

 I problemi tradizionali nella filosofia della mente sono capire e definire Cos'è l'Io, il suo funzionamento (spesso in termini di concetti come percezione, appercezione, impressione, sensazione, intuizione, pensiero, rappresentazione, immaginazione, memoria, coscienza, autocoscienza, ragione, intelletto, volontà, istinto, inconscio, sentimento, emozione, passione ecc.) e il suo rapporto con il corpo: queste problematiche assieme al problema anima-corpo hanno coperto il dibattito filosofico fino al XX secolo, spesso indirettamente ricompreso all'interno di ambiti come la metafisica e la gnoseologia, originando a partire dal XIX secolo discipline interamente dedicate come la psicologia e la psicoanalisi.

Oggi, con le nuove scoperte della neurofisiologia e più in generale delle neuroscienze, tali problematiche si sono specificate nel dualismo mente-cervello ovvero la dicotomia tra una prospettiva soggettiva, intrapersonale relativa alla sfera della coscienza e autocoscienza ed una strettamente empirico-materialista tipica della scienza e del metodo sperimentale. Nella filosofia della mente si vorrebbe risolvere questo problema fondamentale ed arrivare ad una scienza efficace ed esauriente delle componenti funzionali della mente (soprattutto della coscienza) e della loro integrazione operativa.

Negli ultimi due decenni il concetto di mente è andato definendosi in tre posizioni principali, più altre secondarie:

    •     La mente si caratterizza con proprietà del tutto proprie e il "mentale" deve esser indagato in quanto tale, in sé, senza riduzionismi di sorta alla neurofisiologia (il cervello diventa contenitore di esperienze mentali e psichiche che seguono però leggi proprie della psicologia). Questa è ad esempio la posizione di John Searle e di Hubert Dreyfus.

    •     La mente sarebbe il prodotto o l'attività del cervello e ad esso riducibile, dimostrabile col fatto che la "mente senza cervello non può esistere". Quindi anche la mente sarebbe oggetto d'indagine della neurofisiologia usando le moderne tecniche d'indagine medico-scientifica che si occupano o degli effetti di lesioni cerebrali localizzate o dell'attivazione differenziale (afflusso di sangue) in regioni specifiche. Sotto questo punto di vista il sintomo della malattia o della disabilità, rintracciabile a livello neurofisiologico nel malfunzionamento o danno del cervello, coincide con la malattia/disabilità stessa ed eliminato il quale (il sintomo e quindi il danno) viene meno anche la malattia o la disfunzionalità. Tale posizione è assunta da Antonio Damasio e trova un'estremizzazione "eliminativista" (la mente non esiste) in Paul e Patricia Churchland1.

    •     La mente, in quanto cervello, è una macchina sostanzialmente computazionale, quindi analoga ai computer. Ne nasce un rapporto molto stretto con la intelligenza artificiale (AI) e alimenta gli studi per creare macchine sempre più simili al cervello umano. Con questo obiettivo sono attivi alcuni centri di ricerca USA a cui fa riferimento, per esempio, Daniel Dennett.2

Ma la mente, secondo il parere di illustri neurofisiologi come Gerald Edelman, non opera in maniera riduzionistica, ma complessa ed ogni riduzionismo porta fuori strada. Scrive infatti Edelman:

« L’analogia tra mente e calcolatore cade in difetto per molte ragioni. Il cervello si forma secondo principi che ne garantiscono la varietà e anche la degenerazione; a differenza di un calcolatore non ha una memoria replicativa; ha una storia ed è guidato dai valori; forma categorie in base a criteri interni e a vincoli che agiscono su molte scale diverse, non mediante un programma costruito secondo una sintassi. »

(G.Edelman, Sulla materia della mente, Milano, Adelphi 1993, pag.236)

  Ma le tentazioni in tal senso sono forti, perché il ricondurre tutto alla fisiologia o alle analogie con la intelligenza artificiale semplifica enormemente il problema e soprattutto ne permette una visione sistemica ed univoca, cosa ritenuta impossibile dagli avversari del riduzionismo, i non riduzionisti, appunto. Un altro prestigioso neurofisiologo come Joseph LeDoux sottolinea come la mente umana non sia assolutamente concepibile come una macchina perché esprime dei sentimenti:

« La mente descritta dalla scienza cognitiva è in grado, per esempio, di giocare perfettamente a scacchi, e può persino essere programmata per barare. Ma non è afflitta dal senso di colpa quando bara, o distratta dall’amore, dalla rabbia o dalla paura. Né è automotivata da una vena competitiva oppure dall’invidia e dalla compassione. »

(J.Le Doux, Il sé sinaptico, Milano, RaffaelloCortina 2002, pag.34)

Contro tale posizione riduzionistica si era già espresso significativamente John Searle, tendente a vedere la natura della mente biologica priva di alcun rapporto con quella computazionale, né riducibile a fisiologia pura, che sosteneva:

« Dato che i programmi sono definiti in termini puramente formali o sintattici, e dato che la mente ha un contenuto mentale intrinseco, ne consegue che essa non può consistere in un semplice programma. La sintassi formale di per sé non garantisce la presenza di contenuti mentali. Di questo ho dato dimostrazione con l’argomento della camera cinese (Minds, Brains and programs, 1980): un calcolatore – potrei essere io stesso – sarebbe in grado di effettuare tutti i passi di un programma che simuli una qualche capacità mentale come la comprensione del cinese senza capire una sola parola di quella lingua. L’argomentazione poggia su di una semplice verità logica: sintassi e semantica non si equivalgono e la sintassi di per sé non è sufficiente a costituire la semantica. »

(J.Searle, Mente, cervello, intelligenza, Milano, Bompiani 1987, pag.216)

La filosofia della mente che tiene conto delle evidenze della ricerca scientifica e sperimentale come dati primari, mette questi in relazione con la riflessione filosofica, in modo tale da fornire sempre nuove indicazioni per la sperimentazione in altre discipline connesse come le scienze cognitive che indicano un approccio multidisciplinare ma prevalentemente neurofisiologico e psicologico-sperimentale.

In ogni caso è importante tenere conto che la ricerca neurofisiologica più avanzata resta comunque incapace di andare molto oltre gli aspetti meccanici del pensare e del sentire, quelli che riguardano la generalità del modo di funzionare del cervello del mammifero homo sapiens. L'approccio anti-riduzionista, e che potremmo chiamare "complessista" tende invece ad occuparsi dello specifico del mentale, ciò che si lega all'individualità, come i sentimenti e le emozioni intime, restano un campo dove esse, almeno per ora, hanno molto poco da dire all'indagine neurologica. Ciò significa che la filosofia della mente deve avvalersi ancora o di concetti propri della filosofia, o di quelli della psicologia, o della psicoanalisi, debitamente interpretati in senso filosofico.

Il problema mente-corpo, per quanto abbia interessato il pensiero filosofico sin dai primordi, è soltanto uno dei tre approcci entro cui si inquadrano le nuove teorie della mente. Esse nascono con il concorso di acute osservazioni attorno alla teorie storiche del funzionalismo, del computazionalismo e dell'intelligenza artificiale. Possiamo dunque individuare le tre seguenti linee di ricerca:

    •     Il Problema mente-corpo, che concerne il rapporto tra il soma e la psiche a livello infra-soggettivo;

    •     Il problema mente-mondo, relativo al rapportarsi di ogni singolo individuo con il contesto di esistenza in cui è inserito;

    •     Il problema mente-mente, come quello del relazionarsi di una mente alle altre menti ad essa simili sul piano strutturale e funzionale, ma con esigenze e aspettative da poco a molto differenti.

Problema mente-corpo

 Rispetto al problema mente-corpo si possono individuare due grandi filoni: il Monismo ed il Dualismo. Il primo sostiene che l'organismo umano si presenta come un'unica realtà, basata su una sola sostanza fondamentale, di cui sia mente che corpo sono parti differenti ma correlate. Il secondo afferma invece che mente e corpo, essendo sostanzialmente differenti come struttura cellulare, vanno considerati separatamente. In altre parole, i neuroni e soprattutto le sinapsi apparterrebbero a un livello di complessità troppo differente dalle cellule somatiche per essere abbracciati in una visione unitaria. In realtà anche questa tesi non esclude la coniugazione di corpo e mente, semplicemente ritiene che ai fini gnoseologici la fisiologia del corpo sia una cosa, quella del cervello un'altra.

Tuttavia, da un punto di vista storico, il dualismo corpo/mente è stato per lungo tempo visto come un dualismo materia/spirito e il maggior responsabile di ciò è certamente Cartesio, che lo espresse in quello res extensa/res cogitans. Quest'errore gnoseologico è stato sottolineato praticamente da tutti gli studiosi della mente dell'ultimo secolo, tra i quali Antonio Damasio che ha dedicato a questo argomento un intero libro.3

Da queste due correnti di fondo si è evoluto un ampio ventaglio di posizioni, agli estremi del quale stanno la visione scientifica riduzionistica e la visione metafisica. Essendo numerosissime le posizioni filosofiche sul problema mente-corpo tra quelle più scientifiche appaiono oggi dominare quelle concernenti due tronconi principali: il fisicalismo o materialismo (riduzionista e non riduzionista), e le dottrine non-fisicaliste, tra le quali spicca quella del Premio Nobel per la medicina Gerald Edelman che ha proposto la "Groups Neuronal Selection Theory", comunemente indicta come darwinismo neurale .

I filosofi contemporanei hanno abbandonato il dualismo ontologico in favore di un meno impegnativo dualismo delle proprietà o delle funzioni, in base al quale mente e corpo non sono due sostanze separate, ma compenetrate e coniugate funzionalmente. Possono quindi esser visti anche come "stati esperienziali" di un organismo polifunzionale, tali da poter fare una distinzione tra due tipi di stati: gli stati fisiologici o cerebrali, legati alle strutture neurologiche della sensibilità corporea, e gli stati mentali, quelli che concernono più specificamente le emozioni, i sentimenti e l'elaborazione del pensiero. Si è occupato di questo problema Edoardo Boncinelli, facendo una distinzione tra neurostato come fenomeno cerebrale e psicostato come fenomeno mentale. Ha scritto:

« In un determinato individuo e in un determinato momento, a un neurostato corrisponde uno psicostato, ma lo stesso psicostato può corrispondere a molti, o moltissimi, neurostati diversi. Da un certo punto di vista ciò è scontato. Noi non sappiamo dire quanti psicostati possano esistere nella nostra mente, non fosse altro perché non sappiamo bene che cosa siano, ma intuiamo che il loro numero non può essere altissimo. Non ci sarebbero infatti abbastanza strumenti interpretativi. Non sappiamo dire neppure quanti possano essere i neurostati concepibili, ma è facile supporre che saranno in numero incredibilmente alto. Se consideriamo anche solo le configurazione delle singole sinapsi il loro numero è impressionante. »

(E.Boncinelli, Il cervello, la mente e l’anima, Milano, Mondadori 1999, pag.235)

Schematicamente i quesiti aperti sono i seguenti:

    •     Cos'è uno stato mentale?

    •     Che rapporto c'è tra uno stato mentale e uno stato cerebrale?

    •     Come può il cervello dare luogo a stati mentali?



Le risposte a questi interrogativi variano al variare della concezione che si abbraccia del mondo, della causa, della natura della mente, del cervello, ecc. Edoardo Boncinelli, e numerosi altri con lui, ne fa una questione di tempi e di complessità, vedendo il cerebrale come il semplice e primario, il mentale come il complesso e secondario. Così lo spiega:

« L’evento fisiologico iniziale comprende elementi molecolari, cellulari e circuitali e coinvolge vari sistemi somatici fra i quali certamente quello nervoso a ciascuno dei suoi livelli. Nonostante la pluralità di coinvolgimenti, l’evento fisiologico iniziale è istantaneo e inconsapevole. A questo seguono quasi sempre molte altre cose: una presa di coscienza, una valutazione emotiva, un’elaborazione mentale. »

(E.Boncinelli, Il male, Milano, Mondadori 2007, pag.25)

Orientamenti teorici e correnti

 La moltiplicazione di studi sulla mente e di teorie relative è aumentata esponenzialmete dal 1956, anno in cui si è tenuto al Massachusetts Institute of Technology (MIT) di Boston un simposio sulla mente nei suoi aspetti funzionali vista come una possibile struttura informazionale, con ciò veniva posto il problema delle analogie tra il funzionamento della mente umana e quello dei computer. Il portare l'attenzione non più sul "cos'è" la mente ma su "come funziona" è stato una svolta epocale, che ha portato un ventaglio interpretativo molto vasto nel quale definire orientamenti e correnti non è facile per le continue intersezioni tra essi, per cui uno studioso può venire collocato in una o in un'altra corrente od essere a cavallo di entrambe.

A parte i fondatori delle varie correnti con conseguente conio di un termine, com'è il comportamentismo da parte di John Watson e il funzionalismo da parte di Hilary Putnam, è sempre molto difficile cogliere uno stretto nesso tra i precursori e i seguaci, tra antecedenti e conseguenti. Per esempio, è indubitabile che il funzionalismo abbia nel comportamentismo un antecedente importante, anche se poi se ne differenzia profondamente, essendo la visione comportamentista semplificata a un meccanismo stimolo-risposta che evocava le risultanze delle ricerche neurofisiologiche di Ivan Pavlov. Quando apparve, nel 1913,4 il manifesto del comportamentismo da parte di Watson le reazioni furono violente poiché la mente umana veniva ridotta a una macchina nervosa agente secondo automatismi. Ciò risultava intollerabile per chi si rifiutava di considerare il comportamento umano assimilabile a quello di ogni altro animale.

Si piò dire che inizia con Watson la divaricazione tra le interpretazioni riduzionistiche della mente e quelle anti-riduzionistiche e che Putnam opera una sorta di conversione del riduzionismo neurofisiologico a quello logico e matematico, che trova poi la sua prosecuzione dalla metà degli anni sessanta del secolo scorso in poi nei riduzionismi computazionalistici ispirati alla intelligenza artificiale. Nasce con Putnam l'idea di guardare alle funzioni cognitive umane e alle strutture cerebrali in analogia con un software supportato da un hardware5 e questa idea di funzionalismo computazionalista avrà molti seguaci anche dopo che Putnam l'avrà rigettata a metà degli anni ottanta6.

Sui due fronti, riduzionista e anti-riduzionista, si confrontano almeno quattro indirizzi:

    •     quello "computazionalista" che, vedendo il cervello come un organo calcolatore, assume che con l'intelligenza artificiale si possano imitare le funzioni mentali con risultati simili (es: Dennett e Fodor);

    •     quello "neurologista" che, riducendo la mente alla fisiologia del cervello, annulla il mentale nella elaborazione meccanica del circuiti cerebrali (es: Churchland);

    •     quello "mentalista" che nega sia il primo che il secondo rivendicando invece l'autonomia del mentale dal cerebrale (es: Searle);

    •     quello "evoluzionista" che supera tali indirizzi in una visione evoluzionistica del mentale come epifenomenico del cerebrale (es: Edelman).



Teorie riduzionistiche

Comportamentismo



Per approfondire, vedi comportamentismo.

Il comportamentismo rifiuta qualsiasi forma di introspezione, e ritiene che l'unico dato di fatto oggettivo per uno studio scientifico della mente sia il comportamento esteriore. La mente viene effettivamente trattata come una "scatola nera".

    •    John Watson

    •    Burrhus Skinner



Filosofi vicini a questa corrente, anche se non comportamentisti a tutti gli effetti, si possono considerare:

    •    Rudolph Carnap

    •    Gilbert Ryle

    •    Wilfrid Sellars



Funzionalismo computazionalistico



Per approfondire, vedi Funzionalismo (filosofia della mente).

    •    Hilary Putnam7

    •    Jerry Fodor8

    •    Daniel Dennett

    •    Douglas Hofstadter

Teoria dell'Identità



Per approfondire, vedi Teoria dell'identità e Teoria dello stato centrale.

    •    Ullin Place

    •    John Jamieson Carswell Smart

    •    David Armstrong

    •    Paul Churchland9

    •    Patricia Churchland

Teorie anti-riduzionistiche

Dualismo



Per approfondire, vedi Dualismo (filosofia della mente).

    •    Karl Popper

    •    David Chalmers

Teorie dualistiche:

    •    Interazionismo

    •    Parallelismo (filosofia della mente)

    •    Epifenomenismo



Coscienza e Intenzionalità

    •    John Searle10

    •    Thomas Nagel11

    •    Hubert Dreyfus12

La ragione emozionata

    •    Antonio Damasio1314

Teorie evoluzionistiche

    •    Gerald Edelman15161718

    •    Jean-Pierre Changeux1920

    •    Merlin Donald2122

    •    David Linden,23

Bibliografia

    •     Aa.Vv, Verso una psicologia fenomenologica ed esistenziale, ETS 2009.

    •     A.Attanasio, Darwinismo morale. Da Darwin alle neuroscienze. Torino, UTET 2010.

    •     W.Bechtel, Filosofia della mente, Bologna, Il Mulino 2002.

    •    A.G.Biuso, Dispositivi semantici. Introduzione fenomenologica alla filosofia della mente, Vill.Maori, Catania 2008.

    •    F.Cimatti, Il senso della mente, Torino, Bollati Boringhieri 2004.

    •    M. Di Francesco, Introduzione alla filosofia della mente, Roma, Carocci 2002.

    •    D.Marconi, Filosofia e scienza cognitiva, VBri, Laterza 2002.

    •     S. Nannini, L'anima e il corpo. Un'introduzione storica alla filosofia della mente, Bari-Roma, Laterza 2002.

    •     A.Paternoster, Introduzione alla filosofia della mente, Bari-Roma, Laterza 2008.

    •     London Philosophy Study Guide offre una nutrita bibliografia al riguardo:

    •     (EN)   Philosophy of Mind

    •     (EN)  E.Burtt The Metaphysical Foundations of Modern Physical Science, 2ª ed. (London, 1932), pp. 318–19.

    •     (EN)  F.Deutsch (ed.), On the Mysterious Leap from the Mind to the Body, New York, 1959.

    •     (EN) H.Feigl  The "Mental" and the "Physical": The Essay and a Postscript (1967), in H. Feigl et al., (eds.), Minnesota Studies in the Philosophy of Science, Vol. 2, Minneapolis, 1958, pp. 370–497

    •     (EN)  C. Green, The Lost Cause: Causation and the Mind-Body Problem. (Oxford: Oxford Forum, 2003). Applies a sceptical view on causality to the problems of interactionism.

    •     (EN)  Geshe Kelsang Gyatso, Understanding the Mind: The Nature and Power of the Mind, Tharpa Publications (2nd. ed., 1997) ISBN 978-0-948006-78-4

    •     (EN) Richard Rorty, Philosophy and the Mirror of Nature (Princeton, 1980), p. 120, 125.

    •     (EN) Alfred North Whitehead Science and the Modern World, Simon & Schuster, 1997, ISBN 0-684-83639-4

Voci correlate

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Neurofilosofia

Patricia Churhland

« Se vuoi capire la mente devi capire il cervello »

(Patricia Churchland)

 La neurofilosofia è una disciplina che tenta di stabilire un rapporto tra le neuroscienze e la filosofia al duplice scopo di rendere più chiare le risposte alle domande fondamentali della speculazione filosofica avvalendosi delle scoperte neuroscientifiche e nello stesso tempo fornire alle indagini scientifiche sulla mente strumenti speculativi più precisi che evitino confusioni linguistiche o concettuali.1

Il termine "neurofilosofia" è stato utilizzato per la prima volta nel 1986 da Patricia Churchland (n. 16 luglio 1943) filosofa canadese-americana, che lavora dal 1984 alla Università della California di San Diego (UCSD) che nello studio assieme al marito il filosofo Paul Churchland dei rapporti tra filosofia e neuroscienze è giunta a conclusioni che la avvicinano alle correnti riduzionistiche dell'eliminativismo.2

Ormai la conoscenza filosofica non può prescindere dalle acquisizioni scientifiche sui processi cognitivi che hanno rivelato i rapporti che collegano la speculazione filosofica, la psicologia, le neuroscienze, l'intelligenza artificiale e i sistemi complessi. In questo ambito la neurofilosofia non vuole essere una nuova dottrina che annulli tutta la tradizione filosofica occidentale quanto una disciplina che si rifaccia alla sua originaria impostazione di un amore per il sapere di ogni tipo secondo una visione interdisciplinare.3

Bibliografia

    •    Michele Di Francesco, Andrea Moro, Stefano Cappa , Neurofilosofia, Editore Mondadori Bruno, 2011

    •    Churchland, P. (1979). Scientific Realism and the Plasticity of Mind. New York, Press Syndicate of the University of Cambridge.

    •    Churchland, P. (1984) Matter and Consciousness. Cambridge, Massachusetts, The MIT Press.

    •    Churchland, P. & P. S. C. (1998). "Intertheoretic Reduction: A Neuroscientist's Field Guide" in On the Contrary Critical Essays, 1987-1997 Cambridge, Massachusetts, The MIT Press: 65-79.

    •    Jacquette, D. (1994). Ockham's Razor. Philosophy of Mind. Engleswoods Cliffs, N.J., Prentice Hall:34-36.

    •    Rorty, R. (1965) "Mind-body Identity, Privacy and Categories"  in The Review of Metaphysics  XIX  reprinted  Rosenthal, D.M. (ed.) (1971)  

    •    Rorty, R. (1970) "In Defense of Eliminative Materialism" in The Review of Metaphysics XXIV reprinted.  Rosenthal, D.M. (ed.) (1971)

Voci correlate

    •    Filosofia della mente

    •    Filosofia della scienza

Collegamenti esterni

    •     Neurofilosofia.it: un percorso di ricerca. A cura di Giovanni Duminuco.

    •     Idee per una rilettura Neurofilosofia.Verso una scienza unificata della mente e del cervello. Mit press, Cambridge, 1986 di Patricia Churchland

    •    Neurofilosofia in Enciclopedia della Scienza e della Tecnica (2007)  AA.VV.,  Neurofilosofia in «Treccani.it - Enciclopedie on line», Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011. URL consultato l'08/10/2013.

    •    Neurofilosofia in Lessico del XXI Secolo (2013) AA.VV.,  Neurofilosofia in «Treccani.it - Enciclopedie on line», Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011. URL consultato l'08/10/2013.

    •     AA.VV.,  Neurofilosofia in «Treccani.it - Vocabolario Treccani on line», Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 15 marzo 2011. URL consultato l'08/10/2013.



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Storia della filosofia occidentale

Per storia della filosofia occidentale si intende la storia del pensiero occidentale così come si è espresso attorno a molteplici questioni filosofiche; iniziata con la nascita del pensiero speculativo greco nel VII secolo a.C., ha coinvolto i pensatori di tutta Europa durante il Medioevo, l'era moderna e contemporanea, in un confronto continuo con i pensatori precedenti e con gli sviluppi di altri campi del sapere. La comune base greca ha trasmesso alla tradizione filosofica occidentale un metodo di pensiero improntato all'antidogmatismo e la sensibilità verso una serie di problematiche ontologiche ed etiche che l'hanno caratterizzata rispetto ad altre tradizioni filosofiche.

Non si può poi tralasciare, come secondo substrato della filosofia occidentale, la tradizione giudaico-cristiana che già dalla Tarda Antichità va ad instaurare un rapporto complesso con il pensiero laico, introducendo una serie di concetti inediti nel pensiero filosofico ed avviando quella dialettica tra fede e ragione variamente risolta nei secoli.

Gli storici della filosofia dividono solitamente la lunga storia della filosofia occidentale in quattro periodi: filosofia antica, filosofia medievale, filosofia moderna e filosofia contemporanea. Per una lista di autori in ordine cronologico vedere Storia della filosofia (tabella cronologica).

Filosofia antica



Per approfondire, vedi Filosofia greca.

 Anche senza arrivare ad affermare che «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone» (come scrisse Whitehead)1, non si può tuttavia negare che tutti i filosofi posteriori alla fioritura del pensiero antico abbiano avuto come punto di riferimento - anche in funzione polemica e distruttiva - le tematiche sollevate dai filosofi antichi (e da essi stessi risolte in modo eterogeneo) attorno al fine dell'agire morale, al rapporto tra l'uomo e la verità, tra intelletto e realtà.  

I presocratici



Per approfondire, vedi Presocratici.

 Le prime testimonianze di un approccio allo studio della realtà che si possa definire filosofico risalgono al VII secolo a.C., in Asia Minore. Talete di Mileto, un personaggio sulla cui storicità non è ancora possibile avere certezze, è identificato da una tradizione risalente ad Aristotele come il primo filosofo. Con lui e con la sua scuola (scuola milesiana: Anassimandro e Anassimene) il pensiero per la prima volta si emancipa dall'impostazione religiosa e mitologica per ricercare spiegazioni razionali ai fenomeni naturali e alle questioni cosmologiche.

Busto di Socrate

Platone e Aristotele secondo Raffaello.

 Con i milesiani si impose anche come centrale il problema dell'identificazione  dell'archè (o origine), ossia l'elemento costitutivo e animatore di tutta la realtà, indagato anche da Pitagora ed Eraclito nello stesso periodo. Ed è dalle riflessioni sull’archè che si apriranno, con Parmenide e la scuola eleatica, le prime riflessioni ontologiche; e con esse la percezione di un conflitto irriducibile tra la logica che governa la dimensione intellettuale e il contraddittorio divenire dei fenomeni testimoniato dai sensi. Variamente risolto dai successivi filosofi del VI-V secolo a.C. (fisici pluralisti), la questione rimarrà centrale in tutta la storia del pensiero occidentale, dalla Scolastica ad Heidegger nel Novecento.

I classici

 Nel V secolo a.C. si assistette ad un mutamento nell'oggetto della riflessione filosofica: all'interesse per la natura si sostituì un'attenzione maggiore verso le problematiche che riguardano l'uomo. L'agire morale, se il bene e il male siano relativi, la possibilità per l'essere umano di accedere alla verità, il rapporto natura/cultura: questi ed altri furono gli argomenti all'attenzione, sebbene con impostazioni differenti, sia dei sofisti che di Socrate. L'importanza di quest'ultimo per la successiva storia della filosofia fu fondamentale: con lui si acquisì piena consapevolezza della peculiarità del metodo di indagine filosofica (maieutica), e la ricerca della verità venne intesa come la riscoperta di una conoscenza già posseduta, universalmente valida ma dimenticata.

Le scuole filosofiche immediatamente successive alla morte del filosofo - scuola megarica, cirenaica, cinica e platonica - costituirono tutte uno sforzo interpretativo degli insegnamenti socratici. Se per le prime tre si trattò di elaborazioni minori, per Platone il socratismo fu un punto di partenza per una rielaborazione globale, nel primo grande sistema filosofico, di tutte le problematiche trattate dai pensatori precedenti. Conciliando Parmenide ed Eraclito, Platone sostenne da un lato che tutta la realtà fenomenica «scorre» in un continuo mutamento; e che al contempo però essa tende a costituirsi non a caso, ma secondo forme atemporali che sembrano preesisterle. Questo era un punto che in particolare l'atomismo di Democrito non aveva saputo spiegare, ossia perché la materia si aggreghi sempre in un certo modo, per formare ad esempio ora un cavallo, ora un elefante. Dietro ogni animale deve pertanto esistere un'idea, cioè una «forma» precostituita per ogni tipo, spirituale e non materiale. In queste forme eterne ed innate risiede non solo l'Essere di Parmenide, ma anche l'origine di ogni nostra conoscenza. Ad esse Platone ricondurrà ogni teoria sull'etica e la politica.2

Con Aristotele, discepolo di Platone, la filosofia greca arrivò infine alla sua piena maturità: in lui la distinzione tra le particolarità accidentali da un lato, e le cause spirituali dall'altro in grado di guidare il perenne fluire dei fenomeni, diventa condizione della possibilità stessa di costruire scienza.3 La trasformazione di un uovo in una gallina ad esempio non può essere il risultato di semplici combinazioni fortuite della materia.4 A differenza di Platone, però, ogni organismo deve avere in se stesso, e non in un'idea a parte, le leggi del proprio costituirsi. La metafisica, scienza teoretica per eccellenza, sarà allora la disciplina che studia le cause responsabili dell'evoluzione della natura, ricercandone le essenze immutabili e universali. Le altre opere di Aristotele trattano analogamente dalla fisica alla politica, dalla logica alla botanica, prestando attenzione alla specificità dei diversi campi del sapere, ma conferendo al tutto un'organicità di pensiero che segnò il trionfo della razionalità greca. Da ciò l'importanza del filosofo per la cultura occidentale in senso ampio.

L'ellenismo



Per approfondire, vedi filosofia ellenistica e Filosofia latina.

 Dopo Aristotele avrà quindi inizio il periodo ellenistico, in cui la cultura greca si fonderà con quella latina. Durante questo periodo si svilupparono tre principali correnti filosofiche: l'epicureismo, lo stoicismo, e il neoplatonismo. Rispetto alle altre correnti, il neoplatonismo sembrò concentrare ancora di più l'indagine sulla condizione umana e sulle possibilità date al singolo di trascendere il mondo quotidiano, mostrandone la contingenza. Il pensiero neoplatonico, il cui maggiore esponente fu Plotino, si proponeva così di essere un cammino di liberazione per l'uomo. Come molti altri platonici, Plotino pose uno scarto tra il mondo sensibile, sede dell'oscurità e della divisione, e il cosmo noetico, che è la vera realtà, prima manifestazione dell'essere e sede dell'Intelletto, generato a sua volta da un principio ineffabile (indicato da Plotino con il nome di Uno o Bene), e coglibile solo con un contatto di natura a-razionale chiamato epafé o henosis. L'Anima infine percorre l'universo plotiniano dal cosmo noetico al mondo materiale, verso cui essa discende per prendersene cura. La discesa dell'anima si trasforma per l'uomo in una caduta, causata dalla falsa credenza che scambia il mondo sensibile per la vera realtà, e dall'oblio della natura noetica di ciascuno di noi. La filosofia ha dunque il compito di riunire l'uomo alla sua patria intelligibile. Questa concezione dell'universo, e questo valore salvifico della filosofia sarà ripresa in tutte le forme che acquisirà dopo Plotino la filosofia neoplatonica.

Filosofia medievale



Per approfondire, vedi filosofia medievale.

Agostino d'Ippona

 La filosofia medievale costituisce un imponente ripensamento dell'intera tradizione classica sotto la spinta delle domande poste dalle tre grandi religioni monoteiste.

La patristica

 In Europa la filosofia medievale fu anticipata dal pensiero patristico, sviluppatosi in seguito alla diffusione del Cristianesimo all'interno dell'impero romano, e il cui maggiore esponente fu Agostino d'Ippona: questi divenne un vescovo neoplatonico, e conciliò la filosofia greca con la fede cristiana. Secondo Agostino ci sono dei limiti oltre i quali la ragione non può andare, ma se Dio illuminerà la nostra anima con la fede riuscirà placare la nostra sete di conoscenza. E affermò che il male è soltanto "assenza" di Dio, dovuto alla disobbedienza umana. A causa del peccato originale nessun uomo è degno della salvezza, ma Dio può scegliere in anticipo chi salvare; ciò non toglie che noi possediamo comunque un libero arbitrio.5

Tommaso d'Aquino

La scolastica

 A partire dall'anno Mille è particolarmente significativa la nascita della filosofia scolastica, alla quale diede un contributo fondamentale Tommaso d'Aquino. Secondo Tommaso non c'è contraddizione tra fede e ragione, per cui spesso la filosofia può giungere alle stesse verità contenute nella Bibbia; egli conciliò pertanto la rivelazione cristiana con la dottrina di Aristotele. Quest'ultimo, partendo dallo studio della natura, dell'intelletto e della logica, aveva sviluppato delle conoscenze sempre valide e universali, facilmente assimilabili dalla teologia cristiana: ad esempio il passaggio dalla potenza all'atto è una scala ascendente che va dalle piante e dagli animali agli uomini, fino agli angeli e a Dio. Costoro hanno una conoscenza intuitiva, che permette loro di sapere immediatamente ciò a cui noi invece dobbiamo arrivare tramite l'esercizio della ragione.

Da alcuni punti di vista il Medioevo termina quando la fede si separa dalla ragione, quando metafisica e teologia diventano discipline distinte.

Gli altri nomi più importanti del periodo medievale sono Avicenna e Averroè in ambito islamico, Mosè Maimonide in ambito ebraico, Pietro Abelardo, Bonaventura da Bagnoregio e Duns Scoto in ambito cristiano.

Filosofia moderna



Per approfondire, vedi Filosofia moderna.

Illustrazione dal Cantus Circaeus di Giordano Bruno

La filosofia moderna si estende dal 1400 fino al 1800 circa; essa ebbe inizio con la filosofia rinascimentale, che vide una rinascita del neoplatonismo e del pensiero di Plotino, identificato allora interamente con quello di Platone; in esso erano presenti inoltre concetti propri dell'aristotelismo. Tra gli esponenti di spicco del neoplatonismo vi fu in Germania Nicola Cusano, che rielaborò una teologia negativa su basi mistiche, affermando che Dio è il fondamento della razionalità, ma di Lui possiamo avere solo una conoscenza intuitiva perché la Verità non è qualcosa da possedere ma da cui si viene posseduti; mentre in Italia abbiamo Marsilio Ficino e Pico della Mirandola. In un tale rinnovato clima culturale riprese vigore una disciplina emblematica di questo periodo: l'alchimia, che funse per certi aspetti da apripista alla chimica e alla scienza moderna. Cultore dell'alchimia fu in particolare Giordano Bruno, che anticipò per via filosofica le scoperte dell'attuale astronomia, introducendo il concetto di infinito in rottura con la visione geocentrica dell'universo. Sarà poi con Galileo Galilei che si suole far nascere ufficialmente la scienza moderna.  



Per approfondire, vedi Filosofia rinascimentale.

Già dalla seconda metà del Cinquecento il neoplatonismo cominciò tuttavia a declinare, in favore di un naturalismo e un razionalismo concepiti in maniera maggiormente autonoma e meccanica. Nel Seicento Cartesio sviluppò una prima forma di metodo razionale, che pur rifacendosi al concetto teologico di Dio, se ne serviva non per annullare il pensiero nel senso tradizionale della teologia negativa in favore di una dimensione mistica e intuitiva del sapere, ma al contrario per dare consistenza e oggettività al pensiero umano; fu così che elaborò il cogito ergo sum, in virtù del quale l'essere risulta sottomesso al pensiero, e la verità concepita come oggetto da possedere. Nel tentativo di fondare un'autonomia della ragione, egli si servì di Dio non come fine ma come mezzo, cadendo però agli occhi dei contemporanei in un dualismo circolare: partendo dal pensiero logico giungeva alla dimostrazione di Dio, sulla quale però si basava a sua volta per giustificare lo stesso pensiero logico.6 La posizione di Cartesio ricevette per questo le critiche di Blaise Pascal,7 fautore di un ritorno alla tradizione agostiniana;8 Pascal fu inoltre anticipatore di un certo esistenzialismo cristiano, che respingeva le pretese della ragione di potersi fondare da sola.9 Anche l'olandese Spinoza si propose di rimediare agli errori di Cartesio, ponendo l'intuizione al di sopra del pensiero razionale; in tal modo egli poté ricondurre ad un unico principio, cioè un'unica sostanza, il dualismo che Cartesio aveva postulato tra res cogitans e res extensa. L'integrità della razionalità veniva così ripristinata identificando il pensiero con l'essere, e persino Dio con la Natura stessa. Un tale panteismo non significava tuttavia materialismo,10 poiché Spinoza postulò sempre la precedenza di Dio e dello Spirito sulla natura, concepita mai come autonoma o autoponentesi da sola.11

Un pensiero autenticamente materialista cominciò invece a prodursi in Inghilterra, sempre nel Seicento, dando luogo a una riproposizione del meccanicismo democriteo, in virtù del quale i fenomeni naturali sarebbero interamente riconducibili a leggi meccaniche di causa-effetto. A questa teoria aderirono in primo luogo Thomas Hobbes, e in seguito soprattutto Isaac Newton (determinismo). Sempre in Inghilterra si assistette in contemporanea alla nascita dell'empirismo, secondo il quale la conoscenza non deriva da idee innate nell'intelletto e accessibili per via intuitiva, bensì unicamente dai sensi. In tal modo veniva riproposta una separazione netta tra l'essere e il pensiero, ovvero tra l'esperienza del dato da una parte, e la mente umana dall'altro12 che ne risulta "plasmata" in maniera simile a un mastice. L'essere venne cioè identificato con la verificabilità: ciò che non è verificabile, sperimentabile positivamente, non ha valore, né può conferire validità oggettiva al pensiero umano; era l'opposto della metafisica classica. Il maggior esponente dell'empirismo anglosassone fu John Locke. All'inizio del Settecento aderì a questa corrente anche Berkeley, che cercò di ricondurre l'esperienza sensibile ad un principio spirituale (Dio), affermando che esse est percipi, cioè l'esperienza sensibile è persino creatrice dell'essere. Fu infine lo scozzese David Hume a portare l'empirismo alle sue estreme conseguenze, sostenendo che neppure l'esperienza sensibile può conferire validità oggettiva al pensiero umano, trattandosi di due piani completamente separati: secondo Hume, ciò che generalmente si reputa fondato perché razionale, è frutto invece di un istinto di abitudine che non ha alcun legame con la realtà.

Statua di Immanuel Kant a Königsberg

L'empirismo anglosassone si era sviluppato parallelamente alla corrente continentale del razionalismo, al quale, dopo Spinoza, aderì Leibnitz nel Settecento. Secondo Leibnitz, ognuno di noi è una monade slegata da tutto il resto; ma a differenza di Hume egli credeva nel fondamento oggettivo della razionalità, essendo tutte le monadi coordinate da Dio. Sul finire del Settecento Immanuel Kant ritenne però in parte fondata l'obiezione humiana, e decise così di sottoporre la ragione a vaglio critico, tramite la Critica della ragion pura. La riflessione kantiana si inserì nella cornice dell'illuminismo che andava nel frattempo sviluppandosi in Francia, e i cui maggiori esponenti furono Voltaire, Rousseau, e Montesquieu. Per risolvere le contrapposizioni tra razionalisti ed empiristi, Kant attuò una rivoluzione copernicana del pensiero, affermando che se da un lato il razionalismo non è autonomo ma ha bisogno dell'esperienza per aspirare ad una conoscenza oggettiva, dall'altro è l'esperienza sensibile ad essere modellata dalla ragione e non viceversa. Ma la grandezza di Kant risiedette soprattutto nella Critica della ragion pratica per l'importanza attribuita al sentimento morale, fondando sulla ragione anche l'agire etico:13 la legge morale che la ragion pratica si dà, e a cui questa spontaneamente ubbidisce, diventa per Kant garanzia universale e necessaria di libertà, dell'immortalità dell'anima, e dell'esistenza di Dio, concetti preclusi invece alla pura ragione.

Filosofia del XIX secolo

 La filosofia del XIX secolo, che viene spesso trattata come un periodo a sé stante, è stata dominata dalla filosofia post-kantiana dell'idealismo tedesco: il primo esponente di questa corrente, Fichte, cercò di dare maggiore coerenza al criticismo di Kant unificando ragion pura e ragion pratica, in quanto originate dal medesimo principio: l'Io. Il soggetto, secondo Fichte, non si limita a modellare l'esperienza, ma crea l'oggetto stesso dell'esperienza; trattandosi però di una creazione inconscia, che l'Io non riconosce come tale, egli salvava in tal modo anche il punto di vista realistico del criticismo. Nella cornice dell'idealismo Fichte fu tuttavia una meteora, soppiantato ben presto da Friedrich Schelling che mostrò maggiore interesse per il non-io, per l'oggetto posto dall'io (la natura), conciliando sotto certi aspetti l'idealismo critico fichtiano col razionalismo di Spinoza; ma come Fichte egli postulava pur sempre un'unione immediata di soggetto e oggetto, afferrabile solo a un livello intuitivo.

Anche Schelling fu una meteora, venendo ben presto soppiantato da Hegel, che affermò invece un'unione mediata di soggetto e oggetto, dunque non più uniti indissolubilmente. Hegel ripropose in un certo senso il ragionamento circolare di Cartesio,14 sostenendo che il divenire logico della storia, scaturito dall'Assoluto, serve alla fine a rendere ragione dell'Assoluto stesso. Egli sovvertì la logica sequenziale (quella aristotelica di non contraddizione), affermando la supremazia della razionalità sull'intuizione, e identificando ogni principio col suo contrario: «ciò che è reale è razionale» fu la summa del pensiero hegeliano.15 La logica formale per Hegel funge solo da avvio del processo, dopodiché il fine della filosofia coincide col mezzo da essa utilizzato, cioè la dialettica: questa non serve più a ricondurre a una dimensione mistica e di annullamento del pensiero, ma diventa fine a se stessa.

L'eredità hegeliana venne raccolta da Karl Marx, il quale vide in essa un sostanziale materialismo, mascherato esteriormente da idealismo. Si propose quindi di togliere da Hegel la sua "patina mistica", sostituendo l'Assoluto con la Storia. La dialettica marxiana prende così il nome di materialismo dialettico, in base al quale la molla che muove la storia è rappresentata dalla reciproca interazione di due princìpi contrapposti: in Hegel erano la ragione e la realtà, in Marx diventano la struttura (economica) e la sovrastruttura (culturale). Si trattava anche qui di un'unità mediata, composta cioè da due realtà distinte che alla fine della storia troveranno comunque conciliazione. Marx fu un filosofo della prassi, che trasformò la filosofia hegeliana in un impegno sociale di cambiamento del mondo.

Altri importanti pensatori del XIX secolo furono infine John Stuart Mill, filosofo britannico; Ralph Waldo Emerson, esponente del trascendentalismo americano; Søren Kierkegaard, fondatore dell'esistenzialismo, che criticò il sistema hegeliano ravvisandovi l'incapacità di comprendere come nella storia operino principi inconciliabili e non mediabili dalla ragione; e Friedrich Nietzsche, teorico del superuomo, che accusò i valori della religione e della metafisica occidentali di essere portatori di un sostanziale nichilismo.

Filosofia contemporanea

Bertrand Russell nel 1907.

 Nella filosofia contemporanea si è creata una certa divergenza tra i filosofi del continente europeo e quelli anglosassoni (sostanzialmente inglesi ed americani), nonostante molti di essi traessero spunti da quella fucina di idee che fu il Circolo di Vienna all'inizio del XX secolo. La filosofia anglosassone ha avuto un approccio più utilitaristico, che ha portato tra l'altro alla filosofia analitica. La filosofia del continente europeo ha mantenuto una maggiore varietà di filoni, restando più legata a impostazioni di tipo ontologico e gnoseologico, ritrovando allo stesso tempo una maggiore vicinanza con le filosofie orientali.

    •     La cosiddetta filosofia analitica, con Bertrand Russell, George E. Moore e Ludwig Wittgenstein, si sviluppò soprattutto a  Oxford e Cambridge, dove si riunirono anche gli empiristi logici emigrati dalla Germania e dall'Austria (ad esempio Rudolf Carnap) e altri studiosi americani (come Willard Van Orman Quine, Donald Davidson e Saul Kripke), o comunque di lingua inglese (per esempio Alfred J. Ayer).

    •     In Europa continentale (specialmente in Germania ed in Francia), i fenomenologisti tedeschi Edmund Husserl e Martin Heidegger aprirono la strada, presto seguiti da Jean-Paul Sartre e altri esistenzialisti, a tutta una varietà di scuole che portarono al postmodernismo (vedi anche Filosofia continentale).

Bibliografia

    •    Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Milano, Paravia, 2000

    •    G. Granata, Filosofia, vol.  I,  II, e  III, Milano, Alpha Test, 2001

    •    Battista Mondin, Storia della metafisica, vol.  I,  II, e  III, Bologna, ESD, 1998

    •    Ugo e Annamaria Perone, Giovanni Ferretti, Claudio Ciancio, Storia del pensiero filosofico, Torino, SEI, 1975

    •    Giovanni Reale, Dario Antiseri, Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi, La Scuola, 1985 ISBN 88-350-7647-1

    •    Giovanni Reale, Storia della filosofia greca e romana, Bompiani,  2004

    •    Emanuele Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo, Milano, Rizzoli, 1996

    •    Franco Volpi,  Dizionario delle opere filosofiche, Milano, Mondadori, 2000

Voci correlate

    •    Storia della storiografia filosofica

Altri progetti

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Filosofia antica

  Questa pagina contiene un elenco di collegamenti relativi alla filosofia antica.



Per approfondire, vedi Filosofia greca, Filosofia latina e Ellenismo.

Storia della filosofia

    •    Filosofia greca

    •    Accademia di Atene

    •    Scuola di Alessandria

    •    

    •    Filosofia latina

    •    Filosofia medievale

I filosofi

VI secolo a.C.

 La filosofia occidentale nasce nelle colonie marinare fondate dai Greci nel loro moto di espansione verso l'Asia Minore e l'Italia meridionale.  

    •     I milesi: Talete, Anassimandro, Anassimene

    •    Pitagora e la scuola pitagorica

    •    Senofane



V secolo a.C.

    •    Eraclito

    •    Parmenide e la scuola eleatica

    •    Zenone di Elea

    •    Empedocle

    •    Anassagora

    •    Protagora, Gorgia e la sofistica

    •    Socrate

    •    Democrito, Leucippo e l'atomismo

    •    Sofistica

IV secolo a.C.

    •    Platone e l'Accademia

    •    Aristotele e il Liceo

    •    Pirrone e lo scetticismo

    •     Il Cinismo

III secolo a.C.

    •    Epicuro

    •    Zenone di Cizio e la stoa

II secolo a.C.

    •    Carneade

    •    Panezio

I secolo a.C.

    •    Posidonio

    •    Cicerone

    •    Lucrezio

    •    Enesidemo

I secolo

    •    Filone di Alessandria

    •    Seneca

    •    Agrippa

II secolo

    •    Plutarco

    •    Epitteto

    •    Marco Aurelio (121 - 180)

III secolo

    •    Clemente e Origene

    •    Plotino e il neoplatonismo

    •    Sesto Empirico

IV secolo

    •    Giamblico

V secolo

    •    Agostino

    •    Proclo

    •    Dionigi pseudo-Areopagita

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Presocratici

Con l'espressione "filosofia presocratica" si designa, comunemente e a partire dalla fine XVIII secolo1, la filosofia greca precedente a Socrate. Essa include tuttavia anche quelle scuole contemporanee di Socrate che non furono da lui influenzate.

Storia

 Gli sforzi dei presocratici furono rivolti all'indagine del fondamento ultimo e della natura essenziale del mondo. Essi ricercarono il principio (arché) delle cose e il metodo della loro origine e della loro scomparsa. I presocratici – le cui opere sopravvivono oggi esclusivamente sotto forma di frammenti – sottolinearono l'unità razionale di tutte le cose e rifiutarono le spiegazioni mitologiche del mondo. La nostra conoscenza relativa a questi filosofi deriva dai resoconti effettuati da autori successivi (specialmente Aristotele, Plutarco, Diogene Laerzio, Stobeo e Simplicio) e dai primi teologi (specialmente Clemente Alessandrino e Ippolito di Roma).

I pensatori presocratici presentarono un discorso relativo ad ambiti fondamentali della ricerca filosofica quali l'essere e il cosmo, la materia primaria dell'universo, la struttura e la funzione dell'anima umana, i principi basilare che regolano i fenomeni percepibili, la conoscenza e la moralità umana.  

Scuola di Mileto



Per approfondire, vedi Scuola di Mileto.

 I primi filosofi presocratici giunsero da Mileto sulla costa occidentale dell'Anatolia. Talete è ritenuto il primo presocratico e il padre della filosofia greca. Egli affermò che l'acqua è la base di tutte le cose. Colui che per primo compose testi filosofici fu invece Anassimandro, che assunse come principio fondamentale una sostanza indefinita, illimitata e senza qualità (ápeiron), al di fuori della quale si differenziano le opposizioni primarie (caldo e freddo, umido e secco). Più giovane dei precedenti fu Anassimene, che identificò l'arché nell'aria, concependo quest'ultima mutata, dall'ispessimento e dall'assottigliamento, in fuoco, vento, nuvole, acqua e terra.  

Scuola pitagorica



Per approfondire, vedi Scuola pitagorica.

 Un altro presocratico fu Pitagora, il quale, considerando il mondo come un'armonia perfetta, dipendente dal numero, tentò di indurre gli uomini a condurre una vita parimenti armoniosa. La sua dottrina fu accolta e ampliata da un vasto seguito di seguaci (i pitagorici), che si riunirono presso la sua scuola nel sud d'Italia, a Crotone. Tra i suoi seguaci sono inclusi Filolao, Alcmeone di Crotone e Archita.

Scuola di Efeso



Per approfondire, vedi Eraclito.

 Altro presocratico di rilievo, Eraclito affermò che, in natura, tutte le cose sono in uno stato di flusso perpetuo, collegate da una struttura logica che egli definì con il termine logos. Secondo Eraclito, il fuoco, uno dei quattro elementi classici, stimola e concretizza questo modello eterno. Dal fuoco tutte le cose traggono origine e ad esso ritornano in un processo di cicli eterni.

Scuola di Elea



Per approfondire, vedi Scuola di Elea e Paradossi di Zenone.

 La scuola di Elea pose in rilievo la dottrina dell'Uno. Senofane dichiarò che Dio è l'unità eterna che permea l'universo e lo governa attraverso il Suo pensiero. Ancora, Parmenide di Elea introdusse un concetto di Essere unico, immobile, eterno, ingenerato, immortale e indivisibile. La dottrina parmenidea fu difesa dal discepolo Zenone, che polemizzò contro l'opinione comune che vede nelle cose il molteplice, il divenire e il cambiamento. Zenone propose una serie di celebri paradossi, assai dibattuti dai filosofi successivi, per cercare di dimostrare che il supporre che vi è qualche mutamento o molteplicità conduce a contraddizioni. Un altro esponente di rilievo di questa scuola fu Melisso di Samo.

Pluralisti



Per approfondire, vedi Pluralisti#Il_pluralismo_antico.

 Recuperando la visione eleatica per cui l'Essere è necessariamente, Empedocle pervenne a una riformulazione della stessa. Da un lato egli mantenne salda l'idea della natura immutabile della sostanza, dall'altro identificò una pluralità di tali sostanze, vale a dire i quattro elementi classici: la terra, l'acqua, l'aria e il fuoco. Secondo Empedocle, il mondo è edificato da queste sostanze attraverso due forze motrici ideali, l'amore in quanto causa di unione e il conflitto in quanto causa di separazione.

Scuola atomista



Per approfondire, vedi Atomismo#L.27atomismo_di_Leucippo e Atomismo#L.27atomismo_di_Democrito.

 Tra i presocratici si annoverano anche Leucippo e Democrito, gli ideatori del primo sistema filosofico esplicitamente materialista. Tale sistema è la dottrina degli atomi, piccoli corpi primari numericamente indefiniti, indivisibili e imperituri, qualitativamente simili ma distinti per forma. Muovendosi eternamente attraverso il vuoto infinito, essi si scontrano e si uniscono generando così oggetti che differiscono secondo la varietà, il numero, la dimensione, la forma e la disposizione degli atomi che li compongono.

Sofistica



Per approfondire, vedi Sofistica.

I sofisti dichiararono che il pensiero si basa esclusivamente sulle apprensioni dei sensi e sull'impressione soggettiva e che, di conseguenza, non abbiamo altri criteri comportamentali al di fuori delle convenzioni per il singolo. Specializzati nella retorica, i sofisti erano più educatori professionisti che filosofi. La causa del loro sviluppo fu lo speciale bisogno dell'epoca di un nuovo tipo di istruzione per le classi elevate. Importanti sofisti furono Protagora, Gorgia, Ippia e Prodico.

Dottrina

 Spesso risulta difficile definire esattamente il pensiero dei filosofi presocratici così come ricostruire le argomentazioni che essi utilizzarono a sostegno delle loro teorie. Analoga sorte è toccata alle loro opere, andate perse nel corso dei secoli. Ciò che rimane dei loro scritti sono solo le citazioni di alcuni filosofi e storici antichi oltre a qualche raro frammento salvatosi dall'oblio.

In generale, i filosofi presocratici rigettarono le tradizionali interpretazioni mitologiche dei fenomeni a favore di spiegazioni più razionali attinenti allo studio della natura, sebbene queste fossero a volte collegate a concezioni religiose della tradizione orfica ed esoterica. Essi si chiedevano in particolare:

    •     Qual è l'origine (arché) delle cose?

    •     Qual è l'elemento primario, o la sostanza, di tutte le cose?  

    •     Come possiamo spiegare la molteplicità delle cose che esistono in natura?  

    •     Che rapporto intercorre tra unità e molteplicità, o tra essere e divenire?



Benché quasi tutte le soluzioni cosmologiche dei primi pensatori greci siano state in seguito in parte superate o corrette da riflessioni più complesse, grazie a strumenti di ricerca più potenti e sofisticati che hanno permesso conoscenze scientifiche più approfondite e metodiche, la filosofia non ha mai smesso di interrogarsi sulle questioni da essi sollevate.

Denominazioni diverse

 Durante l'antichità classica, i filosofi presocratici erano detti physiologoi, studiosi della natura che Diogene Laerzio divide in due gruppi, quello ionico e quello italiota, guidati rispettivamente da Anassimandro e da Pitagora.

La classificazione "presocratici", intesa come un gruppo eterogeneo di filosofi cronologicamente precedenti Socrate, è stata da alcuni storici della filosofia abbandonata 2 a favore della denominazione di "presofisti". Infatti molti "presocratici", da Parmenide in  poi furono contemporanei di Socrate quando questi aveva già elaborato una filosofia matura.3 Nei presocratici cioè non dovrebbero essere compresi anche i sofisti che concettualmente segnano uno spartiacque dai primi spostando la speculazione dai piani ontologico e cosmologico a quelli antropologico ed etico. Quindi sono quest'ultimi i più vicini nel tempo e nel pensiero a Socrate che condivide con loro l'abbandono della riflessione filosofica sulla natura e l'interesse per i problemi dell'uomo.45

Un'altra denominazione che è stata proposta per accomunare i filosofi della natura è quella di ilozoisti (dal greco hýle = "materia" + zòon = "vivente").6 propria cioè di coloro che concepiscono la natura come un tutto animato e vivente.7 Si tratta in effetti di una concezione tipica di tutti i primi pensatori ionici 8 ma che viene estesa anche ad autori posteriori come, ad esempio, i filosofi della natura rinascimentali.   

Negli ilozoisti non mancano accenni ai problemi e al mondo dell'uomo ma sono del tutto secondari. Dopo questi sino alla comparsa dei sofisti, si sviluppano dottrine che non costituiscono un gruppo omogeneo ma sono differenti per temi e interessi speculativi tutti però diretti ad indagare la realtà.

Quindi la storia della filosofia sino all'avvento di Socrate andrebbe divisa in  

    •    presofisti:



         ilozoisti, gli Jonici di Mileto: Talete, Anassimandro e Anassimene (Scuola di Mileto);

         i Pitagorici: Pitagora e seguaci (Scuola pitagorica);

         gli Eraclitei: Eraclito e seguaci (Scuola di Efeso);

         gli Eleati: Parmenide e seguaci (Scuola eleatica);

         i Pluralisti: Empedocle, Anassagora;

         i Democritei: Leucippo, Democrito 9



    •    Sofisti

    •    Socrate



Bibliografia

    •    I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano: Bompiani, 2006.

    •     Giovanni Casertano, I Presocratici, Carocci, 2009 ISBN 88-430-4923-2

    •    Giorgio Colli, La nascita della filosofia. Adelphi, Milano, 1975, ISBN 9788845901812

    •    Giorgio Colli, La sapienza greca I - Dioniso, Apollo, Eleusi, Orfeo, Museo, Iperborei, Enigma. Adelphi, Milano, 1977, ISBN 9788845907616

    •    Giorgio Colli, La sapienza greca II - Epimenide, Ferecide, Talete, Anassimandro, Anassimene, Onomacrito. Adelphi, Milano, 1978, ISBN 9788845908934

    •    Giorgio Colli, La sapienza greca III - Eraclito. Adelphi, Milano, 1980, ISBN 9788845909832

    •    Werner Jaeger, La teologia dei primi pensatori greci, Firenze 1961

    •     Maria Michela Sassi, La costruzione del discorso filosofico nell'età dei Presocratici, Scuola Normale Superiore, 2006 ISBN 88-7642-180-7

    •     James Warren, I Presocratici, Einaudi, 2009 ISBN 88-06-19750-9

    •    Martin Litchfield West, La filosofia greca arcaica e l'Oriente, Il Mulino, Bologna 1993

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Collegamenti esterni

    •     Enrico Berti,  La filosofia greca arcaica e l'Oriente.

    •     Giovanna Migliorini,  Il mito di Orfeo ed i misteri orfici.

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Sofistica

L'Acropoli e l'agorà di Atene: qui fiorì la Sofistica

 La Sofistica è una corrente filosofica1 sviluppatasi in Grecia, e ad Atene in particolare, a partire dalla seconda metà del V secolo a.C., la quale, in polemica con la filosofia della scuola eleatica e avvalendosi del metodo dialettico di Zenone di Elea,2 pone al centro della sua riflessione l'uomo e le problematiche relative alla morale e alla vita sociale e politica. Non si trattò di una vera e propria scuola né di un movimento omogeneo, ma fu estremamente variegata al suo interno: i suoi esponenti (detti appunto sofisti), seppur accomunati dalla professione di «maestro di virtù», si interessarono di vari ambiti del sapere, giungendo ognuno a conclusioni differenti e a volte tra loro contrastanti.3 Tra questi emerse, distaccandosene, la figura di Socrate.

Etimologia

 Anticamente il termine σοφιστής (sophistés, sapiente4) era sinonimo di σοφός (sophòs, saggio) e si riferiva ad un uomo esperto conoscitore di tecniche particolari e dotato di un'ampia cultura. A partire dal V secolo, invece, si chiamarono «sofisti» quegli intellettuali che facevano professione di sapienza e la insegnavano dietro compenso:5 quest'ultimo fatto, che alla mentalità del tempo appariva scandaloso, portò a giudicare negativamente questa corrente. Nell'antichità, il termine era spesso posto in antitesi con la parola «filosofia», intesa come ricerca del sapere, che presuppone socraticamente il fatto di non possedere alcun sapere. I sofisti vennero ritenuti falsi sapienti, interessati al successo e ai soldi, più che alla verità.6 Il termine mantiene anche nel linguaggio corrente un carattere negativo: con «sofismi» si intendono discorsi ingannevoli basati sulla semplice forza retorica delle argomentazioni. Solo a partire dal XIX secolo la Sofistica è stata rivalutata, e oggi è riconosciuta come un momento fondamentale della filosofia antica.7

Contesto storico-culturale



Per approfondire, vedi Pentecontaetia e Guerra del Peloponneso.

Veduta dell’Acropoli di Atene

Lo sviluppo della Sofistica ad Atene è legato a un insieme di fattori culturali, economici e politico-sociali. Con la sconfitta dei Persiani a Salamina nel 480 a.C. le poleis greche affermarono la propria autonomia, e la loro potenza si ampliò progressivamente nel corso dei successivi cinquant’anni di pace (la cosiddetta Pentecontaetia). In particolare, a primeggiare su tutte furono le città rivali di Sparta e Atene: la prima espanse la propria influenza su quasi tutto il Peloponneso attraverso un’ampia rete di alleanze, mentre Atene, membro di primo piano della Lega delio-attica, con l’avvento di Pericle finì con l’assumerne il comando. Con il potere politico ed economico crebbe però anche l’ostilità tra le due città, e il desiderio di supremazia sull’intera Grecia portò al disastro della Guerra del Peloponneso (430-404 a.C.).

Pericle

Pericle, leader carismatico della fazione democratica, governò Atene per circa un trentennio, dal 461 al 429 a.C., portando la città al suo massimo splendore. Egli fece trasferire il tesoro della Lega delio-attica da Delfi ad Atene, e trasformò il volto della città con un imponente piano di riforma architettonica (simbolo del potere dell’epoca sono gli edifici dell’Acropoli: il Partenone, l’Eretteo, i Propilei); inoltre, si intensificarono i rapporti con le altre città, attraverso alleanze e scambi commerciali. Fu proprio questo nuovo clima di pace a favorire l’affermarsi della Sofistica, poiché permise ai sofisti, «maestri di virtù» itineranti, di spostarsi di città in città, seguendo le rotte commerciali. Visitando luoghi con tradizioni e ordinamenti politici differenti, talvolta varcando addirittura i confini dell’Ellade, essi iniziarono ad interrogarsi sul valore intrinseco delle leggi e della morale, giungendo ad un sostanziale relativismo etico che riconosceva il valore delle norme morali solo in relazione alle usanze della città in cui ci si trova ad operare: la stessa areté (virtù) da loro insegnata si riduceva all’insieme delle norme e delle convenzioni riconosciute valide dai cittadini, alle quali il retore si deve adeguare per avere successo e buona fama.8

L’età di Pericle fu dunque al tempo stesso l’età dello splendore e della crisi della polis, poiché coincise con la crisi dei valori tradizionali, di cui i sofisti furono protagonisti; come scrive Mario Untersteiner, la Sofistica è «l’espressione naturale di una coscienza nuova pronta ad avvertire quanto contraddittoria, e perciò tragica, sia la realtà».9 Il primo interesse dei sofisti è la rottura con la tradizione giuridica, sociale, culturale, religiosa, fatta di regole basate sulla forza dell'autorità e del mito (e per questo motivo sono talvolta guardati come "precursori dell'Illuminismo"), a cui veniva contrapposta una morale flessibile, basata sulla retorica. D’altra parte, la stessa retorica che essi insegnavano aveva un’enorme importanza per la vita civile nel regime democratico dell’epoca, il quale riconosceva a tutti i cittadini l’uguaglianza giuridica (isonomia) e la libertà di parola durante l’assemblea pubblica (parresia).

I sofisti

Salvator Rosa, Protagora e Democrito

 I sofisti erano maestri di virtù che si facevano pagare per i propri insegnamenti. Per questo motivo essi furono aspramente criticati dai loro contemporanei, soprattutto da Socrate, Platone e Aristotele, ed erano offensivamente chiamati «prostituti della cultura».10

Ironicamente, i sofisti furono i primi ad elaborare il concetto occidentale di cultura (paideia), intesa non come un insieme di conoscenze specialistiche, ma come metodo di formazione di un individuo nell'ambito di un popolo o di un contesto sociale.11. Essi riscossero successo soprattutto presso i ceti altolocati.

La figura del sofista, come persona che si guadagna da vivere vendendo il proprio sapere,  si pone come precursore dell'educatore e dell'insegnante professionista12. Argomento centrale del loro insegnamento è la retorica: mediante il potere persuasivo della parola essi insegnavano la morale, le leggi, le costituzioni politiche; il loro intento era di educare i giovani a diventare cittadini attivi, cioè avvocati o militanti politici e, per essere tali, oltre ad una buona preparazione, bisognava anche essere convincenti e saper padroneggiare le tecniche retoriche.13

I sofisti, a differenza dei filosofi greci precedenti, non si interessano alla cosmologia e alla ricerca dell'arché originario, ma si concentrano sulla vita umana, diventando così i primi filosofi morali. Vengono distinte due generazioni di sofisti:

    •     Sofisti della prima generazione: Protagora, Gorgia, Prodico e Ippia

    •     Sofisti della seconda generazione: solitamente allievi dei primi, sono a loro volta distinguibili in:

    •     Sofisti politici: Antifonte, Crizia, Trasimaco, Licofrone, Callicle, Alcidamante, Polo, l'Anonimo di Giamblico

    •     Sofisti della physis, si interessano del rapporto natura-uomo, spesso conducendo studi naturalistici: Antifonte, (Ippia)

    •    Eristi, portano all'esasperazione il metodo dialettico: Eutidemo e Dionisodoro, Eubulide di Mileto

    •     Altri: Seniade di Corinto, l'anonimo autore dei Dissoi logoi

    •    

Stando alle fonti, pare che anche il filosofo Aristippo sia stato un sofista prima di incontrare Socrate e unirsi a lui; in particolare pare fosse allievo di Protagora e sappiamo per certo che diede lezioni di eloquenza a pagamento.14 A questo proposito si racconta un aneddoto: protagonisti sono Aristippo e il padre di un suo alunno, il quale, contestando il prezzo troppo alto della retta annuale, gli avrebbe detto: «Mille dracme? Ma io con mille dracme ci compro uno schiavo!», e Aristippo avrebbe risposto: «E tu compralo questo schiavo, cosi ne avrai due in casa, questo e tuo figlio!».15 A quanto pare Aristippo praticava tariffe differenziate in base alle capacità degli allievi, così che se uno di questi aveva la sfortuna di essere poco dotato la sua tariffa aumentava vertiginosamente, mentre se al contrario era particolarmente brillante e intuitivo la tariffa ammontava a poco più di 1 dracma, praticamente gratis.

Caratteri generali della Sofistica



Per approfondire, vedi Relativismo etico sofistico.

La Sofistica, come detto, fu un movimento disomogeneo, e ogni sofista differiva dagli altri per interessi e posizioni personali. Tuttavia, è possibile riconoscere in questi autori alcuni caratteri comuni.

    •    Centralità dell’uomo. I sofisti si interessarono prevalentemente di problematiche umane ed antropologiche, tanto che gli studiosi parlano di antropocentrismo sofistico. Essi approfondirono i temi legati alla vita dell'uomo, che venne analizzata soprattutto dal punto di vista gnoseologico (ciò che l'uomo può conoscere e ciò che non può conoscere), etico (ciò che è bene e ciò che è male) e politico (il problema dello Stato e della giustizia). L’essere umano veniva considerato a partire dalla sua condizione di individuo posto all’interno di una comunità, caratterizzata da determinati valori culturali, morali, religiosi e via dicendo. Essi insegnavano pertanto a osservare formalmente le leggi e le tradizioni della polis, così da diventare cittadini rispettati e di successo – quindi virtuosi.

    •    Rottura con la “fisiologia” presocratica. Come conseguenza del punto precedente, i sofisti in genere trascurarono le discipline naturalistiche e scientifiche, che invece erano state tenute in grande considerazione dai filosofi precedenti. Per questa ragione alcuni studiosi hanno definito "cosmologica" la filosofia precedente ed "umanistico" o "antropologico" il pensiero sofistico. In realtà, va precisato che tale generalizzazione è per certi versi limitativa, poiché ad essa fanno eccezione i casi di Ippia di Elide (che, mirando ad un sapere enciclopedico, coltivò studi inerenti a vari campi scientifici, tra cui matematica, geometria e astronomia) e Antifonte (il quale, studioso dei testi ippocratici, fu esperto di anatomia umana ed embriologia).

    •    Relativismo ed empirismo. I sofisti concepivano la verità come una forma di conoscenza sempre e comunque relativa al soggetto che la produce e al suo rapporto con l'esperienza. Non esiste un'unica verità, poiché essa si frantuma in una miriade di opinioni soggettive, le quali, proprio in quanto relative, finiscono per essere considerate comunque valide ed equivalenti: si parla pertanto di relativismo gnoseologico. Questo relativismo investe tutti gli ambiti della conoscenza, dall'etica alla politica, dalla religione alle scienze della natura.16

    •    Dialettica e retorica. Le tecniche dialettiche dell'argomentare (cioè dimostrare, attraverso passaggi logici rigorosi, la verità di una tesi) e del confutare (cioè dimostrare logicamente la falsità dell'antitesi, l'affermazione contraria alla tesi) erano già state utilizzate da Zenone all’interno della scuola eleatica, ma fu soprattutto con i sofisti che esse si affermarono e si affinarono. La dialettica divenne una disciplina filosofica essenziale e influenzò profondamente la retorica, ponendo l'accento sull'aspetto persuasivo dei discorsi, fino a scadere nell'eristica.17

Alla luce di tutto ciò, alcuni studiosi hanno voluto vedere nel movimento sofistico una sorta di “illuminismo greco” ante litteram, in quanto i miti e le credenze tradizionali vennero criticati e sostituiti con nozioni razionali: in altre parole la Sofistica avrebbe in un certo senso anticipato alcuni motivi tipici di quel movimento culturale sviluppatosi in Europa nel XVIII secolo, l'Illuminismo appunto.

L'insegnamento

Johann Friedrich Greuter, "Socrate e i suoi studenti", XVII secolo. Nell'Atene del V secolo era costume che i maestri tenessero lezione all'aperto, in piazza o sotto i portici

Con la comparsa dei sofisti nascono nuovi luoghi deputati all'insegnamento: le case dei cittadini più ricchi,18 le palestre pubbliche e le piazze, le quali includevano dei portici in cui i maestri potevano passeggiare con i loro discepoli o sedere in banchi dove potevano discutere. In genere, la scelta del luogo in cui tenere lezione era legata al tipo di "sapienza" professata: Socrate, ad esempio, scelse la piazza pubblica per mostrare la sua disponibilità verso tutti i cittadini e il disinteresse per il denaro – e lo stesso faranno i cinici in epoca successiva – mentre gli accademici, i peripatetici e gli stoici preferiranno luoghi attrezzati con strumenti scientifici e biblioteche. D'altra parte, va ricordato ancora una volta che la Sofistica non fu una scuola filosofica, bensì un movimento caratterizzato da un ampio e variegato dibattito interno.

Capisaldi dell'insegnamento sofistico sono:

    •    L'insegnabilità della virtù: essendo i sofisti "maestri di virtù", il loro insegnamento si basava sulle strategie per conseguirla, con fini eminentemente utilitaristici; non essendo infatti possibile conoscere il Bene in sé, l'educazione era volta a diffondere i valori più convenienti alla vita civile dell'individuo. Per questo motivo, essi si rivolsero non solo agli aristocratici, ma anche ai ceti emergenti che aspiravano al successo.19

    •    La retorica: i sofisti non furono degli scienziati, poiché non limitavano il campo del loro sapere ad una disciplina specifica; piuttosto, per loro era importante il metodo di comunicazione, e per apprenderlo erano previsti due momenti, la dialettica e l'eristica: la prima consiste nell'arte di saper argomentare, la seconda nel saper vincere in una discussione. Il loro insegnamento abbracciava molte tematiche, e oltre alla morale si occuparono di problemi di diritto, ponendo la questione dell'esistenza o meno del diritto naturale (physis) e del suo rapporto col diritto positivo (nomos).20

Per quanto riguarda le leggi e le norme i sofisti, spostandosi di città in città, si accorsero che ogni cultura ha diverse regole e leggi21. Ciò fece sorgere in loro domande quali:

    •    Ci sono regole uguali per tutti?
In genere i sofisti propendono per il no, cioè per il relativismo etico.

    •    Vi è una cultura superiore alle altre?
Porre la domanda già equivale ad una critica delle tradizioni e ad una propensione per il relativismo culturale.

La Seconda sofistica



Per approfondire, vedi Seconda sofistica.

L'imperatore Adriano, in veste greca, offre un sacrificio ad Apollo (Londra, British Museum)

Dopo il successo del V secolo a.C., nel secolo successivo la Sofistica vide un progressivo ridimensionamento della propria importanza, soprattutto a causa delle già menzionate critiche rivolte ai sofisti dai filosofi Platone e Aristotele, e dalle loro scuole. Tuttavia, a partire dall'inizio del II secolo d.C. (quindi a distanza di circa 400 anni) si assiste, in piena età imperiale, ad una rinascita della Sofistica, grazie a un movimento filosofico-letterario definito da Filostrato Seconda sofistica22 (detta anche Nuova sofistica o Neosofistica, per differenziarla da quella antica). Diversamente dalla Sofistica del V secolo, però, la Seconda sofistica abbandona i temi di interesse filosofico ed etico (come la divinità, la virtù e via dicendo), per occuparsi esclusivamente di oratoria e retorica. La Nuova sofistica si presenta così subito come un movimento di impronta essenzialmente letteraria, orientato allo studio e all'esercizio dell'oratoria e ben distante dall'impegno politico e culturale dei sofisti dell'età di Pericle. I nuovi sofisti mirano all'affermazione personale e al successo pubblico, cercando (eccetto che in rari casi) di ingraziarsi la simpatia e i favori dei potenti; la loro produzione letteraria, improntata alla ricercatezza stilistica secondo lo stile del cosiddetto asianesimo, spazia attraverso vari generi: dialoghi, trattati, opere satiriche, novelle, fino a ben più leggere opere di intrattenimento, brani in cui veniva ostentata la propria bravura retorica.23

Tra i vari autori di lingua greca che rientrano in questo fenomeno letterario, i più importanti sono:

    •    Dione Crisostomo («dalla bocca d'oro»), vissuto tra I e II secolo, ricoprì varie cariche politiche e svolse la propria attività di retore e insegnante in Bitinia e a Roma, dove però fu condannato all'esilio;

    •    Erode Attico, tra i più importanti e rinomati, ricoprì vari incarichi nell'amministrazione pubblica romana, tra cui il consolato del 143;

    •    Elio Aristide, allievo di Erode Attico, famoso soprattutto per le opere di onirocritica e per la sua devozione al dio Asclepio;

    •    Luciano di Samosata, uomo vicino alla famiglia imperiale romana (dinastia degli Antonini), fu autore di vari scritti sui più disparati argomenti, nonché modello di purismo linguistico;

    •    Flavio Filostrato, membro di una famiglia di celebri retori e sofisti, fu tra i più potenti letterati alla corte dei Severi.

Lungi dal concludersi con la fine del II secolo, la Seconda sofistica perdurò ancora nei secoli successivi. Tratti tipici di questo movimento sono rintracciabili in autori greci del IV secolo come Imerio, Libanio, Temistio e Sinesio, per giungere infine alla Scuola di Gaza (V secolo).24

Bibliografia

Edizioni dei frammenti

 I frammenti e le testimonianze sui sofisti sono raccolte in Die Fragmente der Vorsokratiker, a cura di Hermann Diels e Walther Kranz (19526). In traduzione italiana sono consultabili:

    •    I presocratici. Testimonianze e frammenti, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari: Laterza 1979.

    •    I sofisti. Testimonianze e frammenti, a cura di M. Untersteiner e A.M. Battegazore, Firenze: La Nuova Italia, 1949-1962 (nuova edizione: Milano: Bompiani 2009, con introduzione di G. Reale).

    •    I sofisti, a cura di M. Bonazzi, pref. di F. Trabattoni, Milano: BUR, 2007.

    •    I presocratici. Prima traduzione integrale con testi originali a fronte delle testimonianze e dei frammenti di Hermann Diels e Walther Kranz, a cura di Giovanni Reale, Milano: Bompiani, 2006.

Bibliografia secondaria

    •     Mauro Bonazzi, I sofisti, Roma: Carocci, 2007.

    •     W.K.C. Guthrie, The Sophists, Cambridge: Cambridge University Press, 1969.

    •     George B. Kerferd, I sofisti, trad. it., Bologna: Il Mulino, 1988

    •    M. Isnardi Parente, Sofistica e democrazia antica, Firenze: Sansoni, 1977.

    •    W. Jaeger, Paideia. La formazione dell’uomo greco, Firenze, La nuova Italia 1959, (nuova edizione con un'introduzione di Giovanni Reale, Bompiani: Milano 2003.

    •    H.-I. Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità, Roma: Studium, 1966.

    •    E. Paci, Storia del pensiero presocratico, Roma: Edizioni Radio Italiana, 1957.

    •    A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Bari: Laterza, 1988.

    •    G. Reale, Il pensiero antico, Milano: Vita e Pensiero, 2001.

    •    Mario Untersteiner, I sofisti, Milano: Bruno Mondadori 19962.

    •     Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Protagonisti e testi della filosofia, Volume A, Tomo 1, Paravia Bruno Mondadori, Torino 1999

Voci correlate

    •    Antropocentrismo

    •    Demagogia

    •    Dissoi logoi

    •    Eristica

    •    Presocratici

    •    Relativismo culturale

    •    Relativismo etico sofistico

    •    Retorica

    •    Seconda sofistica

    •    Sofisma

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Socrate

« Sembra dunque che per questo particolare io sia più saggio di quest'uomo, poiché non m'illudo di sapere ciò che non so! »

(Platone, Apologia di Socrate, 6)

Testa di Socrate, scultura di epoca romana conservata al Museo del Louvre. Socrate fu il primo filosofo ad essere ritratto. Tutte le altre immagini dei filosofi presocratici sono opere di fantasia1

Socrate (in greco antico Σωκράτης, traslitterato in Sōkrátēs; Atene, 470 a.C./469 a.C.2 – Atene, 399 a.C.) è stato un filosofo greco antico, uno dei più importanti esponenti della tradizione filosofica occidentale.

Il contributo più importante che egli ha dato alla storia del pensiero filosofico consiste nel suo metodo d'indagine: il dialogo che utilizzava lo strumento critico dell'elenchos (ἔλεγχος, "confutazione") applicandolo prevalentemente all'esame in comune (εξεταζειν, exetazein) di concetti morali fondamentali. Per questo Socrate è riconosciuto come padre fondatore dell'etica o filosofia morale.

Per le vicende della sua vita e della sua filosofia che lo condussero al processo e alla condanna a morte è stato considerato, dal filosofo e classicista austriaco Theodor Gomperz, il primo martire occidentale della libertà di pensiero.3

Le fonti sulla vita

 È ben noto il fatto che Socrate non abbia lasciato alcuno scritto. Ricaviamo quindi il pensiero di Socrate dalle opere dei suoi discepoli, tra cui spicca soprattutto il sopraccitato Platone che fu per lungo tempo uno di essi e che condivise, negli scritti giovanili, il pensiero del maestro, a tal punto che risulta difficile distinguere il pensiero socratico da quello platonico, che acquisì poi una maggiore originalità solo nella maturità e nella vecchiaia.45

Un'altra fonte della vita e del pensiero di Socrate è rappresentata dalle opere cosiddette socratiche (Apologia di Socrate (Aπολογία Σωκράτους), Simposio (Συμπόσιον), Detti memorabili di Socrate (Πομνευμονεύματα Σωκράτους)) dello storico Senofonte discepolo di Socrate 6 che la storiografia ottocentesca ha apprezzato per le notizie sulla vita del maestro mentre quella novecentesca le ha considerate di scarso interesse soprattutto se confrontate alle opere platoniche.7 Dalle opere di Senofonte dedicate al maestro complessivamente l’immagine di Socrate che emergerebbe sarebbe quella di un uomo virtuoso e morigerato, cittadino modello, timorato degli dei, instancabile nel predicare la virtù e nell’esortare i giovani all’obbedienza verso i genitori e alle leggi dello Stato.8«La critica più recente guarda tuttavia con maggiore equilibrio agli scritti senofontei, riconoscendogli chiarezza e coerenza; la figura di Socrate che se ne ricava spicca per il carattere morale e una certa forma di ascetismo. Molto spazio viene dedicato all’intellettualismo socratico e alle nozioni di bene e di virtù, nonché alla dialettica del maestro...» 9

Socrate nella cesta nella commedia "Le nuvole" di Aristofane. Stampa del XVI secolo

Dalle opere socratiche di Senofonte complessivamente l’immagine di Socrate che emerge è quella di un uomo virtuoso e morigerato, cittadino modello, timorato degli dei, instancabile nel predicare la virtù e nell’esortare i giovani all’obbedienza verso i genitori e alle leggi dello Stato.

Un'altra testimonianza la troviamo ne Le nuvole, commedia di Aristofane dove Socrate viene rappresentato come veniva visto da alcuni ad Atene e cioè come un pedante seccatore perso nelle sue discussioni astratte e campate in aria. Aristofane infatti mostra Socrate dentro una cesta che cala dalle nuvole mentre è tutto intento a delle ricerche strambe e ridicole, come calcolare quanto è lungo il salto della pulce, o quale sia l'origine del ronzio delle zanzare. Aristofane vuole evidentemente fare una caricatura di queste ricerche naturalistiche che egli impropriamente attribuisce a Socrate, e anche avvertire che chi si dedica allo studio della natura in genere è un ateo, che rigetta la religione tradizionale, nella sua commedia ridicolmente sostituita dal culto delle Nuvole.

Testimone del pensiero socratico è Aristotele che però risulta poco attendibile poiché egli tende a esporre il pensiero dei filosofi precedenti interpretandolo secondo il suo personale punto di vista, operando distorsioni e fraintendimenti sui concetti originali. Aristotele infatti, presenta la dottrina socratica come incentrata, in un primo tentativo fallito, nell'individuare la definizione del concetto. A questo, secondo Aristotele, mirava la ricerca che si esprimeva nel continuo interrogare (ti estì "che cos'è?") che Socrate effettuava nel dialogo: la definizione precisa della cosa di cui si stava parlando. In particolare Aristotele attribuiva a Socrate la scoperta del metodo della definizione e induzione, che considerava l'essenza del metodo scientifico. Stranamente però, Aristotele affermava pure che tale metodo non fosse adatto all'etica. Socrate invece avrebbe erroneamente applicato questo suo metodo all'esame dei concetti morali fondamentali del tempo, come ad esempio le virtù di pietà, saggezza, temperanza, coraggio, e di giustizia.10

Probabilmente Socrate frequentò il gruppo degli amici di Pericle e conobbe le dottrine dei filosofi naturalisti Ionici di cui apprezzava in particolare Anassimandro, fattogli conoscere da Archelao. Nel 454 a.C. essendo presenti ad Atene Parmenide e Zenone di Elea, Socrate ebbe modo di conoscere la dottrina degli eleati come pure fu in rapporti con i sofisti Protagora, Gorgia e Prodico.

Si sa che fu molto interessato al pensiero di Anassagora ma se ne allontanò per la teoria del Nous ("Mente") che metteva ordine nel caos primigenio degli infiniti semi. Secondo alcuni interpreti Socrate pensava che questo principio ordinatore dovesse essere identificato con il sommo principio del Bene, un principio morale alla base dell'universo, ma quando invece si accorse che per Anassagora il Nous doveva invece rappresentare un principio fisico, una forza materiale, ne fu deluso e abbandonò la sua dottrina.

Biografia

Socrate e Santippe
Incisione di Otto van Veen, XVII secolo.

Il periodo storico in cui visse Socrate è caratterizzato da due date fondamentali: il 469 a.C. e il 404 a.C. La prima data, quella della sua nascita, segna la definitiva vittoria dei Greci sui Persiani (battaglia dell'Eurimedonte). La seconda si riferisce a quando all'età dell'oro di Pericle seguirà, dopo il 404 con la vittoria spartana, l'avvento del governo dei Trenta Tiranni. La vita di Socrate si svolge dunque nel periodo della maggiore potenza ateniese ma anche del suo declino.

Il padre di Socrate, Sofronisco, fu uno scultore del demo di Alopece, ed è possibile che trasmise tale mestiere al giovane figlio, anche se nessuna testimonianza gli attribuisce alcun mestiere 11: in tal senso, secondo Diogene Laerzio12, opera di Socrate sarebbero state le Cariti13, vestite, sull'Acropoli di Atene. Sua madre, Fenarete, che aveva già avuto un figlio di nome Patrocle da un precedente matrimonio 14 con Cheredemo 15  sarebbe stata una levatrice.16

Probabilmente Socrate era di famiglia benestante, di origini aristocratiche: nei dialoghi platonici non risulta che egli esercitasse un qualsiasi lavoro e del resto sappiamo che egli combatté come oplita17 nella battaglia di Potidea, e in quelle di Delio e di Anfipoli. È riportato nel dialogo Simposio di Platone che Socrate fu decorato per il suo coraggio. In un caso, si racconta, rimase al fianco di Alcibiade ferito, salvandogli probabilmente la vita. Durante queste campagne di guerra dimostrò di essere straordinariamente resistente, marciando in inverno senza scarpe né mantello.



Busto di Socrate conservato nei Musei Vaticani.



Nel 406 come membro del Consiglio dei Cinquecento (Bulé), Socrate fece parte della Pritania quando i generali della Battaglia delle Arginuse furono accusati di non aver soccorso i feriti in mare e di non aver seppellito i morti per inseguire le navi spartane. Socrate ricopriva la carica di Epistate ed unico nell'assemblea si oppose alla richiesta illegale di un processo collettivo contro i generali. Nonostante pressioni e minacce bloccò il procedimento fino alla conclusione del suo mandato quando infine sei generali ritornati ad Atene furono condannati a morte.18

Nel 404, i Trenta Tiranni ordinarono a Socrate e ad altri quattro cittadini di arrestare il democratico Leonzio di Salamina. Socrate si oppose all'ordine e la sua morte fu evitata solo dalla successiva caduta dei Tiranni.19

Socrate è descritto da Platone come un uomo avanti negli anni e piuttosto brutto, e aggiunge anche che era come quelle teche apribili, installate di solito ai quadrivi, raffiguranti spesso un satiro che custodivano all'interno la statuetta di un dio. Questo pare quindi fosse l'aspetto di Socrate, fisicamente simile a un satiro, e tuttavia sorprendentemente buono nell'animo, per chi si soffermava a discutere con lui.

Diogene Laerzio riferisce che, secondo alcuni antichi, Socrate avrebbe collaborato con Euripide alla composizione delle tragedie, ispirando in esse temi profondi di riflessione.20

Socrate fu sposato con Santippe, che gli diede tre figli: Lampsaco, Sofronisco e Menesseno. Tuttavia, secondo Aristotele e Plutarco, due di questi li avrebbe avuti da una concubina di nome Mirto). Santippe ebbe fama di donna insopportabile e bisbetica. Socrate stesso attestò che avendo imparato a vivere con lei era divenuto ormai capace di adattarsi a qualsiasi altro essere umano, esattamente come un domatore che avesse imparato a domare cavalli selvaggi, si sarebbe trovato a suo agio con tutti. Egli d'altra parte era talmente preso dalle proprie ricerche filosofiche al punto da trascurare ogni altro aspetto pratico della vita, tra cui anche l'affetto della moglie, finendo per condurre un'esistenza quasi vagabonda. Socrate viene anche rappresentato come un assiduo partecipante a simposi, intento a bere e a discutere. Fu un bevitore leggendario, soprattutto per la capacità di tollerare bene l'alcool al punto che quando il resto della compagnia era ormai completamente ubriaca egli era l'unico a sembrare sobrio.

L'Atene di Socrate



L'Acropoli con il Partenone, raffigurazione del nazionalismo greco al tempo di Pericle



21



Socrate visse dunque durante un periodo di transizione, dall'apice del potere di Atene fino alla sua sconfitta per mano di Sparta e alla sua coalizione nella guerra del Peloponneso (404). Dopo la sconfitta s'insediò ad Atene un regime oligarchico e filospartano guidato da Crizia, un nobile sofista negatore della religione. Dopo appena un anno, il governo dei Trenta tiranni decadde e s'instaurò un governo democratico conservatore formato da esiliati politici, guidato da Trasibulo. Egli giudicò Socrate un nemico politico per i rapporti che aveva avuto con Alcibiade, suo scapestrato discepolo e presunto amante, accusato di avere tradito Atene per Sparta.

Il nuovo regime democratico22 voleva riportare la città allo splendore dell'età di Pericle instaurando un clima di pacificazione generale: infatti non perseguitò, com'era abitudine, i nemici del partito avverso ma concesse un'amnistia. Si voleva tornare a creare in Atene una compattezza e solidarietà sociale riproponendo ai cittadini gli antichi ideali e i principi morali che avevano fatto grande Atene. Ma nella città si diffondeva l'insegnamento, seguito con entusiasmo da molti, specie giovani, dei sofisti i quali invece esercitavano una critica corrosiva di ogni principio e verità che si volesse dare per costituita dalla religione o dalla tradizione.

La dottrina socratica



Per approfondire, vedi Pensiero di Socrate (interpretazioni).

 Molti studiosi di storia della filosofia23 concordano nell'attribuire a Socrate la nascita di quel peculiare modo di pensare che ha consentito l'origine e lo sviluppo della riflessione astratta e razionale, che sarà il fulcro portante di tutta la filosofia greca successiva. Il primo a sviluppare questa interpretazione della dottrina socratica fu Aristotele che attribuì a Socrate la scoperta del metodo della definizione e induzione, che egli considerava uno, ma non l'unico, degli assi portanti del metodo scientifico.

Sapere di non sapere

 Paradossale fondamento del pensiero socratico è il "sapere di non sapere", un'ignoranza intesa come consapevolezza di non conoscenza definitiva, che diventa però movente fondamentale del desiderio di conoscere. La figura del filosofo secondo Socrate è completamente opposta a quella del saccente, ovvero del sofista che si ritiene e si presenta come sapiente, perlomeno di una sapienza tecnica come quella della retorica.

Le fonti storiche che ci sono pervenute descrivono Socrate come un personaggio animato da una grande sete di verità e di sapere, che però sembravano continuamente sfuggirgli. Egli diceva di essersi convinto così di non sapere, ma proprio per questo di essere più sapiente degli altri.24

Nell'Apologia di Socrate ci viene descritto come egli abbia preso coscienza di ciò a partire da un singolare episodio. Un suo amico, Cherefonte, aveva chiesto alla Pizia, la sacerdotessa dell'oracolo di Apollo a Delfi, chi fosse l'uomo più sapiente e questa aveva risposto che era Socrate. Egli sapeva di non essere il più sapiente e quindi volle dimostrare come l'oracolo si fosse sbagliato andando a dialogare con quelli che avevano fama di essere molto sapienti, in particolare i politici.

Ma alla fine del confronto, racconta Socrate, questi, messi di fronte alle proprie contraddizioni (l'aporia socratica) e inadeguatezze, provarono stupore e smarrimento, apparendo per quello che erano: dei presuntuosi ignoranti che non sapevano di essere tali. «Allora capii, dice Socrate, che veramente io ero il più sapiente perché ero l'unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante. In seguito quegli uomini, che erano coloro che governavano la città, messi di fronte alla loro pochezza presero ad odiare Socrate».

«Ecco perché ancora oggi io vo d'intorno investigando e ricercando...se ci sia alcuno...che io possa ritenere sapiente; e poiché sembrami che non ci sia nessuno, io vengo così in aiuto al dio dimostrando che sapiente non esiste nessuno»25.

Egli quindi "investigando e ricercando" conferma l'oracolo del dio, mostrando così l'insufficienza della classe politica dirigente. Da qui le accuse dei suoi avversari: egli avrebbe suscitato la contestazione giovanile insegnando con l'uso critico della ragione a rifiutare tutto ciò che si vuole imporre per la forza della tradizione o per una valenza religiosa. Socrate in realtà (sempre secondo la testimonianza di Platone) non intendeva affatto contestare la religione tradizionale, né corrompere i giovani incitandoli alla sovversione.

La scoperta dell'anima umana

 Secondo l'interpretazione data da John Burnet (1863-1928), Alfred Edward Taylor (1869-1945), Werner Jaeger26, anche se non condivisa da tutti,27 Socrate fu di fatto il primo filosofo occidentale a porre in risalto il carattere personale dell'anima umana.28

È l'anima, infatti, a costituire la vera essenza dell'uomo. Sebbene la tradizione orfica e pitagorica avessero già identificato l'uomo con la sua anima, in Socrate questa parola risuona in forma del tutto nuova e si carica di significati antropologici ed etici:29

« Tu, ottimo uomo, poiché sei ateniese, cittadino della Polis più grande e più famosa per sapienza e potenza, non ti vergogni di occuparti delle ricchezze, per guadagnarne il più possibile, e della fama e dell'onore, e invece non ti occupi e non ti dai pensiero della saggezza, della verità, e della tua anima, perché diventi il più possibile buona? »

(Apologia di Socrate, traduzione di Giovanni Reale, Rusconi, 1993)

 Mentre gli Orfici e i Pitagorici consideravano l'anima ancora alla stregua di un demone divino, Socrate la fa coincidere con l'io, con la coscienza pensante di ognuno, di cui egli si propone come maestro e curatore.30 Non sono i sensi ad esaurire l'identità di un essere umano, come insegnavano i sofisti, l'uomo non è corpo ma anche ragione, conoscenza intellettiva, che occorre rivolgere ad indagare la propria essenza.31 Non solo Platone in diversi passi dei suoi dialoghi, ma anche la cosiddetta tradizione "indiretta" testimoniano come Socrate, al contrario dei sofisti, riconducesse la cura dell'anima alla conoscenza dell'intima natura umana nel senso su indicato.32

In proposito è stato rilevato:

« È da notare che troviamo questa concezione dell'anima, come sede dell'intelligenza normale e del carattere, diffusa nella letteratura della generazione immediatamente posteriore alla morte di Socrate; essa è comune a Isocrate, Platone, Senofonte; non può quindi essere la scoperta di nessuno di loro. Ma è del tutto o quasi assente dalla letteratura delle epoche precedenti. Deve perciò avere avuto origine con qualche contemporaneo di Socrate, ma non conosciamo nessun pensatore contemporaneo al quale essa possa essere attribuita all'infuori di Socrate, il quale nelle pagine sia di Platone che di Senofonte la professa costantemente. »

(Taylor, Socrate, cit. in F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997)

Giannantoni ha contestato questi esiti, in particolare la dottrina dell'anima andrebbe riportata esclusivamente al pensiero platonico secondo la cosiddetta interpretazione "evolutiva" della filosofia platonica, che però è piuttosto antiquata e messa già in crisi dal nuovo paradigma interpretativo della scuola di Tubinga,33 cioè l’idea che nel suo lungo itinerario filosofico Platone avesse sviluppato e mutato, anche profondamente, il suo pensiero, passando gradatamente da una fase giovanile di preponderante impegno apologetico nei confronti di Socrate, di difesa della sua memoria e di riflessione appassionata sulla sua eredità filosofica, a una fase di progressivo distacco dal maestro (la fase della cosiddetta "crisi del socratismo"), fino alla conquista della sua piena maturità e originalità, caratterizzata dalla dottrina delle idee, dalla dottrina della natura e del destino dell’anima umana e dalla costruzione del suo grande edificio filosofico ed etico-politico».34

Occorrerebbe cioè constatare «...il riconoscimento nell’attività di Platone, di una fase letteraria giovanile, alla quale venivano fatti risalire quei dialoghi (Ippia minore, Liside, Carmide, Lachete, Protagora, Eutifrone, Apologia e Critone) nei quali manca ogni riferimento alla dottrina delle idee, qualsiasi indagine di filosofia della natura e di antropologia, non compare la dottrina dell’immortalità dell’anima e ci si limita a indagini morali, considerate tradizionalmente più proprie del Socrate storico»35

L'Apologia di Socrate resta comunque, secondo Reale, la testimonianza più attendibile in favore della tesi che vede Socrate come lo scopritore del concetto occidentale di anima:

« Per sostenere questa tesi basterebbe il documento della sola Apologia di Socrate. E che l'Apologia sia non una invenzione di Platone, ma un documento con precisi fondamenti storici è facilmente dimostrabile.[...] Il messaggio che nell'Apologia viene presentato come specifico messaggio filosofico di Socrate è, appunto, quello del nuovo concetto di anima con la connessa esortazione alla «cura dell'anima». »

(G. Reale, introduzione a Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano 1997, p. XVI.)

Il DemoneDáimon (Δαίμων) socratico

 Socrate affermava di credere, oltre agli dèi riconosciuti dalla polis, anche in una particolare divinità minore, appartenente alla mitologia tradizionale, che egli indicava con il nome di dáimōn. Il dáimon per Socrate non aveva il significato anche negativo che altri autori greci classici evidenzieranno36 ma era un essere divino inferiore agli dèi ma superiore agli uomini che possiamo intendere anche con il termine genio.37 Socrate si diceva tormentato da questa voce interiore che si faceva sentire non tanto per indicargli come pensare e agire, ma piuttosto per dissuaderlo dal compiere una certa azione. Socrate stesso dice di esser continuamente spinto da questa entità a discutere, confrontarsi, e ricercare la verità morale (Kant avrebbe successivamente paragonato questo principio "divino" all'imperativo categorico, alla coscienza morale dell'uomo).

Conosci te stesso



Per approfondire, vedi Conosci te stesso.

 Il motto "ΓΝΩΘΙ ΣEΑΥΤΟN" ("Γνῶθι σεαυτόν" - Gnòthi seautòn, «Conosci te stesso»), risalente alla tradizione religiosa di Delfi, voleva significare, nella sua laconica brevità, la caratteristica dell'antica sapienza greca: quella dei sette sapienti. Il significato originario, dedotto da alcune formule a noi pervenute (Nulla di troppo, Ottima è la misura, Non desiderare l'impossibile), era quello di voler ammonire a conoscere i propri limiti, «conosci chi sei e non presumere di essere di più»; era dunque una esortazione a non cadere negli eccessi, a non offendere la divinità pretendendo di essere come il dio.38 Del resto tutta la tradizione antica mostra come l'ideale del saggio, colui che possiede la sophrosyne ("saggezza"), sia quello di conseguire la moderazione e di rifuggire il suo opposto: la tracotanza e la superbia (ὕβρις, Hýbris).

La maieutica



Per approfondire, vedi Metodo socratico.

 Il termine maieutica viene dal greco maieutiké (sottinteso: téchne). Letteralmente, sta per "l'arte della levatrice" (o "dell'ostetrica"), ma l'espressione designa il metodo socratico così come è esposto da Platone nel Teeteto. L'arte dialettica, cioè, viene paragonata da Socrate a quella della levatrice, il mestiere di sua madre: come quest'ultima, il filosofo di Atene intendeva "tirar fuori" all'allievo pensieri assolutamente personali, al contrario di quanti volevano imporre le proprie vedute agli altri con la retorica e l'arte della parola come facevano i sofisti. Parte integrante di questo metodo è il ricorso a battute brevi (brachilogia) in opposizione ai lunghi discorsi (macrologia) del metodo retorico dei sofisti.

Differenze con i sofisti

 Socrate, a differenza dei sofisti, mirava a convincere l'interlocutore non ricorrendo ad argomenti retorici e suggestivi, ma sulla base di argomenti razionali. Socrate si presenta così come una persona anticonformista, che in opposizione alle convinzioni della folla rifugge il consenso e l'omologazione: garanzia di verità è per lui non la condivisione irriflessa, ma la ragione che porta alla reciproca persuasione.

Si è detto inoltre come egli non lasciò niente di scritto della sua filosofia perché pensava che la parola scritta fosse come il bronzo che percosso dà sempre lo stesso suono. Lo scritto non risponde alle domande e alle obiezioni dell'interlocutore, ma interrogato dà sempre la stessa risposta. Per questo i dialoghi socratici appaiono spesso "inconcludenti", nel senso non che girano a vuoto, ma piuttosto che non chiudono la discussione, perché la conclusione rimane sempre aperta, pronta ad essere rimessa nuovamente in discussione.39



Per approfondire, vedi Comunicazione filosofica.

 Come è stato evidenziato tuttavia, la filosofia stessa di Socrate segna il passaggio da un tipo di cultura orale, basata sulla tradizione mimetico-poetica, ad una mentalità di tipo concettuale-dialettico, preludio di un'alfabetizzazione maggiormente diffusa. Socrate è ancora l'ultimo rappresentante della cultura orale, ma in lui già si avvertirebbe l'esigenza di un sapere astratto e definitivo, da esprimere in forma scritta, esigenza che sarà fatta propria da Platone che d'altra parte conserverà nello scritto filosofico la forma dialogica che svanirà nelle opere della vecchiaia dove il dialogo sarà semplicemente quello dell'anima con se stessa. Lo stesso Platone d'altronde affermava che la sua filosofia va ricercata altrove rispetto ai suoi scritti.40

Il fatto che Socrate preferisse il discorso orale a quello scritto è il motivo per cui egli era stato confuso con i sofisti. Secondo Platone è questa una delle colpe di Socrate: lui che era vero sapiente si dichiarava ignorante e i sofisti, veri ignoranti, facevano professione di sapienza. In questo modo il maestro contribuiva a confondere il vero ruolo della filosofia ed egli stesso al processo, pur avendo rifiutato l'aiuto di un celebre "avvocato" sofista, per l'abitudine di dialogare con chiunque in strada e nei più diversi luoghi, era stato ritenuto dagli ateniesi un sofista.



Per approfondire, vedi Dialettica eristica.

Maestro della paideia

 È pur vero che Socrate come i sofisti metteva in discussione un certo modo di intendere l'ideale educativo della paideia, ma con intenti del tutto opposti: i sofisti con lo scopo di dissolverlo, Socrate invece con lo scopo di tutelarlo.

La paideia esaltava lo spirito di cittadinanza e di appartenenza costituendolo come elemento fondamentale alla base dell'ordinamento politico-giuridico delle città greche. L'identità dell'individuo era pressoché inglobata da quell'insieme di norme e valori che costituivano l'identità del popolo stesso: per questo più che un procedimento educativo o di socializzazione potrebbe essere definito come processo di uniformazione all'ethos politico.

La dottrina dei sofisti si poneva contro questa omologazione della paideia, da essi giudicata "conservatrice" e prevaricatrice; essi miravano perciò a contestarne la verità, tramite l'arte della retorica e a far apparire vero ciò che a loro conveniva, prevalendo con la parola sull'altro e ad annullare qualsiasi valore di verità e giustizia sostituendovi il proprio egoistico interesse. Socrate invece voleva piuttosto verificare e smascherare se sotto quell'ideale educativo non vi fosse quello di addormentare le coscienze critiche a scopi di potere personale.

Ed è così che la scoperta socratica dell'anima umana assume toni decisamente educativi e morali.41 Secondo Platone, infatti, Socrate è l'unico che intende correttamente il senso della politica, come capacità di rendere migliori i cittadini.42 Socrate li esorta a occuparsi, più che delle cose della città, della città stessa.43 In lui c'è pertanto uno stretto legame tra filosofia e politica, che in Platone diventerà esplicito, ma in Socrate già affiora come esigenza di anteporre sempre il bene della città e il rispetto delle leggi agli egoismi dei singoli.44

« Questo, vedete, è il comandamento che mi viene da Dio. E sono convinto che la mia patria debba annoverare fra i benefici più grandi questa mia dedizione al volere divino. Tutta la mia attività, lo sapete, è questa: vado in giro cercando di persuadere giovani e vecchi a non pensare al fisico, al denaro con tanto appassionato interesse. Oh! pensate piuttosto all'anima: cercate che l'anima possa divenir buona, perfetta. »

(Apologia di Socrate, 29 d - 30 b, trad. di E. Turolla, Milano-Roma 1953)

Brachilogia ed ironia



Per approfondire, vedi Brachilogia e Ironia socratica.

 D'altra parte è vero che anche lui esaltava la parola, ma, al contrario dei sofisti che usavano il monologo e che praticamente parlavano da soli, il suo discorrere era un dià logos, una parola che attraversava i due interlocutori. Mentre i sofisti infatti miravano ad abbindolare l'interlocutore usando il macròs logos, il grande e lungo discorso che non dava spazio alle obiezioni, Socrate invece dialogava con brevi domande e risposte - la cosiddetta brachilogia (letteralmente "breve dialogare") socratica - proprio per dare la possibilità di intervenire e obiettare ad un interlocutore che egli rispettava per le sue opinioni.

Un'altra caratteristica del dialogo socratico, che lo distingueva dal discorso torrentizio dei sofisti, era il continuo domandare di Socrate su quello che stava affermando l'interlocutore; sembrava quasi che egli andasse alla ricerca di una precisa definizione dell'oggetto del dialogo. «Ti estì» ,"che cos'è" [quello di cui parli]?

È questa l'ironia di Socrate che, per non demotivare l'interlocutore e per fare in modo che egli senza imposizioni si convinca, finge di non sapere quale sarà la conclusione del dialogo, accetta le tesi dell'interlocutore e le prende in considerazione, portandola poi ai limiti dell'assurdo in modo che l'interlocutore stesso si renda conto che la propria tesi non è corretta. Chi dialoga con Socrate tenterà varie volte di dare una risposta precisa ma alla fine si arrenderà e sarà costretto a confessare la sua ignoranza. Proprio questo sin da principio sapeva e voleva Socrate: la sua non era fastidiosa pedanteria45 ma il voler dimostrare che la presunta sapienza dell'interlocutore fosse in realtà ignoranza.

Le accuse politiche

« […] questo ha sotto scritto e giurato Meleto di Meleto, Pitteo, contro Socrate di Sofronisco, Alopecense. Socrate è colpevole di non riconoscere come Dei quelli tradizionali della città, ma di introdurre Divinità nuove; ed è anche colpevole di corrompere i giovani. Pena: la morte »

(lettera d'accusa contro Socrate presentata da Meleto in Diogene Laerzio, Vita e dottrine dei filosofi, II, 5, 40.)

Il continuo dialogare di Socrate, attorniato da giovani affascinati dalla sua dottrina e da importanti personaggi, nelle strade e piazze della città fece sì che egli venisse scambiato per un sofista dedito ad attaccare imprudentemente e direttamente i politici. Il filosofo, infatti, dialogando con loro dimostrò come la loro vantata sapienza in realtà non esistesse. Socrate venne quindi ritenuto un pericoloso nemico politico che contestava i tradizionali valori cittadini.

Per questo Socrate, che aveva attraversato indenne i regimi politici precedenti, che era rimasto sempre ad Atene e che non aveva mai accettato incarichi politici, fu accusato e messo sotto processo, dal quale poi sarebbe derivata la sua condanna a morte.

Causa materiale del processo furono due esponenti di rilievo del regime democratico, Anito e Licone, i quali, servendosi di un prestanome, Meleto, un giovane ambizioso, fallito letterato, accusarono il filosofo di:

    •     corrompere i giovani insegnando dottrine che propugnavano il disordine sociale;

    •     non credere negli dei della città e tentare di introdurne di nuovi.



L'accusa di "ateismo", che rientrava in quella di "empietà" (ἀσέβεια - asebia), condannato da un decreto di Diopeithes all'incirca nel 430 a.C., fu evidentemente un pretesto giuridico per un processo politico, poiché l'ateismo era sì ufficialmente riprovato e condannato ma tollerato e ignorato se affermato privatamente46  Poiché la religione e la cittadinanza erano ritenute un tutt'uno, accusando Socrate di ateismo lo si incolpò di avere cospirato contro le istituzioni e l'ordine pubblico. D'altra parte Socrate non aveva mai negato l'esistenza degli dei della città ed eluse facilmente l'accusa sostenendo di credere in un dáimon, creatura minore figlia delle divinità tradizionali.

Lisia si offrì di difendere Socrate, ma egli rifiutò probabilmente perché non voleva confondersi con i sofisti e preferì difendersi da solo. Descritto da Platone nella celebre Apologia di Socrate, il processo evidenziò due elementi:

    •     che da chi non lo conosce, Socrate è stato confuso con i sofisti considerati corruttori morali dei giovani e

    •     che egli era odiato dai politici.



Riguardo all'accusa di corrompere i giovani essa va spiegata col fatto che Socrate era stato maestro di Crizia e di Alcibiade, due personaggi che nell'Atene della restaurazione democratica godevano di pessima fama. Crizia era stato il capo dei Trenta tiranni e Alcibiade, per sfuggire al processo che gli era stato intentato, aveva tradito Atene ed era passato a Sparta, combattendo contro la propria patria. Furono tali rapporti di educatore che ebbe con questi due personaggi a porre le basi dell'accusa di corrompere i giovani.47

Oggi la critica più attenta ha dimostrato che il processo e la morte di Socrate non furono un avvenimento incomprensibile rivolto contro un uomo, apparentemente trascurabile e non pericoloso per il regime democratico, che voleva ricostruire un'unità politica e spirituale all'interno della città. Uno studioso inglese scrive infatti che fu principalmente «la diffidenza suscitata dai rapporti di Socrate con i "traditori" che spinse i capi della restaurata democrazia a sottoporlo a processo nel 400-399. Alcibiade e Crizia erano morti entrambi, ma i democratici non si sentivano al sicuro finché l'uomo che s'immaginava avesse ispirato i loro tradimenti esercitava ancora influenza sulla vita pubblica» (E. Taylor, Socrate, Londra, 1951, trad. it. Firenze 1952).

Il processo

 Il processo si tenne nel 399 a.C. innanzi a una giuria di 501 cittadini di Atene, e – com'era da aspettarsi per una figura come quella di Socrate - fu atipico: egli si difese contestando le basi del processo, anziché lanciarsi in una lunga e pregevole difesa o portando in tribunale la sua famiglia per impietosire i giudici, come di solito si faceva. Fu riconosciuto colpevole48 per uno stretto margine di voti - appena trenta49.  Dopodiché, come previsto dalle leggi dell'Agorà, sia Socrate che Meleto dovettero proporre una pena per i reati di cui l'imputato era stato accusato. Socrate sfidò i giudici proponendo loro di essere mantenuto a spese della collettività nel Pritaneo, poiché riteneva che anche a lui dovesse essere riconosciuto l'onore dei benefattori della città, avendo insegnato ai giovani la scienza del bene e del male. Poi consentì di farsi multare - seppur di una somma ridicola (una mina d'argento dapprima, cioè tutto quello che egli possedeva; trenta mine poi, sotto pressione dei suoi seguaci, che si fecero garanti per lui). Meleto chiese invece la morte.

Furono messe ai voti le proposte: con ampia maggioranza - 360 voti a favore contro 140 contrari50 - gli ateniesi, più per l'impossibilità di punire Socrate, multandolo di una somma così ridicola, che per effettiva volontà di condannarlo a morte, accolsero la proposta di Meleto e lo condannarono a morire mediante l'assunzione di cicuta. Era pratica diffusa autoesiliarsi dalla città pur di sfuggire alla sentenza di morte, ed era probabilmente su questo che contavano gli stessi accusatori. Socrate dunque intenzionalmente irritò i giudici, che non erano in realtà mal disposti verso di lui. Ma perché lo fece? Socrate in effetti aveva già deciso di non andare in esilio, in quanto anche fuori di Atene avrebbe persistito nella sua attività: dialogare con i giovani e mettere in discussione tutto quello che si vuol far credere verità certa. «Perciò, - sostenne Socrate, - mi ritroverò a rivivere la stessa situazione che mi ha portato alla condanna: qualcuno dei parenti dei miei giovani discepoli si irriterà della mia ricerca della verità e mi accuserà». Del resto egli non temeva la morte, che nessuno sa se sia o no un male, ma la preferiva all'esilio, questo sì un male sicuro.51

Accettazione della condanna

 Come racconta Platone nel dialogo del Critone, Socrate, pur sapendo di essere stato condannato ingiustamente, una volta in carcere rifiutò le proposte di fuga dei suoi discepoli, che avevano organizzato la sua evasione corrompendo i carcerieri. Ma Socrate non sfuggirà alla sua condanna poiché «è meglio subire ingiustizia piuttosto che farla», egli accetterà la morte che d'altra parte non è un male perché o è un sonno senza sogni, oppure darà la possibilità di visitare un mondo migliore dove, dice Socrate, s'incontreranno interlocutori migliori con cui dialogare. Quindi egli continuerà persino nel mondo dell'aldilà a professare quel principio a cui si è attenuto in tutta la sua vita: il dialogo.

Si pone a questo punto uno dei temi più dibattuti della questione socratica: il rapporto tra Socrate e le leggi: perché Socrate accetta l'ingiusta condanna?



Per approfondire, vedi Pensiero di Socrate (interpretazioni)#Socrate e la legge e Pensiero_di_Socrate_(interpretazioni)#Socrate_e_la_legge_2.

La morte di Socrate

« È giunto ormai il tempo di andare, o giudici, io per morire, voi per continuare a vivere. Chi di noi vada verso una sorte migliore, è oscuro a tutti, tranne che al Dio. »

(Platone, Apologia di Socrate)

Morte di Socrate, tela di Jacques-Louis David

 La morte di Socrate52 ci viene dettagliatamente descritta da Platone, che tuttavia non era presente alla fine del maestro, nel dialogo del Fedone. Socrate trascorre serenamente, secondo le sue abitudini, la sua ultima giornata in compagnia dei suoi amici e discepoli, dialogando di filosofia come aveva sempre fatto, e in particolare affrontando il problema dell'immortalità dell'anima e del destino dell'uomo nell'aldilà.

Quindi Socrate si reca in una stanza a lavarsi per evitare alle donne il fastidio di accudire al suo cadavere.53 Tornato nella cella, dopo aver salutato i suoi tre figlioli (Sofronisco, dal nome del nonno, Lamprocle e il piccolo Menesseno) e le donne di casa, li invita ad andarsene. Scende il silenzio nella prigione sino a quando giunge il messo degli Undici ad annunciare a quel singolare prigioniero, così diverso dagli altri, come egli dice, per la sua gentilezza, mitezza e bontà, che è giunto il tempo di morire. L'amico Critone vorrebbe che il maestro, come hanno sempre fatto gli altri condannati a morte, rimandasse ancora l'ultima ora poiché non è ancora il tramonto, il tempo stabilito dalla condanna, ma Socrate:

«Un sonno senza sogni» (Platone, Apologia di Socrate)

« È naturale che costoro facciano così perché credono d'aver qualcosa da guadagnare...[io] credo di non aver altro da guadagnare, bevendo un poco più tardi [il veleno], se non di rendermi ridicolo a' miei stessi occhi, attaccandomi alla vita e facendone risparmio quando non c'è più niente da risparmiare...54 »

Giunto il carceriere incaricato della somministrazione della cicuta Socrate si rivolge a lui, poiché in questo "dialogo" è lui il più "sapiente", chiedendogli che cosa si deve fare e se si può libare a un qualche dio. Il boia risponde che basta bere il veleno che è della giusta quantità per morire e non è quindi possibile usarne una parte per onorare gli dei. Socrate allora dice che si limiterà a pregare la divinità perché gli assicuri un felice trapasso e, così detto, beve la pozione. Gli amici a questo punto si abbandonano alla disperazione ma Socrate li rimprovera facendo, lui che sta morendo, a loro coraggio:

« Che stranezza è mai questa, o amici, Non per altra ragione io feci allontanare le donne perché non commettessero di tali discordanze. E ho anche sentito dire che con parole di lieto augurio bisogna morire. Orsù dunque state quieti e siate forti55 »

 Il paralizzarsi e il raffreddarsi delle membra, divenute insensibili, dai piedi verso il torace, segnala il progressivo avanzare del veleno:56

« E ormai intorno al basso ventre era quasi tutto freddo; ed egli si scoprì - perché s'era coperto - e disse, e fu l'ultima volta che udimmo la sua voce: «O Critone, noi siamo debitori di un gallo ad Asclepio: dateglielo e non dimenticatevene!»57 »

Il gallo ad Asclepio

 Queste ultime parole di Socrate morente hanno dato luogo a varie interpretazioni da parte degli studiosi: quella più semplice e diffusa è che egli, che non vuole lasciare debiti irrisolti né con gli uomini né con gli dei, prega Critone di ringraziare per suo conto il dio Asclepio (l'Esculapio per i romani) per avergli reso la morte indolore.58

Altri ritengono, come Friedrich Nietzsche, che Socrate ringrazi il dio della medicina per averlo guarito dalla malattia del vivere:

« Queste ridicole e terribili "ultime parole" significano per chi ha orecchie: «O Critone, la vita è una malattia!»59 »

 Coerente con questa interpretazione è lo stesso mito di Asclepio, che narra come questi avesse guarito un morto resuscitandolo, attirandosi per l'atto sacrilego l'ira di Zeus che lo fulminò riducendolo in cenere.60.

Interpreti moderni, rifacendosi allo stesso racconto della morte di Socrate, avanzano l'ipotesi che con queste parole egli voglia ingraziarsi il dio perché guarisca il suo discepolo Platone che all'inizio del dialogo è descritto come ammalato61; altri ancora che Socrate preghi il dio che lo risani dal disonore subìto per la condanna come corruttore e empio da parte degli ateniesi. In vero però Socrate non dice "devo" ma "dobbiamo", riferendosi quindi a più persone, un gallo ad Asclepio62. Del plurale dobbiamo fornisce un'interpretazione, ripresa anche da Michel Foucault (1926-1984), Georges Dumézil (1898–1986)63 secondo il quale Critone e Socrate stesso devono il gallo ad Asclepio perché, grazie ad un provvidenziale sogno, sono guariti da un delirio delle loro menti quello che suggeriva, soprattutto a Critone, di far fuggire Socrate dal carcere sottraendosi alle Leggi.

Alcuni autori, mettendo da parte ogni sottigliezza ermeneutica, sostengono che le ultime parole di Socrate non siano altro che il delirio senza senso a causa del veleno di un moribondo64

Franz Cumont sostiene che non sia casuale il riferimento di Socrate al gallo, in quanto questo animale, sacro ad Asclepio, nel mito greco, aveva il potere di scongiurare, allontanare o annullare influssi maligni anche oltre la morte.65

Infine altri autori ritengono che Socrate voglia ringraziare il dio per l'ultima giornata trascorsa, come quelle di tutta la sua vita, in rasserenanti ragionamenti filosofici.66

Discepoli

Platone e Aristotele (particolare de La Scuola di Atene, di Raffaello).

 Fra i discepoli di Socrate più importanti vi fu  Platone, che fu a sua volta maestro di Aristotele che formerà con i primi due quel trio composto dai pensatori tra i più influenti della storia della filosofia occidentale. Anche se non rinomato come Platone, tra gli allievi di Socrate vi fu Antistene, che fu maestro di Diogene di Sinope e che riprese il tema del dubbio socratico facendone il fulcro della corrente dei cinici, dalla quale nacque, con Zenone di Cizio, lo stoicismo che annoverava tra i suoi membri Cicerone, Seneca e Marco Aurelio. Anche Aristippo, allievo di Socrate, sviluppò la concezione socratica dell'eudemonia che venne rielaborata e sviluppata ulteriormente da Epicuro e dalla sua scuola degli epicurei.

La "questione socratica"

 Di Socrate, Kierkegaard, sosteneva che l'unica cosa certa era che fosse esistito67 mentre altri studiosi, poiché Socrate non lasciò alcuna testimonianza scritta, dubitarono della sua effettiva esistenza.6869

Come per la cosiddetta "questione omerica" è stata posta così una "questione socratica", riferita non solo al suo pensiero ma anche alle notizie della sua vita, su cui si sono cimentati diversi autori: Olof Gigon,70; H. Maier71, Francesco Adorno72, J. Brun73, Gregory Vlastos74, Jan Patočka75, Giovanni Reale76

Bibliografia

Bibliografia essenziale

    •     Francesco Adorno, Introduzione a Socrate, Laterza, Bari, 1999

    •    Guido Calogero, Erasmo, Socrate e il Nuovo Testamento, Accademia Naz. dei Lincei, 1972

    •     Ubaldo Esposito, Il processo a Socrate, Chegai, 2002

    •     Franco Ferrari (a cura di), Socrate tra personaggio e mito, Milano, BUR Rizzoli, 2007

    •    Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia Antica, Donzelli, Roma 1996

    •     Antonio Gargano, I sofisti, Socrate, Platone, La Città del Sole, 1996

    •     Gabriele Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, edizione postuma a cura di B. Centrone, Bibliopolis, 2005

    •     Walter Otto, Socrate e l'uomo greco, Roma, Marinotti, 2005

    •     Giovanni Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Rizzoli, Milano, 2000

    •     Giovanni Reale, Socrate, Rizzoli, Milano, 2001

    •     Antonio Ruffino, Socrate: l'uomo e i tempi, Liguori, Napoli, 1972

    •     Alfred Edward Taylor, Socrate, Londra, 1951, trad. it. Firenze 1952

    •     Gregory Vlastos, Studi socratici, Vita e Pensiero, Milano 2003

    •     Gregory Vlastos, Socrate il filosofo dell'ironia complessa, La Nuova Italia, Firenze 1998

Bibliografia d'approfondimento

    •     Francesca Alesse, La Stoa e la tradizione socratica, Bibliopolis, 2000

    •     Filippo Bartolone, Socrate. L'origine dell'intellettualismo dalla crisi della libertà, Vita e Pensiero, 1999

    •     Jean Brun, Socrate, Xenia, 1995

    •     John Burnet, Interpretazione di Socrate, Vita e Pensiero, 1994

    •     Francesco Calvo, Cercare l'uomo. Socrate, Platone, Aristotele, Marietti, Genova, 1990

    •     Jean-Joël Duhot, Socrate o il risveglio della coscienza, Edizioni Borla, 2000

    •     Günter Figal, Socrate, Il Mulino, Bologna, 2000

    •     Eugenio Garin, A scuola con Socrate. Una ricerca di Nicola Siciliani de Cumis, La Nuova Italia, 1993

    •     Antonio Gargano, I sofisti, Socrate, Platone, La Città del Sole, 1996

    •     Guardini Romano, La morte di Socrate. Interpretazione dei dialoghi platonici Eutifrone, Apologia, Critone e Fedone, Morcelliana, 1998

    •     Ettore Lojacono (a cura di), Socrate in Occidente, Firenze: Le Monnier università, 2004

    •     Pierre Hadot, Elogio di Socrate, Il Nuovo Melangolo, 1999

    •     Christoph Horn, L'arte della vita nell'antichità : felicità e morale da Socrate ai neoplatonici , Roma : Carocci, 2005

    •     Paolo Impara, Socrate e Platone a confronto, Seam, 2000

    •     Carlo Michelstaedter, Il prediletto punto d'appoggio della dialettica socratica e altri scritti, Mimesis, 2000

    •     Mario Montuori, Socrate. Fisiologia di un mito, Vita e Pensiero, 1998

    •     Walter Friedrich Otto, Socrate e l'uomo greco, Milano : Marinotti, 2005

    •     M. Adelaide Raschini, Interpretazioni socratiche, Marsilio, 2000

    •     Francesco Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, 1997

    •     Gregory Vlastos, Studi socrativci, Milano : Vita e pensiero, 2003

Film su Socrate

    •    Processo e morte di Socrate, regia di Corrado D'Errico (1939)

    •    Socrate, regia di Roberto Rossellini (1971)

    •    Il banchetto di Platone, regia di Marco Ferreri (1989)

Voci correlate

    •    Aristotele

    •    Brachilogia

    •    Diotima di Mantinea

    •    Ironia socratica

    •    Leggi di Atene

    •    Metodo socratico (Maieutica)

    •    Pensiero di Socrate (interpretazioni)

    •    Paideia

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Collegamenti esterni

    •     Pagine dedicate al pensiero di Socrate, a cura del dipartimento di filosofia dell'Università di Napoli.

    •     Il Socrate di Giovanni Reale, a cura di Fulvio Notarstefano.

    •     Introduzione a Socrate a cura dello SWIF (Sito Web Italiano per la Filosofia) del Dipartimento di Scienze Filosofiche dell'Università di Bari.

    •     Giannantoni, Dialogo socratico e nascita della dialettica nella filosofia di Platone, edizione postuma a cura di B. Centrone, pp. 520, 2005. Il testo dell'opera è consultabile online.

    •     Socrate, a cura di Antonio Gargano, Istituto italiano per gli studi filosofici.

    •     Pagina dedicata a Socrate della EMSF (Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche) della Rai.

    •     Gabriele Giannantoni: Socrate Gabriele Giannantoni: Socrate tra mito e storia Interviste RAI sul pensiero di Socrate a cura della EMSF al prof. Gabriele Giannantoni, ordinario alla Sapienza di Storia della filosofia antica.

    •     Schema della Apologia di Socrate

    •     Audiolibro de "L'apologia di Socrate" in Liber Liber

    •     Il pensiero di Socrate (mappa concettuale) dal sito Il filo di Arianna



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Platone

   Platone (in greco antico Πλάτων, traslitterato in Plátōn; Atene, 428 a.C./427 a.C. – Atene, 348 a.C./347 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Assieme al suo maestro Socrate e al suo allievo Aristotele ha posto le basi del pensiero filosofico occidentale.123

Platone, particolare della Scuola di Atene di Raffaello, che lo ha ritratto con il volto di Leonardo da Vinci.

Biografia

 Nacque ad Atene da genitori aristocratici: il padre Aristone, che vantava tra i suoi antenati Codro, l'ultimo leggendario re di Atene, gli impose il nome del nonno, cioè Aristocle; la madre, Perittione, secondo Diogene Laerzio, discendeva dal famoso legislatore Solone456

La sua data di nascita viene fissata da Apollodoro di Atene, nella sua Cronologia, all'ottantottesima Olimpiade, nel settimo giorno del mese di Targellione, ossia alla fine di maggio del 428 a.C.7 Ebbe due fratelli, Adimanto e Glaucone, citati nella sua Repubblica, e una sorella, Potone, madre di Speusippo, futuro allievo e successore, alla sua morte, alla direzione dell'Accademia di Atene.

Fu un altro Aristone, un lottatore di Argo, suo maestro di ginnastica, a chiamarlo per la larghezza (dal greco πλατύς, platýs, che significa "ampio") delle spalle "Platone", che praticava infatti il pancrazio, una sorta di lotta o pugilato.

Altri danno del nome un'altra derivazione, come l'ampiezza della fronte o la maestà dello stile letterario. Diogene Laerzio, riferendosi ad Apuleio,8 a Olimpiodoro9 e a Eliano,10 informa che avrebbe coltivato la pittura e la poesia, scrivendo ditirambi, liriche e tragedie, che avrebbero avuto in seguito, insieme ai mimi, un'importanza fondamentale per la scrittura dei suoi dialoghi.

I viaggi e l'incontro con Socrate

 Frequentò l'eracliteo Cratilo e il parmenideo Ermogene, ma non è certo se la notizia sia reale o se voglia giustificare la sua successiva dottrina, influenzata sotto diversi aspetti dal pensiero dei suoi due grandi predecessori, Eraclito e Parmenide, da lui considerati gli autentici fondatori della filosofia.

Avrebbe partecipato a tre spedizioni militari, durante la guerra del Peloponneso, a Tanagra, a Corinto e a Delio, dal 409 a.C. al 407 a.C., anno in cui, conosciuto Socrate, avrebbe distrutto tutte le sue composizioni poetiche per dedicarsi completamente alla filosofia.11

Fondamentale il suo incontro con Socrate che, dopo la parentesi del governo, oligarchico e filo-spartano, dei Trenta tiranni, del quale faceva parte lo zio di Platone Crizia, fu accusato dal nuovo governo democratico di empietà e di corruzione dei giovani e condannato a morte nel 399 a.C.

Dopo la morte del maestro sarebbe andato a Megara insieme con altri allievi di Socrate, poi a Cirene, frequentando il matematico Teodoro di Cirene e ancora in Italia, dai pitagorici Filolao ed Eurito. Di qui, si sarebbe recato in Egitto, dove i sacerdoti l'avrebbero guarito da una malattia. Ma la fondatezza della notizia di questi viaggi è molto dubbia.

I primi dialoghi

 A partire dal 395 a.C. Platone dovrebbe aver iniziato a scrivere i primi dialoghi, nei quali affronta il problema culturale rappresentato dalla figura di Socrate e la funzione dei sofisti: nascono così, in un possibile ordine cronologico:

    •    l'Apologia di Socrate, che tuttavia non è un dialogo;

    •    il Critone, in cui Socrate discute la legittimità delle leggi;

    •    lo Ione, in cui Socrate con il gusto dello scherzo dialoga sul significato di Arte umana e Arte divina con un attore, il rapsodo, che interpreta o è posseduto dalla Poesia;

    •    l'Eutifrone;

    •    il Carmide;

    •    il Lachete;

    •    il Liside;

    •    l'Alcibiade primo;

    •    l'Alcibiade secondo (queste due attribuzioni a Platone sono tuttavia discusse);

    •    l'Ippia maggiore;

    •    l'Ippia minore;

    •    il Menesseno;

    •    il Protagora;

    •    il Gorgia.



Il primo viaggio a Siracusa

 Certo è invece che Platone, intorno al 388 a.C., dopo aver conosciuto il pitagorico Archita, governatore di Taranto, sia stato a Siracusa, governata da Dionigi I, dove strinse amicizia col cognato del tiranno, Dione, che guardò con favore ai programmi politici di Platone. Ma opposto fu l'atteggiamento di Dionigi che costrinse Platone ad abbandonare Siracusa per Atene; fatto sbarcare nell'isola di Egina, nemica di Atene, vi venne fatto prigioniero e reso schiavo; per sua fortuna, il socratico Anniceride di Cirene lo riscattò. Ma anche quest'episodio, narrato con varianti da Diogene Laerzio,12 è molto dubbio.

La fondazione dell'Accademia

Platone discorre con i suoi discepoli nell'Accademia

 Nel 387 a.C. Platone è ad Atene; acquistato un parco dedicato ad Academo, vi fonda una scuola che intitola Accademia in onore dell'eroe e la consacra ad Apollo e alle Muse. Sull'esempio opposto a quello della scuola fondata da Isocrate nel 391 a.C. e basata sull'insegnamento della retorica, la scuola di Platone ha le sue radici nella scienza e nel metodo da essa derivato, la dialettica; per questo motivo, l'insegnamento si svolge attraverso dibattiti, a cui partecipano gli stessi allievi, diretti da Platone o dagli allievi più anziani, e conferenze tenute da illustri personaggi di passaggio ad Atene.

In vent'anni, dalla creazione dell'Accademia al 367 a.C., Platone scrive i dialoghi in cui si sforza di determinare le condizioni che permettono la fondazione della scienza; tali sono:  

    •    il Clitofonte (tuttavia di incerta attribuzione);

    •    il Menone;

    •    il Fedone;

    •    l'Eutidemo;

    •    il Simposio;

    •    la Repubblica;

    •    il Cratilo;

    •    il Fedro.



Il secondo viaggio a Siracusa

 Nel 364 a.C., poco prima dell'arrivo di Aristotele nell'Accademia, Platone è a Siracusa, invitato da Dione che, con la morte di Dionigi il Vecchio e la successione al potere di suo nipote Dionigi il Giovane, conta di poter attuare le riforme impedite dal precedente tiranno. Ma i contrasti con Dionigi, che sospetta nello zio intenzioni di ribellione, portano all'esilio di Dione: Platone può tuttavia rimanere a Siracusa come consigliere di Dionigi e coltivare i suoi progetti di trasformazione istituzionale dello Stato siracusano.

Nel 365 a.C. Siracusa è in guerra e Platone torna ad Atene, con la promessa di poter tornare a Siracusa alla fine della guerra insieme con Dione. Ad Atene scrive il Parmenide, il Teeteto, e il Sofista.

Il terzo viaggio in Sicilia

 Nel 361 a.C. Platone compie il suo terzo e ultimo viaggio in Sicilia. Non c'è però Dione, verso il quale Dionigi manifesta un'aperta ostilità; i tentativi di Platone di difendere l'amico portano alla rottura dei rapporti con il tiranno siracusano che arriva a imprigionare il filosofo. Liberato grazie all'intervento di Archita, il pitagorico stratega e tiranno di Taranto, amico di entrambi, nel 360 a.C. Platone può ripartire per Atene. Lo stesso Platone racconta così quegli avvenimenti:

« ...Sembra che Archita si sia recato presso Dionisio; perché io, prima di ripartire avevo unito Archita e i Tarantini in rapporti di ospitalità e di amicizia con Dionisio... E così con un terzo invito Dionisio mi mandò una trireme per agevolarmi il viaggio, e insieme mandò un amico di Archita, Archedemo, che egli riteneva fosse il più apprezzato da me tra quei di Sicilia, e altri Siciliani a me noti...  Altre lettere poi mi giungevano da parte di Archita e dei Tarantini, che facevano grandi elogi dello zelo filosofico di Dionisio, e anche avvertivano che, se non fossi andato subito, avrei causato la completa rottura di quell'amicizia che io avevo creato tra loro e Dionisio, e che era di grande importanza politica... Mi metto dunque in viaggio... con molto timore e con previsioni nient'affatto liete...  Vennero allora molti a trovarmi; e tra gli altri, alcuni sottufficiali addetti alle galere, che erano Ateniesi, miei concittadini; essi mi riferivano che calunnie circolavano su di me fra i peltasti, e che alcuni minacciavano, se riuscivano a cogliermi, di sopprimermi. Escogito allora qualche mezzo di salvezza: mando ad avvertire Archita e gli altri amici di Taranto in che condizione mi trovo. E quelli, colto un pretesto per un'ambasceria, mandano uno dei loro, Lamisco, con una nave e trenta rematori. Costui, appena giunto, intercede per me presso Dionisio, dicendogli che io volevo partire e nient'altro che partire; Dionisio accondiscese e mi lasciò andare, dandomi i mezzi per il viaggio.13 »

Durante il viaggio Platone sbarca a Olimpia per incontrare per l'ultima volta Dione. Questi progettava una guerra contro Dionigi, dalla quale Platone cercò invano di dissuaderlo: nel 357 a.C. riuscirà a impadronirsi del potere a Siracusa ma vi sarà ucciso tre anni dopo.14

Ad Atene Platone scrisse le ultime opere:

    •    il Timeo;

    •    il Crizia;

    •    il Politico;

    •    il Filebo;

    •    le Leggi.



Morì nel 347 a.C. e la guida dell'Accademia venne assunta dal nipote Speusippo. La scuola sopravviverà fino al 529 d.C., anno in cui venne definitivamente chiusa da Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua attività.

Opere



Per approfondire, vedi Dialoghi.

Papiro con frammento manoscritto del Simposio di Platone

 Di Platone sono pervenute tutte le 36 opere: 34 sono dialoghi; una, l'Apologia di Socrate, riporta una ricostruzione letterario filosofica dell'autodifesa pronunciata da Socrate davanti ai giudici, mentre l'ultima è una raccolta di tredici lettere.

La superiorità del discorso orale

 Platone si avvale del dialogo perché lo ritiene l'unico strumento in grado di riportare l'argomento alla concretezza storica di un dibattito fra persone e di mettere in luce il carattere di ricerca della filosofia, elemento chiave del suo pensiero. Egli vuole inoltre evidenziare col ricorso al dialogo la superiorità del discorso orale rispetto allo scritto. Certo la parola scritta è più precisa e meditata rispetto all'oralità, ma mentre questa permette un immediato scambio di opinioni sul tema in discussione quella scritta interrogata non risponde.15

In genere, si suole riunire i dialoghi platonici in vari gruppi. Secondo una linea interpretativa piuttosto datata, i primi dialoghi sarebbero caratterizzati dalla viva influenza di Socrate (primo gruppo); quelli della maturità in cui avrebbe sviluppato la teoria delle idee (secondo gruppo); e l'ultimo periodo quando sentì l'urgenza di difendere la propria concezione dagli attacchi alla sua filosofia, attuando una profonda autocritica della teoria delle idee (terzo gruppo).16 Secondo il nuovo paradigma interpretativo introdotto dalla scuola di Tubinga e di Milano, invece, i dialoghi platonici, al di là dello stile in evoluzione, presentano una coerenza sistematica di fondo, dove la dottrina delle idee, per quanto importante, non costituisce più la parte fondamentale del mondo sovrasensibile.17 Lo stile, che imita fedelmente la peculiarità del dialogo socratico,18 muta notevolmente da un periodo all'altro: nei periodi giovanili si hanno interventi brevi e briosi che danno vivacità al dibattito; negli ultimi, invece, vi sono interventi lunghi, che danno all'opera il carattere di un trattato e non di un dibattito, trattandosi piuttosto di un dialogo dell'anima con se stessa, ma senza giungere mai a esporre compiutamente la propria dottrina in forma di scienza assoluta.19 La rinuncia, come già in Socrate, a comunicare in forma scritta il nucleo della propria dottrina porterebbe per di più a pensare che non solo la scrittura, ma anche l'oralità non fosse per Platone in grado di trasmetterla.20

In genere il protagonista dei dialoghi è Socrate; soltanto negli ultimi dialoghi costui assume una parte secondaria, fino a scomparire del tutto nell'Epinomide e nelle Leggi. La caratteristica di questi dialoghi è che il soggetto principale che dà il titolo all'opera è solito discorrere molto più dell'interlocutore a cui si rivolge, il quale si limita solamente a confermare o disapprovare quello che il protagonista espone.

Ordinamento in tetralogie

 Il grammatico Trasillo, nel I secolo d.C., seguendo un'affinità di argomento 21, ordinò le opere platoniche in gruppi di quattro; i dialoghi di sicura attribuzione sono indicati in grassetto per distinguerli dagli spuri:

      1.      Eutifrone, Apologia di Socrate, Critone, Fedone

      2.      Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico

      3.      Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro

      4.      Alcibiade primo, Alcibiade secondo, Ipparco, Amanti

      5.      Teage, Carmide, Lachete, Liside

      6.      Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone

      7.      Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno

      8.      Clitofonte, La Repubblica, Timeo, Crizia

      9.      Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere

Altre opere spurie sono:

Definizioni, Sulla giustizia, Sulla virtù, Demodoco, Sisifo, Erissia, Assioco, Alcione, Epigrammi.22

Ordinamento in trilogie

 Una diversa, e più antica classificazione risale ad Aristofane di Bisanzio (III secolo a.C.), che ordinò le opere platoniche in cinque trilogie:

      1.      Repubblica, Timeo, Crizia

      2.      Sofista, Politico, Cratilo

      3.      Leggi, Minosse, Epinomide

      4.      Teeteto, Eutifrone, Apologia di Socrate

      5.      Critone, Fedone, Lettere



Pensiero

Filosofia e politica

 Quella che in termini storici possiamo chiamare "filosofia platonica" – ovvero il corpus di idee e di testi che definiscono la tradizione storica del pensiero platonico – è sorta dalla riflessione sulla politica. Come scrive Alexandre Koyré: «tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate».

Occorre tuttavia distinguere la "riflessione sulla politica" dall'"attività politica". Non è certo in quest'ultima accezione che dobbiamo intendere la centralità della politica nel pensiero di Platone. Come egli scrisse, in tarda età, nella Lettera VII del suo epistolario, proprio la rinuncia alla politica attiva segna la scelta per la filosofia, intesa però come impegno "civile".23 La riflessione sulla politica diventa, in altre parole, riflessione sul concetto di giustizia, e dalla riflessione su questo concetto sorge un'idea di filosofia intesa come processo di crescita dell'Uomo come membro organicamente appartenente alla polis.

Fin dalle prime fasi di questa riflessione, appare chiaro che per il filosofo ateniese risolvere il problema della giustizia significa affrontare il problema della conoscenza. Da qui la necessità di intendere la genesi del "mondo delle idee" come frutto di un impegno "politico" più complessivo e profondo.

Il problema Socrate

Socrate accetta la condanna

 La capacità di agire secondo giustizia presuppone, socraticamente, la conoscenza di che cosa è il bene.24 Solo questo sapere contraddistingue il filosofo come tale,25 poiché chi compie il male lo fa per ignoranza. Ad Atene c'era molta confusione sulla figura del filosofo, ed in un certo senso lo stesso Socrate aveva alimentato questa confusione: presentandosi infatti come colui che sapeva di non sapere, professava una falsa ignoranza che nascondeva una vera sapienza. Egli si confondeva così con i sofisti, i quali dicevano di sapere ma in effetti non sapevano, perché non credevano nella verità.

Per dirimere questa confusione, per Platone era necessario andare oltre Socrate, delineando con chiarezza i criteri che distinguono il filosofo dal sofista: mentre il primo ricerca i principi della verità, senza la presunzione di possederla, il secondo si lascia guidare dall'opinione, facendone l'unico parametro valido della conoscenza.26

L'altro problema legato alla figura di Socrate è la sua condanna a morte, cioè il fatto che sia stato trattato come un criminale pur essendo «il più giusto» tra gli uomini.27 Ciò significò per Platone dover constatare che tra filosofia e vita politica esisteva quell'incompatibilità già conosciuta da Socrate che nella Apologia accenna alla quasi ineluttabilità della sua condanna da parte dei politici e rifiuta la proposta di andare in esilio.28 Compito dei filosofi è allora quello di fare in modo che la filosofia non sia in contrasto con lo stato, dove non accada più che un giusto sia condannato a morte.

Il tema era connesso alla convinzione che la filosofia fosse inutile: per molti Ateniesi Socrate è quello rappresentato ne Le nuvole, commedia di Aristofane come un pedante seccatore perso nelle sue discussioni astratte e campate in aria. In un brano del Gorgia il sofista Callicle, dice che la filosofia tutt'al più può essere praticata dai giovani che, inesperti della vita, si possono abbandonare ai discorsi campati in aria; quando però un uomo anziano, come Socrate, perde il suo tempo a discutere di problemi astratti, questo è degno di essere preso a bastonate.29

Platone invece dimostra che la filosofia ha un radicamento storico, essa cioè affonda le sue radici nella storia, nella realtà quotidiana e questo si vede da chi sono gli interlocutori di Socrate e cioè politici come Alcibiade, filosofi come Parmenide, artisti come Aristofane. Socrate quindi è perfettamente inserito nel dibattito culturale del suo tempo e i suoi dialoghi riguardano problemi reali ed universali. Così Socrate, pur non sembrando, fa politica tanto da venire condannato e morire per accuse politiche.

C'è quindi uno stretto legame tra il filosofo e la politica; Socrate però non l'ha mai fatto capire, pur anteponendo sempre il bene della città agli egoismi dei singoli.30 Per uscire dall'equivoco, occorre indicare esplicitamente quali siano le radici di questo legame, che ancora una volta consistono nella conoscenza della virtù, e nei criteri per distinguerla dalle opinioni e dalle strumentalizzazioni personali. Secondo alcune interpretazioni per Platone la conoscenza del bene non concerne l'enumerazione di singoli esempi di virtù, bensì la definizione di cosa sia la virtù in se stessa. «L'unicità della virtù è una delle principali tesi socratiche: nei dialoghi giovanili Platone difende e corrobora questa tesi analizzando il contenuto di alcune delle virtù tenute in più alta considerazione nel mondo greco»31 Sulla unicità della virtù in Socrate diversi autori non concordano attribuendo questa concezione alla sola filosofia platonica.32

La dottrina della conoscenza: le Idee

Platone

 La gnoseologia di Platone, messa a punto in vari dialoghi come il Menone, il Fedone, ed il Teeteto, deve combattere contro l'opinione che sostiene che la ricerca della conoscenza sia impossibile. La tesi era stata sostenuta dagli eristi, i quali basavano questo loro insegnamento sulla base di due assunti:

      1.      se non si conosce ciò che si cerca, qualora lo si sia trovato, non lo si riconoscerà come l'obiettivo da raggiungere;

      2.      se si conosce già quel che si cerca, la ricerca non ha senso.33

Il problema viene superato da Platone ammettendo che l'oggetto della ricerca è solo parzialmente sconosciuto all'uomo, il quale, dopo averlo contemplato prima della nascita, lo ha in qualche modo "dimenticato" nel fondo della sua anima. La meta del suo cercare è dunque un sapere già presente ma nascosto in lui, che la filosofia dovrà risvegliare con la reminiscenza o «anamnesi» (anàmnesis), concetto su cui Platone fonda il convincimento che l'apprendere è un ricordare.34

Tale dottrina si rifà alla credenza religiosa propria dell'orfismo e del pitagorismo secondo cui quando il corpo muore l'anima, essendo immortale, trasmigra in un altro corpo. Platone sfrutta tale mito fondendolo con l'assunto fondamentale che esistano delle Idee che hanno caratteristiche opposte agli enti fenomenici: sono incorruttibili, ingenerate, eterne ed immutabili. Queste Idee albergano nell'iperuranio, mondo soprasensibile e che è parzialmente visibile alle anime una volta slegate dai loro corpi.

L'Idea, traducibile più correttamente con «forma»,35 è dunque il vero oggetto della conoscenza: ma essa non è soltanto il fondamento gnoseologico della realtà, ossia la causa che ci permette di pensare il mondo, bensì ne costituisce anche il fondamento ontologico, essendo il motivo che fa essere il mondo. Le idee rappresentano l'eterno Vero, l'eterno Buono e l'eterno Bello, a cui si contrappone la dimensione vana e transitoria dei fenomeni sensibili.

Come viene spiegato nel Fedro, dopo la morte le anime diventano simili a cocchi alati che procedono in schiere dietro ai carri degli dèi: in questa loro processione alcune riescono, più distintamente di altre, a scorgere le Idee che appaiono attraverso uno squarcio tra le nuvole, diaframma obbligato tra il mondo sensibile e quello soprasensibile.36 Quando le anime precipitano nei corpi, reincarnandosi, dimenticano la loro visione delle idee e, prigioniere dei sensi, sono portate a identificare la realtà col mondo sensibile. L'opera del filosofo dialettico, che ha saputo vedere le idee meglio degli altri, è quella di riportare all'anima la memoria del mondo delle idee, attraverso il dare e ricevere discorso, dialogando con l'anima e persuadendola della verità. La dottrina dell'apprendere come ricordare riconduce immediatamente alla cura dell'anima professata da Socrate: la conoscenza è, di fatto, un conoscere meglio se stessi, riportando alla luce dell'intelletto ciò che l'anima ha dimenticato nel momento della reincarnazione; l'idea è quindi in un certo senso corrispettiva del dàimon socratico.

Una conseguenza della reminiscenza è l'innatismo della conoscenza: tutto il sapere è già presente, in forma latente, nella nostra anima. A tal proposito i sensi svolgono comunque una funzione importante per Platone, poiché offrono lo spunto per aiutarci a ridestarlo. L'esperienza serve però solo da stimolo; la vera conoscenza deve essere fondata universalmente sulla noesis, e su di essa deve poggiare ogni tecnica particolare, che è invece il luogo della praxis. L'errore contro cui Platone combatte, rappresentato dalla cultura sofista, consiste nel basare la conoscenza sulla sensazione.37 Al contrario, solo l'anima, e non i sensi, può conoscere l'aspetto "vero" di ogni realtà.

I quattro stadi della conoscenza



      1.      L'immaginazione (eikasìa), dominio delle ombre e delle superstizioni

      2.      Gli oggetti sensibili, che danno origine alle false credenze (pìstis)

      3.      Le verità geometriche e matematiche, proprie della ragione discorsiva (diànoia)

      4.      Le idee intelligibili, raggiungibili solo per via speculativa e intuitiva (nòesis)



 La dottrina platonica è inoltre spesso oggetto di fraintendimenti. Di fatto, come Platone stesso suggerisce in numerosi passi, è impossibile recuperare completamente la conoscenza del mondo delle Idee anche per il filosofo. La conoscenza perfetta di queste è propria solo degli dèi, che le osservano sempre. La conoscenza umana, nella sua forma migliore, è sempre filo-sofia, ossia amore del sapere, inesausta ricerca della verità. Ciò suggerisce una frattura "sofistica" all'interno del pensiero platonico: per quanto l'uomo si sforzi, il raggiungimento della verità assoluta è impossibile, perché confinata nel cielo iperuranio e dunque assolutamente inconoscibile. La parola, che è lo strumento utilizzato dal filosofo dialettico per persuadere le anime della verità e dell'esistenza delle idee, non rispecchia che parzialmente la realtà ultrasensibile, che è irriproducibile e non presentabile.

Per fare un esempio, è come se un insegnante, che pure ha presente come è fatto un triangolo, cercasse di spiegarlo ai suoi allievi senza poterglielo esibire o far vedere alla lavagna. Può forse persuadere loro di com'è fatto all'incirca un triangolo, ma la conoscenza degli alunni rimarrà comunque lontana da coloro che lo sanno rappresentare correttamente. La conoscenza del mondo delle idee dunque può essere solo intuita, mai comunicata; per conoscerla nel modo meno confutabile possibile ci si può basare al massimo sull'uso dei lògoi, ossia dei discorsi, ragionamenti in forma di dialogo svolti attorno a tali argomenti.

L'opera di ricerca filosofica deve limitarsi così al persuadere le anime,38 in maniera simile alla maieutica socratica. Qui Platone fa esplicito riferimento alla metafora della seconda navigazione: con questo termine i greci indicavano la navigazione a remi, più faticosa di quella a vela (prima navigazione) e usata in caso di necessità (come la mancanza di vento). La seconda navigazione consiste proprio nell'uso dei lògoi, che presuppongono una frattura radicale tra il pensiero-parola, e la realtà. Platone, ben lungi dall'essere il filosofo della scienza forte e dottrinaria che per molti anni gli è stata erroneamente attribuita, ha scoperto, di fatto, l'impossibilità di raggiungere una verità piena ed incontrovertibile.39

La più compiuta teoria platonica della conoscenza, esposta nel dialogo Repubblica ed altrimenti nota come teoria della linea, è quindi rappresentabile col seguente schema:40



 conoscenza sensibile o opinione (δόξα)  



 immaginazione (εικασία)

 credenza (πίστις)





 conoscenza intelligibile o scienza (επιστήμη)



 pensiero discorsivo (διάνοια)

 intellezione (νόησις)



Solo la conoscenza intelligibile, cioè concettuale, assicura un sapere vero e universale; l'opinione invece, fondata sui due stadi inferiori del conoscere, è portata a confondere la verità con la sua immagine. Platone polemizza in proposito contro il materialismo di Democrito, secondo cui erano gli atomi, entità materiali fisse, a determinare la formazione o la distruzione degli elementi.41 Secondo Platone non ci sono in natura princìpi (o arché) ultimi e indivisibili: tutta la realtà fenomenica «scorre» in un continuo mutamento; al contempo però essa tende a costituirsi secondo forme atemporali che sembrano preesisterle. Proprio questo è il punto di cui Democrito non aveva saputo rendere ragione, ossia del perché la materia si aggreghi sempre in un certo modo, per formare ad esempio ora un cavallo, ora un elefante. Ciò evidentemente è possibile perché dietro ogni animale deve esistere un'idea, cioè una «forma» precostituita per ogni tipo, spirituale e non materiale.

L'Idea è inoltre ciò che consente a Platone di conciliare il dualismo filosofico venutosi a creare tra Parmenide ed Eraclito: nelle idee risiede infatti la dimensione ontologica dell'Essere parmenideo, ma esse forniscono anche, in virtù della loro molteplicità, una spiegazione al divenire eracliteo che domina i fenomeni naturali, al quale Platone cercava una motivazione razionale che non lo riducesse a semplice illusione come aveva fatto Parmenide.

La funzione del mito

 Oltre al dialogo, una caratteristica peculiare di Platone nella sua esposizione della dottrina delle idee consiste nella reintroduzione, con la sua opera, del mito, quale forma di conoscenza tradizional-popolare che, cronologicamente, precedeva di molto la nascita della filosofia greca.

Platone ha un atteggiamento diversificato nei confronti del mito, che ritiene vada rivalutato in quanto utile, e anzi necessario, alla comprensione. Il mito va infatti inteso come esposizione di un pensiero ancora nella forma di racconto, quindi non come ragionamento puro e rigoroso. Esso ha una funzione allegorica e didascalica, presenta cioè una serie di concetti attraverso immagini che facilitano il significato di un discorso piuttosto complesso, cercando di renderne comprensibili i problemi, e creando nel lettore una nuova tensione intellettuale, un atteggiamento positivo nei confronti dello sviluppo della riflessione.

Il mito ha così una doppia funzione: da un lato è un semplice espediente didattico-espositivo di cui Platone fa uso per comunicare in maniera più accessibile e intuitiva le sue dottrine. Dall'altro è un mezzo per superare quei limiti oltre i quali l'indagine razionale non può andare, diventando un vero e proprio strumento di verità, una "via alternativa" al solo pensiero filosofico, grazie alla sua capacità di armonizzare unitariamente gli argomenti. Il mito è il momento in cui Platone esprime la bellezza della verità filosofica, in cui questa si manifesta anche con immagini e figure sensibili, e di fronte alla quale i discorsi razionali risultano insufficienti.42

Le scienze rappresentano un sapere inferiore perché, pur trattandosi di argomentazioni necessarie e dimostrate, vivono di ipotesi. Classico esempio è la costruzione dei teoremi di geometria, basati su ipotesi e tesi, che Euclide raccolse e sistematizzò poco più d'un secolo dopo, e che erano parte di una tradizione tramandata oralmente. Se il mito pecca di scarso senso del rigore, e la scienza di incapacità di elevazione, entrambi però, in mancanza di una conoscenza migliore, hanno una loro dignità. L'unica forma di sapere che il filosofo non può mai accettare è la doxa, il mondo dell'opinione mutevole e transitoria.

I racconti mitici platonici toccano le questioni fondamentali dell'esistenza umana, come la morte, l'immortalità dell'anima, la conoscenza, l'origine del mondo, e le collegano strettamente ai temi e ai discorsi logico-critici, a cui il filosofo affida il compito di produrre una conoscenza e una rappresentazione vere della realtà.

I miti che si possono riscontrare nell'opera platonica sono approssimativamente i seguenti:4344

      1.       Mito dell'insoddisfazione del dissoluto45

      2.       Mito di Gige46

      3.       Mito dell'uomo-marionetta47

      4.      Mito di Aristofane o dell'androgino48

      5.      Mito della nobile menzogna49

      6.      Mito della nascita di Eros50

      7.       Mito dell'età dell'oro51

      8.       Mito di Epimeteo e Prometeo52

      9.      Mito di Theuth,53

      10.       Mito dei cicli cosmici54

      11.       Mito di Atlantide55

      12.       Mito del governo divino56

      13.      Mito della caverna57

      14.       Mito della reminiscenza58

      15.       Mito del giudizio delle anime59

      16.       Mito dell'immortalità dell'anima60

      17.      Mito di Er61

      18.      Mito del carro e dell'auriga62

      19.       Mito del ciclo delle incarnazioni63

      20.       Mito del Demiurgo64

      21.       Mito dell'anima del mondo65

      22.       Mito delle specie mortali66

      23.       Mito della provvidenza divina67

Tra i racconti platonici degni di nota per la loro ispirazione sono generalmente annoverati anche quello sulle forme di conoscenza o «la linea»,68 e «il mistero dell'amore»69 sulla gerarchia del bello.70

La filosofia come Eros (filosofia)Eros

Eros, demone dell'Amore

 È proprio per spiegare l'umano desiderio di conoscenza che Platone ricorre a un celebre mito, quello di Eros, dio greco dell'Amore e della forza,71 figlio di Poros e Penia, cioè di Risorsa e Povertà.72 Il filosofo, secondo Platone, è mosso da una tensione verso la verità con lo stesso desiderio d'amore che attrae due esseri umani.

Per la sua caratteristica di essere principio unificante del molteplice, la peculiarità di eros consiste essenzialmente nella sua ambiguità, ovvero nell'aspirazione alla verità assoluta e disinteressata (ecco la sua abbondanza); ma al contempo nel suo essere costretto a vagare nelle tenebre dell'ignoranza (la sua povertà).  La contrapposizione tra verità e ignoranza viene sentita da Platone, come già dal suo maestro Socrate, come una profonda lacerazione, fonte di continua irrequietezza e insoddisfazione.

Si desidera infatti soltanto quello che non si ha, e l'uomo tende ad una sapienza della quale si ricorda vagamente, ma di cui in realtà è povero. Si può notare come la ricerca di questa sapienza muova dalla stessa consapevolezza socratica del «sapere di non sapere». Platone aggiunge che l'uomo non desidererebbe con tanta forza una tale verità se non l'avesse mai vista, se non fosse certo che esiste. In tal senso, non solo si desidera quel che non si ha, ma di più si può affermare: si desidera soltanto ciò che non si ha più, che si è perso.73

Per Platone vale l'ideale della kalokagathìa (dal greco kalòs kài agathòs), ossia «bellezza e bontà». Tutto ciò che è bello (kalòs) è anche vero e buono (agathòs), e viceversa. La bellezza delle idee che attira l'amore intellettuale del filosofo perciò è anche il bene dell'uomo. Il fine della vita umana diventa la visione delle idee e la contemplazione di Dio.

Tale contemplazione è sempre imperfetta nella dimensione del mondo sensibile, dominata dalla materia che, in quanto priva di essere, è un semplice non-essere. L'uomo si trova a metà strada tra questi due estremi: mentre le idee sono in sé e per sé, come realtà indipendente e assoluta (ab-soluta), appunto perché "sciolta da" ogni altra, non essendo relative ad altro da sé, l'uomo invece è calato nell'esistenza (da ex-sistentia, "essere fuori"). L'esistenza per Platone è una dimensione ontologica che non ha l'essere in proprio, ma esiste solo in quanto è subordinata ad un essere superiore; egli la paragona ad un ponte sospeso tra essere e non essere. L'uomo è dilaniato così da una duplice natura: da un lato avverte il richiamo del mondo iperuranio, in cui risiede la dimensione più vera dell'Essere, eterna, immutabile, e incorruttibile, ma dall'altro il suo essere è inevitabilmente soggetto alla contingenza, al divenire, e alla morte (non-essere).

Questa duplicità umana è vissuta dallo stesso Platone ora in maniera più ottimista, ora con toni decisamente più pessimisti. Da ciò deriva il disprezzo dei platonici per il corpo: Platone più volte nei dialoghi gioca con l'assonanza di parole sèma/sòma, ossia "tomba"/"corpo": il corpo come tomba dell'anima.

L'ontologia

 Il tema della frattura interiore dell'uomo porta a domandare: su che cosa si fondano, e che rapporto hanno le idee con gli oggetti della conoscenza sensibile? La risposta a questa domanda costituisce la cosiddetta ontologia platonica.

Il mito della caverna in un'incisione del 1604 di Jan Saenredam.

 Il testo fondativo di questo aspetto del pensiero platonico è senza dubbio il celebre mito della caverna del libro VII de La Repubblica. In esso, il mondo sensibile è presentato come immagine evanescente e imperfetta del mondo delle idee, inteso invece come "mondo vero" e fondamento di tutto ciò che è. Platone stesso fornisce l'interpretazione dell'allegoria: lo schiavo che viene liberato dalla caverna rappresenta l'anima, che si libera dai vincoli corporei mediante la conoscenza. Gli elementi del mondo esterno rappresentano le idee, mentre gli oggetti dentro la caverna (e le immagini di questi proiettate sulla parete) non sono che le loro copie imperfette. Il sole, che permette di riconoscere l'aspetto vero della realtà, è simbolo dell'idea del Bene, l'idea suprema in vista della quale l'intero mondo delle idee è costituito e al quale essa conferisce la sua unità.

Una conferma di tale impostazione ontologica del reale è data nel mito narrato nel dialogo Fedro, attraverso l'immagine della faticosa salita dell'anima al cielo iperuranio delle idee, così descritte: «essenze incolori, informi e intangibili, contemplabili solo dall'intelletto (...) essenze che sono scaturigine della vera scienza».74

Per testimoniare l'essere delle idee, Platone porta l'esempio delle figure geometriche, dei solidi platonici da lui stesso scoperti, dei triangoli e dei cerchi. In natura non esiste un cerchio o un quadrato perfetto, che pur ogni individuo conosce sapendone calcolare area e perimetro. Una tale capacità è dovuta al fatto che l'intelletto vede al di là del sensibile un'idea di cerchio e quadrato che non si trova nel mondo esteriore.

Esemplificazione delle "idee" platoniche.

 Soltanto nelle idee quindi si trova la dimora dell'Essere, che è una dimensione trascendente rispetto a quella della semplice esistenza. L'ontologia platonica si presenta così come "dualistica", comprensiva cioè di due piani concettuali, quello delle realtà sensibili e quello delle idee, tra i quali esiste una differenza ontologica, incolmabile e costitutiva della loro stessa natura. L'unico rapporto possibile tra il piano dei fenomeni e quello delle idee è quello "mimetico" (mimesis): ogni realtà sensibile (ente) ha il suo modello (eidos) nel mondo intelligibile. L'unico "salto" possibile tra i due livelli resta quello che può compiere l'anima umana, elevandosi attraverso la conoscenza dall'esistenza materiale a quella intellettuale. Platone, come già accennato, si rifà alla concezione orfica pitagorica dell'anima, ove questa infatti è scissa in due parti: la prima, mortale, che muore insieme al corpo, e la seconda, immortale, che secondo Pitagora si reincarna in altri corpi.

Ontologia e dialettica

 Come conciliare la differenza tra mondo sensibile e intelligibile e tuttavia la loro corrispondenza? Come partecipano tra loro i due piani della realtà? A queste domande è chiamata a rispondere la dialettica.

Il problema è legato storicamente alla presenza di Aristotele nell'Accademia, durante gli anni della tarda maturità platonica. È infatti presumibile che da un certo momento la critica aristotelica all'ontologia della differenza abbia costretto il vecchio maestro a rivedere criticamente le sue originali concezioni in funzione di un maggior "realismo" logico della teoria delle idee. In altri termini, la domanda è: se il mondo delle idee e quello empirico si contrappongono – essere e non-essere – che senso ha porre l'idea come causa della realtà apparente? Non sarebbe più coerente concludere, come già aveva fatto Parmenide, che esiste solo il mondo delle idee, riducendo il mondo della natura a pura illusione?

La prima soluzione che Platone aveva cercato a questa aporia era stata la teoria della partecipazione (mèthexis): le entità particolari parteciperebbero ognuna dell'idea corrispondente.

In una seconda fase, il filosofo aveva proposto come si è visto la teoria dell'imitazione (mimesis), secondo la quale gli enti naturali sarebbero imitazioni della loro rispettiva idea. A tal proposito Platone introdurrà nel Timeo, dialogo della vecchiaia, la figura del Demiurgo proprio per attribuirgli il ruolo di mediatore tra le due dimensioni.75 Il Demiurgo è un semi-dio che vitalizza il cosmo attraverso un'Anima del mondo, plasmando la chora, una materia già esistente ma sottoposta al caos, allo scopo di darle una forma sul modello delle Idee.76

L'Essere secondo Parmenide: chiuso e incompatibile con il non-essere

L'Essere secondo Platone: gerarchicamente strutturato secondo passaggi graduali che vanno da un minimo a un massimo

 Entrambe le risposte però mantenevano aperte molte e complesse contraddizioni di carattere logico. In una terza fase Platone mette allora in discussione una delle basi parmenidee della sua ontologia, quella dell'immobilità dell'essere, attuando quello che lui chiama un «parricidio», ritenendosi egli filosoficamente "figlio" di Parmenide. Ora infatti il mondo delle idee assume l'aspetto di un sistema complesso, in cui trovano posto i concetti di diversità e molteplicità. Più che di una contrapposizione tra idea e realtà, entra in gioco il principio della divisione (diairesis) del mondo intelligibile, che consente di collegare dialetticamente ogni realtà empirica al suo principio sommo. Ciascuna idea si articola con quelle ad essa subordinate (più particolari) e sovraordinate (più generali), secondo regole dialettiche di somiglianza e comunanza (generi, specie); in cima a tutte sta l'idea del Bene. In questa ipotesi teorica entra in gioco la possibilità dell'errore: esso consiste nella determinazione di connessioni arbitrarie tra generi e specie, non rispettose delle loro relazioni logiche. Viene inoltre profondamente modificato il concetto stesso di "non-essere": esso non è più il "nulla", ma viene a costituirsi come il "diverso", come un'altra modalità dell'essere. In altri termini, ora anche il non-essere in certo qual modo è, perché non è più radicalmente contrapposto all'essere, ma esiste in senso relativo (relativo cioè agli enti sensibili). Il non-essere esiste come "corrosione" o decremento della bellezza originaria delle idee iper-uraniche calate nella materia per dare forma agli elementi, in un sinolo o unità di materia e forma, come dirà Aristotele; unione che si decomporrà poi con la morte o distruzione dei singoli enti.

La diairesi non elimina, naturalmente, il carattere trascendente delle idee, ma avvicina maggiormente il metodo dialettico alle possibilità conoscitive del metodo scientifico. Platone si vede costretto a postulare una tale gerarchia o suddivisione della realtà ontologica anche per rispondere al problema sorto con Parmenide, da lui definito «terribile e venerando»,77 circa l'impossibilità di oggettivare l'Essere, al quale, secondo il filosofo eleata, non si poteva attribuire nessun predicato. In tal modo però diventava impossibile conoscere l'Essere, e in ultima analisi pensarlo: una condizione che secondo Platone equivaleva di fatto al non-essere, del quale pure, a rigore, nulla si può dire.

Nel Sofista, pertanto, Platone postula cinque generi sommi (essere, identico, diverso, stasi e movimento) a cui tutte le idee possono essere subordinate; la conciliazione di unità, molteplicità, staticità e movimento è detto «rapporto di comunanza» (koinonìa).

Una notevole difficoltà che s'incontra studiando gli ultimi dialoghi di Platone (Parmenide, Sofista, Teeteto) è la definizione di dialettica che Platone non dà mai. Nella Repubblica Platone ne parla come il metodo più efficace per raggiungere la verità. Nel Fedro si trova che la dialettica è un “processo di unificazione e moltiplicazione”:78 partendo cioè da un'analisi di certi fenomeni, si tratta di unificarli sotto un unico genere; mentre all'opposto la dialettica si occupa anche di dividere un genere in tutte le specie che comprende sotto di sé. Possiamo forse dire che l'Idea è di fatto un'unità del molteplice, che racchiude ed assume in sé la caratteristica principale propria di alcuni esseri: si pensi ad esempio all'idea del bello che unifica in sé tutte le varie realtà belle.

Nel Parmenide Platone dà una dimostrazione di come lavora la dialettica all'interno del discorso: si tratta di trovare tutte le risposte possibili ad una domanda; poi, con un procedimento falsificatorio, si procederà nel confutare ad una ad una le risposte date, sulla base di certi principi; la risposta che non è falsificata dal procedimento è meno confutabile delle altre e dunque risulta più vera delle altre, mai però vera in senso assoluto. Si potrebbe obiettare a questo punto che tale applicazione della dialettica non corrisponde alla pseudo-definizione datane da Platone nel Fedro. Tale obiezione si rafforza tenendo conto che nel Filebo Platone riformula una nuova concezione. Nel dialogo infatti Socrate è impegnato a definire che cosa sia il piacere. Anzitutto i piaceri sono tanti oppure è solo uno? Filebo non sa rispondere, ed allora Socrate pronuncia la famosa frase secondo cui «i molti sono Uno e l'Uno è molti».

Cosa significa quest'asserzione? Semplicemente ribadisce un principio proprio delle Idee, ossia quella di essere uniche e perfette, eppure, nel contempo, di riflettersi nella molteplicità del sensibile. La metodologia più coerente dell'applicazione della dialettica è probabilmente quella esposta nel Sofista: si tratta del metodo dicotomico. All'interno di una domanda si tratta di isolare il concetto che si vuole definire; nell'attribuire questo concetto ad una classe più ampia nella quale siamo certi sia compreso il concetto medesimo; quindi nel suddividere tale classe in due parti, più piccole, per vedere in quale delle due sottoclassi è ancora compreso il concetto da trovare, e così via, suddividendo finché non troviamo più nulla da dividere e, dunque, la definizione trovata è proprio quella del concetto che volevamo spiegare. Pur presentandosi come scienza (epistème), la dialettica, è bene ribadirlo, è solo un procedimento rigoroso, che però non riesce mai ad arrivare alla verità (sempre per il fatto che si serve dei lògoi). Si può dire allora che la scienza presentata da Platone non è certo quella a cui cercherà di approdare ad esempio Cartesio nel Seicento, o in seguito Hegel. Da notare come anche Aristotele, nonostante le sue critiche a Platone, collocava i princìpi primi al di sopra del ragionamento dimostrativo sillogista, giudicandoli raggiungibili solo attraverso l'intuizione intellettuale.

Lo Stato filosofico

La Città-stato dell'antica Grecia, in un dipinto di epoca romantica

 Il dualismo che Platone aveva teorizzato tra verità e apparenza, anima e corpo, si riflette anche nella concezione politica. Come la sapienza è distinta dall'ignoranza, così anche i filosofi vanno distinti da coloro che sono rimasti fermi ad una conoscenza puramente sensibile del mondo.

Uno Stato che assegni ai suoi cittadini funzioni incompatibili col livello di sapienza da essi raggiunto diventa disarmonico e rischia facilmente di degenerare. Si può notare qui come Platone interpreti la società in analogia ad un organismo vivente.79 Il compito di far rispettare l'armonia tra le parti spetta a coloro che più hanno saputo recuperare la reminiscenza dell'idea del Bene: i filosofi. Costoro hanno dunque il compito di governare. La loro funzione è identica a quella che nell'anima umana, secondo la tripartizione platonica, spetta all'anima razionale: la coordinazione e il governo delle altre due, l'intellettiva e la concupisciente. Nel mito del carro e dell'auriga l'anima razionale è infatti assimilata a un cocchiere che deve sapere bene indirizzare i due cavalli a lui sottomessi, affinché il carro proceda rettamente. Una sana organizzazione dello Stato è dunque il riflesso dell'organicità dell'anima umana, a cui i filosofi sono preposti. L'anima irascibile o volitiva, simboleggiata dal cavallo bianco, diventa virtuosa quando è caratterizzata da coraggio e audacia: essa trova il suo corrispettivo nella classe dei guerrieri, che hanno il compito di difendere la città. L'anima concupiscibile, simboleggiata dal cavallo nero, è rappresentata infine dagli artigiani e i commercianti, che devono sapere sviluppare la virtù della temperanza; costoro sono più portati al lavoro produttivo.

« …noi pensiamo di modellare una polis felice non prendendo pochi individui separatamente e rendendoli tali, ma considerandola nella sua interezza. »

(Platone, Repubblica, IV, 420c)

Quando ogni classe conduce al meglio il proprio compito, ognuno nella sua autonomia, lo Stato ne risulta armonicamente beneficiato. La concezione politica di Platone si fonda quindi su un forte senso della giustizia, che d'altronde aveva ispirato tutta la sua dottrina delle idee. La preoccupazione di Platone tra l'altro è la stessa che aveva animato il suo maestro Socrate quando lo aveva spinto a fare opera di maieutica presso i suoi concittadini, e nasce da una sostanziale sfiducia verso i metodi politici vigenti nella sua epoca: questi sono responsabili, secondo Platone, di curare solo gli aspetti esteriori e transitori dell'individuo, trascurando l'interiorità dell'anima.

Affinché la classe dei governanti e dei guerrieri non si faccia distrarre da interessi terreni e personali, essi sono chiamati a mettere in comune ogni proprietà; i loro figli analogamente non dovranno appartenere alle rispettive famiglie, ma sarà la collettività a prendersi cura di loro. Sono inoltre disapprovate da Platone le usanze educative del suo tempo basate sulle espressioni artistiche come la poesia o la musica, perché invece di proporre esempi di moralità si limitano a una sterile imitazione del mondo sensibile, già a sua volta imitante l'idea. Nel suo Stato filosofico non c'è neppure bisogno di leggi positive: ogni individuo infatti non deve rispondere a comandi impartiti dall'esterno, ma obbedire alla sua propria attitudine interiore. In virtù di quest'ultima, le tre classi-funzione della città platonica sono dinamiche, e non vengono assegnate alla nascita: è solo durante l'educazione selettiva che si arriva a stabilire quale ruolo ogni individuo sia più adatto a svolgere, poiché, come Platone spiega nel mito delle stirpi, ognuno possiede un'indole che indirizza l'individuo ad uno solo dei tre percorsi.

Stato

Corpo

Anima

Virtù corrispondente

Governanti

Testa

Razionale

Sapienza

Guerrieri

Torace

Volitiva

Coraggio

Artigiani

Addome

Concupiscibile

Temperanza

 Il rapporto esistente fra le tre parti dell'uomo e quelle dello Stato

Il modello educativo di Platone (paidèia) si basa sulla selezione per tappe: il giovane è sottoposto ad una prima istruzione da parte dello Stato comprendente, oltre alla ginnastica e al combattimento (ossia l'esercizio del corpo), anche la musica (ossia l'esercizio dello spirito) purché esprima davvero l'amore per il Bello ideale e non per le bellezze sensibili. L'istruzione tuttavia non va imposta con la forza «poiché un uomo libero dev'essere libero anche nella conquista del sapere».80 Se l'educando si dimostra all'altezza, egli viene privilegiato ed educato alla matematica, col fine di diventare stratega, e all'astronomia, disciplina solo teorica il cui fine è elevare l'animo. Tra i migliori infine vengono scelti coloro che, per diventare buoni governanti, intraprenderanno lo studio della filosofia e della dialettica, la massima scienza. Non essendoci differenze esteriori di nascita, anche le donne sono chiamate, ognuna secondo la propria inclinazione, ad assolvere le stesse funzioni degli uomini, comprese la guerra e il governo, avendo i loro stessi diritti-doveri.

« …non c'è nessuna attività di coloro che amministrano la città che sia della donna in quanto donna, né dell'uomo in quanto uomo, ma le nature sono disseminate in entrambi gli esseri, e la donna partecipa secondo natura di tutte le attività, e alla pari l'uomo di tutte. »

(Platone, Repubblica, V, 455d)

L'educazione dei giovani cittadini consente così di costruire una civiltà armonica in grado di prevenire le forme degenerative della timocrazia, della plutocrazia e della democrazia, che sfociano tutte inevitabilmente nel peggiore dei governi: la tirannide.

Lo Stato ideale tracciato da Platone è stato oggetto di alcune critiche; si è parlato in proposito di comunismo platonico, presumendo di vedere in esso un'anticipazione della società egualitaria prospettata da Marx. Quello di Platone è tuttavia un comunismo etico, non sociale, che propone l'abolizione della proprietà, ma solo per le classi superiori; la distinzione stessa tra le classi viene mantenuta. Margherita Isnardi Parente parla in proposito di comunismo morale dei governanti, non di popolo, ristretto cioè a pochi.81 Lo stesso Marx rimproverava a Platone di avere ideato uno stato diviso in rigide caste, unendosi alle critiche di coloro che ravvisano nella sua utopia un carattere aristocratico. Occorre anche qui precisare tuttavia che l'aristocrazia platonica è del tutto diversa da quella tradizionale fondata sulla stirpe sociale. I "migliori" che Platone chiama a governare infatti sono aristocratici in un senso intellettuale: non per un diritto acquisito con la nascita, ma secondo criteri morali rinvenibili in chiunque.

Le dottrine non scritte: l'Uno e la Diade

« Su queste cose non c'è un mio scritto, né ci sarà mai. In effetti la conoscenza della verità non è affatto comunicabile come le altre conoscenze, ma, dopo molte discussioni fatte su questi temi, e dopo una comunanza di vita, improvvisamente, come luce che si accende dallo scoccare di una scintilla, essa nasce dall'anima e da se stessa si alimenta. »

(Platone, Lettera VII, 341 C 5 - D 2)

Come suggerisce il contenuto della Lettera VII, e secondo quanto si è accennato in più punti, Platone avrebbe omesso nei suoi scritti di parlare di alcune questioni della massima importanza.82 Alcuni esponenti della cosiddetta scuola di Tubinga (tra gli altri Hans Joachim Krämer, Konrad Gaiser e Thomas Alexander Szlezák) e dell'Università Cattolica di Milano (Giovanni Reale) sostengono che effettivamente una parte rilevante delle teorie platoniche non sia mai stata messa per iscritto, e tuttavia ritengono di poter ricavare, da alcuni accenni sparsi nei dialoghi e da alcune considerazioni polemiche presenti nella Metafisica di Aristotele (Libri I, XIII e XIV), le linee di fondo delle cosiddette "dottrine non scritte".83 Secondo le suddette scuole, dunque, la filosofia di Platone non si esaurirebbe nei suoi scritti ma, anzi, parte di essa potrebbe essere recuperata facendo ricorso alla cosiddetta "tradizione indiretta".

Tale critica all'esegesi dell'opera platonica procede lungo un percorso storico che aveva visto la modernità, soprattutto con Friedrich Schleiermacher (1768-1834),84 manifestare la convinzione che gli scritti di Platone contenessero in maniera esaustiva le sue dottrine, rigettando così l'interpretazione allegorica delle sue opere compiuta dagli autori medioplatonici e neoplatonici.

Ma già Friedrich Nietzsche85 aveva individuato la contraddizione tra la tesi di Schleiermacher e le affermazioni del filosofo ateniese contenute nel Fedro. Secondo Nietzsche, lo scritto ha per Platone il solo scopo di far richiamare alla memoria degli allievi le conoscenze già apprese oralmente all'interno dell'Accademia.

In seguito Heinrich Gomperz (1873-1942)86 partendo da un'interpretazione del passo 341 c. della lettera VII di Platone, sostenne che una piena comprensione dell'opera di Platone poteva avvenire solo attraverso le testimonianze indirette:

« Il sistema filosofico di Platone non viene espressamente sviluppato nei dialoghi, ma si trova solamente, almeno a partire dalla Repubblica, dietro di essi. Questo sistema è un sistema di deduzione, e precisamente dualistico, poiché esso conduce "tutte le cose" a due fattori originari essenzialmente diversi fra loro. »

(Heinrich Gomperz, Op.cit., citato in Giovanni Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle "dottrine non scritte", Bompiani, Milano 2008, pagg. 48-9)

Negli anni venti Hans-Georg Gadamer (1900-2002) scopriva anche lui le "dottrine non scritte" anche se le riteneva basilari unicamente per la comprensione della matematica in Platone.87

Il primo autore che ha affrontato organicamente la nuova interpretazione di Platone è stato comunque Hans Joachim Krämer con il suo Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone contestualmente tradotto in italiano da Giovanni Reale88 nel 1982 per la casa editrice milanese Vita e Pensiero.

Dopo Krämer, ed altri autori della scuola di Tubinga, è intervenuto lo stesso Giovanni Reale che ha applicato a questa nuova interpretazione i canoni epistemologici di Thomas Kuhn ritenendo il lavoro di Tubinga come un "nuovo paradigma ermeneutico".

Un'analisi del testo di Fedro (276A, 276E, 277B) unitamente alla Lettera VII sono per questi studiosi più che sufficienti a dimostrare l'autotestimonianza dello stesso Platone del fatto che il filosofo non affida e non comunica tutto il suo insegnamento sui "rotoli di carta" ma soprattutto quelli di maggior valore li redige direttamente negli animi degli uomini in grado di comprenderli.

Questi insegnamenti "non scritti" sono per questi autori il cuore delle dottrine platoniche e, facendo leva sulla testimonianza di Aristotele e dei suoi commentatori Alessandro di Afrodisia e Simplicio, ritengono che per Platone l'intera realtà, non solo quella sensibile ma anche del mondo delle Idee, sia il risultato di due Principi primi: l'Uno e la Diade.89 Tale concezione, di tipo pitagorico, intende l'Uno (il «Bene» dei dialoghi) come tutto ciò che unitario e positivo, mentre la Diade, ovvero il mondo delle differenze e della molteplicità, genera il disordine.

È evidente che questo nuovo paradigma interpretativo del pensiero di Platone non intende più il mondo delle Idee come la dimensione ontologica primaria, ma restringe questa condizione ai soli Principi primi. Le Idee "procedono" da quei due Principi partecipando dell'unità e distinguendosene per difetto o per eccesso; le stesse Idee quindi entrano in relazione con la materia e generano gli enti sensibili, che partecipano dell'Idea corrispondente e se ne differenziano secondo la Diade, sempre per eccesso o per difetto.

Ne consegue che le stesse Idee sarebbero "generate", forse ab aeterno; il bene, poi, nel mondo sensibile, dove non può esservi unità, ma solo molteplicità, consiste nell'armonia delle parti, come si evince anche dai dialoghi.

La fortuna di Platone

 Secondo alcuni autori la filosofia platonica costituisce una tappa fondamentale dell'intera storia della filosofia occidentale che si riconosce di lui debitrice. Come disse Ralph Waldo Emerson:  

« In lui trovate ciò che avete già trovato in Omero, ora maturato in pensiero, il poeta convertito in filosofo, con vene di saggezza musicale più elevate di quelle raggiunte da Omero; come se Omero fosse il giovane e Platone l'uomo finito; eppure con la non minore sicurezza di un canto ardito e perfetto, quando ha cura di avvalersene; e con alcune corde d'arpa prese da un più alto cielo. Egli contiene il futuro, pur essendo uscito dal passato. In Platone esplorate l'Europa moderna nelle sue cause e nella sua semente, il tutto in un pensiero che la storia d'Europa incarna o dovrà ancora incarnare.90 »

Sempre a questo proposito, Alfred North Whitehead ha sostenuto che «tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone».

Il platonismo matematico



Per approfondire, vedi Platonismo#Il platonismo matematico.

 Il fatto che Platone, nell'ampiezza dei suoi interessi etici e metafisici, abbia assunto i numeri e le forme geometriche come enti reali ha indotto matematici moderni a condividerne il realismo relativo alla matematica e ai suoi oggetti. Si tratta della corrente chiamata "platonista" della matematica, che vede aderirvi anche matematici di indirizzo filosofico non platonico, come Bertrand Russell e Kurt Gödel.

Secondo alcuni autori perciò si deve a Platone e alla sua scuola anche lo sviluppo della matematica9192 e la fondazione del pensiero scientifico.93

Bibliografia

 Per un quadro completo sulla bibliografia relativa a Platone si può consultare:

    •     L. Brisson, La bibliografia platonica dal 2001 al 2009



Opere edite

    •    Omnia Platonis Opera, Venise, 1513.

    •    Platonis omnia Opera cum commentariis Procli in Timaeum et Politica, Bale, 1534.

    •    Platonis Opera quae extant omnia, ex nova Joan. Serrani interpretatione, perpetuis ejusdem notis illustrata, 3 volumi, Paris, H. Estienne, 1578.

    •     Plato, Opera Recognovit brevique adnotatione critica instruxit I. Burnet, Oxford, Clarendon Press 1906-7 e ristampe (5 volumi).

    •    Platonis Opera Recognovit brevique adnotatione critica instruxerunt E. A Duke, W. F. Hicken, W. S. M. Nicoll, D. B. Robinson, J. C. G. Strachan – vol. I (Eutyphro, Apologia, Crito, Phaedo, Cratylus, Theaetetus, Sophista, Politicus) - New York, Oxford University Press 1995 (revisione dell'edizione Burnet).

Traduzioni italiane

    •    Platone, Fedone, a cura di Manara Valgimigli, Laterza, Bari 1949

    •    Platone, Opere complete, a cura di G. Giannantoni, Laterza, Roma-Bari 1982-1984 (9 voll.)

    •    Platone, Dialoghi, a cura di G. Cambiano e F. Adorno, Utet, Torino 1995-2008 (5 voll.)

    •    Platone, Tutti gli scritti, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 1997 ISBN 88-18-22018-7

    •     Platone, Minosse o della legge, a cura di Ciro Sbailò, Liberilibri, Macerata 2002.

    •    Platone, La verità, traduz. e note di Emidio Martini, Lorenzo Barbera editore, Siena 2006 ISBN 88-7899-103-1

    •    Platone, Dialoghi, versione di Francesco Acri a cura di Carlo Carena (con Appendice di Mario Vegetti, Quindici lezioni su Platone), Mondadori, Milano 2008

    •    Platone, Tutte le opere, a cura di E.V. Maltese, Newton Compton, Roma 1995, 20092

Studi

    •    F. Adorno, Due tipi di "discorso" in Platone: mito e logos, Firenze 1996

    •    F. Adorno, Introduzione a Platone, Laterza, Roma-Bari 2005 ISBN 88-420-1427-3

    •    M. Bontempelli, F. Bentivoglio, Platone e i preplatonici, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici Press, Napoli 2011 ISBN 978-88-905957-3-8

    •    A. Bortolotti, La religione nel pensiero di Platone: dai primi dialoghi al Fedro, Firenze 1986 ISBN 88-222-3664-5

    •    A. Bortolotti, La religione nel pensiero di Platone: dalla Repubblica agli ultimi scritti, Firenze 1991 ISBN 88-222-3834-6

    •    G. Cambiano, Platone e le tecniche, Einaudi, Torino 1971 (poi: Laterza, Roma-Bari 1991)

    •     The Cambridge Companion to Plato, edited by R. Kraut, Cambridge 1992

    •    G. Casertano, Il nome della cosa. Linguaggio e realtà negli ultimi dialoghi di Platone, Napoli 1996

    •    G. Cerri, Platone sociologo della comunicazione, Milano 1991

    •    G. Compagnino, Metafisica dell'immagine. Platone e il linguaggio della poesia fra magia e retorica, in «Quaderni Catanesi di studi classici e medievali», 1 (1979), pp. 159–216; 2 (1979), pp. 499–538; 3 (1980), pp. 137–176

    •    G. Compagnino, La poesia e la città. Ethos e mimesis nella Repubblica di Platone, in «Siculorum Gymnasium», 1990, pp. 3–89

    •    Gian Carlo Duranti Verso un Platone ‘terzo’. Intuizioni e decezioni nella scuola di Tübingen, Marsilio editore, Venezia 1995 (tradotto in inglese e tedesco).

    •    F. Ferrari, I Miti di Platone, RCS libri (BUR), Milano 2006 ISBN 88-17-00972-5

    •    F. Fronterotta, Methexis. La teoria platonica delle idee e la partecipazione delle cose empiriche, Scuola Normale Superiore, Pisa 2001

    •    H.G. Gadamer, Studi platonici, trad. it., Marietti, Casale Monferrato 1983-84

    •    K. Gaiser, Il paragone della caverna. Variazioni da Platone ad oggi, trad. it., Bibliopolis, Napoli 1985

    •    O. Gigon, La teoria e i suoi problemi in Platone e Aristotele, trad. it., Napoli 1987

    •    E. Havelock, Cultura orale e civiltà della scrittura da Omero a Platone, trad. it., Laterza, Roma-Bari 1973

    •    V. Hösle, I fondamenti dell'aritmetica e della geometria di Platone, trad. it., Milano 1994

    •    P. Impara, Platone filosofo dell'educazione, Armando, Roma 2002

    •    M. Isnardi Parente, Platone, Laterza, Bari 1996

    •    W. Jaeger, Paideia. La formazione dell'uomo greco, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1959

    •    C. H. Kahn, Platone e il dialogo socratico. L'uso filosofico di una forma letteraria, trad. it., Vita e Pensiero, Milano 2008

    •    A. Koiré, Introduzione a Platone, Vallecchi, Firenze 1973

    •    H.G. Krämer,  Platone e i fondamenti della metafisica. Saggio sulla teoria dei principi e sulle dottrine non scritte di Platone, intr. e trad. di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano 1982, 20016 ISBN 88-343-0731-3

    •     H.G. Krämer,  Dialettica e definizione del Bene in Platone: interpretazione e commentario storico-filosofico di Repubblica VII 534 B 3-D 2, Vita e Pensiero, Milano 1989 ISBN 88-343-0857-3

    •    E. Moutsopoulos, La musica nell'opera di Platone, Vita e Pensiero, Milano 2002

    •    L.M. Napolitano Valditara, Platone e le "ragioni" dell'immagine, Vita e Pensiero, Milano 2007 ISBN 978-88-343-1394-7

    •    U. Pagallo, Plato's Daoism and the Tübingen School, in «Journal of Chinese Philosophy», 32, 4, pp. 597–613 ISSN 0301-8121

    •    D. Pesce, Il Platone di Tubinga, Brescia 1990

    •    C. Quarta, L'utopia platonica. Il progetto politico di un grande filosofo, Bari 1993

    •    G. Reale, Autotestimonianze e rimandi dei dialoghi di Platone alle "dottrine non scritte", Bompiani, Milano 2008 ISBN 978-88-452-6027-8

    •    R. Radice, "Plato, Lexicon", Biblia, Milano 2003, pag. 1006 (electronic edition by Roberto Bombacigno)

    •    G. Reale, Per una nuova interpretazione di Platone, Vita e Pensiero, Milano 2003

    •    D. Roochnik, The Tragedy of Reason. Toward a Platonic conception of logos, Routledge, New York 1990

    •    G. Salmeri, Il discorso e la visione. I limiti della ragione in Platone, Studium, Roma 1999

    •    D. Sperduto, L'imitazione dell'eterno. Implicazioni etiche della concezione del tempo immagine dell'eternità da Platone a Campanella, Schena, Fasano 1998.

    •    A.E. Taylor, Platone. L'uomo e l'opera, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1968

    •    F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma 1998

    •     S. Tsitsiridis, Platons Menexenos. Einleitung, Text und Kommentar, (Beiträge zurAltertumskunde 107) Stuttgart/Leipzig 1998. ISBN 3-519-07656-X.

    •    M. Vegetti, Quindici lezioni su Platone, Einaudi, Torino 2003

    •    R. Velardi, "Enthousiasmòs". Possessione rituale e teoria della comunicazione poetica di Platone, Roma 1989

    •    C. J. de Vogel,  Ripensando Platone e il platonismo, Vita e Pensiero, Milano 1990

Film su Platone

    •    Socrate, regia di Roberto Rossellini (1971) - Il film, ripercorrendo la vita del filosofo, trae spunto dai maggiori dialoghi di Paltone, quali Simposio, Fedone, Critone e Apologia

    •    Il banchetto di Platone, regia di Marco Ferreri (1988) - La pellicola ripropone la celebre conversazione riportata nel dialogo platonico  Simposio su Eros tenuta da alcuni filosofi, tra i quali Socrate.

Voci correlate

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Aristotele

« ’l maestro di color che sanno seder tra filosofica famiglia. »

(Dante Alighieri, Divina Commedia, Inferno, IV, 131-132.1)

Aristotele. Dettaglio dalla Scuola di Atene di Raffaello Sanzio (1509).

Aristotele (in greco antico Ἀριστοτέλης, traslitterato in Aristotéles; Stagira, 384 a.C. o 383 a.C.2 – Calcide, 322 a.C.) è stato un filosofo, scienziato e logico greco antico, noto come il "filosofo dell'immanenza".

Discepolo di Platone, è considerato una delle menti filosofiche più innovative, prolifiche e influenti del mondo antico occidentale per la vastità dei suoi campi di conoscenza; fu stimato per secoli come l'emblema dell'uomo sapiente e come precursore di scoperte.

Il significato del nome

 Aristotele, il cui nome deriva dall'unione di ἀριστὀς (aristos) "migliore" e τὲλος (telos) "fine", alla lettera può intendersi con il significato di "il fine migliore", oppure, in senso più ampio, «che giungerà ottimamente alla fine»3. Una tradizione riferisce come vero nome del filosofo quello di Aristocle di Messene, che sarebbe stato l'autentico maestro di Alessandro Magno. Giovanni Reale sulla base di un'ampia documentazione esclude la validità di questa teoria.4

Biografia

Resti delle mura di Stagira

Aristotele nacque nel 384/3 a.C. a Stagira, l'attuale Stavro, città macedone nella penisola Calcidica, situata sulla costa nord-orientale della Grecia, a circa 55 chilometri a est dell'odierna Salonicco.

Si dice che il padre, Nicomaco, sia vissuto presso Aminta, re dei Macedoni, prestandogli i servigi di medico e di amico. Aristotele, come figlio del medico reale, doveva pertanto risiedere nella capitale del Regno di Macedonia, Pella. Fu probabilmente per l'attività di assistenza al lavoro del padre che Aristotele fu avviato alla conoscenza della fisica e della biologia, aiutandolo nelle dissezioni anatomiche.5

Secondo gli studiosi la biografia di Aristotele può essere suddivisa in tre periodi.6
Il primo periodo ebbe inizio quando, rimasto orfano in tenera età, dovette trasferirsi dal tutore Prosseno ad Atarneo, cittadina dell'Asia Minore nella regione della Misia situata nel nord-ovest dell'attuale Turchia, di fronte all'isola di Lesbo. Prosseno, verso il 367 a.C., lo mandò ad Atene per studiare nell'Accademia fondata da Platone circa vent'anni prima, dove rimarrà fino alla morte del suo maestro. Aristotele non fu dunque mai un cittadino di Atene, ma un meteco.

Quando il diciassettenne Aristotele entra nell'Accademia, Platone è a Siracusa da un anno, su invito di Dione, parente di Dionigi I, e tornerà ad Atene solo nel 364 a.C.; in questi anni, secondo l'impostazione didattica dell'Accademia, Aristotele dovette iniziare con lo studio della matematica, per passare tre anni dopo alla dialettica.

A reggere la scuola è Eudosso di Cnido, uno scienziato che dovette molto influenzare il giovane studente che, molti anni dopo, nell'Etica Nicomachea scriverà che i ragionamenti di Eudosso «avean acquistato fede più per la virtù dei suoi costumi che per se stessi: appariva di un'insolita temperanza, sembrando ragionare, nell'identificare il bene col piacere, non perché amante del piacere, ma perché pensava che la cosa stesse veramente così».

L'abbandono dell'Accademia

Aristotele precettore di Alessandro Magno

 Il secondo periodo ha inizio quando nel 347 a.C. muore Platone e alla direzione dell'Accademia, più per motivi economici che per meriti riconosciuti, viene chiamato Speusippo, nipote del grande filosofo ateniese. Aristotele, che evidentemente doveva ritenersi più degno di costui, lascia la scuola insieme con Senocrate, altro pretendente alla guida dell'Accademia, per ritornare ad Atarneo, dove aveva trascorso l'adolescenza, invitato da Ermia, allora tiranno della città. Ermia era stato già da lui conosciuto ai tempi dell'Accademia, ed era poi riuscito con un rovesciamento politico a diventare successore di Eubulo, signore di Atarneo, e ad impossessarsi di Asso. Nella corte di Ermia Aristotele ritrova altri due ex allievi di Platone, Erasto e Coristo. Nello stesso anno tutti e quattro si trasferiscono ad Asso, divenuta intanto la nuova sede della corte, dove fondano una scuola che Aristotele battezza come unica vera scuola platonica. Ad essa aderiscono anche il figlio di Coristo, Neleo, e il futuro successore di Aristotele nella scuola di Atene, Teofrasto, suo brillante allievo.

Nel 344 a.C., su invito dello stesso Teofrasto, Aristotele va a Mitilene, sull'isola di Lesbo, dove fonda un'altra scuola, anch'essa battezzata come la sola aderente ai canoni platonici. V'insegna fino al 342, anno in cui è chiamato a Pella, in Macedonia dal re Filippo II perché faccia da precettore al figlio Alessandro Magno. Aristotele svolgerà questo incarico per circa tre anni, fino a quando Alessandro non sarà chiamato a partecipare alle spedizioni militari del padre. Non sappiamo molto dell'educazione che Aristotele impartisce ad Alessandro ma si suppone che le lezioni si basassero prevalentemente sui fondamenti della cultura greca (a partire da Omero) facendo così di Alessandro un uomo greco per gli ideali trasmessigli, ma anche soprattutto sulla politica, dato il destino che attendeva Alessandro. È inoltre possibile che durante questo incarico Aristotele abbia concepito il progetto di una grande raccolta di Costituzioni.

La fondazione del Peripato

 Quando nel 340 a.C. Alessandro diviene reggente del regno di Macedonia, cominciando anche ad avvicinarsi alla cultura orientale, il suo maestro Aristotele, che è intanto rimasto vedovo e convive con la giovane Erpillide da cui ha avuto il figlio Nicomaco,7 nell'ultimo periodo della sua vita torna forse a Stagira e, intorno al 335 a.C., si trasferisce ad Atene, dove in un pubblico ginnasio, detto Liceo perché sacro ad Apollo Licio, fonda una sua famosissima e celebrata scuola, chiamata Peripato - passeggiata, dall'uso istituito dallo Stagirita di insegnare passeggiando nel giardino che la circonda. Probabilmente non è Aristotele ad acquistare la scuola; egli l'affitta perché per la città di Atene egli era uno straniero e non aveva diritto di proprietà. La scuola viene inoltre finanziata dallo stesso Alessandro. Aristotele promuove attività di ricerca nella città di Atene soprattutto per quanto riguarda materie scientifiche quali zoologia, botanica, astronomia.8

Riguardo alla scuola abbiamo notizie vaghe; comunque sappiamo per certo che gli alunni erano chiamati per dieci giorni a dirigere la scuola in prima persona: Aristotele ci teneva a istruire i suoi allievi a questo ruolo. Inoltre i pasti venivano consumati in comune secondo un'usanza dei pitagorici e ogni mese si organizzava un simposio filosofico con giudizio (iudicio) guidato dalla saggezza del maestro. Le lezioni si svolgevano di mattina; di pomeriggio e di sera invece Aristotele teneva, sempre nella scuola, delle conferenze aperte al pubblico; le materie erano appunto di interesse pubblico quindi politica e retorica, ad esempio, ma non materie astratte come la metafisica e la logica.

Nel 323 a.C. muore Alessandro Magno e ad Atene si manifestano i mai sopiti odii  antimacedoni; Aristotele, guardato con ostilità per il suo legame con la corte macedone, è accusato di empietà: lascia allora Atene e con la famiglia si rifugia a Calcide in Eubea, la città materna, dove muore l'anno dopo.

Il testamento

Statua di Aristotele a Calcide

 Diogene Laerzio riporta il testamento di Aristotele:

«Andrà senz'altro bene, ma qualora capitasse qualcosa, Aristotele ha steso le seguenti disposizioni: tutore di tutti, sotto ogni aspetto, dev'essere Antipatro; però, Aristomene, Timarco, Ipparco, Diotele e Teofrasto, se è possibile, si prendano cura dei figli, di Erpillide [la sua convivente] e delle cose da me lasciate, fino all'arrivo di Nicanore. E al momento giusto, mia figlia [Piziade] sia data in sposa a Nicanore [...] Se invece Teofrasto vorrà prendersi cura di mia figlia, allora sia padrone lui [...]

I tutori e Nicanore, ricordandosi di me, si prendano cura anche di Erpillide, sotto ogni aspetto e anche se vorrà risposarsi, in modo che non sia data in sposa indegnamente, visto che è stata premurosa con me. In particolare, le vengano dati, oltre a quello che ha già ottenuto, anche un tallero d'argento e tre schiave, quelle che vuole, la schiava che già ha e lo schiavo Pirro. E se vorrà abitare a Calcide, le sia data la casa per gli ospiti vicino al giardino; se invece vorrà stare a Stagira, le sia data la mia casa paterna [...]

Sia libera Ambracide e le si diano, alle nozze di mia figlia, cinquecento dracme e la giovane serva che già possiede [...] Sia liberato Ticone quando mia figlia si dovesse sposare, e così anche Filone, Olimpione e il suo ragazzino. Non vendano nessuno dei giovani schiavi che attualmente mi servono, ma siano impiegati; una volta dell'età giusta, siano liberati, se lo meritano [...]

Ovunque sia costruita la mia tomba, là siano portate e deposte le ossa di Piziade, come lei stessa ordinò; dedichino poi anche da parte di Nicanore, se sarà ancora vivo - come ho pregato a suo favore - statue di pietra alte quattro cubiti a Zeus Salvatore e ad Atena Salvatrice a Stagira».9

Le opere

 Degli scritti di Aristotele si sogliono distinguere le opere giovanili, a cui egli cominciò a lavorare già nel 364 a.C., da quelle della maturità.

Gli scritti giovanili

 A questo gruppo appartengono le seguenti opere: Grillo, Sulle idee, Sul Bene, Eudemo, Protreptico e De philosophia.

Il Grillo o Sulla retorica

 Intorno al 360 a.C. il giovane Aristotele scrive la sua prima opera intitolata Grillo o Sulla retorica; in reazione a una serie di scritti di elogio - composti da alcuni retori ateniesi, fra i quali Isocrate, per celebrare Grillo, figlio di Senofonte, morto nel 362 a.C. nella battaglia di Mantinea - lo Stagirita polemizzava contro la retorica come mezzo per agire sugli affetti, sulla parte irrazionale dell'anima. Già Platone, nel Gorgia, aveva sostenuto che la retorica non era un'arte, né una scienza, ma semplicemente una εμπειρία (empeirìa), una pratica persuasiva che può avere successo solo sugli ignoranti. Il successo del Grillo nell'Accademia procurò ad Aristotele l'incarico di tenere un corso di retorica, nel quale, seguendo il Fedro platonico, sostenne che la retorica doveva fondarsi sulla dialettica. A tal proposito si è tramandato negli anni che egli esordì nella prima lezione con la frase: «È cosa turpe tacere e lasciar parlare Isocrate».

Sulle Idee

 Scritto poco dopo il Grillo, il trattato Sulle Idee è andato perduto tranne pochi frammenti, trasmessi da Alessandro d'Afrodisia. Vi si affrontava la difficoltà di intendere il rapporto tra idee e cose, concepito da Platone come partecipazione delle cose alle idee, che da esse sono tuttavia separate.

Eudosso sosteneva che tra le idee e le cose non ci fosse né separazione, né partecipazione, bensì mixis, mescolanza: le idee e le cose sono mescolate tra loro. Aristotele non accetta la teoria eudossiana, che non risolve il problema, ma critica anche la teoria platonica della separazione, delle cui aporie lo stesso Platone era del resto ben consapevole, come mostra il suo dialogo Parmenide. Per Aristotele il principio di tutte le cose non risiede nelle idee trascendenti, ma nelle loro "forme" immanenti.

Sul Bene

Platone e Aristotele, particolare della formella del Campanile di Giotto di Luca della Robbia, 1437-1439, Firenze

 Nel tentativo di superare un'altra difficoltà contenuta nella teoria delle idee, le quali, essendo molteplici, hanno bisogno secondo Platone di essere giustificate da un principio unitario, Platone introdusse i principi dell'Uno (identificato con il Bene) e della Diade (il grande e il piccolo); il primo ha la funzione di principio formale e il secondo ha la funzione di principio materiale.

È probabile che le conclusioni del trattato aristotelico Sul Bene, scritto intorno al 358 a.C. e del quale rimangono pochi frammenti, fossero quelle esposte nella matura Metafisica:10 «Platone chiamò idee gli esseri diversi da quelli sensibili e disse che di tutte le cose sensibili si parla in dipendenza dalle idee e secondo le idee: infatti le cose molteplici che hanno lo stesso nome delle idee esistono per partecipazione [...] ma che cosa fosse la partecipazione o l'imitazione delle idee è un problema che Platone e i pitagorici lasciarono aperto. Inoltre Platone dice che oltre alle cose sensibili e alle idee esistono le cose matematiche, che sono intermedie e differiscono dalle cose sensibili perché sono eterne e immobili, e differiscono dalle idee per il fatto che ce ne sono molte simili tra loro, mentre ciascuna idea è unica in sé [...]. Come principi, Platone poneva la Diade, cioè il grande e il piccolo, come materia, e poneva l'Uno come sostanza; dal grande e dal piccolo, per partecipazione all'Uno, si costituiscono le idee, che sono i numeri che nascono da quei principi [...] Platone sosteneva una tesi vicina a quella dei Pitagorici, e si poneva sulle loro posizioni, quando diceva che i numeri sono la causa della sostanza delle altre cose [...] egli ricorre soltanto a due cause, l'essenza e la causa materiale, perché le idee sono la causa dell'essenza delle altre cose, mentre l'Uno è causa dell'essenza delle idee».

Aristotele respinse dunque già nel primo periodo della sua formazione la teoria delle idee nella lunga elaborazione fatta da Platone, ma dalla meditazione su di essa trasse la personale dottrina della causa formale e della causa materiale.

L'Eudemo o Sull'anima (Aristotele)Sull'anima

 Nel 354 a.C., alla morte in guerra, presso Siracusa, dell'amico e compagno di studi Eudemo di Cipro, Aristotele scrisse, in forma consolatoria e non speculativa, un altro dialogo, pervenuto in frammenti, l'Eudemo o Sull'anima, nel quale, prendendo a modello il Fedone platonico, sosterrebbe la tesi dell'immortalità dell'anima razionale, come indicato nella forma pur problematica della posteriore Metafisica: «Se rimanga qualche cosa dopo l'individuo, è una questione ancora da esaminare. In alcuni casi, nulla impedisce che qualcosa rimanga: per esempio, l'anima può essere una cosa di questo genere, non tutta, ma solo la parte intellettuale; perché è forse impossibile che tutta l'anima sussista anche dopo».11

Per l'Aristotele maturo, l'anima non è un'idea ma una sostanza informante il corpo: nell'Eudemo è invece netta l'opposizione fra anima e corpo, sicché lo Jaeger la considerava dimostrazione dell'adesione completa del giovane Aristotele al platonismo; i sostenitori della precoce presa di distanza dello Stagirita da Platone intendono invece questa dichiarata opposizione come dipendente dall'intento consolatorio del dialogo, nel quale Aristotele avrebbe volutamente accentuato il destino ultraterreno dell'anima.

In ogni caso, i frammenti dell'Eudemo non permettono di dedurre un'adesione alle dottrine platoniche delle idee separate dagli oggetti sensibili e della conoscenza fondata sulla reminiscenza.

Il Protreptico

 Il Protreptico o Esortazione alla filosofia, conosciuto dalle numerose citazioni contenute nell'opera di eguale titolo di Giamblico, dedicato a Temisone, re di una città di Cipro, dovette essere scritto intorno al 350 a.C.

Il Protreptico è un'esortazione alla filosofia, essendo questa il più grande dei beni, dal momento che ha per scopo se stessa, mentre le altre scienze hanno per fine qualcosa di diverso da sé. Aristotele individua nell'essere umano la divisione fra anima e corpo: «una parte di noi è l'anima e una parte è il corpo, l'una comanda e l'altra è comandata, l'una si serve dell'altra e l'altra sottostà come uno strumento [...] Nell'anima ciò che comanda e giudica per noi è la ragione, mentre il resto ubbidisce e per natura è comandato [...] dunque l'anima è migliore del corpo, essendo più adatta al comando, e di questa è migliore la parte che possiede ragione e pensiero», una divisione non vista come opposizione, come nell'Eudemo, ma come collaborazione: il corpo è lo strumento dell'agire dell'anima, della parte razionale dell'anima.

«Delle cose che sono generate, alcune sono generate dall'intelligenza e dall'arte, per esempio, la casa e la nave; altre sono generate non per arte ma per natura: degli esseri viventi e delle piante, infatti, la causa è la natura e per natura sono generate tutte le cose di tal specie; altre però sono generate anche per caso, e sono tutte quelle non generate né per arte, né per natura, né da necessità, e tutte queste cose, molto numerose, noi diciamo che sono generate per caso». Non vi è finalità nel caso ma vi è nell'arte e nella natura: la natura è l'ordine tendente a un fine, e il fine dell'uomo è la conoscenza.

La filosofia è sia buona che utile, ma la bontà va privilegiata rispetto all'utilità: «alcune cose, senza le quali è impossibile vivere, le amiamo in vista di qualcosa di diverso da esse: e queste bisogna chiamarle necessarie e cause concomitanti; altre invece le amiamo per se stesse, anche se non ne consegua nulla di diverso, e queste dobbiamo chiamarle propriamente beni [...] Sarebbe quindi del tutto ridicolo cercare di ogni cosa un'utilità diversa dalla cosa stessa, e domandare: "Che cosa ci è giovevole? Che cosa ci è utile?". Colui che ponesse queste domande non assomiglierebbe in nulla a uno che conosce ciò che è bello e buono né a uno che sappia riconoscere che cosa è causa e che cosa è concomitante». È una polemica, questa, contro le posizioni di Isocrate che, nel suo Antidosis, scritto contro l'Aristotele del Grillo, attaccava una conoscenza che fosse priva di utilità pratica. Inoltre quest'opera, essendo certamente datata, è fondamentale per gli studi storiografici in quanto ci consente di creare un abbozzo cronologico di alcuni libri della Metafisica in base alla presenza (o meno) in essi di temi già trattati nel Protreptico. Del resto, che fare filosofia sia per Aristotele comunque necessario lo dimostra il fatto che «chi pensa sia necessario filosofare, deve filosofare e chi pensa che non si debba filosofare, deve filosofare per dimostrare che non si deve filosofare; dunque si deve filosofare in ogni caso o andarsene di qui, dando l'addio alla vita, poiché tutte le altre cose sembrano essere solo chiacchiere e vaniloquio».

Il De philosophia

 Il De Philosophia, pervenuto in frammenti, fu scritto intorno al 355 a.C. e si divide in tre libri: nel primo Aristotele definisce filosofia la conoscenza dei principi della realtà; nel secondo critica la dottrina platonica delle idee e delle idee-numeri; nel terzo espone la sua teologia.

Busto di Cicerone

 Ribadisce la non trascendenza delle idee e nega le idee-numero o numeri ideali, introdotti dal tardo Platone: «se le idee sono un'altra specie di numero, non matematico, non potremmo averne alcuna comprensione; chi, fra noi, comprende un tipo di numero diverso?». È Cicerone a citare, criticamente, il terzo libro del De philosophia: «Aristotele nel terzo libro della sua opera Della filosofia confonde molte cose dissentendo dal suo maestro Platone. Ora infatti attribuisce tutta la divinità a una mente, ora dice che il mondo stesso è dio, ora prepone al mondo un altro essere e gli affida il compito di reggere e governare il moto del mondo per mezzo di certe rivoluzioni e moti retrogradi, talora dice che dio è l'etere, non comprendendo che il cielo è una parte di quel mondo che altrove ha designato come potere divino».12

La dimostrazione della necessità e dell'immutabilità di Dio è fornita dalla testimonianza di Simplicio: «dove c'è un meglio, c'è anche un ottimo: poiché, fra ciò che esiste, c'è una realtà superiore a un'altra, esisterà di conseguenza una realtà perfetta, che dovrà essere la potenza divina [...] e ne deduce la sua immutabilità».13 Puro pensiero e immutabile, Dio non può creare il mondo, che è anch'esso eterno, come riporta Cicerone:14 «il mondo non ha mai avuto origine, poiché non vi è stato alcun inizio, per il sopravvenire di una nuova decisione, di un'opera così eccellente» e attesta anche la concezione della divinità degli astri: «Le stelle poi occupano la zona eterea. E poiché questa è la più sottile di tutte ed è sempre in movimento e sempre mantiene la sua forza vitale, è necessario che quell'essere vivente che vi nasca sia di prontissima sensibilità e di prontissimo movimento. Per la qual cosa, dal momento che sono gli astri a nascere nell'etere, è logico che in essi siano insite sensibilità e intelligenza. Dal che risulta che gli astri devono essere ritenuti nel numero delle divinità».

Le opere della maturità

 Della produzione filosofica aristotelica più matura ci sono giunti solo gli scritti composti per il suo insegnamento nel Peripato, detti libri acroamatici (in greco: "ciò che si ascolta") o esoterici; oltre a questi, come esposto in precedenza, Aristotele aveva scritto e pubblicato, durante la sua precedente permanenza nell'Accademia di Platone, anche dei dialoghi destinati al pubblico, per questo motivo detti essoterici, che sono però pervenuti in frammenti. Questi dialoghi giovanili furono letti e discussi dai commentatori fino al VI secolo d.C.

A seguito della chiusura dell'Accademia ateniese ordinata nel 529 da Giustiniano e alla diaspora di quegli accademici, queste opere si dispersero e furono dimenticate, mentre di Aristotele rimasero solo i trattati esoterici; questi, a loro volta, erano stati dimenticati a lungo dopo la morte del Maestro fino ad essere ritrovati, alla fine del II secolo a.C., da un bibliofilo ateniese, Apellicone di Teo, in una cantina appartenente agli eredi di Neleo, figlio di Corisco, entrambi seguaci di Aristotele nella scuola di Asso. Apellicone li acquistò, portandoli ad Atene, e qui Silla li sequestrò nel saccheggio di Atene dell'84 a.C., portandoli quindi a Roma, dove furono ordinati e pubblicati da Andronico da Rodi.

L'insieme di queste opere può essere ordinato per argomenti omogenei:

    •    Logica scritti raccolti successivamente nel titolo complessivo di Organon - in greco, "strumento" - comprendenti:



      1.       Le categorie (un libro)

      2.       Sull'interpretazione (un libro)

      3.       Analitici primi (due libri)

      4.       Analitici secondi (due libri)

      5.       Topici (otto libri)

      6.       Elenchi sofistici (un libro)



    •    Metafisica15 (quattordici libri)

    •    Fisica (otto libri) con scritti correlati:



      1.       Sul cielo (quattro libri)

      2.       Sulla generazione e corruzione (due libri)

      3.       Sulle meteore (quattro libri)

      4.       Storia degli animali (un libro)

      5.       Sulle parti degli animali (un libro)

      6.       Sulla generazione degli animali (un libro)

      7.       Sulle migrazioni degli animali (un libro)

      8.       Sul movimento degli animali (un libro)



    •    Sull'anima (tre libri) con scritti correlati:



      1.       Sensazione e sensibile (un libro)

      2.       Memoria e reminiscenza (un libro)

      3.       Il sonno (un libro)

      4.       I sogni (un libro)

      5.       La divinazione mediante i sogni (un libro)

      6.       Lunghezza e brevità della vita (un libro)

      7.       Giovinezza e vecchiaia (un libro)

      8.       La respirazione (un libro)



    •     Etica, comprendente



      1.      Etica Nicomachea (dieci libri)

      2.      Etica Eudemia (sei libri)

      3.       Grande etica (due libri)



    •    Politica (otto libri) correlata alla



      1.      Costituzione degli Ateniesi



    •    Retorica (tre libri)

    •    Poetica, incompiuta.



Apocrifi

 Ad Aristotele erano anche attribuiti i Problemi e Le Audizioni Meravigliose che la filologia moderna non riconosce come suoi.

Nei Problemi il Filosofo si chiede: come mai sedendosi vicino al fuoco viene da fare pipì? La sua risposta è, come al solito, acutissima: perché il fuoco scioglie le cose solide. È chiaro che, se avesse ragione, allontanandosi dal fuoco dovrebbe anche passare la voglia.16 Un altro dei Problemi è: come mai soffiando sulle mani queste si scaldano, mentre soffiando sulla zuppa questa si raffredda? Anche qui la risposta è magistrale: Perché quando soffi sulla minestra, tieni la bocca quasi chiusa, in modo tale che il calore dell'aria rimane dentro la bocca e quel poco che esce fuori evapora subito per la violenza del soffio.17 Le Audizioni Meravigliose contengono fatti che ancora oggi la scienza non sa spiegare: ad esempio, sull'isola di Creta, le capre ferite dai cacciatori si cibano di un'erba, chiamata Dittamo, che subito fa uscire la freccia e sana la ferita18.

La filosofia: scienza delle cause e ricerca delle essenze

Aristotele

 La filosofia di Aristotele muove dalla stessa esigenza platonica di ricercare un princìpio eterno e immutabile che spieghi il modo in cui avvengono i mutamenti della natura. Come il suo maestro Platone, Aristotele ha ben presente la contrapposizione filosofica venutasi a creare tra Parmenide ed Eraclito; anche lui pertanto si propone di conciliare le loro rispettive posizioni di pensiero: l'Essere statico del primo con l'incessante divenire del secondo. Per cui tutto muta in natura, tutto «scorre», ma non a caso: seguendo sempre certi schemi o regole fisse.

A differenza di Platone, tuttavia, Aristotele ritiene che le forme in grado di guidare la materia non si trovino al di fuori di essa: non ha senso secondo lui sdoppiare gli enti per cercare poi di riconciliarli in qualche modo; ogni realtà invece deve avere in se stessa, e non in cielo, le leggi del proprio costituirsi.

Il fatto che tutti i fenomeni naturali siano soggetti a costante mutamento significa per Aristotele che nella materia è sempre insita la possibilità di raggiungere una forma precisa. Compito della filosofia è proprio quello di scoprire le cause che determinano il perché un oggetto tenda ad evolversi in un certo modo e non diversamente. Aristotele parla in proposito di quattro cause, che sono le seguenti:

      1.      causa formale: consiste nelle qualità specifiche dell'oggetto stesso, nella sua essenza;

      2.      causa materiale: la materia è il sostrato senza cui l'oggetto non esisterebbe;

      3.      causa efficiente: è l'agente che determina operativamente il mutamento;

      4.      causa finale: la più importante di tutte, in virtù della quale esiste un'intenzionalità nella natura; è lo scopo per cui una certa realtà esiste.



La scienza delle cause consente di affrontare in maniera più sistematica e razionale il problema dell'Essere e delle sue possibili determinazioni, sorto la prima volta con Parmenide. Quest'ultimo aveva detto dell'Essere soltanto che è, e non può non essere, ma non aveva aggiunto cosa esso sia, lasciandolo senza un predicato. Ne risultava un concetto evanescente, che rischiava di venir confuso col non-essere. Aristotele con la sua ontologia si propone allora di mostrare che l'essere è determinato in una molteplicità di attributi, che lo rendono multilaterale pur nella sua unità.

Ontologia e metafisica

 L'ontologia, in quanto metafisica (secondo la terminologia introdotta da Andronico di Rodi), è la "filosofia prima" aristotelica, che ha come suo primario oggetto di indagine l'essere in quanto tale, e solo in via subordinata l'ente (dal greco ὄντος, genitivo di ὤν, essente). "In quanto tale" significa a prescindere dai suoi aspetti accidentali, e quindi in maniera scientifica. Solo di ciò che permane come sostrato fisso e immutabile, infatti, si può avere una conoscenza sempre valida e universale, a differenza degli enti soggetti a generazione e corruzione, ragion per cui «del particolare non si dà scienza».19

Per conoscere gli enti occorrerà dunque fare sempre riferimento all'Essere; Aristotele intende per ente tutto ciò che esiste, nel senso che deve ad altro la propria sussistenza,20 a differenza dell'Essere che invece è in sé e per sé: mentre l'Essere è uno, gli enti non sono tutti uguali. Per il filosofo essi hanno vari significati: l'ente è un "pòllachos legòmenon" (dal greco πόλλακος λεγόμενον), ossia si può «dire in molti modi». Ente sarà ad esempio un uomo, così come il suo colore della pelle.

Introducendo gli enti, Aristotele cerca di risolvere il problema ontologico di conciliare l'essere parmenideo col divenire di Eraclito, facendo dell'ente un sinolo indivisibile di materia e forma: come già accennato, infatti, la materia possiede un suo modo specifico di evolversi, ha in sé una possibilità che essa tende a mettere in atto. Ogni mutamento della natura è quindi un passaggio dalla potenza alla realtà, in virtù di un'entelechia, di una ragione interna che struttura e fa evolvere ogni organismo secondo leggi sue proprie. Cercando di superare il dualismo di Platone in seno all'essere, Aristotele sostiene così l'immanenza dell'universale. La sua soluzione tuttavia risente fortemente dell'impostazione platonica, perché, come già il suo predecessore, anche lui concepisce l'essere in forma gerarchica:21 per cui da un lato vi è l'Essere eterno e immutabile, identificato con la vera realtà, che basta a se stesso in quanto perfettamente realizzato; dall'altro vi è l'essere in potenza, proprio degli enti, che per costoro è soltanto la possibilità di attuare se stessi, di realizzare la loro forma in atto, la loro essenza. Anche il non-essere quindi in qualche modo è, almeno come poter-essere. E il divenire consiste propriamente in questo perenne passaggio verso l'essere in atto.22

La Sostanza: prima e seconda

 Il genere sommo di cui il filosofo si occupa maggiormente è quello di sostanza, classificata in sostanza prima e sostanza seconda. La prima è relativa ad un singolo essere, un determinato uomo, un certo animale o una pianta, ossia tutto ciò che ha sussistenza autonoma. La sostanza seconda invece è costituita da sostantivi generici che determinano un oggetto in un certo modo, è la risposta a "che cos'è" quell'oggetto, ti estì (dal greco τί ἐστί), specificando meglio la sostanza prima. Nella frase «il Sole è un astro» ad esempio, Sole, nome proprio e specifico di una stella, è sostanza prima, mentre astro, nome generico che ne specifica l'essenza o la natura, è sostanza seconda. Di fatto, se si prescinde dall'aspetto materiale, la sostanza è sinonimo di essenza (οὐσία, usìa).23 Ogni realtà può essere detta che "è" in quanto esprime la sostanza. Un altro termine utilizzato per indicarla è sinolo di materia e forma.

 Nonostante le molteplici valenze che assumono gli enti, tutti richiamano inevitabilmente in un modo o nell'altro il concetto di sostanza, termine introdotto da Aristotele per indicare ciò che è in sé e per sé, e che per essere non ha bisogno di esistere. La sostanza è uno dei dieci predicamenti dell'essere, ossia di quelle dieci categorie entro cui classificare gli enti sulla base della loro differenza. Esse sono: sostanza, qualità, quantità, dove, quando, relazione, agire, subire, avere, giacere.

Le dieci categorie possono anche essere definite generi massimi, poiché permettono la completa classificazione degli enti. Non vanno confuse con i cinque generi sommi platonici, perché se Platone cercava categorie universali cui partecipassero tutte le idee, Aristotele cerca categorie cui gli enti partecipino in base alla loro diversità: non esiste infatti una categoria a cui tutti gli enti tangibili partecipino, proprio perché il suo scopo non è quello della reductio ad unum o omologazione (far confluire tutti gli oggetti di studio in un unico grande calderone).

A differenza della sostanza, le nove rimanenti categorie si devono invece definire "accidenti" in quanto non hanno vita indipendente, ma esistono solo nel momento in cui ineriscono alla sostanza. Il giallo, per esempio, non è un ente autonomo come un uomo. Perciò nella frase «il Sole è giallo», Sole è sempre sostanza prima, mentre giallo è accidente della sostanza, appartenente alla categoria della qualità.

Lo stesso filosofo afferma quanto sia inutile ogni scienza che si occupi di enti dotati delle medesime caratteristiche: la matematica studia gli enti astratti deducibili solo con l'astrazione (in numeri), la fisica gli elementi naturali della physis (greco φύσις), l'ontologia, invece, studia gli enti. Ma in base a che cosa gli enti sono accomunati? Non certo il fatto di esistere, perché, come già detto, il filosofo nega a priori l'esistenza di una categoria che collochi in sé tutti gli enti (la categoria dell'essere che, infatti, li accomunerebbe tutti). Il termine ente è comunque una parola ambigua, proprio come "salutare". Esso vuol dire sano o indicare l'azione del cordiale saluto, tutto comunque richiama allo stesso concetto di salute.

Teologia

 Soltanto l'essere in atto fa sì che un ente in potenza possa evolversi; l'argomento ontologico diventa così teologico per passare alla dimostrazione della necessità dell'essere in atto.24 Si è visto come il movimento sia originato dalle quattro cause. Ogni oggetto è mosso da un altro, questo da un altro ancora, e così via a ritroso, ma alla fine della catena deve esistere un motore immobile, cioè Dio: "motore" perché è la meta finale a cui tutto tende, "immobile" perché causa incausata, essendo già realizzato in sé stesso come «atto puro».25

Tutti gli enti risentono della sua forza d'attrazione perché l'essenza, che in costoro è ancora qualcosa di potenziale, in Lui giunge a coincidere con l'esistenza, cioè è tradotta definitivamente in atto: il Suo essere non è più una possibilità, ma una necessità. In Lui tutto è compiuto perfettamente, e non v'è nessuna traccia del divenire, perché questo è appunto solo un passaggio. Non vi è neppure l'imperfezione della materia che continua invece a sussistere negli enti inferiori, i quali sono ancora una mescolanza, un insieme non coincidente di essenza ed esistenza, di potenza ed atto, di materia e forma.

« Il primo motore dunque è un essere necessariamente esistente, e in quanto la sua esistenza è necessaria si identifica col bene, e sotto tale profilo è principio. […] Se, pertanto, Dio è sempre in uno stato di beatitudine, che noi conosciamo solo qualche volta, un tale stato è meraviglioso; e se la beatitudine di Dio è ancora maggiore essa deve essere oggetto di meraviglia ancora più grande. Ma Dio, è appunto, in tale stato! »

(Aristotele, Metafisica XII (Λ), 1072, b 9-30)

Come nell'Essere di Parmenide, Dio è pienezza della sostanza e quindi pensiero puro. Per Aristotele infatti la migliore delle azioni è quella legata all'attività noetica, non essendo soggetta alla corruzione del divenire.26 Ma cosa pensa Dio? Evidentemente il pensiero più alto e cioè se stesso. La sua caratteristica principale è dunque la contemplazione autocosciente, fine a sé stessa, intesa come «pensiero di pensiero».

Gnoseologia

 Nell'ambito della filosofia della conoscenza, Aristotele sembra rivalutare l'importanza dell'esperienza sensibile, e tuttavia, al pari di Platone, mantiene fermo il presupposto secondo cui l'intelletto umano non si limita a recepire passivamente le impressioni sensoriali, ma svolge un ruolo attivo che gli consente di andare oltre le particolarità transitorie degli oggetti e di coglierne le cause.27

Esistono vari gradi del conoscere: secondo Aristotele all'inizio non ci sono idee innate nella nostra mente; questa rimane vuota se non percepiamo qualcosa attraverso i sensi. Ciò tuttavia non vuol dire che l'essere umano non abbia delle capacità innate di ordinare le conoscenze, raggruppandole in diverse classi e riuscendo a penetrare l'essenza propria di ciascuna di esse, con le quali stabilisce una corrispondenza.

Al livello più basso c'è la sensazione, che ha per oggetto entità particolari. La sensazione in potenza può sentire di tutto, ma solo nel momento in cui mette in atto una percezione specifica avviene il «sentire di sentire», che appartiene al cosiddetto senso «comune». La sensazione in atto rende attuale lo stesso oggetto percepito, ad esempio è l'udito a dare vita al suono, facendolo passare all'essere. Al grado successivo interviene la fantasia, facoltà dell'anima, che ha la capacità di rappresentare gli oggetti non più presenti ai sensi, producendo le immagini:28 queste vengono ricevute dall'intelletto potenziale, per essere poi, in seguito a vari filtri, conservate dalla memoria, da cui nasce la generalizzazione dell'esperienza. Anche l'intelletto potenziale ha bisogno a sua volta di una realtà già in atto per potersi attivare. Ecco dunque che la conoscenza deve culminare infine con un trascendente intelletto attivo, che superando la potenza sappia vedere l'essenza in atto, ossia la forma. Questo passaggio supremo è reso possibile dall'intuizione (nous), la quale presuppone che la mente umana sia capace di pensare se stessa, ovvero sia dotata di consapevolezza e libertà; solo così essa può riuscire ad "astrarre" l'universale dalle realtà empiriche. L'approdo dal particolare all'universale, inizialmente avviato tramite i sensi dall'epagoghè (termine traducibile impropriamente con induzione) non possiede infatti nessun carattere di necessità o di consequenzialità logica, dato che la logica di Aristotele, a differenza di quella moderna, è solo deduttiva.29 L'induzione per lui funge unicamente da stimolo, o sollecitazione, di un processo definitorio che comporta alla fine un'esperienza di tipo contemplativo:30

« Non si può dire che il definire qualcosa consista nello sviluppare un'induzione attraverso i singoli casi manifesti, stabilendo cioè che l'oggetto nella sua totalità deve comportarsi in un certo modo […] Chi sviluppa un'induzione, infatti, non prova cos'è un oggetto, ma mostra che esso è, oppure che non è. In realtà, non si proverà certo l'essenza con la sensazione, né la si mostrerà con un dito. »

(Aristotele, Analitici secondi II, 7, 92a-92b)

La conoscenza noetica che ne risulterà consiste quindi nella corrispondenza tra realtà e intelletto: come la sensazione s'identifica con ciò che è sentito, così l'intelletto attivo o agente (indicato col termine nùs poietikòs)31 coincide con la verità del suo stesso oggetto,32 implicando una componente divina in grado di farlo passare all'atto, per cui ad esempio un libro è un oggetto in potenza, che diventa un libro in atto solo quando viene pensato.33

Logica

 Distinta dall'intelletto (nous) è la Logica, conoscenza dianoetica  del pensiero discorsivo (diànoia),34 che Aristotele teorizza nella forma rigorosamente deduttiva del sillogismo:35 mentre l'intuizione (νούς) fornisce le verità supreme della conoscenza, la logica ne trae soltanto delle conclusioni formalmente corrette, scendendo dall'universale al particolare.3637

Il termine propriamente utilizzato da Aristotele, infatti, non è logica ma analitica,38 ("analisi" dal greco ἀνάλυσις - analysis- derivato di ἀναλύω - analyo) che vuol dire appunto "scomporre, risolvere nei suoi elementi", per indicare la risoluzione di un'asserzione nei suoi elementi costitutivi. In tal senso non è propriamente una scienza quanto uno strumento: non rientra né tra le scienze poetiche, né tra quelle pratiche né tra quelle teoretiche.39 Oggi la filosofia considera la logica come una scienza a se stante priva di contenuto ontologico, per Aristotele invece è una prima fondamentale facoltà, propedeutica a tutte le altre scienze,40 che si occupa della struttura dell'oggetto, ossia dell'essere, in virtù della necessaria corrispondenza tra le forme del pensiero (analitica) e quelle della realtà (metafisica): una corrispondenza già data dal nous o intelletto, che la logica si limita a scomporre nelle sue parti.

Alla logica aristotelica fu successivamente attribuito anche il termine di "Organon" (strumento) che le venne assegnato per la prima volta da Andronico di Rodi (I secolo a.C.) e ripreso da Alessandro di Afrodisia (II-III secolo d.C.)41 che lo riferì agli scritti aristotelici che hanno come tema l'Analitica.

Analitici primi e Analitici posteriori

Schema esemplificativo del sillogismo

 Negli Analitici primi, prima parte della Logica, Aristotele espone le leggi che la guidano: non dimostrabili ma intuibili con un atto immediato,42 sono il principio di identità, per il quale A = A, e quello di non-contraddizione, per cui A ≠ non-A.

Il sillogismo è un ragionamento concatenato che, partendo da due premesse di carattere generale, una "maggiore" e una "minore", giunge ad una conclusione coerente su un piano particolare. Sia le premesse che la conclusione sono proposizioni espresse nella forma soggetto-predicato. Un esempio di sillogismo è il seguente:

      1.       Tutti gli uomini sono mortali;

      2.       Socrate è uomo;

      3.       dunque Socrate è mortale.



Attraverso il sillogismo, la logica permette di ordinare in gruppi o categorie tutto ciò che si trova in natura, a condizione però di partire da premesse vere e certe:43 i sillogismi infatti di per sé non danno nessuna garanzia di verità. Questo perché i princìpi primi, da cui il ragionamento prende le mosse, non possono essere a loro volta dimostrati, dato che proprio da essi deve scaturire la dimostrazione; solo l'intuizione intellettuale, opera dell'intelletto attivo, può dare loro un fondamento oggettivo e universale,44 tramite quel processo conoscitivo sovra-razionale, che partendo come si è visto dall'epagoghé, culmina nell'astrazione dell'essenza.45 Da questa poi la logica trarrà soltanto delle conseguenze coerenti da un punto di vista formale, facendo ricorso ai giudizi predicativi che corrispondono alle dieci categorie dell'essere.

Dialettica

 Mentre la logica o analitica studia la deduzione a partire da premesse vere, la dialettica in Aristotele è semplicemente la tecnica con la quale uscire vittoriosi da una discussione. Questo successo, che non esclude comunque un effettivo raggiungimento della verità,46 deriva dal prevalere con la propria tesi su quella sostenuta dall'avversario, nel rispetto di premesse su cui ci si è messi d'accordo prima dell'inizio del confronto: difatti la confutazione, l'aver ottenuto ragione e quindi l'aver vinto, si basava proprio sul portare l'interlocutore ad autocontraddirsi, mostrando dunque come la sua tesi, se sviluppata, avrebbe condotto a risultati illogici nei confronti delle premesse iniziali, considerate vere da entrambi. Certo era necessario che le premesse fossero considerate vere dal pubblico che assisteva al confronto, pertanto non di rado si sceglieva di accordarsi su premesse che fossero ritenute vere dai membri più influenti della società, così che essi potessero influenzare anche l'opinione altrui. La tecnica dialettica necessitava di un'ottima conoscenza delle parole e dei modi di unirle in proposizioni e, ancora, in periodi, pertanto il filosofo postula alcune teorie, quali quella della proposizione e quella del sillogismo, che permettono di capire come debba funzionare nei vari casi la parola. Prima di queste teorie, si sofferma sulla spiegazione dell'esistenza di parole univoche ed equivoche, ovvero da uno o più significato: deve essere la loro conoscenza accurata il primo necessario requisito per l'esperto di dialettica.

Teoria della proposizione

 Una proposizione è un insieme di termini (o parole) i quali danno vita a un'affermazione, un giudizio. Questo può essere vero o falso, in base al riscontro con la realtà, mentre i singoli termini di per sé non possono essere veri o falsi se considerati da soli. Neppure tutte le proposizioni però rientrano nella dimensione del vero o falso: preghiere, invocazioni, ordini, sono destinati all'ambito poetico e di questi Aristotele non si occupa. Egli invece si occupa delle frasi a cui sole può essere riconosciuta la possibilità di essere vere o false, chiamandole categoriche, o dichiarative, o apofantiche. Le proposizioni categoriche possono avere qualità affermativa o negativa, e quantità universale (quando il soggetto è un genere e vi sono inclusi tutti gli appartenenti) particolare (si fa riferimento solo a una parte degli enti di un genere) o singolari (il soggetto è un individuo singolo), in base alla maggiore o minore generalità del soggetto. Aristotele non si preoccupa delle proposizioni singolari, soffermandosi solo sulle proposizioni affermative e negative, universali e particolari. Combinando questi tipi di proposizioni, risultano esserci quattro tipi di proposizioni-modello per il filosofo:

    •     universale affermativa,

    •     universale negativa,

    •     particolare affermativa,

    •     particolare negativa.



L'Etica

« La dignità non consiste nel possedere onori ma nella coscienza di meritarli. »

(Aristotele47)

 L'etica di cui tratta Aristotele attiene alla sfera del comportamento (dal greco ethos), ossia alla condotta da tenere per poter vivere un'esistenza felice. Coerentemente con la sua impostazione filosofica, l'atteggiamento più corretto è quello che realizza l'essenza di ognuno. Ne consegue l'identificazione di essere e valore: quanto più un ente realizza la propria ragion d'essere, tanto più esso vale. L'uomo in particolare realizza se stesso praticando tre forme di vita: quella edonistica, incentrata sulla cura del corpo, quella politica, basata sul rapporto sociale con gli altri, e infine la via teoretica, situata al di sopra delle altre, che ha come scopo la conoscenza contemplativa della verità.

Le tre modalità di condotta vanno comunque integrate fra loro, senza privilegiare l'una a discapito dell'altra. L'uomo infatti deve saper sviluppare e assecondare armonicamente tutte e tre le potenzialità dell'anima che contraddistinguono il proprio essere o entelechia, e da Aristotele identificate con:

    •     l'anima vegetativa, comune anche alle piante e agli animali, che attiene ai processi nutritivi e riproduttivi;

    •     l'anima sensitiva, comune agli animali, che attiene alle passioni e ai desideri;

    •     l'anima razionale, che appartiene soltanto all'uomo, e consiste nell'esercizio dell'intelletto.



Sulla base di questa tripartizione,48 Aristotele individua il piacere e la salute come scopo finale dell'anima vegetativa, risultante dall'equilibrio tra gli eccessi opposti, evitando ad esempio di mangiare troppo, o troppo poco. All'anima sensitiva egli assegna invece le cosiddette virtù etiche,49 che sono abitudini di comportamento acquisite allenando la ragione a dominare sugli impulsi, attraverso la ricerca del «giusto mezzo» fra estreme passioni:50 ad esempio il coraggio è l'atteggiamento mediano da preferire tra la viltà e la temerarietà. Essendo l'uomo un «animale sociale», l'equilibrio è ciò che deve guidare i suoi rapporti con gli altri; questi devono essere improntati al giusto riconoscimento degli onori e del prestigio derivanti dall'esercizio delle cariche pubbliche. Le diverse virtù etiche sono quindi tutte riassunte dalla virtù della giustizia.

 Virtù etiche

 Virtù dianoetiche



    •    Giustizia

    •    Coraggio

    •    Temperanza

    •    Liberalità

    •    Magnificenza

    •    Magnanimità

    •    Mansuetudine

    •    





    •    Virtù calcolative

    •    Arte

    •    Prudenza

    •    



    •    Virtù scientifiche

    •    Sapienza

    •    Scienza

    •    Intelligenza

    •    

    •    



All'anima razionale infine Aristotele assegna le cosiddette virtù dianoetiche, suddivise in calcolative e scientifiche. Le facoltà calcolative hanno una finalità pratica, sono strumenti in vista di qualcos'altro: l'arte (tèchne) ha un fine produttivo, la saggezza o prudenza (phrònesis) serve a dirigere le virtù etiche, oltre a guidare l'azione politica. Se queste virtù vanno perseguite in vista di un bene più alto, alla fine tuttavia deve pur sussistere un bene da perseguire per sé stesso. Le facoltà scientifiche, mirando alla conoscenza disinteressata della verità, non si prefiggono appunto nessun altro obiettivo al di fuori della sapienza in sé (sophìa). A questa virtù suprema concorrono le due facoltà conoscitive della gnoseologia: la scienza (epistème), che è la capacità della logica di compiere dimostrazioni; e l'intelligenza (nùs), che fornisce i princìpi primi da cui scaturiscono quelle dimostrazioni. Aristotele introduce così una concezione della sapienza intesa come "stile di vita" slegato da ogni finalità pratica, e che pur rappresentando l'inclinazione naturale di tutti gli uomini solo i filosofi realizzano a pieno, mettendo in atto un sapere che non serve a nulla, ma proprio per questo non dovrà piegarsi a nessuna servitù: un sapere assolutamente libero. La contemplazione della verità è quindi un'attività fine a sé stessa, nella quale consiste propriamente la felicità (eudaimonìa), ed è quella che distingue l'uomo dagli altri animali rendendolo più simile a Dio, già definito da Aristotele come «pensiero di pensiero», pura riflessione autosufficiente che nulla deve ricercare al di fuori di sé.

« Se in verità l'intelletto è qualcosa di divino in confronto all'uomo, anche la vita secondo esso è divina in confronto alla vita umana. »

(Aristotele, Etica Nicomachea, X.7, 1177 b30-31)

La politica

 L'etica di Aristotele, che pone l'accento sul «giusto mezzo» come via maestra per diventare persone felici e armoniche, segue da vicino i dettami della scienza medica greca, basata similmente sull'equilibrio e la moderazione. Allo stesso modo, le tre possibili forme politiche dello Stato (monarchia, aristocrazia, e politeia) devono guardarsi dall'estremismo delle loro rispettive degenerazioni: tirannide, oligarchia e democrazia (o oclocrazia).51 La politeia è realisticamente la migliore fra le tre costituzioni perché, facendo leva sul ceto medio benestante, è più incline alla misura e alla stabilità: essa prende il meglio della democrazia e dell'oligarchia, pervenendo ad una loro commistione. Nella politeia infatti  le cariche pubbliche sono elettive, come nell’oligarchia, ma indipendenti dal censo, come nella democrazia 52. Quest'ultima invece è un governo dei poveri che, in quanto tali, possono portare a scompaginare lo Stato per cercare di sottrarre ai ricchi i loro beni.53 Dal momento che la massa dei cittadini è solitamente costituita dai meno abbienti, la democrazia si identifica con l'oclocrazia.54

Il concetto di Philia

 Nell'ottavo e nel nono libro dell'Etica Nicomachea Aristotele tratta anche del concetto d'amicizia (in greco philìa, φιλία). Il filosofo comincia facendo l'analisi dei diversi fondamenti dell'amicizia: l'utile, il piacere e il bene; da questi derivano le tre tipologie d'amicizia: quella di utilità, di piacere, e di virtù. L'amicizia di utilità è tipica dei vecchi, quella di piacere degli uomini maturi e dei giovani; gli amici in queste due tipologie non si amano di per se stessi ma solamente per i vantaggi che traggono dal loro legame: per tale motivo questi tipi di amicizia, basandosi sui bisogni e desideri umani, che sono volubili, si creano e si dissolvono con facilità. L'unica vera amicizia è quella di virtù, stabile perché si fonda sul bene, caratteristica degli uomini buoni. L'amicizia di virtù presuppone due condizioni fondamentali: l'uguaglianza fra gli amici (a livello di intelligenza, ricchezza, educazione ecc.) e la consuetudine di vita. L'amicizia si distingue dalla benevolenza, che può non essere corrisposta, e dall'amore, perché nell'amore entrano in gioco fattori istintuali. Aristotele tuttavia non esclude che un rapporto d'amore possa trasformarsi poi in una vera e propria amicizia. La philia aristotelica esprime quindi il legame tra amicizia e reciprocità, fondato sul riconoscimento dei meriti e sul reciproco desiderio del bene per l'altro.

L'arte

 L'arte, per Aristotele, è mimesi o imitazione, e non è negativa, come in Platone, ma significa essere creativi come lo è la natura. L'arte è un'attività che, lungi dal riprodurre passivamente la parvenza della realtà, quasi la ricrea secondo una nuova dimensione: è la dimensione del possibile e del verosimile. Sotto questo punto di vista, l'arte è una forma di conoscenza non logica ma simbolica. Rappresenta l'analogo della scienza: lo storico scrive fatti realmente accaduti, il poeta fatti che possono accadere.

Cosmologia

I quattro elementi e le loro relazioni

 Aristotele tratta nelle sue opere (in particolare nella Fisica) della conformazione dell'universo. Aristotele propone un modello geocentrico, che pone cioè la Terra al centro dell'universo.

Secondo Aristotele, la Terra è formata da quattro elementi: la terra, l'aria, il fuoco e l'acqua. Le varie composizioni degli elementi costituiscono tutto ciò che si trova nel mondo. Ogni elemento possiede due delle quattro qualità (o «attributi») della materia:

    •     il secco (terra e fuoco),

    •     l'umido (aria ed acqua),

    •     il freddo (acqua e terra),

    •     il caldo (fuoco e aria).

Ogni elemento ha la tendenza a rimanere o a tornare nel proprio luogo naturale, che per la terra e l'acqua è il basso, mentre per l'aria e il fuoco è l'alto. La Terra come pianeta, quindi, non può che stare al centro dell'universo, poiché è formata dai due elementi tendenti al basso, e il "basso assoluto" è proprio il centro dell'universo.

Riguardo a ciò che si trova oltre la Terra, Aristotele lo riteneva composto di un quinto elemento (o essenza): l'etere. L'etere, che non esiste sulla Terra, sarebbe privo di massa, invisibile e, soprattutto, eterno ed inalterabile: queste due ultime caratteristiche sanciscono un confine tra i luoghi sub-lunari del mutamento (la Terra) e i luoghi immutabili (il cosmo).

Aristotele riteneva che i corpi celesti si muovessero su sfere concentriche (in numero di cinquantacinque, ventidue in più delle 33 di Callippo). Oltre la Terra per lui vi erano, in ordine, la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove, Saturno, il cielo delle stelle fisse e, infine, il primo mobile, che metteva tutte le altre sfere in movimento, e della cui natura peraltro Aristotele ebbe qualche difficoltà a dare una definizione precisa. Esso risulta mosso direttamente dalla causa prima, identificabile con la divinità suprema (mentre le altre divinità risiedevano all'interno del cosmo), in una maniera tuttavia non meccanica o causale, dato che Dio, essendo «atto puro», è assolutamente immobile, oltre ad essere privo di materia e quindi non localizzabile da nessuna parte. Il primo mobile piuttosto si muove per un desiderio di natura intellettiva, cioè tende a Dio come propria causa finale. Cercando dunque di imitare la sua perfetta immobilità, esso è contraddistinto dal moto più regolare e uniforme che ci sia: quello circolare.55

Aristotele era convinto dell'unicità e della finitezza dell'universo: l'unicità perché se esistesse un altro universo sarebbe composto sostanzialmente dei medesimi elementi del nostro, i quali tenderebbero, per i luoghi naturali, ad avvicinarsi al nostro fino a ricongiungersi completamente con esso, ciò che prova l'unicità del nostro universo; la finitezza perché in uno spazio infinito non potrebbe esistere alcun centro, ciò che contravverrebbe alla teoria dei luoghi naturali.

Biologia

 Aristotele ha fondato la biologia come scienza empirica, compiendo un importante salto di qualità (almeno stando alle fonti che ci sono rimaste) nell'accuratezza e nella completezza descrittiva delle forme viventi, e soprattutto introducendo importanti schemi concettuali che si sono conservati nei secoli successivi.

L'Historia animalium contiene la descrizione di 581 specie diverse, osservate per lo più durante la permanenza in Asia Minore e a Lesbo. Questi dati biologici vengono organizzati e classificati nel De partibus animalium, nel quale vengono introdotti concetti fondamentali come quello di viviparità e oviparità, e sono impiegati criteri di classificazione delle specie in base all'habitat o a precise caratteristiche anatomiche, che sono in gran parte rimasti inalterati fino a Linneo. Un altrettanto importante conquista intellettuale è lo studio sistematico di quella che oggi chiamiamo anatomia comparata, che permette ad esempio ad Aristotele di classificare Delfini e Balene tra i mammiferi (essendo essi dotati di polmoni e non di branchie come i pesci).

Il De generatione animalium si occupa del modo in cui gli animali si riproducono. In quest'opera la generazione viene interpretata come trasmissione della forma (di cui è portatore il seme maschile) alla materia (rappresentata dal sangue mestruale femminile). Secondo Aristotele le specie sono eterne ed immutabili, e la riproduzione non determina mai cambiamenti nella sostanza, ma solo negli accidenti dei nuovi individui. Molto interessante è lo studio che Aristotele compie sugli embrioni, grazie al quale egli comprende che essi non si sviluppano attraverso la crescita di organi già tutti presenti fin dal concepimento, ma con la progressiva aggiunta di nuove strutture vitali.

Alcuni limiti della biologia aristotelica (come la generale sottovalutazione del ruolo del cervello, che Aristotele credeva destinato a raffreddare il sangue) furono superati con la scoperta, avvenuta in epoca ellenistica, del sistema nervoso, in molti altri casi un superamento della biologia aristotelica si è avuto solo nel Settecento. Alcune delle sue osservazioni in ambito zoologico tuttavia sono state confermate solo nel XIX secolo.

Sulle donne

 L'analisi aristotelica della procreazione descrive un elemento maschile attivo e "animante" che porta la vita ad un inerte e passivo elemento femminile. Sulla base di ciò, e in forza della visione del filosofo relativa alle abilità della donna, al suo temperamento e al suo ruolo nella società, Aristotele è stato considerato un misogino da alcuni critici femministi contemporanei. Lo Stagirita è stato inoltre accusato dai femministi di essere un notevole ideologo storico del patriarcato, del sessismo e dell'ineguaglianza.

Aristotele, tuttavia, non faceva che rispecchiare in toto l'immagine della donna nella cultura greca, consegnata alla vita domestica ed esclusa dallo spazio pubblico.56 D'altra parte, Aristotele ha attribuito lo stesso peso alla felicità delle donne e a quella degli uomini. Nella sua Retorica commentò che una società non può essere felice, se anche la donna non lo è: in luoghi come Sparta, dove la sorte delle donne è spiacevole, ci può essere solo, nella società, una felicità dimezzata57.

La fortuna di Aristotele

 La fortuna di Aristotele in Occidente si deve, tra le altre cose, al fatto che è stato lui a fondare e ordinare le diverse forme di conoscenza, creando i presupposti e i paradigmi dei linguaggi specialistici che vengono usati ancora oggi in campo scientifico. Mirando a creare un sistema globale del pensiero, furono di importanza basilare le sue formulazioni sulla fisica e sulla metafisica, sulla teologia, sull'ontologia, sulla matematica, sulla poetica, sul teatro, sull'arte, sulla musica, sulla logica, sulla retorica, sulla politica e sui governi, sull'etica, sulla grammatica, sull'oratoria e sulla dialettica, sulla linguistica, sulla biologia e sulla zoologia.

Come pochi altri filosofi Aristotele ha avuto larga influenza su diversi pensatori delle epoche successive, che ammirarono il suo genio e analizzarono profondamente i suoi concetti: auctoritas metafisica nella Scolastica di Tommaso d'Aquino, oltre che nella tradizione islamica ed ebraica del Medioevo, il pensiero di Aristotele venne spesso ripreso nel Rinascimento. Anche Dante Alighieri lo ricorda nella Divina Commedia:

« Poi ch'innalzai un poco più le ciglia,
vidi 'l maestro di color che sanno
seder tra filosofica famiglia.
Tutti lo miran, tutti onor li fanno.58 »

Giungendo a influenzare gli studi di molti grandi filosofi del Novecento, gli elementi dell'aristotelismo sono oggetto di studio attivo ancora oggi, continuando a improntare di sé diversi aspetti della teologia cristiana. La filosofia del secondo Novecento ha inoltre sottolineato, con autori come Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, Alasdair MacIntyre o Philippa Ruth Foot, l'importanza per il dibattito odierno dell'impostazione etica di Aristotele, soprattutto per gli sviluppi che le furono dati da Tommaso d'Aquino.

Bibliografia



Per approfondire, vedi Aristotele (letteratura critica e bibliografia).

Edizione di riferimento delle citazioni delle opere aristoteliche:

    •    August Immanuel Bekker, Aristotelis Opera, G. Reimer, Berlino 1831-1870, 5 voll.

    •     ristampa a cura di Olof Gigon, De Gruyter, Berlino 1960-1961

Edizione dei testi di Laerzio e Cicerone citati:

    •    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Bompiani, Milano 2006 ISBN 88-452-3301-4

    •    Cicerone, Tuscolane, Milano, 1996 ISBN 88-17-17100-X

    •     Cicerone, La natura divina, Milano, 1998 ISBN 88-17-16828-9



Traduzioni italiane

    •    Opere, a cura di G. Giannantoni, 4 voll., Bari: Laterza, 1973.

    •    La Metafisica, a cura di G. Reale, Milano: Rusconi, 19782.

    •    Metafisica, a cura di C. A. Viano, Torino: UTET 2005 ISBN 88-02-07171-3.

    •    Fisica, a cura di R. Radice, Milano: Bompiani, 2011.

    •    Le categorie, a cura di M. Zanatta, Milano: BUR Rizzoli, 1989.

    •    De interpretatione, a cura di A. Zadro, Napoli: Loffredo, 1999.

    •    Analitici primi, a cura di M. Mignucci, Napoli: 0Loffredo, 1969.

    •    Analitici secondi, Organon IV. A cura di M. Mignucci, Bari: Laterza, 2007.

    •    Topici, a cura di A. Zadro, Loffredo, Napoli 1974.

    •    Le confutazioni sofistiche, Organon VI. A cura di P. Fait, Bari: Laterza, 2007.

    •    L'anima, introduzione, traduzione, note e apparati di Giancarlo Movia, testo greco a fronte, Milano: Rusconi, 19982.

    •    Etica Nicomachea, a cura di C. Mazzarelli, Milano: Rusconi, 1979.

    •    La poetica, a cura di C. Gavallotti, Milano: Valla-Mondadori, 1974.

    •    Retorica, a cura di Marco Dorati, Milano: Mondadori, 1996.

    •    La politica, a cura di C. Viano, Torino; UTET, 1966.

    •    Opere biologiche, a cura di M. Vegetti e D. Lanza, Torino: UTET, 1972.

    •    Trattato sul cosmo per Alessandro, a cura di G. Reale, Napoli: Loffredo, 1974 (l'attribuzione di quest'opera ad Aristotele è dubbia).

Letteratura critica

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    •    Enrico Berti, La filosofia del primo Aristotele, Cedam, Padova 1962

    •     Enrico Berti, Aristotele. Dalla dialettica alla filosofia prima, Cedam, Padova 1977 ISBN 88-452-3272-7

    •     Enrico Berti, Guida ad Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1997

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    •     Giuseppe Cambiano e Luciana Repici (a cura di), Aristotele e la conoscenza, LED Edizioni Universitarie, Milano 1993 ISBN 88-7916-035-4

    •     Ingemar Düring, Aristotele, trad. it., Mursia, Milano 1976

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    •     Armando Girotti, La filosofia di Aristotele, dal platonismo all'autonomia, Polaris, Faenza 1996

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    •    Jonathan Lear, Aristotle: the desire to understand, Cambridge University Press, 1988

    •     Walter Leszl, Il «De Ideis» di Aristotele e la teoria platonica delle idee, Olschki, Firenze 1975 ISBN 88-222-2204-0

    •    Giovanni Reale, Introduzione a Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1991

    •     Giovanni Reale,  Il concetto di "filosofia prima" e l’unità della Metafisica di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1994 ISBN 88-343-0554-X

    •     Giovanni Reale, Guida alla lettura della «Metafisica» di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 2007 ISBN 88-8420-524-7

    •     Roberto Radice (a cura di), La "Metafisica" di Aristotele nel XX secolo: bibliografia ragionata e sistematica, Milano, Vita e Pensiero, 1997

    •     William David Ross, Aristotele, Milano: Feltrinelli, 1982

Voci correlate









    •    Aristotelismo

    •    Essenza

    •    Horror vacui

    •    Metafisica aristotelica

    •    Questioni meccaniche

    •    Secretum Secretorum









    •    Etica (Aristotele)

    •    Fisica (Aristotele)

    •    Logica (Aristotele)

    •    Metafisica (Aristotele)

    •    Poetica (Aristotele)

    •    Sull'anima (Aristotele)





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    •     Aristotele e l'etica, sul portale RAI Filosofia

Controllo di autorità VIAF:  7524651 LCCN:  n79004182



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Epicureismo

 L'epicureismo è la filosofia della scuola di Epicuro.  Il termine ha nella storiografia filosofica due significati sovrapponibili ma non coincidenti. Da un lato esso sta ad indicare "la filosofia originaria di Epicuro", da un altro "la storia dei pensatori che, dalla sua enunciazione dal IV secolo a.C. al presente, si sono rifatti ad Epicuro": in altre parole, nel primo significa "il pensiero di Epicuro", nel secondo "la storia del pensiero dei seguaci di Epicuro", ed è questo il significato prevalente.

Epicuro

 La dottrina epicurea, di ispirazione atomista, s'innesta nel clima culturale ed etico dell'ellenismo che dopo la delusione politica seguita alla caduta della democrazia ateniese «subordina tutta la ricerca filosofica all'esigenza di garantire all'uomo la tranquillità dello spirito».1

Sul raggiungimento di questo obiettivo Epicuro fonda il suo pensiero su tre principi:

      1.      «il sensismo, cioè il principio per il quale la sensazione è il criterio della verità e il criterio del bene (il quale ultimo s'identifica perciò col piacere);

      2.      l'atomismo per il quale Epicuro spiegava la formazione e il mutamento delle cose mediante l'unirsi e il disunirsi degli atomi e la nascita delle sensazioni come l'azione di strati di atomi, provenienti dalle cose, sugli atomi dell'anima;

      3.      il semi-ateismo per il quale Epicuro riteneva che gli dèi esistono sì, ma non hanno alcuna parte nella formazione e nel governo del mondo.» 2



Dottrine



Per approfondire, vedi Epicuro#Il pensiero.

 Precisato quanto sopra, non è inopportuno incominciare a parlare di epicureismo considerandolo nel primo significato, per ricordare quali siano i fondamenti del pensiero del suo fondatore e le sue tesi principali. L'epicureismo, o filosofia del "giardino" è la dottrina filosofica di Epicuro. Il secondo nome deriva dal luogo, una casa con giardino appena fuori da Atene, dove egli dal 306 a.C. impartiva lezioni ai suoi discepoli. La sua filosofia si basa sull'atomismo pur discostandosi da Democrito e sull'eudemonismo intendendo con ciò la ricerca del piacere in modo diverso da come la concepiva Aristippo, allievo di Socrate.

Egli riprende la teoria degli atomi traendone conclusioni di tipo etico capaci di liberare l'uomo da alcune delle sue paure primordiali, come quella della morte. Ritiene che il criterio della verità sia la conoscenza sensibile, ovvero solo i sensi sono veri ed infallibili. Grazie alle impronte che le cose sensibili lasciano nell'anima l'uomo è in grado di formulare dei pregiudizi che però non sempre corrispondono alla verità.

La filosofia dei quattro farmaci (quadrifarmaco)

 Gli Epicurei, in primis il romano Lucrezio, il più noto dei seguaci di Epicuro (degli altri rimangono pochi frammenti filosofici, mentre di Lucrezio un intero poema), vedono nella filosofia la via d'accesso alla felicità, dove per felicità s'intende l'atarassia (liberazione dalle paure e dai turbamenti), contingentemente al raggiungimento del piacere. La filosofia, quindi, ha uno scopo pratico nella vita degli uomini; essa è uno strumento il cui fine è la felicità:

Metrodoro di Lampsaco, uno dei discepoli di Epicuro

« È vano il discorso di quel filosofo che non curi qualche male dell'animo umano. (Epicuro) »

Su questa convinzione, la ricerca scientifica atta all'investigazione delle cause del mondo naturale ha lo stesso fine della filosofia:

    •    Liberare gli uomini dal timore degli dèi, dimostrando che per la loro natura perfetta, essi non si curino delle faccende degli uomini (esseri imperfetti);

    •    Liberare gli uomini dal timore della morte dimostrando che essa non è nulla per l’uomo dal momento che "quando ci siamo noi, non c’è la morte, quando c’è la morte non ci siamo noi";

    •    Dimostrare l’accessibilità del limite del piacere, ossia la facile raggiungibilità del piacere stesso;

    •    Dimostrare la lontananza del limite del male, cioè la provvisorietà e la brevità del dolore. Epicuro infatti divide il dolore in due tipi: quello sordo, con cui si convive, e quello acuto, che passa in fretta.



Le tre prospettive fondamentali dell'epicureismo

 Epicuro segue la tripartizione della filosofia in: logica o «canonica», fisica ed etica.

Il sensismo e la canonica

 Questa è la logica che tenta di dare un criterio di verità, un canone, cioè una regola che serve all’uomo per orientarsi nella ricerca del piacere. Essa è dunque la teoria della conoscenza. Criterio della verità è costituito dalle sensazioni, dalle anticipazioni e dalle emozioni. Le sensazioni costituiscono il primo criterio di verità perché derivano dalla verità stessa. Le sensazioni, infatti, si formano dalle immagini (in greco εὶδολα) delle cose e queste si creano da un flusso costituito di atomi che si staccano dalle cose stesse (simulacra). Le sensazioni, dunque, derivano direttamente dalle cose e ne sono parte. Dunque sono vere. Il sensismo è il principio per il quale la sensazione è criterio di verità e, quindi, di bene (che poi si identifica con il piacere).

La moltitudine di sensazioni ripetute formano i concetti o anticipazioni, che sono gli schemi della nostra mente e fungono da riassunto mnemonico delle esperienze mentali e da anticipazioni di quelle future. I concetti, dal momento che derivano dalle sensazioni (primo criterio di verità) costituiscono, insieme ad esse, il criterio fondamentale della verità. Facciamo un esempio: un bambino deve imparare che cosa sia il fuoco la prima volta che lo sente. Impara dunque la sensazione del caldo, di pericolo e di paura. Dopo che avrà visto più fuochi, e li avrà “sentiti” tutte le volte, imparandoli a memoria, non solo non avrà più bisogno di sentirlo tutte le volte direttamente, perché ne avrà introiettato il concetto, ma potrà anche anticiparlo.

L’emozione consiste nel dolore e nel piacere e costituisce la norma per la condotta pratica della vita. Questa, pur non rientrando nel campo della logica, costituisce il terzo criterio della verità.  

Secondo gli epicurei, le sensazioni ed i concetti non possono essere fonti di errori perché non possono essere confermate da una sensazione/concetto omogenei, né da una sensazione/concetto che li confuti provenendo da un altro oggetto. L’opinione (la δοξα) invece è confermata come vera se confermata dalle testimonianze dei sensi. In questo meccanismo il ragionamento si trova ad essere in stretta connessione con i fenomeni percepiti e ha lo scopo di estendere la conoscenza anche a ciò risulta in un primo ordine di considerazioni oscuro alla sensazione stessa.

L'atomismo e la fisica

 La fisica secondo glibibbmistica democritea, e meccanicistica perché si avvale esclusivamente del principio del movimento dei corpi per spiegare tutto ciò che è fisico. Viene escluso, quindi, ogni possibile principio di finalismo. Ne deriva che tutto ciò che esiste, per gli epicurei, non può che essere corpo, dal momento che solo il corpo può agire o subire un’azione. Il vuoto (unico “non corpo”) è considerato necessario al movimento dei corpi, ma proprio per la sua natura incorporea è passivo, non agisce, non subisce. Come Democrito, gli epicurei ritengono che nel vuoto, infinito, vi siano corpi minuscoli e indivisibili che muovendosi si urtano, unendosi o dividendosi.

Unione di corpi è la vita, disgregazione di corpi è la morte. Al fine di ribadire l’idea del carattere accidentale e casuale dell’universo, Epicuro introdusse il concetto di clinamen, ovvero la possibilità degli atomi di deviare la direzione della loro caduta, dando vita così a nuove combinazioni; il clinamen motiva lo scontro tra atomi, che altrimenti non avverrebbe poiché secondo Epicuro le particelle, aventi tutte lo stesso peso, cadono dall'alto verso il basso alla stessa velocità e dunque in mancanza di una deviazione non si incontrerebbero mai; da questo segue che la direzione dei corpi non rispetta nessun disegno finalistico, ma è determinata unicamente dalla necessità intrinseca alla materia di muoversi.

, poeta epicureo romano

Il semi-ateismo e l'etica

 Altro principio fondamentale degli epicurei è la convinzione che gli dèi esistano, ma non si preoccupino minimamente dell'andamento delle cose terrene, né abbiano la minima intenzione di governare il mondo materiale. Essi si trovano negli intermundia (gli spazi che si trovano tra i molti mondi esistenti), ma esistono certamente, poiché, avendone l'uomo l'immagine mentale, ricollegandosi al criterio di verità epicureo della prolessi, è necessario appunto, affinché ci sia questa rappresentazione nella mente umana, che gli dèi esistano; inoltre, essi sono antropomorfi, perché la forma dell'uomo, secondo gli epicurei, è la più perfetta e razionale. In questa posizione, l'anima si trova ad essere un composto materiale di atomi che si diffondono nel corpo. Gli atomi dell'anima hanno una forma differente dagli altri, sono più sottili e rotondi.

Per gli epicurei la felicità è piacere e il piacere può essere in movimento (gioia) o stabile (assenza di dolore). Soltanto la totale assenza di dolore (aponia) e di turbamento (atarassia) sono eticamente accettabili e dunque costituiscono la vera felicità. Queste si raggiungono solo se si seguono quelli che gli epicurei definiscono "bisogni naturali" (per esempio, il nutrirsi). La limitazione qualitativa e quantitativa dei piaceri è il problema stesso della virtù etica, in quanto segno evidente della condizione umana. Proprio per questo i piaceri si dividono in naturali necessari (come, per esempio, il mangiare), naturali non necessari (come il mangiare troppo) e vani, cioè né naturali né necessari (ad esempio, l'arricchirsi): i primi devono essere assecondati, i secondi possono essere concessi ogni tanto, mentre i terzi devono essere assolutamente evitati.

Epicurei









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    •    Tito Albucio





Bibliografia

    •     Francesco Verde, Epicuro, Roma, Carocci 2013.

Collegamenti esterni

  Epicureismo in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Stoicismo

Busto dell'Imperatore Marco Aurelio, uno dei massimi rappresentanti dello stoicismo romano (nuova Stoa)

Lo stoicismo è una corrente filosofica e spirituale fondata intorno al 300 a.C.1 ad Atene da Zenone di Cizio, con un forte orientamento etico. Tale filosofia prende il suo nome dalla Stoà Pecìle o «portico dipinto» (in greco στοὰ  ποικίλη, Stoà poikíle) dove Zenone impartiva le sue lezioni. Gli stoici sostennero le virtù dell'autocontrollo e del distacco dalle cose terrene, portate all'estremo nell'ideale dell'atarassia, come mezzi per raggiungere l'integrità morale e intellettuale. Nell'ideale stoico è il dominio sulle passioni o apatìa che permette allo spirito il raggiungimento della saggezza. Riuscire è un compito individuale, e scaturisce dalla capacità del saggio di disfarsi delle idee e dei condizionamenti che la società in cui vive gli ha impresso. Lo stoico tuttavia non disprezza la compagnia degli altri uomini e l'aiuto ai più bisognosi è una pratica raccomandata.

Lo stoicismo fu abbracciato da numerosi filosofi e uomini di stato, sia greci che romani, fondendosi presso quest'ultimi con le tradizionali virtù romane di dignità e portamento. Il disprezzo per le ricchezze e la gloria mondana la resero una filosofia adottata sia da imperatori (come Marco Aurelio, autore dei Colloqui con se stesso) che da schiavi (come il liberto Epitteto). Cleante, Crisippo, Seneca, Catone, Anneo Cornuto e Persio furono importanti personalità della scuola stoica, alla quale si ispirò anche Cicerone.2

Origini e fasi

 Lo stoicismo nasce ad Atene dove Zenone di Cizio impartiva le sue lezioni, nella zona del portico affrescato dell'agorà (la Stoà Poikìle), da cui, come abbiamo detto, questa corrente di pensiero prende il nome. Le lezioni si tenevano sotto questi portici dipinti, poiché Zenone, non essendo ateniese ma un fenicio di Cipro, non aveva la possibilità di possedere una propria abitazione. La fase originaria di tale scuola di pensiero è detta Stoicismo antico.

Più tardi, a partire dall'introduzione di questa dottrina a Roma da parte di Panezio di Rodi, ha inizio il periodo dello Stoicismo medio. Si differenzia dal precedente per il suo carattere eclettico, in quanto influenzato sia dal platonismo che dall'aristotelismo e dall'epicureismo.

Infine, abbiamo il cosiddetto Stoicismo nuovo o romano, che abbandona la tendenza eclettica cercando di tornare alle origini.

Zenone di Cizio

 Il seguente schema mostra lo sviluppo cronologico delle varie fasi dello stoicismo e i personaggi più rappresentativi di ognuna di esse:

    •    Antico (III a.C.-II a.C.):

    •    Zenone di Cizio

    •    Cleante

    •    Crisippo

    •    

    •    Medio (II secolo-I a.C.):

    •    Panezio

    •    Posidonio

    •    Cicerone (parzialmente)

    •    

    •    Nuovo o romano (I d.C.-III d.C.):

    •    Seneca

    •    Plinio il Vecchio

    •    Epitteto

    •    Marco Aurelio

    •    

Dottrina stoica

 Gli stoici dividevano la filosofia in tre discipline: la logica, che si occupa del procedimento del conoscere; la fisica, che si occupa dell'oggetto del conoscere; l'etica, che si occupa della condotta conforme alla natura razionale dell'oggetto. Essi portavano un esempio: la logica è il recinto che delimita il terreno, la fisica l'albero e l'etica è il frutto.3

Logica

 La logica per gli stoici, a differenza di quanto avveniva nel pensiero greco precedente, non è solo uno strumento al servizio della metafisica, ma si pone come disciplina autonoma rispetto agli altri campi di indagine; essa comprendeva, oltre alla gnoseologia e alla dialettica, anche la retorica. Per "logica" infatti gli stoici intendevano non solo le regole formali del pensiero che si conformano correttamente al Lògos, ma anche quei costrutti del linguaggio con cui i pensieri vengono espressi. Non a caso Lògos può significare sia ragione che discorso; oggetto della logica quindi sono proprio i lògoi, ossia i ragionamenti espressi in forma di proposizioni (lektà).

In maniera simile alla gnoseologia aristotelica, per gli stoici il criterio supremo della verità è l'evidenza, che consente di riconoscere la validità dei princìpi-guida della logica. L'evidenza si basa in particolare sull'assenso (synkatáthesis) che la mente dà alla rappresentazione di un dato fenomeno. A differenza quindi della dottrina epicurea, la conoscenza non si fonda sulla semplice sensazione (àistesis), né sull'impressione che questa provoca nell'anima (phantasía): entrambe infatti, per via della loro instabilità, non potrebbero dare alle proposizioni il carattere di scienza che invece è necessario per poter distinguere correttamente il vero dal falso.4

Nel processo conoscitivo concorrono dunque due elementi:

    •     uno attivo, heghemonikòn, che consiste nelle anticipazioni mentali, cioè previsioni basate su conoscenze già acquisite, ma in grado di avere un ruolo di guida;

    •     e uno passivo, hypàrchon, che è appunto il semplice dato sensibile.

Mentre tuttavia per Zenone di Cizio l'evidenza-assenso riguardava unicamente la coscienza interiore di sé stessi o autocoscienza (oikeiosis) soltanto nella quale può aversi conformità alla legge universale del Lògos, con Cleante essa diventa comprensiva (kataleptikè) anche dei piani ontologici della realtà esterna, perché il Lògos che muove il pensiero razionale dell'uomo è in fondo lo stesso situato a fondamento dell'universo.

A partire dall'evidenza catalettica, che garantisce così la corrispondenza con la realtà, si struttura quindi la dialettica stoica, che comporta un ampliamento di indagine del sillogismo aristotelico, che viene ora inteso in un senso non solo deduttivo, ma anche ipotetico. Questo nuovo approccio consente di valutare un ragionamento in riferimento ad un evento reale, sulla base di un insieme di proposizioni legate tra loro da operatori logici (proposizioni complesse).5

Ad esempio, se in un ragionamento una o più premesse (lèmmata) vengono legate ad una premessa addizionale, si giunge a delle conclusioni (epiphorá),6 come nella seguente frase: «Se è giorno c'è luce; ma è giorno; dunque c'è luce». Questa può essere formalizzata in: «Se p allora q; ma p; dunque q», ovvero

((p→q)∧p)→q). Il seguente schema esemplifica le varie tipologie di proposizioni a seconda dell'operatore logico utilizzato:

TIPO

Connettore logico

Equivalente nella logica contemporanea

Esempio



Proposizione condizionale

SE



p→q

"Se è giorno, c'è luce"

Proposizione sub-condizionale

POICHÉ



(p→q)∧p

"Poiché è giorno, c'è luce"

Proposizione congiuntiva

E



p∧q

"Si è fatto giorno e c'è luce"

Proposizione disgiuntiva

O (esclusiva)



(p∨q)∧ ~

(p∧q)

"O è giorno, o è notte"

Mediante lo studio dei connettori logici, gli Stoici hanno dato vita a quella particolare disciplina che oggi è altrimenti conosciuta come logica proposizionale.

Il linguaggio in cui si esprime questa logica tuttavia non era per gli Stoici qualcosa di convenzionale, ma doveva rispondere al più alto compito dell'uomo, che consisteva nella contemplazione della verità, abbracciandola nella sua totalità. Scopo finale della gnoseologia stoica era infatti quello di rappresentarsi il corretto articolarsi del Lògos nel mondo, di coglierne cioè la struttura razionale, in vista dell'agire virtuoso (katòrthoma).7

Fisica

 Sebbene tutto il sistema fosse subordinato all'etica, questa si fondava a sua volta su un principio che ha origine nella fisica.

La fisica stoica deriva dalla concezione eraclitea del fuoco come forza produttiva e ragione ordinatrice del mondo. Da questo fuoco artigiano (πύρ τεχνικόν) si genera l'universo, il quale, in certi periodi determinati di tempo, si distrugge per tornare a rinascere dal fuoco in una nuova palingenesi, ristabilendosi ogni volta nel suo stato originario. Per questo motivo si è soliti parlare di un eterno ritorno (apocatastasi)8 che si produce ciclicamente sotto forma di conflitto universale, attraverso una conflagrazione o ecpirosi (εκπύρωσις). Ogni periodo che si produce dal fuoco e culmina nella sua distruzione attraverso il fuoco stesso è definito diakosmesis (διακόσμησις).

« La ricostituzione del tutto avverrà non una, ma più volte, o meglio le stesse realtà si ricostituiranno all'infinito e senza limite. E gli dèi, non essendo soggetti alla distruzione, ma succedendo ad ogni ciclo, conoscono perciò tutto quanto avverrà nei cicli successivi, perché non vi sarà nulla di diverso rispetto a ciò che è accaduto in precedenza. »

(Arnim, SVF, II, fr. 625)

Tale ordinamento è retto da una ragione (Λόγος) universale. Questa può essere intesa come un movimento incausato, eterno, inarrestabile, immanente, che pervade qualunque forma di essere, dal più semplice ed infimo fino al più grande e complesso, vivente e non vivente. Dalla sua azione scaturiscono due principi in cui il mondo risulta suddiviso: uno attivo, chiamato in vari modi (appunto logos, o Zeus, soffio, natura), ed uno passivo, che è la materialità delle cose.

Già Aristotele aveva affermato che la materia non potrebbe sussistere senza una forma, e quindi senza un Dio che, in quanto atto puro, è la causa del suo strutturarsi in un certo modo. Gli Stoici tuttavia eliminano ogni dualismo tra l'essere in potenza e l'essere in atto, sostenendo che Dio non sarebbe perfetto se la materia fosse ancora, in qualche modo, indipendente da Lui. Dio pertanto non solo produce le forme, ma rappresenta anche la materia stessa, l'elemento passivo che viene plasmato da quello attivo. Ciò significa che il Logos non è semplice corporeità, ma è la radice di ogni corporeità (lògos spermatikòs). Dio è un Pensiero che, nel pensare se stesso, pensa e crea anche l'universo, in un'unità inscindibile di spirito e materia.

Questo spirito o pneuma, che è riscaldato dal fuoco, raffreddandosi dà quindi origine all'acqua, e infine all'elemento solido (terra): sono i quattro elementi che compongono l'universo. Un altro termine utilizzato per indicare il soffio vitale che pone ordine nella materia inerte è «Anima del mondo», ripreso in particolare dal Timeo di Platone; in virtù di questo princìpio tutto l'universo risulta concepito come un unico grande organismo, regolato da intime connessioni (sympathèia) fra le sue parti. Esso è un tutto omogeneo, nel quale non ci sono zone vuote; contro Epicuro, gli stoici affermano la fluidità e penetrabilità dei corpi e, di conseguenza, la tesi per cui non tutto è materia: così, in maniera simile a quanto sosterrà Plotino, l'essere non esaurisce il «tutto». L'espressione comprensiva utilizzata dagli stoici per indicare sia gli enti che gli incorporei è ti, il «qualcosa», contrapposto al niente.9

L'ordine presente all'interno del cosmo è inoltre qualcosa di necessario: una necessità che non è da intendersi meccanicamente alla maniera degli atomisti, bensì in un'ottica finalistica. Nulla infatti avviene per caso: è il Fato, o il Destino, a guidare gli eventi. E poiché tutto accade secondo ragione, il Logos divino è anche Provvidenza (prònoia), in quanto predispone la realtà in base a criteri di giustizia, orientandola verso un fine prestabilito. La fisica stoica aderisce pertanto alla convinzione giusnaturalista che esista un diritto di natura, al quale è giusto conformarsi, e di cui le diverse legislazioni dei singoli Stati sono solo imperfette imitazioni.

« Il vivere secondo natura è vivere secondo virtù, cioè secondo la natura singola e la natura dell'universo, nulla operando di ciò che suole proibire la legge a tutti comune, che è identica alla retta ragione diffusa per tutto l'universo ed è identica anche a Zeus, guida e capo dell'universo. »

(Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi, VII, 88)

Etica

 L'etica stoica si fonda sul principio che l'uomo è partecipe del lógos e portatore di una "scintilla" di fuoco eterno. L'essere umano è l'unica creatura, fra tutti i viventi, nel quale il Lògos si rispecchia perfettamente: egli è pertanto un microcosmo, una totalità nel quale tutto l'universo è riprodotto.

La virtù consiste nel vivere in modo conforme (ομολογία) alla natura del mondo, secondo il princìpio di conservazione (oikeiosis). Mentre gli animali tendono a preservare se stessi obbedendo agli impulsi, gli uomini devono scegliere sempre quel che conviene alla nostra natura di esseri razionali. Il princìpio-guida della condotta quindi non può essere la ricerca del piacere come sostengono gli epicurei:

« Il piacere, se mai esiste, è un prodotto successivo, quando la natura, dopo aver cercato le cose adatte, lo fornisce in sé e per sé alla costituzione: e in questo modo gli animali appaiono lieti e le piante fioriscono. »

(Arnim, SVF, III, 178)

Seneca

 La guida dell'azione va invece ricercata, ancora una volta, nel princìpio attivo dell'anima (heghemonikòn), al quale deve sottostare quello passivo (pàthos). Sono le passioni infatti che impediscono l'adeguamento della condotta umana alla razionalità. Raggiungendo lo stato di dominio sulle passioni o apatia (απάθεια), ciò che poteva apparire come male e dolore si rivela come un elemento positivo e necessario; anche la malattia e la morte quindi vanno accettate. Si tratta di un'etica del dovere riassunta da Epitteto nel celebre motto «ανέχoυ καί απέχoυ» («sopporta e astieniti»), non tanto come invito a sopportare il dolore e astenersi dai piaceri, ma ad accogliere serenamente quel che riserva il destino evitando però di farsi coinvolgere emotivamente.

Questo è anche il senso della famosa metafora stoica che paragona la relazione uomo-Universo a quella di un cane legato ad un carro. Il cane ha due possibilità: seguire armoniosamente la marcia del carro o resisterle. La strada da percorrere sarà la stessa in entrambi i casi; ma se ci si adegua all'andatura del carro, il tragitto sarà armonioso. Se, al contrario, si oppone resistenza, la nostra andatura sarà tortuosa, poiché saremo trascinati dal carro contro la nostra volontà. L'idea centrale di questa metafora è espressa in modo sintetico e preciso da Seneca, quando sostiene: «Ducunt volentem fata, nolentem trahunt» («Il destino guida chi lo accetta, e trascina chi è riluttante»).10

Gli stoici e il suicidio

 Avendo imparato che i mali sono tali solo in apparenza, lo stoico può anche accettare il suicidio come atto conclusivo del compito riservatogli dal destino, purché sia appunto una scelta deliberata e non dettata da un impulso momentaneo. Dev'essere perciò un atto razionalmente giustificato: secondo Seneca, ad esempio, anche se il saggio deve giovare allo stato (res publica minor), il suo servigio non può arrivare fino a compromettere la sua stessa integrità morale, per salvare la quale egli dev'essere pronto all'extrema ratio del suicidio. Lui stesso si tolse la vita in seguito alla condanna a morte da parte di Nerone. La vita non è, infatti, come la saggezza e la virtù, cioè un bene di cui nessuno ci può privare; la vita è piuttosto come la ricchezza, gli onori, o gli affetti: uno di quei beni, cioè, che il saggio deve essere pronto a restituire quando la sorte li chieda indietro.11 Tra gli stoici che scelsero il suicidio vi furono Catone Uticense, per protesta contro Cesare; il suo genero Marco Giunio Bruto, uno dei cesaricidi, per evitare di cadere vivo nelle mani di Ottaviano e Marco Antonio; secondo alcuni lo stesso Zenone di Cizio.12

La saggezza

 La saggezza stoica consiste nella capacità di raggiungere la felicità, ed è per questo incentrata sull'atarassia, o imperturbabilità dell'animo, concetto derivante in gran parte dalla scuola cinica. Ad essa si approda innanzitutto diventando padroni di sé stessi. Secondo gli stoici, la volontà del saggio aderisce perfettamente al suo dovere (kathèkon), obbedendo a una forza che non agisce esteriormente su di lui, bensì dall'interno. Egli vuole quel che deve, e deve quel che la sua stessa ragione gli impone. Lo stoicismo non è dunque una sorta di esercizio forzato di vita, perché tutto, nell’esistenza del saggio, scorre pacificamente.

E poiché il Bene consiste nel vivere secondo il Lògos, il male è solo ciò che in apparenza vi si oppone. Ne risultano così tre tipologie di azioni:

      1.       quelle dettate dalla ragione, come il rispetto per i genitori, gli amici e la patria;

      2.       quelle contrarie al dovere, e quindi da evitare, in quanto irrazionali ed emotive;

      3.       quelle «indifferenti» sia al bene che al male (adiáphora), come ad esempio sollevare una pagliuzza, o tenere una penna.



È in quest'ultima categoria che però rientrano di fatto anche tutte quelle azioni in grado di determinare salute, ricchezza, potere, schiavitù, ignominia, ecc. Queste qualità per gli stoici non hanno importanza, perché non esistono beni intermedi: la felicità o l'infelicità dipendono unicamente da noi, non possono essere il risultato di una mediazione. Da qui la netta contrapposizione: o si è sapienti, o si è stolti, tutto il resto è indifferente.13 Nessuno, di conseguenza, è schiavo per natura, l'essere umano è assolutamente libero di approdare alla saggezza, mentre schiavo è soltanto colui che si fa dominare dalle passioni.

Avendo fiducia di come tutto sia regolato necessariamente dal Λόγος, il saggio è tale in quanto abbandona il punto di vista relativo dell’io individuale per assumere un punto di vista assoluto, una visione della realtà sub specie aeternitatis. Al punto culminante del suo complesso itinerario spirituale, reso possibile dalla filosofia, egli approda così ad un'unione mistica e ascetica con il tutto.14 Logica, fisica ed etica vanno pensati proprio come una scala che conduce verso la contemplazione finale. E l’etica, il cui frutto è la virtù, rappresenta l’ultimo gradino: si recupera in tal modo da Socrate la concezione intellettuale dell'etica, per cui il Bene è uno solo, e scaturisce dall'unico vero sapere.

Attivismo politico

Catone Uticense, uno dei massimi esponenti della morale e dell'attivismo politico stoici

Essendo spirito e materia uniti indissolubilmente, la saggezza dagli Stoici non è concepita come un'attività puramente intellettuale, ma anche propedeutica all'agire. Il concetto di apatia, che a molti potrebbe apparire come una sorta di stolta indifferenza, e che oggi ha assunto un connotato per lo più negativo, è al contrario il risultato della virtù che si attua in aderenza alle leggi del Lògos. Solo compiendo il proprio dovere, infatti, l'uomo può identificarsi con esso, diventando ciò che egli da sempre è. A differenza dei cinici, dunque, fra i doveri principali degli uomini, in quanto esseri razionali, vi è soprattutto la politica. Questa nuova forma di attivismo fu introdotta in particolare quando alcuni esponenti della media-stoà, come Panezio, entrarono in contatto con l'ambiente romano. Fu così che numerosi stoici dell'antichità divennero attivi statisti, dediti all'esercizio del bene pubblico. In loro si avverte soprattutto una dimensione cosmopolita, che scaturisce da quel sentimento di compassione e partecipazione agli eventi del mondo proprio della sympathèia, ossia dell'intima connessione esistente tra la sfera dell'uomo e quella dell'Anima cosmica: essi sono sudditi di una patria universale, non c'è avvenimento che non li riguardi.

L'«indifferenza stoica» del primo periodo venne perciò modificata: in maniera maggiormente simile a quanto affermava Aristotele nella sua Etica Nicomachea, se i mali o i beni materiali sono indifferenti per il raggiungimento della virtù, non per questo è da ignorare tutto ciò che può dare un prezioso contributo in tal senso: esistono anche beni che, se di per sé non danno la felicità, sono però preferibili (proegména) rispetto ad altri. Questo mutamento di prospettiva avvenne quando Panezio si rese conto che l'ideale stoico della saggezza poteva apparire vuoto e astratto, rischiando di mettere in crisi l'intera dottrina dell'etica. Diogene Laerzio riferisce in proposito:

« Panezio e Posidonio sostengono che la virtù non è sufficiente, ma occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza. »

(Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei filosofi, VII, 128)

Sarà invece con la nuova Stoà che verrà recuperata una concezione dell'etica nuovamente rigorosa sul modello di quella antica, pur mantenendo delle notevoli tendenze al cosmopolitismo e al filantropismo. Cicerone parla di humanitas, sentimento di benevolenza e solidarietà disinteressata verso i suoi simili. Epitteto affermerà di sentire tutti gli uomini come suoi fratelli, essendo al pari di lui ugualmente figli dello stesso Lògos.15

Bibliografia

    •    Max Pohlenz, La Stoa. Storia di un movimento spirituale, Bompiani 2006

    •    Margherita Isnardi Parente, Introduzione allo stoicismo ellenistico, Laterza 2004

    •     Mario Mignucci, Il significato della logica stoica, Pàtron, Bologna 1965

    •     Jean-Joël Duhot, Epitteto e la saggezza stoica, trad. a cura di P. Brugnoli, Borla edizioni, 1999

    •    Pierre Hadot, La cittadella interiore. Introduzione ai "Pensieri" di Marco Aurelio, Vita e Pensiero, Milano 1996

    •     Francesca Alesse, La stoa e la tradizione socratica, Bibliopolis, 2000

    •     Roberto Radice, Oikeiosis. Ricerche sul fondamento del pensiero stoico e sulla sua genesi, introduzione di Giovanni Reale, Vita e Pensiero, Milano 2000 ISBN 88-343-0516-7

    •     Jean Brun, Lo stoicismo, trad. a cura di L. Salomoni, Xenia, 1998

    •     Giuseppe Giliberti, Cosmopolis. Politica e diritto nella tradizione cinico-stoica, Studio LFA, 2002

    •     Anna Maria Ioppolo, Aristone di Chio e lo stoicismo antico, Napoli, Bibliopolis, 1980

    •     Michele Alessandrelli, Il problema del lekton nello Stoicismo antico. Origine e statuto di una nozione controversa, Firenze, Olschki, 2013

Testi

    •     Hans Von Arnim, Stoicorum veterum fragmenta, Lipsia 1903 (abbreviato in SVF)

    •     R. Radice (a cura di), Stoici antichi. Tutti i frammenti secondo la raccolta di Hans Von Arnim, Rusconi editore, Milano 1998 ISBN 88-18-22035-7

    •     M. Isnardi Parente (a cura di), Stoici antichi, Utet, Torino 1989, 2 voll.

    •    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, testo greco a fronte, a cura di Giovanni Reale con la collaborazione di Giuseppe Girgenti e Ilaria Ramelli, Bompiani, Milano 2005

    •    Lucio Anneo Seneca, Tutte le opere. Dialoghi, trattati, lettere e opere in poesia, a cura di G. Reale, Bompiani, 2000 ISBN 978-88-452-9073-2

    •    Epitteto, Tutte le opere. Testo greco a fronte, a cura di G. Reale e C. Cassanmagnago, Bompiani, 2009 ISBN 88-452-6399-1

    •    Marco Aurelio, Colloqui con se stesso. Testo greco a fronte, a cura di N. Gardini, Medusa edizioni, 2005 ISBN 88-7698-015-6

Voci correlate

    •    Filosofi stoici

    •    Oikeiosis

Altri progetti

    •     Wikiquote contiene citazioni  sullo stoicismo

    •     Wikizionario contiene il lemma di dizionario   «stoicismo»

    •     Questa voce è inclusa nel libro di Wikipedia Aforisti Occidentali.

Collegamenti esterni

    •     Scheda sullo stoicismo, dal sito LatinoVivo

    •     Seneca e la Saggezza stoica

    •     Diairesi, antidiairesi e felicità

    •     (EN)  Bibliografia annotata sulla semiotica e la logica stoica

    •     Stoicismo in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Scetticismo filosofico

Lo scetticismo è una posizione epistemologica che nega la possibilità di raggiungere, con la conoscenza, la verità.

L'origine del termine scetticismo è nella parola greca σκέψις (sképsis), che significa "ricerca", "dubbio", e ha la stessa radice del verbo sképtesthai che significa "osservare attentamente", e quindi "esaminare".

Lo scettico è colui che nega la possibilità di conoscere la verità.  Più in dettaglio sul piano gnoseologico, pur non negando di possedere l'idea della cosa pensata, lo scettico dubita che il pensiero della realtà sia una rappresentazione attendibile della realtà stessa, poiché la conoscenza si basa sui sensi che danno percezioni ingannevoli e mutabili nel tempo.1

La presenza dello scetticismo segna tutta la storia della filosofia occidentale.  Esso, infatti, esprime un'istanza tipica dell'essere umano: la sua perenne insoddisfazione di fronte al proprio conoscere.  Lo scetticismo può essere definito - in modo molto generico - come il momento di dissoluzione di un dogmatismo: in quanto atteggiamento di risposta, perciò, l'ipotesi scettica di volta in volta si adegua al dogmatismo cui fa riferimento.

La storia del pensiero occidentale è continuamente segnata da questa oscillazione tra affermazione dogmatica e reazione scettica:

    •    Parmenide → sofisti,

    •    Platone-Aristotele → lo scetticismo classico pirroniano,

    •    Filosofia cristiana scolastica → Ockham-Montaigne,

    •    Descartes → Hume,

    •    Kant → Schulze (che vedeva nel noumeno un principio dogmatico),

    •    Idealismo → Esistenzialismo.



Lo scetticismo ellenistico

Le origini dello scetticismo classico si collocano nella Grecia del IV secolo a.C.  Una tradizione accademica ormai consolidata suddivide lo scetticismo in tre periodi:2

      1.      pirronismo,

      2.      scetticismo della Media Accademia,

      3.      neoscetticismo, o scetticismo fenomenista.



Pirronismo



Per approfondire, vedi Pirrone.

 Il pirronismo deriva la sua denominazione da Pirrone di Elide (360-275 a.C.) e fa capo a lui e al suo discepolo Timone di Fliunte (circa 320 a.C. - circa 230 a.C.). La corrente filosofica, che si sviluppa tra la seconda metà del IV secolo a.C. e il III secolo a.C., afferma l'impossibilità di conoscere una realtà sempre contingente e mutevole; al saggio, perciò, non resta che l'aphasia, restare come muto e rinunciare ad ogni affermazione qualificante.

Poiché in queste condizioni non esiste conoscenza ne consegue che anche il comportamento pratico, che discende dal sapere, dovrà basarsi sull'assenza di ogni specifica azione conseguendo così l'atarassia 3, l'imperturbabilità, il non farsi coinvolgere in passioni e sentimenti.  Il saggio in questo modo raggiungerà la felicità che è il fine di ogni percorso filosofico.

Lo scetticismo di Pirrone sorgeva dalla sua stessa esperienza esistenziale, dalla sua vita.  Pirrone, infatti, aveva seguito Alessandro Magno in Oriente, dove poté incontrare popoli con altri valori, altri criteri di vita: come si poteva dare ragione agli uni piuttosto che agli altri? È inoltre possibile che, proprio in Oriente, Pirrone fosse venuto a contatto con forme di pensiero che teorizzavano la vanità di ogni conoscenza (Māyā).

Lo scetticismo finì così per riempire la vita stessa di Pirrone. Il filosofo visse con coerenza il proprio essere scettico: non lasciò teorie scritte e organizzate; dimostrò che la vita ha un senso anche senza che abbia alla sua base qualcosa che si reputa come verità (è lo sconvolgimento della ricerca della physis e del collegamento physis-areté dell'intellettualismo socratico-platonico-aristotelico).  Se l'essere umano non è in grado di cogliere la physis, lo scetticismo diventa esso stesso uno stile di vita, dando così un significato all'esistenza umana.

« La sua vita fu coerente con la sua dottrina. Lasciava andare ogni cosa per il suo verso e non prendeva alcuna precauzione, ma si mostrava indifferente verso ogni pericolo che gli occorreva, fossero carri o precipizi o cani, e assolutamente nulla concedeva all'arbitrio dei sensi. Ma, secondo la testimonianza di Antigono di Caristo, erano i suoi amici, che solevano sempre accompagnarlo, a trarlo in salvezza dai pericoli »

(Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, IX, 62)

Pirrone, come riporta il suo discepolo Timone, citato a sua volta da Eusebio di Cesarea, affermava che chi vuole essere felice deve considerare:
 - quale sia la natura delle cose,
 - come noi dobbiamo disporci di fronte ad esse,
 - quali siano le conseguenze di questa disposizione.

Rispetto al primo problema, Pirrone afferma che le cose sono ugualmente indifferenti, immisurabili e indiscriminabili.  Ma ad essere indifferenti sono le cose in sé stesse, oppure è così che si presentano a noi a causa dei nostri strumenti conoscitivi inadeguati?  Molto probabilmente Pirrone deve essere interpretato nel primo senso: come uno che sa che le cose sono in sé indifferenti, immisurabili e indiscriminabili, come uno che sia riuscito a conoscere in qualche modo la natura del divino e del bene e di fronte a questa esperienza, che non si può verbalizzare o concettualizzare, gli enti perdono di significato e di spessore.

Si tratta, quindi, di uno scetticismo "relativo", non assoluto (non a caso Cicerone metteva Pirrone tra i filosofi dogmatici): una verità assoluta viene colta, ma è incomunicabile. La disposizione corretta di fronte alle cose è dunque quella di un distacco teoretico e pratico.  Conseguenze sono proprio l'aphasia (a livello teoretico, l'atteggiamento scettico più coerente) e l'atarassia (a livello pratico: pace interiore come conseguenza dell'indifferenza)

Lo scetticismo è perciò un'ipotesi gnoseologica di carattere autolimitativo e pragmatico, che guarda alla realtà e ne trae i pochi elementi certi ed utili per impostare un orizzonte anti-dottrinario e condurre la propria esistenza in modo imperturbabile e indifferente alle emozioni della contingenza.

Ciò non comporta affatto la negazione dell'esistenza stessa del mondo reale, ma piuttosto che le teorie su di esso non possono pretendere di spiegarne la natura profonda. Così anche «Timone, discepolo di Pirrone, è convinto che l'indifferenza assoluta di fronte a tutte le cose porti all'afasia e all'imperturbabilità. Cioè alla felicità.» 4

Scetticismo nella Media Accademia



Per approfondire, vedi Arcesilao e Carneade.

 In questa sua seconda stagione, lo scetticismo si muove verso posizioni più radicali: i filosofi che difendono questa posizione si fanno sostenitori dell'inesistenza di ogni principio di conoscenza o verità, e rivolgono tutto il proprio impegno a combattere il dogmatismo, in specie quello sostenuto dagli stoici.

Il problema della conoscenza

 L'unico atteggiamento del saggio deve essere quello della epoché,5 della sospensione del giudizio, ossia l'astensione da un determinato giudizio o valutazione qualora non risultino disponibili sufficienti elementi per formulare il giudizio stesso, sino a giungere al radicale rifiuto della catalessi, cioè dell'assenso a qualsiasi pronunciamento della ragione a proposito della realtà.6

Uno dei principali esponenti dello scetticismo della Media Accademia fu Arcesilao, che negava la possibilità di qualsiasi conoscenza vera come sostenevano gli stoici, secondo i quali noi riceviamo dagli oggetti una sensazione, che produce una rappresentazione alla quale l'uomo dà razionalmente il suo assenso (catalessi). Arcesilao contestava questa concezione degli stoici poiché la rappresentazione si origina da un evento sensibile, per sua natura contingente, a cui la catalessi si applica in modo automatico e acritico.

Carneade allargò la critica di Arcesilao a tutti i sistemi filosofici, non solo a quello stoico: non esiste alcun criterio assoluto di verità, né la via empirica, né la via razionale, né l'unione delle due.

Il problema morale

 Se però secondo lo scetticismo alla ragione non è data la possibilità di conoscere il vero come potrà essa guidare i comportamenti morali dell'uomo? Per l'etica stoica, il saggio conosce la verità e si comporta di conseguenza, e per la massa di coloro che non riescono a raggiungere personalmente la verità la guida da seguire sarà quella del dovere, imposto dalla società e dalle tradizioni morali.

Per Arcesilao il comportamento morale non è dettato da sicuri motivi razionali ma solo su ciò che appare "ragionevole", "plausibile".  Noi umani non siamo in grado di dare fondamento ad un'etica: l'etica stessa si impone, senza motivare razionalmente ciò che prescrive di mettere in atto.

Gli stessi principi di non assolutezza guidano la morale secondo Carneade che la fonda sul πιθανόν (pithanòn, "persuasivo"), sul "probabile":

    •    l'uomo deve seguire quei giudizi, quelle rappresentazioni, che sembrano avere qualche probabilità di essere vere (senza cercarne la verità in assoluto);

    •    tra questi giudizi, bisogna scegliere quell'unico che appaia probabile e che non sia contraddetto dall'insieme degli altri giudizi.

Quindi, anche se non si può fondare l'etica su una base di affermazioni "assolutamente vere", le scelte non possono essere fatte a caso: il probabilismo diventa così l'esito etico dello scetticismo.

La fine di ogni certezza

 Gli scettici del periodo centrale dell'Ellenismo, inoltre, sembrano prendere coscienza che dalla estremizzazione del dubbio non può sfuggire neanche lo scetticismo stesso: anche ciò che sostiene lo scettico ricade sotto il dubbio radicale, come facevano notare gli stessi Arcesilao7 e Carneade,8 i quali affermavano che alla fine non potevano avere nessun principio di certezza, neppure i principi da essi stessi assunti come guide dell'azione pratica (la "ragionevolezza" secondo Arcesilao, e il "persuasivo" secondo Carneade).

Neanche questi criteri dell'azione pratica, quindi, hanno un valore di certezza dogmatica o sono in grado di farci conseguire con certezza la felicità ma comunque possono facilitare il nostro agire indicandoci ciò che è opportuno e utile fare, così come risulta dalla constatazione di un gran numero di casi nei quali quei criteri proposti dallo scetticismo sono stati efficaci.

Neoscetticismo



Per approfondire, vedi Enesidemo e Sesto Empirico.

Enesidemo di Cnosso (ca 80 a.C. – circa 10 a.C.), Agrippa (vissuto nella seconda metà del I secolo d.C.) e Sesto Empirico (II secolo) sono gli esponenti di un ulteriore sviluppo dello scetticismo antico.

Nel loro scetticismo radicale, questi pensatori affermano che nulla può essere conosciuto in modo certo, né mediante la sensazione, né mediante il pensiero. Ambedue i filosofi  elencarono una serie di tropi, (trópoi, "modi"), argomenti fondamentali, obiezioni per dimostrare ai dogmatici la necessità di sospendere il giudizio su ogni questione.

Secondo Enesidemo, le condizioni per una conoscenza vera sarebbero tre:
 - che esista una certa stabilità dell'essere, in grado di fondare i primi principi,
 - che esista il legame causa-effetto,
 - che sia possibile una inferenza metafenomenica (che cioè sia possibile andare oltre ciò che appare, per cogliere qualcosa d'altro, di cui ciò che appare sarebbe "simbolo".

Enesidemo vuole smantellare questi tre presupposti:

    •    Non c'è stabilità dell'essere: l'essere, così come io lo vedo, è e non è, continuamente cambia; se non si dà stabilità dell'essere, non sono attendibili i principi logici fondamentali di identità, non contraddizione e tertium non datur;

    •    Proprio nei suoi tropi Enesidemo mostra come non sia possibile sostenere la validità del principio di causalità;

    •    Enesidemo si oppone, infine, alla convinzione che ciò che appare sia segno, simbolo, apertura a qualcosa che sia "altro" da sé.9



Nel suo esplicito scetticismo, anche Sesto Empirico 10 afferma che noi non conosciamo le cose in sé, ma soltanto le sensazioni colte dall'intelletto che "velano", piuttosto che rivelare, gli oggetti stessi, e tutto ciò che conosciamo sono le nostre impressioni.  Anche l'elaborazione delle conoscenze, propria dell'intelletto, è solo elaborazioni di impressioni, e pertanto resta una conoscenza soggettiva.

Evidentemente, lo scetticismo è sempre a rischio di una deriva nella contraddittorietà, soprattutto ogni volta che si pone come verità un'affermazione auto-confutante come «Non esiste alcuna verità. Questa affermazione è vera».  Uno scetticismo assoluto e coerente, dunque, è impossibile, perché si ridurrebbe al silenzio.

La negazione radicale della verità, tuttavia, non deve essere intesa come una affermazione indiscutibilmente vera, cosa che contraddirebbe lo stesso principio scettico, bensì come una negazione che nega, oltre che il proprio contenuto, anche se stessa: negando cioè qualsiasi pretesa di dare a questa stessa negazione un valore assoluto e dogmatico.

Come diceva Sesto Empirico le formulazioni scettiche  

« ...si possono annullare da se stesse: circoscrivendo se stesse con le cose di cui si dicono; così le medicine purganti, non solo cacciano dal corpo gli umori, ma espellono anche se stesse insieme con gli umori. »

(Sesto Empirico, Schizzi pirroniani, I,206)

In questo modo lo scettico può recuperare la sua "sanità" quasi per caso, come accadde al pittore Apelle:

« Dicono infatti che egli, avendo dipinto un cavallo e desiderando raffigurare nel quadro la schiuma della bocca del cavallo, ebbe così poco successo, che rinunciò e gettò contro l'immagine la spugna in cui detergeva i colori del pennello: e dicono anche che questa, una volta venuta a contatto con il cavallo, produsse una rappresentazione della schiuma. Anche gli scettici, dunque, speravano di impadronirsi dell'imperturbabilità dirimendo l'anomalia degli eventi sia fenomenici che mentali, ma, non essendo in grado di riuscirci, sospesero il giudizio; e a questa loro sospensione seguì casualmente l'imperturbabilità, come ombra a corpo. »

(Sesto Empirico, Schizzi pirroniani I,19-35)

Lo scetticismo moderno

 Lo scetticismo nel pensiero moderno assume toni meno radicali di quello antico, negatore di ogni possibilità di apprendere la verità, asserendo semplicemente che il sapere è necessariamente collegato alla singola coscienza individuale e come questa risenta delle particolari caratteristiche del soggetto.

Riguardo alla religiosità lo scetticismo moderno si riferisce a una civiltà che non è più quella pagana, con una "religiosità debole", ma cristiana, ma a quella ormai caratterizzata da una "religiosità forte" ma indeterminata. Ciò significa che nello scetticismo dell'età moderna si mette in dubbio la possibilità di conoscere la verità sulla causalità secondaria (cause fisiche o biologiche, processi fisico-chimici o chimico-biologici) ma la casualità primaria, Dio, è "data" e riconosciuta. In altre parole ad esempio Montaigne e Hume 11 sono scettici su tutto ma non sull'esistenza di un Dio anche se per il filosofo inglese il politeismo può avere valore identico al monoteismo.12

« L'ateismo è infatti una proposizione quasi contro natura e mostruosa, difficile anche e malagevole a fissarsi nell'animo umano per insolente e sregolato che questo possa essere: se ne sono visti molto per la vanità e per l'orgoglio di esprimere opinioni non comuni e riformatrici del mondo affettarne la professione per darsi tono...13 »

Montaigne

 Nel periodo rinascimentale Montaigne (1533 - 1592) nella sua opera Apologia di Raimondo di Sebonda riprende il tema scettico della illusorietà di una verità che non può basarsi su una impossibile pretesa corrispondenza tra i concetti costanti nella loro struttura e i dati sensoriali sempre diversi e mutevoli. Di conseguenza, sostiene Montaigne, non esistono leggi universali che possano dare la stessa immutabile visione della realtà.

Nell'ambito dell'autocoscienza invece, poiché vi è una perfetta coincidenza dell'io con sé stesso, si possono costituire leggi morali permanenti e identiche per tutti allo stesso modo, mentre sono destinate a mutare sia le leggi del diritto positivo che le norme religiose.

Cartesio



Per approfondire, vedi Scetticismo metodologico.

 Un motivo che sostiene la scelta scettica sono gli errori, a cui la nostra conoscenza è sempre esposta.  René Descartes parla proprio della fallacia dei sensi e della liceità del dubbio, persino di fronte ai giudizi matematici o alla stessa esistenza di un mondo esterno.

Hume

David Hume (1711-1776) stesso si definiva scettico ma non pirroniano. Ma il suo è uno scetticismo moderato diverso da quello tradizionale: è assente infatti la sospensione del giudizio e vi si sostiene la necessità di avere dei principi soggettivi della verità che possano guidare la vita pratica degli uomini.

Quella di Hume è più un'analisi razionale di ciò che la ragione può sapere, dei limiti in cui le pretese della ragione devono confinarsi: la ragione quindi diventa allo stesso tempo imputato, giudice e giuria. Lo scetticismo di Hume consiste nel considerare la conoscenza qualcosa di soltanto probabile e non certo, benché provenga dall'esperienza, che il filosofo riteneva essere l'unica fonte della conoscenza.

Così, sebbene gran parte della conoscenza fenomenica si riduca soltanto ad una conoscenza probabile, Hume inserisce anche un campo di conoscenze certe, ovvero quelle matematiche, che sono indipendenti da ciò che realmente esiste e frutto soltanto di processi mentali.

Hume solca quindi soltanto dei confini alle pretese della ragione, sebbene molto drastici: il principio di causalità, l'esistenza del mondo esterno a noi, l'io e molti altri aspetti del mondo che fino a quel momento parevano ovvi e scontati vengono declassati a semplici "abitudini" e "credenze". Abitudini necessarie però alla vita umana.

Hegel

 Mentre quindi lo scetticismo moderno afferma l'impossibilità per la ragione di cogliere nei dati sensibili un contenuto di verità, ma nello stesso tempo riconosce degli elementi di verità all'interno della coscienza sensibile, per cui le sensazioni in se stesse possono essere prese come vere, lo scetticismo antico, pur riconoscendo la soggettività di ogni conoscenza, nega, sia alla ragione che alla sensibilità, ogni possibilità di cogliere la verità.

Un dubbio radicale quello degli antichi tale che da porsi come «negatività cosciente e universale; come cosciente, essa dimostra, come universale, estende a tutto la sua non verità dell'oggettivo» 14

Lo stesso Hegel (1770-1831) però evidenzia nella radicalità del dubbio scettico la sua positività: riprendendo per un certo verso la posizione kantiana sullo scetticismo di Hume, egli osserva infatti come pur negando ogni validità alla verità oggettiva lo scetticismo non si deve considerare come «il più pericoloso avversario della filosofia» poiché proprio esso contribuisce al progresso del pensiero filosofico avvertendolo della contingenza della realtà ed evitandogli di cadere nel "sonno" kantiano del dogmatismo.

Voci correlate

    •    Dubbio

    •    Epoché

    •    Diallele

    •    Noncredenza

    •    Teologia negativa

    •    Tractatus logico-philosophicus

    •    Principio di falsificabilità

    •    Conformismo

    •    Pensiero debole

Bibliografia

          Testi



    •    Diogene Laerzio, Vite e dottrine dei più celebri filosofi, Testo greco a fronte, a cura di Giovanni Reale, Milano, Bompiani, 2005 (Libro IX).

    •     Antonio Russo (a cura di), Scettici antichi Torino, UTET, 1978.



          Studi



    •     Jonathan Barnes, Aspetti dello scetticismo antico, Napoli, La Città del Sole, 1996.

    •     Giovanni Bonacina, Filosofia ellenistica e cultura moderna. Epicureismo, stoicismo e scetticismo da Bayle a Hegel, Firenze, Le Lettere, 1996.

    •     Mauro Bonazzi, Academici e Platonici. Il dibattito antico sullo scetticismo di Platone, Mlano, Led, 2003.

    •     Maria Lorenza Chiesara, Storia dello scetticismo greco, Torino, Einaudi, 2003.

    •    Mario Dal Pra, Lo scetticismo greco, Bari, Laterza 1989.

    •     Mario De Caro ed Emidio Spinelli (a cura di), Scetticismo. Una vicenda filosofica, Roma, Carocci, 2007.

    •     Marcello Gigante, Scetticismo ed epicureismo, Napoli, Bibliopolis, 2006.

    •     Anna Maria Ioppolo, La testimonianza di Sesto Empirico sull'Accademia scettica, Napoli, Bibliopolis, 2009.

    •     Ettore Lojacono, Spigolature sullo scetticismo. La sua manifestazione all'inizio della modernità, prima dell'uso di Sesto Empirico. I sicari di Aristotele Saonara, Il Prato, 2011.

    •     Gianni Paganini, Scepsi moderna. Interpretazioni dello scetticismo da Charron a Hume, Cosenza, Busento, 1991.

    •     Richard H. Popkin, Storia dello scetticismo, (da Savonarola a Bayle), Milano, Bruno Mondadori, 2008 (traduzione della seconda edizione).

    •    Giovanni Reale, Il dubbio di Pirrone. Ipotesi sullo scetticismo, Saonara, Il Prato, 2009.

    •     Emidio Spinelli, Enesidemo e la corporeità del tempo, in Il concetto di tempo, a cura di Giovanni Casertano, Atti del XXXIII Congresso Nazionale della Società Filosofica Italiana, Napoli, Loffredo, 1997.

    •     Emidio Spinelli, Istanze anti-metafisiche nel pirronismo antico. Enesidemo, Sesto Empirico e il concetto di causa, in G. Movia, Alessandro di Afrodisia e la “Metafisica” di Aristotele, Milano, Vita e Pensiero, 2003.



Collegamenti esterni

    •     AA. VV., « Scetticismo», in Dizionario filosofico, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009.



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Filosofia medievale

La filosofia medievale costituisce un imponente ripensamento dell'intera tradizione classica sotto la spinta delle domande poste dalle tre grandi religioni monoteiste.1

Il labirinto delle chiese medievali, simbolo del pellegrinaggio dell'uomo verso la "città di Dio".

La patristica

 In Europa la diffusione del Cristianesimo all'interno dell'Impero romano segnò la fine della filosofia ellenistica e l'inizio della Patristica, dalla quale si svilupperà la filosofia medievale.

La Basilica di Sant'Apollinare in Classe a Ravenna: l'effetto di luce dei mosaici e la smaterializzazione dello spazio evidenziano il prevalere dell'Idea sulla materia.

 La Patristica, cioè il pensiero dei antichi padri della Chiesa, rappresentò il primo tentativo di fusione fra la tradizione ebraica e la filosofia greca, di cui costoro cercarono di assimilare profondamente il senso del logos, concetto chiave della filosofia greca, in particolare di quella stoica e neoplatonica: logos significava la ragione e il fondamento universale del mondo,2 in virtù del quale la realtà terrena veniva ricondotta ad un principio intellettivo ideale, in cui risiederebbe la vera dimensione dell'essere. Soprattutto in Plotino, l'ultimo dei grandi filosofi greci, si avvertiva il tema della trascendenza dell'Idea platonica, da lui concepita come la forza spirituale che plasma gli organismi viventi secondo un progetto prestabilito.

Se i primi cristiani accolsero con accenti diversi la filosofia pagana, senza identificare automaticamente i suoi sistemi di pensiero con il messaggio evangelico, e anzi con una certa coscienza critica che in Tertulliano si tramuta in aperta diffidenza,3 Giustino fu invece tra i primi a identificare il Cristo incarnato con il logos dei greci, termine che egli trovava adoperato nel prologo di Giovanni.

A ogni modo, almeno fino al 200, la patristica si dedicò essenzialmente alla difesa del cristianesimo contro i suoi avversari. Tra costoro vi erano i cosiddetti "padri Apologisti". Solo in seguito cominciarono invece a sorgere i primi grandi sistemi di filosofia. Un importante contributo in tal senso venne da Clemente Alessandrino; come Giustino, anche Clemente arrivò a sostenere che Dio aveva dato la filosofia ai Greci «come un Testamento loro proprio».4 Per lui la tradizione filosofica greca, quasi al pari della Legge mosaica per gli Ebrei, è ambito di "rivelazione": sono due rivoli che in definitiva vanno verso lo stesso Logos.

Agostino d'Ippona

 Il maggiore esponente della Patristica fu quindi Agostino di Ippona: questi divenne un vescovo neoplatonico, e conciliò la filosofia greca con la fede cristiana riprendendo da Plotino il tema delle tre nature o ipostasi divine (Uno, Intelletto e Anima) e identificandole con le tre Persone della Trinità cristiana (Padre, Figlio e Spirito Santo), ma concependo il loro rapporto di processione non più in senso degradante, ma in un'ottica di parità-consustanzialità.5 Secondo Agostino ci sono dei limiti oltre i quali la ragione non può andare, ma se Dio illuminerà la nostra anima con la fede riuscirà placare la nostra sete di conoscenza. Agostino riprese da Plotino anche la concezione del  male come semplice "assenza" di Dio: esso è dovuto perciò alla disobbedienza umana. A causa del peccato originale nessun uomo è degno della salvezza, ma Dio può scegliere in anticipo chi salvare; ciò non toglie che noi possediamo comunque un libero arbitrio.

Con Agostino emerse tuttavia, su questo punto, una differenza peculiare della filosofia cristiana rispetto a quella greca, nella quale era certamente presente l'idea della contrapposizione tra bene e male, ma era assente la nozione del peccato, per cui non c'era una visione lineare della storia come percorso di riscatto verso la salvezza. Agostino invece ebbe presente come la lotta tra bene e male si svolge soprattutto nella storia. Ciò comportò anche una riabilitazione della dimensione terrena rispetto al giudizio negativo che ne aveva dato il platonismo. Ora anche il mondo e gli enti corporei hanno un loro valore e significato, in quanto frutti dell'amore di Dio. Si tratta di un Dio vivo e Personale che sceglie volontariamente di entrare nella storia umana.  All'amore ascensivo tipico delleros greco, Agostino affiancò pertanto l'amore discensivo di Dio per le sue creature, proprio dellagape cristiano.

Benedetto da Norcia

 La valorizzazione della storia e dell'esistenza terrena portò nel V secolo ad una novità rispetto ai  modelli orientali incentrati sull'esperienza mistica, e cioè alla nascita dell'attività monastica istituita da Benedetto da Norcia, autore della celebre regola «prega e lavora»: il lavoro manuale divenne un elemento importante nel percorso di salvezza del cristiano. Accanto alla vita spirituale c'è anche la vita quotidiana: si affaccia così per la prima volta l'idea del progresso, di un'evoluzione universale a cui ognuno è chiamato a contribuire, e che sarà un elemento centrale di tutta la filosofia medievale.

L'opera dei benedettini risultò tanto più importante anche per le ore dedicate allo studio: il loro lavoro di copiatura di testi antichi, non solo religiosi, ma anche scientifici e letterari, salvò infatti numerose opere dell'età greca e romana che poterono così attraversare i secoli e giungere all'età moderna. Il sapere allora diffuso dai monasteri e dalle abbazie poté inoltre facilmente ottenere il monopolio sull'insegnamento anche a seguito della definitiva chiusura dell'Accademia di Atene nel 529 ad opera di Giustiniano dopo vari periodi di alterne interruzioni della sua attività.

Boezio

Scoto Eriugena

 Dal V al VIII secolo vi fu quindi l'ultimo sviluppo della Patristica, che consistette più che altro nella rielaborazione di dottrine già formulate, ma in parte anche in nuove riflessioni. Tra i più originali vi fu Boezio, ritenuto uno dei precursori della scolastica e della disputa sugli universali, riguardante la definizione delle essenze attribuibili a generi e specie universali.6 Boezio suddivise la filosofia in tre tipi di esseri: gli intellettibili,7 che sono gli esseri immateriali, concepibili solo dall'intelletto, senza l'ausilio dei sensi, come Dio, gli angeli, le anime; il ramo della filosofia che di questi si occupa è propriamente la teologia. Gli intelligibili invece sono gli intellettibili calati nelle realtà materiali, le quali vengono percepite dai sensi pur essendo sempre concepibili dall'intelletto. E infine la natura, oggetto della fisica, studiata da sette discipline che saranno suddivise in trivium e quadrivium.

Nello Pseudo-Dionigi l'Areopagita si trova invece la prima esplicita distinzione tra teologia negativa e teologia affermativa: mentre quest'ultima arriva a Dio tramite un progressivo accrescimento di tutte le qualità finite di ogni singolo oggetto, la prima al contrario procede per decrescita e diminuzione fino ad eliminare ogni contenuto dalla mente, poiché Dio, essendo superiore a tutte le realtà possibili e immaginabili, non è identificabile con nessuna di esse. Si notano in lui gli influssi del neoplatonismo agostiniano.

Anche l'irlandese Scoto Eriugena, teologo di epoca carolingia e autore del Periphyseon (o De divisione naturae), riprese la riflessione tipicamente agostiniana sul rapporto dualistico e complementare tra fede e ragione che in Dio necessariamente coincidono, risolvendolo in un cerchio; privilegiando la via negativa, egli vedeva Dio come superiore sia all'essere che al non-essere, come il punto in cui il dualismo della realtà si ricompone in unità. Egli seguì pertanto l'interpretazione di Dionigi l'Areopagita, del quale tradusse in latino il Corpus Areopagiticum, e del quale ribadì la concezione che le idee platoniche sussistono nel Verbo ma non coincidono con esso: sono infatti opera del Padre. Ritenendo gli universali ante rem, Scoto Eriugena prese quindi posizione a favore del realismo estremo nella disputa sugli universali.

L'aristotelismo arabo ed ebraico

 Mentre in Europa si diffondeva il platonismo, durante tutto il Medioevo gli arabi avevano mantenuto viva la tradizione filosofica facente capo ad Aristotele, con commenti e traduzioni del filosofo greco, e sviluppando interessi per le scienze naturali. Si trattava di un aristotelismo penetrato in Medio Oriente attraverso l'interpretazione che ne aveva dato in epoca ellenistica Alessandro di Afrodisia, mescolato con motivi giudaici, cristiani, e soprattutto neoplatonici. In questo sincretismo di culture, favorito dall'espansione araba verso l'Occidente, fiorirono nuovi centri come Bagdad, Granada, Cordova, e Palermo.

Tra le figure più importanti dell'ambito islamico, che cercarono di conciliare l'adesione al Corano con le esigenze della ragione, vi furono Al-Kindi, Al-Farabi, Ibn Bajjah, Avicenna, e Averroè. Avicenna in particolare fu anche medico, autore di un Canone della medicina e del Libro della Guarigione, nei quali si proponeva di far guarire l'anima dall'ignoranza. Influenzato da Plotino, sostenne che il mondo non è creato nel tempo, ma originato per emanazione dall'Uno, secondo un processo di concause che vede Dio generare indirettamente i livelli astrali inferiori, l'ultimo dei quali è l'aristotelico Intelletto Attivo, da lui associato alla Luna. Pur essendone partecipi, i singoli uomini possiedono soltanto un intelletto potenziale.

Averroè

 Averroè invece presuppone che il mondo esista per l'azione diretta di Dio, ma sempre in un contesto fuori dal tempo. Sostenne in forma neoplatonica e con un certo panteismo una corrispondenza tra le Sfere Celesti e la Terra, ma a differenza di Avicenna separò anche l'Intelletto passivo dalle singole anime umane: per lui l'attività intellettiva, sia agente che potenziale, è unica e identica in tutti gli uomini, e non coincide con nessuno di essi. Sottoponendo a critica tutta la conoscenza, sottolineò come la percezione sensibile abbia bisogno dell'Intelletto Agente per elevarsi all'astrazione, senza il quale essa produce saperi variabili da uomo a uomo. In soccorso deve quindi giungere la religione, che si affianca alla ricerca filosofica riservata invece a pochi. La doppia verità, concetto attribuito erroneamente a lui, è in realtà una semplificazione della sua dottrina, che anzi ebbe presente come le verità di fede e di ragione debbano costituire un'unica sola verità, conoscibile dai più semplici tramite la rivelazione e i sentimenti, e dai filosofi cui spetta invece il compito di riflettere scientificamente sui dogmi religiosi presenti in forma allegorica nel Corano. Tra le numerose opere di Averroè, che spaziano nei campi più svariati, la più imponente fu il Commentario alle opere di Aristotele, che lo rese noto nell'Europa cristiana.8

In ambito ebraico, invece, si era avuto già con Filone di Alessandria (I secolo d.C.) un primo tentativo di conciliare la Legge mosaica con la filosofia platonica, tentativo tuttavia che aveva avuto maggior seguito presso i primi cristiani. Sarà con Avicebron, e poi con Mosè Maimonide, che si ha un effettivo confronto tra la fede ebraica e il retaggio culturale greco. Maimonide incentrò la sua riflessione su alcuni princìpi fermi riguardanti l'esistenza di Dio e la sua immortalità. Egli si servì dell'aristotelismo, influenzato anche nel suo caso da numerosi concetti neoplatonici, per conciliare la fede nella Torah e nel Talmud con forme razionali di speculazione filosofica, sostenendo la trascendenza di Dio, la libera volontà umana e divina, e l'origine creazionistica del mondo, ma negando come Averroè l'immortalità dell'anima individuale.

La scolastica

 A partire dall'anno Mille è particolarmente significativa la nascita della filosofia scolastica, così chiamata dall'istituzione delle scholae, ossia di un sistema scolastico-educativo diffuso in tutta Europa, e che garantiva una sostanziale uniformità di insegnamento. Le origini della scolastica si possono rintracciare già in Carlo Magno, il quale, dando avvio alla "rinascita carolingia" aveva fondato ad Aquisgrana intorno al 794 la Schola palatina, per favorire l'istruzione delle genti e la diffusione del sapere servendosi dei monaci benedettini. Gli insegnamenti erano divisi in due rami:

    •     l'arte del trivio (il complesso delle materie letterarie);

    •     l'arte del quadrivio (il complesso delle materie scientifiche).

Con l'Admonitio Generalis Carlo Magno aveva quindi cercato di formare un metodo di studio che fosse praticato in tutto il Sacro Romano Impero. Gradatamente si sviluppò così un tipo di insegnamento detto scolastico, che prenderà sempre più a distinguersi dall'ambiente monastico in cui era nato, sviluppando una forma di sapere più autonoma.

Anselmo d'Aosta

Padre della Scolastica è comunque considerato l'abate benedettino Anselmo d'Aosta,9 poi divenuto arcivescovo di Canterbury, che cercò una convergenza tra fede e ragione nel solco della tradizione platonica e agostiniana. Le sue due opere principali vertono sull'argomento ontologico dell'esistenza di Dio, che nel Monologion viene da lui trattato a posteriori partendo dalla considerazione che, se qualcosa esiste, occorre ammettere un Essere supremo come principio della catena ontologica che lo rende possibile. Nel Proslogion, invece, Anselmo espone una prova a priori, in base alla quale Dio è l'Ente massimo di cui non si può pensare nulla di più grande; chi nega che a questo concetto dell'intelletto corrisponda una realtà, necessariamente si contraddice, perché allora si potrebbe pensare che l'Ente massimo sia minore di qualcosa ancora più grande che abbia anche l'esistenza.10



Per approfondire, vedi Prova ontologica.

Anselmo fu un sostenitore della realtà degli universali come ante rem, cioè appunto a priori, precedenti l'esperienza. La sua posizione fu appoggiata da Guglielmo di Champeaux (esponente di un realismo oggi assimilabile più che altro all'idealismo)11, ma avversata da Roscellino, fautore invece di un nominalismo estremo con cui giungeva a sostenere che le tre Persone della Trinità fossero tre realtà fra loro distinte, per quanto identiche per il potere e la volontà: la loro comune essenza, la divinità, era dunque solo un nome, un flatus vocis. Roscellino fu per questo accusato di triteismo. Nella polemica si inserì anche Pietro Abelardo, più favorevole al concettualismo, dando luogo a una disputa che fu il tratto caratteristico della Scolastica, protraendosi per vari secoli.

L'evoluzione dei centri urbani, intanto, favorita da una concezione del lavoro rivolta alla costruzione del benessere comune e incentrata sull'opera della collettività, aveva portato alla Rinascita dell'anno Mille e poi a quella del XII secolo, durante le quali i filosofi medioevali andarono sempre più stabilire le proprie sedi nelle scuole annesse alle cattedrali, o nelle Università come quelle di Bologna e Parigi. Tra gli istituti di nuova formazione acquistò notevole prestigio la scuola di Chartres, che si richiamava al pensiero neoplatonico di Agostino d'Ippona e di Boezio. Nell'ambito della disputa sugli universali gli scolastici di Chartres sostennero che le idee sono del tutto a priori, essendo creature del Padre, mentre sul piano cosmologico seguirono l'interpretazione data da Calcidio al Timeo di Platone, identificando lo Spirito Santo con la platonica Anima del mondo, secondo la tesi fatta propria già da Abelardo. Ammettendo però l'immanenza dello spirito nella Natura, questa fu concepita come una totalità organica e indipendente, oggetto di studi separati rispetto alla teologia.

Bernardo di Chiaravalle

 Contemporaneamente, presero vita anche nuovi fermenti religiosi miranti a rinnovare la Chiesa, come la Congregazione dei monaci Cluniacensi sviluppatasi intorno all'anno Mille, o l'Ordine dei Monaci Cistercensi, che assunse notevole incremento e vigore grazie all'opera di Bernardo di Chiaravalle. Questi propose una via mistica alla speculazione filosofica: secondo Bernardo l'unico modo per giungere alla verità consiste nella pratica della contemplazione e della preghiera, e non nell'astratto ragionamento. A lui si contrappose Pietro Abelardo, il quale sosteneva invece che «non si può credere in nulla se prima non lo si è capito».12

Alberto Magno

Tommaso d'Aquino

 Agli inizi del Duecento nacquero altri due nuovi movimenti, uno fondato dallo spagnolo Domenico di Guzman, la cui predicazione di basava sull'efficacia degli argomenti e la forza della persuasione, l'altro da Francesco d'Assisi, che mirava invece a convertire tramite un esempio di vita umile, semplice, e in armonia con la natura. Questi movimenti si diffusero soprattutto nelle città e a contatto con le loro scuole che erano divenute i nuovi centri della cultura medievale.

Furono ad esempio due frati domenicani, Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, a dare un contributo fondamentale allo sviluppo della filosofia scolastica. Autore di un imponente commento alla Metafisica di Aristotele, Alberto Magno fu tra i primi a recepire l'influsso dell'aristotelismo arabo all'interno del Cristianesimo, ridimensionando il ruolo che l'agostinismo aveva avuto fino allora, e provocando accese dispute quando alcuni concetti di derivazione averroistica (come la negazione dell'immortalità dell'anima o dell'origine creazionistica del mondo) sembravano porsi in contrasto con l'ortodossia cristiana. Egli introdusse allora una distinzione fra l'ambito della fede, di cui si occupa la teologia, e quello della scienza, in cui opera la ragione, pur cercando sempre un punto di incontro tra questi due campi. Alla fede assegnò Agostino come massima autorità, e alla scienza Aristotele, accolto però sempre da un punto di vista critico.13 Si può dire che Alberto Magno diede alla teologia cristiana la forma e il metodo che, sostanzialmente, si sono conservati fino ai giorni nostri. Uomo dotato di grande genio e cultura,14 visse con profonda devozione religiosa il suo impegno dottrinale.15

Discepolo di Alberto fu Tommaso, il quale analogamente, di fronte all'avanzare dell'aristotelismo arabo che sembrava voler mettere in discussione i capisaldi della fede cristiana, mostrò che quest'ultima non aveva nulla da temere, perché le verità della ragione non possono essere in contrasto con quelle della Rivelazione, essendo entrambe emanazione dello stesso Dio. Secondo Tommaso dunque non c'è contraddizione tra fede e ragione, per cui spesso la filosofia può giungere alle stesse verità contenute nella Bibbia; per esempio, si può arrivare a conoscere l'esistenza di Dio sia attraverso la fede, sia attraverso la ragione e l'osservazione basata sui sensi.

Lo stile romanico della cattedrale di Pisa, improntato a linearità e chiarezza di contenuti.

 Come il suo maestro, anche Tommaso cercò di conciliare la rivelazione cristiana con la dottrina di Aristotele, il quale, partendo dallo studio della natura, dell'intelletto e della logica, aveva sviluppato delle conoscenze sempre valide e universali, facilmente assimilabili dalla teologia cristiana, dal momento che la verità oggettiva, come del resto insegnava lo stesso filosofo greco, è tale proprio in quanto rimane sempre uguale in ogni epoca e luogo. Così era ad esempio nelle scienze naturali, per le quali esisteva un perenne passaggio dalla potenza all'atto che strutturava gerarchicamente il mondo secondo una scala ascendente che va dalle piante agli animali, e da questi agli uomini, fino agli angeli e a Dio, che in quanto motore immobile dell'universo è responsabile di tutti i processi naturali. Le intelligenze angeliche hanno una conoscenza intuitiva e superiore, che permette loro di sapere immediatamente ciò a cui noi invece dobbiamo arrivare tramite l'esercizio della ragione.

L'opera fondamentale di Tommaso d'Aquino, la Summa Theologiae, fu da lui concepita alla stegua del processo di edificazione delle grandi cattedrali europee: come la teologia ha lo scopo di rendere trasparenti alla ragione i fondamenti della fede, così l'architettura, in particolare quella delle chiese romaniche del Duecento, diventò lo strumento collettivo per l'educazione del popolo e della sua partecipazione alla Verità rivelata.

Bonaventura da Bagnoregio

 Mentre Tommaso contribuiva così alla rinascita e alla diffusione dell'aristotelismo nell'Europa cristiana, il suo contemporaneo Bonaventura di Bagnoregio fu invece il maggiore esponente della corrente neoplatonica. Nella riflessione di Bonaventura, speculare sotto certi aspetti a quella di Tommaso, non si trovano monumentali architetture razionali, bensì il prevalere di un sentimento mistico ispirato alla religiosità di San Francesco d'Assisi. In lui permase centrale il tema agostiniano dell'illuminazione divina, sia pure riservato ai soli concetti spirituali. Secondo Bonaventura infatti, mentre la sensibilità è strumento opportuno per l'anima, che attraverso la realtà empirica giunge alla formazione dei concetti universali, per la conoscenza dei principi spirituali occorre l'illuminante grazia divina.16

La via dell'illuminazione è dunque quella che porta a cogliere le essenze eterne, e ad alcuni permette persino di accostarsi a Dio. L'illuminazione guida anche l'azione umana, in quanto solo essa determina la sinderesi, cioè la disposizione pratica al bene. Permane qui, com'è chiaro, il valore conoscitivo e morale del mondo ideale platonico ma il tutto è trasfigurato dall'esigenza religiosa della salita dell'uomo verso Dio.

Ruggero Bacone

 Mentre Tommaso e Bonaventura insegnarono soprattutto a Parigi, altre scuole crebbero di rinomanza, come quelle di Oxford e di Colonia. Il più importante maestro di Oxford fu Ruggero Bacone, che rifacendosi alla distinzione introdotta dagli aristotelici tra scienza e fede, individuò due diverse fonti della conoscenza: la ragione, la quale però si basa sempre su un sapere mediato, e l'intuizione, che invece attinge immediatamente al dato. Quest'ultimo può essere di natura mistica, se concerne le verità teologiche della Rivelazione, oppure sperimentale, se attinente alle verità del mondo naturale. La distinzione tra questi due ambiti, che fu anticipata nei suoi sviluppi anche dalla scuola di Chartres, tenderà col tempo ad accentuarsi sempre più.

La disputa sugli universali

 Grande dibattito suscitò all'interno della scolastica la cosiddetta disputa sugli universali, una questione, come già accennato, riguardante la natura dell'universale, ossia del predicato che viene assegnato a una molteplicità di enti. Quando ad esempio si afferma: «tutti gli esseri sono mortali», si attribuisce una caratteristica generale (un quid, cioè l'essere mortale) a delle realtà concrete e particolari. Qual è allora la natura di questo quid? Le risposte variarono nel tempo dando luogo a una disputa che attraversando i secoli, iniziando da Porfirio nel 300 circa fino a Guglielmo d'Ockham (1300) e oltre, fu all'origine per certi versi della filosofia moderna.

Le possibili risposte alla questione sono sintetizzabili nel compromesso elaborato da Alberto Magno e Tommaso d'Aquino, sostenitori del realismo moderato, secondo cui gli universalia sono:

    •    ante rem, cioè esistono prima della realtà, nella mente di Dio;

    •    in re, nel senso che gli universali entrano anche all'interno della realtà stessa, come sua essenza reale;

    •    post rem, quando gli universali diventano un prodotto reale della nostra mente, la quale svolge quindi una funzione autonoma nell'elaborazione dei concetti che non dipende dalla realtà.



Ai realisti, che affermavano l'esistenza oggettiva e indipendente dell'universale, si contrapposero i nominalisti, i quali invece negavano qualsiasi realtà all'universale che per essi è dunque un semplice nome, flatus vocis, essendo solamente post rem.

Gli ultimi sviluppi della scolastica

 Filosoficamente, il Medioevo si caratterizza per una grande fiducia nella ragione umana, ossia nella capacità di poter indagare i misteri della fede, in virtù del fatto che Dio nei Vangeli si presenta come Logos (cioè Principio Logico).

Duns Scoto

Guglielmo di Ockham

 La crisi di questa fiducia iniziò a partire dal Trecento, quando il filosofo scozzese Duns Scoto affermò che esiste un limite che non può essere esplorato dalla filosofia, e oltre il quale la ragione non può andare. Sollevando il problema dell'haecceitas, ossia dell'essenza che determina un particolare oggetto in un certo modo rendendolo "questo qui" (hic et nunc), Scoto sostenne che degli universali posti all'origine delle singole realtà non si può dire nulla, essendo impossibile stabilire il perché del loro essere così e non diversamente.

Pur aderendo al realismo, Duns Scoto sottolineò in tal modo l'aspetto apofatico e ignoto di Dio, rilevando l'esistenza di un limite intrinseco ad ogni sapere umano: se la logica vuole essere consistente, deve rinunciare a indagare ciò che per sua natura non può avere una risposta razionale. Egli affermava bensì, sulla scia di Parmenide, la necessità di essere dell'Essere, ma l'impossibilità di necessitarne il contenuto, di dargli cioè un predicato razionalmente giustificabile.

Scoto divenne un assertore della dottrina del volontarismo, secondo cui Dio sarebbe animato da una volontà incomprensibile e arbitraria, del tutto slegata da criteri razionali che altrimenti ne limiterebbero la libertà d'azione. Questa posizione ebbe come conseguenza un crescente fideismo, ossia una fiducia cieca in Dio, non motivata da argomenti.

Al fideismo aderì soprattutto Guglielmo di Ockham, esponente della corrente nominalista, all'interno della quale egli giunse a negare alla Chiesa il ruolo di mediazione tra Dio e gli uomini. Basandosi su una concezione riduzionista del sapere (all'origine del suo famoso rasoio), Occam criticò i concetti di causa e di sostanza, da lui giudicati metafisici, in favore di un approccio empirico alla conoscenza.

Il gotico di Chartres

 Radicalizzando la posizione filosofica di Scoto, Occam affermò che Dio non ha creato il mondo per «intelletto e volontà» come sosteneva Tommaso d'Aquino, ma per sola volontà, e dunque in modo arbitrario, senza né regole né leggi. Come Dio, anche l'essere umano è del tutto libero, e solo questa libertà può fondare la moralità dell'uomo, la cui salvezza però non è frutto della predestinazione, né delle sue opere. È soltanto la volontà di Dio che determina, in modo del tutto inconoscibile, il destino del singolo essere umano.
Giovanni Buridano riprese inizialmente le tesi di Occam, cercando poi di conciliarle con la fisica aristotelica.

In Germania, intanto, Meister Eckhart poneva le basi della mistica speculativa tedesca, accentuando per parte sua il carattere misterioso e imperscrutabile di Dio, elaborando una teologia negativa radicalmente apofatica. Secondo Eckhart, Dio genera se stesso e il proprio Figlio negli uomini, in un atto creativo continuo e ininterrotto. Di qui il suo insegnamento rivolto alla cura dell'anima e della preghiera contemplativa.17

Affini al misticismo di Eckhart furono i toni utilizzati dall'anonimo autore inglese della Nube della non conoscenza, dove Dio è rappresentato «avvolto da nubi e tenebre» secondo un'immagine di derivazione biblica.18

La convinzione dell'inconoscibilità di Dio radicalizzò la separazione tra scienza e fede, mantenendo da un lato la valorizzazione dell'indagine naturale sul modello della scuola di Chartres, ma al contempo conducendo ad una fiducia cieca nel Creatore. L'accentuarsi della distanza tra la dimensione terrena e quella celeste-spirituale, che nel Trecento portò a un tale crescente fideismo, fu espressa dal Gotico nella sua forma estrema.

Filosofi medievali

Patristica

    •     Periodo  (200 - 900):

    •    Origene Adamantio

    •    Clemente Alessandrino

    •    Gregorio Nazianzeno

    •    Giustino

    •    Agostino

    •    Boezio

    •    Giovanni Scoto Eriugena

    •    

Filosofi arabi

    •     Periodo  (900 - 1250):

    •    al-Farabi

    •    Salomon ibn Gabirol

    •    Avicenna

    •    Averroè

    •    

Filosofi scolastici

    •     Prima scolastica (1000 - 1250):

    •    Pietro Abelardo

    •    Pietro Lombardo

    •    Gilbert de la Porrée

    •    Filippo il Cancelliere

    •    Anselmo d'Aosta

    •    

    •     Alta scolastica (1250 - 1350):

    •    Robert Grosseteste

    •    Roger Bacon

    •    Alberto Magno

    •    Tommaso d'Aquino

    •    Bonaventura

    •    Duns Scoto

    •    Radulphus Brito

    •    Guglielmo di Ockham

    •    Giovanni Buridano

    •    

    •     Tarda scolastica (1350 - 1500):

    •    Marsilio da Padova

    •    

Bibliografia

    •     Inos Biffi,  Figure medievali della teologia, Milano, Jaca Book, 2008 ISBN 978-88-16-40815-9.

    •    Tommaso d'Aquino, La somma teologica, ESD, 1996 ISBN 88-7094-224-4.

    •     Giulio D'Onofrio, Storia del pensiero medievale, Roma, Città Nuova, 2011.

    •     Maria T. Beonio Brocchieri Fumagalli & Massimo Parodi, Storia della filosofia medievale. Da Boezio a Wyclif, Roma-Bari, Laterza, 2012.

    •     David Knowles, L'evoluzione del pensiero medievale, Bologna, Il Mulino, Bologna 1984.

    •     Angelo Marchesi, Dal "Logos"greco al "Logos" cristiano. Linee di sviluppo e tematiche ricorrenti, Parma, Zara, 1984.

    •     Paolo Rossi & Carlo Augusto Viano, Storia della filosofia: II. Il Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1994.

    •     Sofia Vanni Rovighi, Storia della filosofia medievale. Dalla patristica al secolo XIV, Milano, Vita e Pensiero, 2006.

    •     Cesare Vasoli, La filosofia medievale, Milano, Feltrinelli, 1961.

    •     Paul Vignaux, La filosofia nel Medioevo, trad. it. di M. Garin, Roma-Bari, Laterza, 1990.

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Collegamenti esterni

    •     La rinascita della cultura nel Medioevo

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Filosofia rinascimentale

« Liberiamoci in fretta, spiriti celesti desiderosi della patria celeste, dai lacci delle cose terrene, per volare con ali platoniche e con la guida di Dio alla sede celeste, dove contempleremo beati l'eccellenza del genere nostro. »

(Marsilio Ficino, De immortalitate animarum)

Un Amorino, figura variamente riconducibile al mito dell'eros platonico

La filosofia rinascimentale, che segna la fine del Medioevo e l'inizio dell'età moderna, si estende lungo tutto il Quattrocento e il Cinquecento.

Rinascita del Neoplatonismo

 Si è soliti tuttavia fare iniziare le prime istanze umanistiche, preludio del Rinascimento, con un autore trecentesco: Francesco Petrarca (1304-1374). In lui, primo tra i moderni, si avverte già il dissidio tra prospettiva religiosa medievale e riscoperta dell'uomo, propria dell'Umanesimo. Nel Petrarca si annuncia insomma quella che sarà una costante del successivo pensiero umanistico e poi rinascimentale, cioè il tentativo di conciliare Agostino, Cicerone, Platone, di tenere uniti pensiero cristiano, humanae litterae latine, e filosofia classica greca.

Da allora l'uomo divenne il centro di un'attenzione che la cultura precedente sembrava non avergli accordato, sicché il suo operare nel mondo iniziò ad acquisire un nuovo significato basato sull'ideale dell'homo faber.1 Dal rinnovato interesse per i classici emergerà inoltre una molteplicità di orientamenti culturali che porterà sostanzialmente a due tendenze di pensiero: una che si richiama ad Aristotele, interpretandolo però in chiave naturalistica, in antitesi al senso religioso con cui l'aveva letto San Tommaso; l'altra che si richiama a Platone e ai neoplatonici (Plotino in particolare), nella quale troviamo oltre al già citato Petrarca, anche Coluccio Salutati e Leonardo Bruni.

Fu però soprattutto quest'ultima, quella neoplatonica, a godere di una grande rinascita, dovuta sia a una forte polemica anti-aristotelica, che soleva dipingere Aristotele come un pensatore vetusto e pedante, sia grazie alla riunificazione tra le Chiese d'Oriente e d'Occidente (avvenuta nel 1438), che fece confluire un gran numero di intellettuali e dotti bizantini in Italia, specialmente a Firenze, i quali favorirono la riscoperta degli studi classici greci; il più noto di essi fu il maestro Pletone. L'immigrazione di studiosi orientali fu poi incentivata anche dalla caduta di Costantinopoli nel 1453. Una caratteristica dei filosofi rinascimentali era la loro tendenza a identificare il platonismo con il neoplatonismo, particolarità tipica di tutto l'Umanesimo e il Rinascimento. Solo nel XIX secolo si è saputo distinguere il pensiero di Platone da quello di Plotino; nel Quattrocento infatti si intendeva per platonismo una corrente filosofica complessa e molto composita, che non abbracciava solo Platone, ma anche neoplatonici come Agostino e Duns Scoto, oltre a tradizioni orfiche e pitagoriche. Lo stesso Aristotele vi era in fondo compreso; la polemica contro di lui era rivolta più che altro contro il naturalismo e un certo modo di intendere l'aristotelismo, specie quello delle scuole, per il resto di Platone e Aristotele si cercavano più le concordanze che le divergenze.

La riscoperta dei classici significò, tra l'altro, non tanto una semplice acquisizione degli antichi testi, quanto un diverso modo di leggerli, preoccupato di ricostruirli storicamente e di sottoporli a un vaglio critico rigoroso. Fu così che si diffuse la passione per la filologia, tendenza presente soprattutto nell'attività di Lorenzo Valla. Non si può trascurare neanche l'interesse per la pedagogia, mirante non a un'educazione professionale, ma a formare il giovane nella sua completezza, mediante uno sviluppo armonico di tutte le doti umane, sia fisiche che spirituali, facendo di ciascun individuo come un'opera d'arte, un tentativo compiuto di saper plasmare la propria vita come l'artista plasma la propria opera. Questo amore per il bello nasceva dal prevalere delle tendenze ideali collegate appunto al neoplatonismo. L'amore, la libertà, la sete di infinito, vennero esaltati come valori assoluti, in maniera simile a quanto avverrà nel Romanticismo. Inizialmente avverso al naturalismo, che appariva dimentico del vero valore dell'uomo, il neoplatonismo esaltava la bellezza dell'Idea, contrapposta alla bellezza sensibile, e alla quale giungere soltanto tramite il pensiero e i sensi più elevati. L'amore soprattutto veniva inteso platonicamente come una via per elevarsi alla perfezione e alla contemplazione di Dio. La purezza e la spiritualità erano pertanto le qualità che più si addicevano al vero amore.

Marsilio Ficino

I neoplatonici di maggior rilievo furono senza dubbio Nicola Cusano e Marsilio Ficino, i quali, alla precedente prospettiva medievale rivolta verso il Trascendente ed espressa nella sua forma estrema dal gotico, vi sostituirono una religiosità che guarda piuttosto al divino presente nell'uomo e nel mondo. Secondo Cusano l'individuo umano, pur essendo una piccola parte del mondo, è una totalità nel quale tutto l'universo risulta contratto. L'uomo è infatti immagine di Dio che è l'"implicatio" di tutto l'essere così come nell'unità numerica sono potenzialmente impliciti tutti i numeri, mentre l'Universo è invece l'"esplicatio" dell'Essere, ovvero l'esplicitazione di ciò che è presente in potenza nell'unità. L'uomo è pertanto un microcosmo, un dio umano. Cusano fu inoltre tra i primi a concepire l'universo, già nella prima metà del Quattrocento, senza limiti spaziali e quindi senza una circonferenza che lo delimiti.

Che non vi sia contrasto tra platonismo e cristianesimo era convinzione anche di Ficino, il quale concepì anzi il platonismo come una vera e propria preparazione alla fede, intitolando la sua opera più celebre Theologia platonica. Il tema dell'eros diventa in Ficino un motivo filosofico centrale: l'amore è il dilatarsi stesso di Dio nel mondo, la causa per cui Dio "si riversa" nel mondo, e per cui produce negli uomini il desiderio di ritornare a Lui. Al centro di questo processo circolare c'è dunque l'uomo, vera copula mundi, che tiene legati in sé gli estremi opposti dell'universo, e come in Cusano è specchio di quell'Uno (inteso plotinianamente) dal quale proviene tutta la realtà. Qui si nota tuttavia come Ficino usi il concetto platonico di Eros attribuendovi un significato cristiano, poiché, diversamente che in Platone, l'amore è per lui anzitutto attributo di Dio, movimento di Dio che scende verso il mondo, e non solo tensione irrequieta dell'anima umana che vuol salire verso di Lui. Ficino fu inoltre uno dei personaggi più attivi dell'Accademia Neoplatonica di Firenze, che divenne il centro propulsore del neoplatonismo rinascimentale: voluta da Cosimo de' Medici, essa era un cenacolo di filosofi e letterati fiorentini riuniti nella villa medicea di Careggi (presso Firenze), e voleva significare la riapertura dell'antica Accademia ateniese di Platone (che era stata chiusa nel 529 d.C.), per favorire la rinascita della dottrina del grande filosofo greco.

Un altro esponente di primo piano dell'Accademia platonica fu Pico della Mirandola, il quale tuttavia tentò di conciliare il neoplatonismo con l'aristotelismo e concezioni mistiche connesse alla cabala ebraica, congiungendoli in una linea di continuità secondo un ideale di concordia universale. Egli, nell'Oratio de hominis dignitate, attribuisce all'uomo la dignità di essere l'artefice del proprio destino. All'uomo infatti Dio offre il dono della libertà: mentre nelle altre creature tutto è stato già dato come qualità definita e stabile, all'uomo è concesso di farsi e inventarsi nelle forme da lui scelte.

Astrologia, alchimia e arti magiche

L'universo concentrico elaborato da Copernico (1473-1543)

Anche il pensiero scientifico fu caratterizzato dall'influsso del Neoplatonismo, che fu determinante nell'anticipare quella visione di armonia dell'universo che ritroviamo nella rivoluzione scientifica attuata da Copernico, Keplero e Galilei. Secondo la concezione neoplatonica, infatti, l'universo è retto da un ordine armonico che si irradia in ogni sua parte ed è strutturato perciò in maniera concentrica. Non si tratta di un universo statico, ma in movimento: in esso prevale un equilibrio dinamico, simboleggiato dal cerchio e dalla sfera, viste come le figure più perfette in quanto espressione di massima sintesi tra forze centrifughe e centripete. A fondamento dell'ordine geometrico del cosmo è posto Dio, il quale lo governa attraverso un atto d'amore. Non è dunque una visione meccanica del mondo, bensì una concezione organica e unitaria in cui le leggi che regolano l'universo ricevono anima e vita dall'amore divino. Secondo l'astrologia rinascimentale esiste di conseguenza una corrispondenza tra le strutture della mente umana e le strutture reali dell'universo, ovvero tra la nostra ragione soggettiva e la ragione oggettivata nella natura, in quanto generate dalla stessa intelligenza creatrice. Questo sarà il presupposto fondamentale di tutti i successivi sviluppi scientifici e tecnologici, espressamente formulato da Galilei con la celebre affermazione che il libro della natura è scritto in linguaggio matematico. La fiducia nell'astrologia, scaturita da una tale idea di corrispondenza tra fenomeni celesti e fenomeni terreni, si inserì tra l'altro nella tipica ottica rinascimentale volta ai fini pratici di azione nel mondo. Gli oroscopi infatti avevano il fine di leggere le circostanze in cui un'azione aveva la probabilità maggiore di riuscire: essi erano dunque al servizio di un uomo che guarda al futuro e intende intervenire attivamente nel corso degli eventi per mutarli.

Nell'ambito dell'astrologia riprese vigore anche una disciplina emblematica di questo periodo, cioè l'alchimia, favorita dal fatto che una delle tante opere riscoperte durante il Rinascimento fu il Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto che Cosimo de' Medici fece tradurre da Marsilio Ficino intorno al 1460. Forte era comunque l'influenza di scritti e autori arabi, i quali, facendo da mediatori, avevano consentito la ripresa di contatto con la tradizione alchemica greca già dal basso Medioevo. A differenza della prassi demonologica collegata con la credenza cristiana in spiriti buoni e cattivi, l'alchimia si proponeva di intervenire sulle sole forze naturali, facendo così da apripista alla chimica moderna. Essa si basava infatti sulla magia bianca che, diversamente dalla magia nera, consisteva nello studio empirico delle sostanze elementari e in esperimenti scientifici su di esse. L'alchimista ne cercava le proprietà lavorando all'incirca come un chimico, catalogandole, operando miscugli, servendosi di fornelli ed alambicchi che saranno poi gli strumenti principali utilizzati dalla chimica come la intendiamo oggi. Operando in quest'ambito Paracelso (1493-1541) diede ad esempio un notevole impulso alla farmacologia.

Scopo principale degli alchimisti era la ricerca della pietra filosofale, dalla quale si sarebbero potute trarre tre proprietà fondamentali: un elisir in grado di conferire l'Immortalità e di dare la panacea universale per qualsiasi malattia; l'"onniscienza" ovvero la consapevolezza del passato e del futuro, del bene e del male (simile alle qualità del frutto biblico dell'albero della Conoscenza); la possibilità infine di trasmutare i metalli in oro, la meno importante delle tre ma quella più ricercata dagli avidi e che ha colpito maggiormente l'immaginario popolare. Da questa deriva l'enorme potere di arricchimento detenuto dall'alchimista, che egli tuttavia era tenuto a usare per scopi strettamente umanitari, dovendo egli sviluppare un senso morale parallelo all'elaborazione della pietra e che costituiva anzi una condicio sine qua non per la riuscita finale del suo operare. La pietra filosofale non era tuttavia l'oggetto di semplici leggende o di visioni utopiche: l'oro infatti veniva utilizzato come catalizzatore nelle reazioni chimiche, ed era da sempre apprezzato essendo l'unico metallo conosciuto che restasse inalterabile nel tempo. La scienza contemporanea poi riuscirà effettivamente a trasformare in oro alcuni metalli, agendo a livello delle forze nucleari.

Raffigurazione della Cabbala

 La trasmutazione dei metalli in oro si inserisce nell'ottica evoluzionista tipica dei filosofi neoplatonici: essi pensavano infatti che tutta la creazione, corrottasi a causa del biblico peccato originale, tendesse a ritornare verso la perfezione originaria. Come l'uomo tende verso la divinizzazione, così i metalli mutavano verso l'oro, la forma più nobile della loro specie. Si cercava in un certo senso di risolvere la materia nello spirito; e contemporaneamente si operava anche all'inverso, facendo compiere a ritroso il cammino della natura, fino a poter ricostruire, ad esempio, una pianta dalle sue ceneri, o fabbricare sinteticamente l'uomo (l'homunculus), al di fuori delle vie naturali.

Insieme all'alchimia ricevettero grande impulso numerosi altri mestieri e discipline, come la chiromanzia, la numerologia, la matematica, la medicina, l'anatomia. Una caratteristica dei ricercatori rinascimentali era infatti la loro poliedricità: essi cioè erano soliti svolgere più attività diverse contemporaneamente, secondo l'ideale dell'uomo universale, incarnato ad esempio da Leonardo da Vinci (1452-1519), da molti considerato il primo scienziato in senso moderno. Nell'ambito della matematica e della geometria ricordiamo in particolare il tentativo di quadratura del cerchio da parte di Cusano, o la soluzione delle equazioni cubiche da parte di Tartaglia e il suo celebre Triangolo. La matematica era allora una materia affine alla numerologia, la quale si proponeva di interpretare la realtà in chiave simbolica ed ermetica ricollegandosi a dottrine neopitagoriche, esoteriche e cabbalistiche, ma anche la teologia, la filosofia e tutte le scienze venivano collegate tra loro, nel tentativo di coniugarle e di renderle parte di un unicum. L'ideale dei filosofi rinascimentali consisteva in definitiva nella ricerca di un sapere unitario, organico, coerente, che fungesse da raccordo di tutte le discipline e le conoscenze dello scibile umano, e soddisfacesse il bisogno di ricondurre e ritrovare la molteplicità nell'unità, la diversità nell'identità, la varietà nella totalità. Sarà il sogno anche degli idealisti romantici.

Neoplatonismo nell'arte

 Non solo la letteratura e le scienze, ma l'arte in generale viene avvertita come la via maestra per cogliere l'ideale neoplatonico di armonia e perfezione, come la forma più immediata di intuizione dell'assoluto,2 in accordo con i tre ideali platonici dell’eterno Vero, l’eterno Buono, e l’eterno Bello, triade raffigurata da Raffaello in tre dipinti nella Stanza della Segnatura ai Musei Vaticani (il secondo dei quali è la celebre Scuola di Atene).

La Nascita di Venere del Botticelli, nella quale si possono riscontrare numerosi motivi neoplatonici

Sono gli ideali che ritroviamo nella pittura, in particolare nel Botticelli che nella sua Venere esprime l'amore celeste e intelligibile messo in risalto dalla purezza del nudo; nella scultura, specialmente in Michelangelo, secondo cui l'artista assomiglia a Dio perché tenta di trasporre l’Idea nella materia così come Dio ha impiantato il Bello nel mondo fisico; nella musica (un'arte già rivalutata da Plotino), ad esempio in Franchino Gaffurio che sperimentò armonie e consonanze musicali basate sui rapporti numerici universali delle sfere celesti, ponendo le basi per lo sviluppo del canto polifonico; e in architettura dove si insegue il modello della città ideale (raffigurata in un dipinto attributo a Piero della Francesca), secondo i princìpi del classicismo. Una città che intendeva rifarsi a un simile modello fu ad esempio Urbino.

Una tipica figura umanista, che si sforzò di cogliere l'armonia e l'equilibrio di un mondo costruito attraverso l'attivo operare dell'uomo, è quella di Leon Battista Alberti (1404-1472). In lui non mancano però visioni pessimiste: egli avverte come l'equilibrio che si sta cercando appare fragile e continuamente minacciato.

Vitalismo cosmico

 Una costante della filosofia rinascimentale rimane la concezione vitalistica dell'universo e della natura, secondo cui ogni realtà, dalla più grande alla più minuta, risulta animata e popolata da presenze e da forze vitali.3 Tutto l'universo è concepito come un unico grande organismo. Secondo il neoplatonismo infatti, la natura è profondamente penetrata da energie spirituali, poiché, in virtù dell'identità di essere e pensiero, ogni oggetto è anche al tempo stesso soggetto; ogni realtà fa capo a un'idea in virtù della quale essa risulta animata da una vita autonoma e unitaria. Il principio che unifica il molteplice è l'anima del mondo, la quale permetteva di considerare organicamente congiunti tutti i diversi campi del reale, e con cui l'uomo forma un tutt'uno. Questa visione del cosmo, che sarà ripresa dagli idealisti romantici e in particolare da Schelling, viene ampiamente sviluppata da tre filosofi naturalisti dell'Italia meridionale: Bernardino Telesio, Giordano Bruno, e Tommaso Campanella. In loro il neoplatonismo, dopo esserne stato alquanto avverso, viene ora conciliato col naturalismo e il panteismo; e nonostante la loro polemica contro Aristotele, esso risulta profondamente legato alla problematica e ai procedimenti metodologici aristotelici.

Il Cantus Circaeus di Bruno, dove sono raffigurati i quattro elementi di cui è composta l'Anima universale

 Con Telesio nasce una prima forma di metodologia scientifica, soprattutto nelle obiezioni che egli muove ad Aristotele. Telesio si propone di interpretare unitariamente tutta la realtà fisico-naturale, estendendo il campo della sua concezione naturalistica alla stessa vita intellettiva ed etica dell'uomo.

Bruno invece, oltre a dedicarsi alla magia, all'astrologia, e all'arte della  mnemotecnica, eredita da Cusano l'idea di infinità dell'universo, anticipando per via filosofica le scoperte scientifiche della moderna astronomia. Bruno infatti affermava non solo che Dio è presente nella natura (la quale è tutta viva, animata), ma anche che il cosmo è infinito e che esistono innumerevoli altri mondi, non limitandosi così al timido eliocentrismo copernicano, ma contrapponendo al geocentrismo medievale una concezione molto più radicale.  Personalità irruente, da allievo di Platone era convinto che la verità è tale solo quando trasforma radicalmente chi la possiede, quando cioè il pensiero si fa vita, e la filosofia diviene magia. Per far trionfare il divino che è in noi occorre dunque secondo Bruno un impeto razionale, non un'attività pacifica che spenga i sensi e la memoria, ma al contrario li acuisca: occorre cioè un eroico furore (un termine chiaramente ereditato dall'Eros platonico).

Tommaso Campanella, considerato uno dei filosofi più originali dell'epoca tardo-rinascimentale, ebbe una vita molto avventurosa e travagliata. Arrestato a Napoli nel 1599 con l'accusa di cospirazione ed eresia, riuscì a sfuggire alla pena capitale simulando la follia, ma venne condannato al carcere a vita. Durante i ventisette anni di detenzione compose le sue opere principali, tra cui La città del Sole (1602), progetto di una società ideale ispirato alla Repubblica di Platone. Tentò una conciliazione tra la tradizione tomista e quella agostiniana accordandole con una visione trinitaria dell'essere, e facendo inoltre della coscienza l'attributo fondamentale di ogni realtà (sensismo).

Correnti filosofiche, politiche, e religiose

 Il naturalismo non assunse solo le forme del tardo neoplatonismo, ma anche di altre correnti filosofiche e letterarie. A una concezione naturalistica dell'amore ispirata al modello boccacciano si rifecero ad esempio Poliziano e Lorenzo il Magnifico, che invitavano a godere i piaceri amorosi, o Lorenzo Valla che la colorò di significato religioso. Ma il naturalismo venne fatto proprio soprattutto dall'aristotelismo, che tuttavia si sviluppò esclusivamente all'interno degli ambienti accademici, anche se assunse tratti capaci di accomunarlo con le ricerche dei nuovi platonici. In seguito alla pubblicazione dei grandi commentari di Averroè, affiancati ben presto da quelli di Alessandro di Afrodisia, l'aristotelismo venne caratterizzato dalla disputa tra queste due interpretazioni, con averroisti da un lato e alessandrinisti dall'altro; il maggior rappresentante della scuola alessandrina fu Pietro Pomponazzi, figura di spicco dell'aristotelismo padovano. Altre correnti naturalistiche riemergenti furono l'epicureismo e lo stoicismo, alle quali aderì Montaigne: personaggio sui generis del Cinquecento, avverso alla nostalgia dei classici pur ponendo anche lui l'uomo al centro della sua attenzione, Montaigne finirà poi su posizioni scetticiste. Si tratta a ogni modo di correnti parallele al neoplatonismo, che rimase la tendenza preferita grazie al rinnovato fervore con cui venne rilanciato da parte di Cusano nell'Europa d'oltralpe, e dell'Accademia neoplatonica di Ficino in Italia.

Illustrazione dell'isola di Utopia

La rivalutazione della figura dell'uomo favorì una presa di coscienza del suo ruolo e del suo senso di responsabilità anche all'interno della storia. Nel campo della filosofia politica il Cinquecento si inaugura così con due opere quasi contemporanee: Il Principe di Niccolò Machiavelli (1513) e L'Utopia di Tommaso Moro (1516). Il realismo di Machiavelli e l'utopismo di Moro, per la loro opposizione e diversità di intenti, possono essere assunti come i due poli fondamentali entro cui si svolge l'intera riflessione politica rinascimentale. Machiavelli in particolare può essere considerato il fondatore della teoria della "ragion di stato": al centro della sua ricerca c'è esclusivamente l'azione politica, dall'orizzonte della quale egli tende a escludere ogni altra considerazione religiosa, morale o filosofica. Il suo impegno finalizzato alla costruzione di un potere saldo ed efficiente  si inserisce nell'ideale rinascimentale di opporre la volontà e la responsabilità umana al dominio del caso e alle incognite della storia. Nella situazione politica italiana, divisa in tante signorie e anomala rispetto al resto d'Europa dove assistiamo invece alla formazione degli stati unitari e alla loro lenta trasformazione in stati assoluti, l'italiano Machiavelli fu paradossalmente un precursore del pensiero politico moderno.

L'ideale machiavellico di uno stato forte fu tuttavia respinto da Guicciardini, secondo cui il terreno politico rimaneva luogo di scontro di forze puramente individuali (di qui quel suo atteggiamento di affidarsi al proprio particulare, inteso come tornaconto e utile personale). Nella seconda metà del Cinquecento si assistette inoltre alla contrapposizione tra assolutisti (il più importante dei quali fu Jean Bodin), e i cosiddetti Monarcomachi, animati invece da un'irriducibile avversione al potere del re. Tra le filosofie politiche tardo-rinascimentali troviamo poi il giusnaturalismo dell'olandese Ugo Grozio (che affrontò tra l'altro problemi di diritto internazionale), e infine le utopie di Francesco Bacone e del già ricordato Campanella.

La concezione maggiormente individualistica dell'essere umano, comune peraltro a tutto l'Umanesimo, assunse una particolare importanza anche nella fede religiosa, dove mentre da un lato ci furono casi di paganesimo di ritorno, dall'altra assistiamo a un nuovo fervore della devozione cristiana. Il rapporto del singolo individuo con Dio divenne spesso più importante di quello con la Chiesa come istituzione. In questo panorama si inserisce la Riforma di Martin Lutero (1483-1546), di Calvino (1509-1564), e di Zwingli (1484-1531); ma anche all'interno del cattolicesimo vi furono numerose istanze di rinnovamento, si pensi ad esempio alle figure di Girolamo Savonarola (1452-1498), o di Erasmo da Rotterdam (1466-1536). Quest'ultimo in particolare polemizzò contro Lutero poiché vedeva nella sua negazione della libertà umana una posizione nettamente in contrasto con la mentalità umanista e rinascimentale.

Il Burdach, assertore di una sostanziale continuità fra Medioevo e Rinascimento, individua la genesi della rinascita religiosa rinascimentale già nelle aspirazioni mistico-religiose del Duecento italiano, presenti soprattutto nello spirito evangelico di San Francesco d'Assisi e nelle attese di Gioacchino da Fiore.4

Filosofi rinascimentali

    •    Giorgio Gemisto Pletone (1355-1452)

    •    Coluccio Salutati (1331-1406)

    •    Leonardo Bruni (1370-1444)

    •    Nicola Cusano (1401-1464)

    •    Lorenzo Valla (1407-1457)

    •    Leon Battista Alberti (1404-1472)

    •    Marsilio Ficino (1433-1499)

    •    Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494)

    •    Pietro Pomponazzi (1462-1524)

    •    Niccolò Machiavelli (1469-1527)

    •    Tommaso Moro (1478-1535)

    •    Francesco Guicciardini (1483-1540)

    •    Erasmo da Rotterdam (1466-1536)

    •    Charles de Bovelles (1479-1553)

    •    Martin Lutero (1483-1546)

    •    Bernardino Telesio (1509-1588)

    •    Giordano Bruno (1548-1600)

    •    Tommaso Campanella (1568-1639)

    •    Michel de Montaigne (1533-1592)

    •    Jean Bodin (1529-1596)

    •    Francesco Bacone (1561-1626)

Bibliografia

    •    Il neoplatonismo nel Rinascimento, a cura di Pietro Prini, Istituto della Enciclopedia Italiana (Treccani), Roma 1993.

    •    Ficino and Renaissance Neoplatonism, a cura di Konrad Eisenbichler e Olga Zorzi Pugliese, Dovehouse, Toronto 1986.

    •    J. Burckhardt, La civiltà del rinascimento in Italia, trad. it. a cura di E. Garin, Sansoni, Firenze 1952 (originale tedesco, Basilea 1860).

    •    M. Schiavone, Bibliografia critica generale. Umanesimo e rinascimento, in Grande antologia filosofica, vol. VI, Marzorati, Milano 1964.

    •    Eugenio Garin, Magia e Astrologia nella cultura del Rinascimento, in Medioevo e Rinascimento, Laterza, Bari 1954.

    •    A.-J. Festugière, La révélation d'Hermès Tismégiste, I: L'astrologie et les sciences occultes, Lecoffre, Parigi 1950.

    •    E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del rinascimento, trad. it., La Nuova Italia, Firenze 1974-1977 (originale tedesco, Teubner, Lipsia 1927).

    •    K. Burdach, Riforma, Rinascimento, Umanesimo, trad. it. a cura di D. Cantimori, Sansoni, Firenze 1935 (originale tedesco, Berlino 1918).

    •    Eugenio Garin, La Cultura Filosofica del Rinascimento Italiano. Ricerche e Documenti, Sansoni, Firenze 1992.

    •    Cesare Catà, La Croce e l'Inconcepibile. Il pensiero di Nicola Cusano tra filosofia e predicazione, EUM, Macerata 2009.

    •    Cesare Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P. C. Pissavino, Bruno Mondadori editore, Milano 2002.

    •    Frances Amelia Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Bari 1998.



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Illuminismo

« Illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso. Minorità è l'incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stesso è questa minorità, se la causa di essa non dipende da difetto d'intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di far uso del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'Illuminismo. »

(Immanuel Kant da Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo?, 1784)

L'illuminismo fu un movimento culturale e filosofico sviluppatosi approssimativamente nel secolo XVIII in Europa. Il termine illuminismo è passato a significare genericamente ogni forma di pensiero che voglia "illuminare" la mente degli uomini, ottenebrata dall'ignoranza e dalla superstizione, servendosi della critica della ragione e dell'apporto della scienza.1

Dipinto di Charles Gabriel Lemonnier rappresentante la lettura della tragedia di Voltaire, in quel tempo esiliato, L'orfano della Cina (1755), nel salotto di madame Geoffrin a Rue Saint-Honoré. I personaggi più noti riuniti intorno al busto di Voltaire sono Rousseau, Montesquieu, Diderot, d'Alembert, Buffon, Quesnay, Richelieu e Condillac.2

L'illuminismo come critica della ragione

Immanuel Kant

 In un senso più ampio si parla di "illuminismo" riferendolo anche al mondo greco antico nell'ambito, ad esempio, del pensiero dei sofisti3 autori di una critica corrosiva alle presunte leggi di origine divina e all'antropomorfismo religioso. Ugualmente illuministi ante litteram possono essere annoverati Democrito e gli atomisti, gli scettici e gli stoici e soprattutto Epicuro che vuole liberare l'uomo dalla paura, indotta dalla religione, degli dei e della morte.4

Erede della ragione, intesa nel senso di Locke, l'illuminismo vuole adattare alla filosofia il metodo della fisica newtoniana affidando alla ragione la determinazione tanto delle proprie possibilità che dei propri limiti, indipendentemente da ogni verità che si presenti come rivelata o innata.

La fede nella ragione, coniugandosi con il modello sperimentale della scienza newtoniana, sembrava rendere possibile la scoperta non solo delle leggi del mondo naturale, ma anche di quelle dello sviluppo sociale. Si pensò allora che, usando correttamente la ragione, sarebbe stato possibile un progresso indefinito della conoscenza, della tecnica e della morale: convinzione questa che verrà successivamente ripresa e rafforzata dalle dottrine positiviste.

Fin dagli inizi gli illuministi presuppongono che la gran parte degli uomini, pur essendo stati creati liberi dalla Natura («naturaliter maiorennes») si accontentino molto volentieri di rimanere "minorenni" per tutta la vita. Questa condizione è dovuta o a comoda pigrizia o a viltà, al non avere cioè il coraggio di cercare la verità. In ogni caso il risultato di questa non-scelta è la facilità per i più scaltri e per i detentori del potere di erigersi a guide di costoro: «Se io ho un libro che pensa per me, se ho un direttore spirituale che pensa per me...io non ho più bisogno di darmi pensiero di me. Non ho bisogno di pensare, purché possa solo pagare...».5

Gli interessati tutori imprigionano dunque i vili e i pigri in una «carrozzina da bambini» paventando loro i rischi che si corrono a voler camminare da soli. Non s'impara a camminare senza cadere, ma questo li terrorizza, per cui rimarranno infanti per tutta la loro vita.6

L'illuminista dovrà tutelare l'uomo ammaestrandolo a diventare "maggiorenne" usando la propria ragione per liberarsi dalla credenza irriflessa nelle verità già date, siano esse quelle innate nel campo conoscitivo, siano quelle rivelate dalla religione.

La ragione rifiuterà tutto quello che non deriva da essa con il compito precipuo di stabilire i propri limiti: una ragione dunque programmaticamente finita e orgogliosa di essere tale poiché, in quell'ambito limitato, che è quello dell'esperienza, essa potrà conoscere la verità sino in fondo.

Questo avverrà applicando la critica della ragione, attraverso cioè l'analisi, la discussione, il dibattito nei confronti di quell'esperienza che non è soltanto il complesso dei fatti fisici ma anche di quelli storici e sociali:

« Dai principi delle scienze profane ai fondamenti della rivelazione, dalla metafisica ai problemi fondamentali del gusto, dalla musica alla morale, dalle controversie scolastiche dei teologi alle questioni economiche, dal diritto naturale a quello positivo, insomma ai problemi che ci riguardano più da vicino a quelli che ci toccano soltanto direttamente, tutto fu discusso, analizzato, dibattuto.7 »

Il compito pedagogico dell'intellettuale

Jean-Jacques Rousseau

 Compito degli intellettuali illuministi, che si autodefiniscono philosophes, deve quindi essere il coraggioso uso della ragione:

« Ma quale limitazione è d'impedimento all'illuminismo? Quale non lo è, anzi lo favorisce? Io rispondo il pubblico uso della ragione… l'uso che uno ne fa come studioso davanti all'intero pubblico di lettori.89 »

Questa la responsabilità dell'intellettuale di fronte alla società in cui vive: un compito pedagogico di liberazione dalla metafisica, dall'oscurantismo religioso, dalla tirannia della monarchia assoluta. Questo programma educativo secondo Jean-Jacques Rousseau significherà riportare l'uomo al suo iniziale stato di natura trasformandone la spontanea bontà della condizione naturale in una conquista consapevole e definitiva della sua razionalità. Poiché

 (FR) 
« Tout est bien sortant des mains de l'Auteur des choses, tout dégénère entre les mains de l'homme. »

 (IT) 
« Ogni cosa è buona mentre lascia le mani del Creatore delle cose; ogni cosa degenera nelle mani dell'uomo.10 »

La ragione illuminista

 La definizione illuministica della ragione è ormai lontana da quella classica prevalentemente contemplativa: ora è concepita come funzionale e operativa: la sua validità cioè è dimostrata dai risultati pratici che essa consegue: la razionalità è valida se è in grado di spiegare e ordinare i fatti in base a leggi di ordine razionale. Ragione, natura, spontaneità coincidono nella visione illuministica nella convinzione che la natura stessa abbia dotato ogni uomo della istintiva capacità di comprendere che lo rende uguale a tutti gli altri a condizione che esso sia liberato dalla corruzione della superstizione e dell'ignoranza. L'uomo, liberato dalle incrostazioni del potere, userà correttamente e spontaneamente,(come secondo gli illuministi dimostrerebbe il comportamento naturale del cosiddetto "buon selvaggio") la sua ragione per procedere alla costruzione di uno Stato in cui le leggi, non più tiranniche, si fondino sul rispetto dei diritti naturali

Il mito del "buon selvaggio"

 Quello del "buon selvaggio" fu un mito basato sulla convinzione che l'uomo in origine fosse un "animale" buono e pacifico, solo successivamente corrotto dalla società e dal progresso. Nella cultura del Primitivismo del XVIII secolo, il "buon selvaggio" era considerato più lodevole, più autenticamente nobile dei prodotti dell'educazione civilizzata.

Nonostante l'espressione "buon selvaggio" fosse già comparsa nel 1672 in La conquista di Granada di John Dryden (1672), la rappresentazione idealizzata di un "gentiluomo della natura" fu ripresa dal Sentimentalismo del secolo successivo.

Il concetto di "buon selvaggio" incarna la convinzione che senza i freni della civilizzazione gli uomini siano essenzialmente buoni, le sue fondamenta giacciono nella dottrina della bontà degli esseri umani, espressa nel primo decennio del Settecento da Anthony Shaftesbury, che incitava un aspirante autore «a cercare quella semplicità dei modi, e quel comportamento innocente, che era spesso noto ai meri selvaggi; prima che essi fossero corrotti dai nostri commerci.»11

Il mito del buon selvaggio fu alimentato dall'azione missionaria dei Gesuiti12, iniziata fin dal XVII secolo nelle loro reducciones del sud America, soprattutto nel Paraguay, consistente nella realizzazione di centri (reducciones de indios) per l'evangelizzazione delle popolazioni indigene allo scopo di creare una società con i benefici e le caratteristiche della cosiddetta società cristiana europea, però priva dei vizi e degli aspetti negativi. Gli indios apparivano specialmente adatti per questo progetto data la loro natura essenzialmente recettiva dell'educazione dei Gesuiti. Ma ciò che faceva pensare che essi incarnassero la primitiva bontà dell'uomo non civilizzato erano le loro naturali inclinazioni artistiche soprattutto per la musica.

Nell'illuminismo fu poi soprattutto Rousseau a propagandare la tesi del buon selvaggio, asserendo nel suo Contratto sociale che «l'uomo è nato libero e tuttavia ovunque è in catene». Voltaire gli rispose polemicamente con vena ironica che «a leggere il vostro libro vien voglia di camminare a quattro zampe, ma avendone sfortunatamente persa l'abitudine da più di sessant'anni mi è impossibile riprenderla ora».13

L'âge des lumières

 L'età dei lumi: con questa espressione, che mette in evidenza l'originalità e la caratteristica di rottura consapevole nei confronti del passato, si diffuse in Europa il nuovo movimento di pensiero degli illuministi francesi che in effetti affondava le sue radici nella cultura inglese. Voltaire, Montesquieu, Fontanelle riconoscevano infatti di essersi ispirati a quella filosofia inglese fondata sulla ragione empirica e sulla conoscenza scientifica, elementi essenziali del pensiero di Locke e di Newton e David Hume che risalivano a loro volta a quello di Francesco Bacone.14

Se l'illuminismo assunse prevalentemente un'impronta francese questo si deve alle particolari condizioni storiche della Francia del XVIII secolo. Lo sviluppo della borghesia durante il regno di Luigi XIV è assicurato dall'assolutismo monarchico ed è fondato sulla distinzione tra l'uomo privato e quello pubblico. Il suddito potrà fare i suoi affari ed esprimere una certa libertà di pensiero ma questa non dovrà mai entrare in conflitto con l'autorità del sovrano.

Alla borghesia evoluta, alla fronda nobiliare e al movimento ugonotto, che continuano nascostamente ad esercitare la loro critica, si aggiungono i nuovi finanzieri, creditori dello stato ma privi di potere politico che esprimono il loro dissenso nelle società segrete come quella della Massoneria. Quanto più repressa sarà la loro contestazione politica tanto più diverrà appariscente evidenziando così l'illuminismo francese che, rispetto a quello inglese, meno condizionato dal potere politico, diverrà il rappresentante dell'illuminismo in generale.

Madame Geoffrin

I salotti letterari

Una particolare funzione sociale e politica venne svolta nel "Siècle des Lumières" dai salotti letterari: una tradizione culturale già presente in Francia dai tempi di Luigi XIV quando ci si riuniva a intervalli regolari presso una signora di mondo nei «bureaux d’esprit».15

Gli incontri erano ora organizzati da altolocati membri dell'alta borghesia o dell'aristocrazia riformista francese che erano soliti invitare in casa loro intellettuali più o meno noti per conversare e dibattere temi d'attualità o argomenti particolarmente graditi all'anfitrione come accadeva nel salotto di Madame Geoffrin che invitava celebrità letterarie e filosofiche come Diderot, Marivaux, Grimm, Helvétius o nel salotto del barone d’Holbach, «le premier maître d’hôtel de la philosophie», (primo direttore dell'albergo della filosofia)16 nella cui casa si riunivano Diderot, d’Alembert, Helvétius, Marmontel, Raynal, Grimm, l’abate Galiani e altri filosofi. In genere nei salotti si leggevano opere giudicate politicamente eretiche dall'assolutismo monarchico o si discuteva di cosa stesse accadendo fuori del mondo salottiero.

In questo ambiente culturale svolgono un ruolo preminente le donne, le "salonnièries" (salottiere) alle quali il nuovo ideale egualitario illuminista offriva l'opportunità di collaborare, mostrando le proprie doti intellettuali, ad un progetto radicalmente riformista non più riservato a una cultura soltanto maschile.17

L'Encyclopédie e la diffusione del sapere



Per approfondire, vedi Encyclopédie.

Frontespizio dell' Encyclopédie, la monumentale opera simbolo del nuovo sapere dell'Illuminismo

 Emblema dell'illuminismo francese, assieme al pensiero di Voltaire, sarà la grandiosa opera dell'Enciclopedia o Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri che in 35 volumi, pubblicati dal 1751 al 1780, da un consistente gruppo di intellettuali sotto la direzione di Diderot e D'Alembert, diffonderà i principi illuministici non solo in Francia ma, attraverso numerose traduzioni, in tutta Europa.

L'opera si presenta come arditamente innovativa rispetto ai vecchi dizionari enciclopedici: essa vuole essere «un quadro generale degli sforzi dello spirito umano in tutti i generi e in tutti i secoli.»18 Oltre ad essere un'opera di informazione, l'Enciclopedia era quindi anche un'opera di propaganda, tramite la quale i suoi autori si proponevano di convincere il vasto pubblico della validità delle idee illuministe.

« Quest'opera produrrà certamente, col tempo, una rivoluzione negli animi ed io spero che i tiranni, gli oppressori, i fanatici e gli intolleranti non abbiano a trarne vantaggio. Avremo reso un servigio all'umanità.19 »

Dalla direzione dell'opera D'Alembert fu costretto a ritirarsi nel 1759 in seguito al divieto di pubblicazione del Consiglio di Stato. Diderot continuerà la preparazione clandestina di altri volumi.

La pubblicazione dell'Encyclopédie incontrò infatti diversi ostacoli e resistenze da parte dell'aristocrazia intellettuale di corte, vicina alla Sorbona, e da parte della Chiesa cattolica: il governo francese ne bloccò per due volte la stampa e gli ultimi due volumi dovettero uscire clandestinamente. Ciò nonostante l'Enciclopedia fu interamente pubblicata negli anni fra il 1751 e il 1772, e ottenne un grande successo sia in Francia che nel resto d'Europa, dove il francese era ormai divenuto la lingua delle persone colte.

L'Enciclopedia si propone di eliminare dal sapere sino allora acquisito ogni connotazione non provata razionalmente e quindi ordinare con un criterio alfabetico le nostre conoscenze: questo compito

« consiste nel riunirle nel più piccolo spazio possibile, ponendo il filosofo al di sopra di questo vasto labirinto, in una prospettiva così elevata da poter considerare insieme le scienze e le arti principali, da poter vedere con un colpo d’occhio gli oggetti delle proprie speculazioni e le operazioni che può compiere su tali oggetti, e da poter distinguere i principali settori delle conoscenze umane, i punti che li separano e quelli che li uniscono, intravedendo anche, in qualche caso, i cammini segreti che li congiungono. [...]20 »

 I criteri di compilazione risponderanno a questi punti principali: il metodo analitico per la filosofia sulla base dell'empirismo lockiano e il metodo della fisica newtoniana sulla base del pensiero baconiano da cui D'Alembert, riprendendone la tripartizione di memoria, ragione e immaginazione, vi fa corrispondere storia, filosofia e arte.21

Gli articoli dell'Enciclopedia trattano i più svariati argomenti con un tono ora rivoluzionario ora apparentemente ingenuo: si parla di tolleranza, di guerra, di progresso, di privilegi ma anche di calze, di cinesi...

Emergono dall'opera anche le nuove concezioni dell'economia con la glorificazione della macchina, del nuovo sistema industriale e le nuove teorie fisiocratiche che fondano la ricchezza di una nazione su i beni e i prodotti naturali cioè sull'agricoltura.



Per approfondire, vedi Fisiocrazia.

Voltaire

 Come banditore del nuovo sapere si affianca all'Enciclopedia l'opera di Voltaire che inizia la sua carriera letteraria come drammaturgo, poeta e autore di pamphlets (opuscoli satirici e polemici), saggi, satire e racconti brevi nei quali divulga la scienza e la filosofia della sua epoca. Il filosofo intrattiene inoltre una voluminosa corrispondenza con scrittori e sovrani europei.

Egli riprende tutti i temi tipici dell'illuminismo difendendoli con uno spirito caustico che non risparmia filosofi, clero e sovrani ma che non gli pone remore nell'accettare l'incarico di consigliere di Federico II di Prussia.

Voltaire crede nel progresso annunciato dall'illuminismo ma non è disposto a farne un dogma: «un giorno tutto andrà meglio ecco la nostra speranza; ogni cosa va bene, ecco la nostra illusione»; critica il pessimismo ma beffeggia l'ingenuo ottimismo di Leibniz22 Al fondo del pensiero di Voltaire vi è la concezione dell'uomo ormai padrone della natura e facitore di un mondo né ottimisticamente esaltato né pessimisticamente condannato come il peggiore dei mondi possibili: occorre «lasciare andare il mondo come va, perché, se tutto non è bene, tutto è passabile».23

La conoscenza

Jean Baptiste Le Rond d'Alembert

Lavoisier

 La conoscenza fondata sulle potenzialità interiori della stessa ragione si svolge nel campo del finito e del limitato secondo l'insegnamento di Locke. Occorrerà fornire quindi la ragione di un metodo oggettivo rappresentato dall'analisi matematica che faccia affidamento più all'aritmetica che alla geometria poiché quest'ultima, come si è visto in Cartesio, può portare a elaborazioni metafisiche sganciate da ogni esperienza.

L'aritmetica invece, è uno strumento di ricerca che deve necessariamente riferirsi all'esperienza fonte di ogni contenuto concreto. La stessa aritmetica permette di trovare tra i fatti analizzati dei principi invariabili e una legge:

« La ricerca ci conduce ben presto all'aritmetica, cioè alla scienza dei numeri. Essa non è altro che l'arte di trovare, in modo abbreviato, l'espressione di un rapporto unico che risulta dalla comparazione di vari altri.24 »

Il discorso iniziato da Galilei e concluso da Newton arriva dunque a compimento con l'illuminismo che estende il metodo analitico dai fatti fisici a quelli sociali, etici e psichici, in breve, a tutta le realtà umana:

« Analizzare non è altro che osservare successivamente le qualità di un oggetto allo scopo di disporle nello spirito secondo l'ordine simultaneo in cui esistono...Nessun altro metodo può supplire all'analisi, né può spandere la stessa luce: di ciò avremo la prova ogni volta che vorremo studiare un oggetto un po' complicato. Non abbiamo inventato questo metodo; l'abbiamo semplicemente trovato, e non abbiamo a temere che esso ci inganni.25 »

L'illuminista si dichiara nemico del sistema, inteso come la pretesa di definire una volta per tutte la realtà, partendo da principi fissi e determinati, com'era in Cartesio, ma adopera lo spirito sistematico iniziando dai fatti: un atteggiamento sistematico inteso come una ricerca razionale per la conoscenza dei fatti dopo averli analizzati rifiutando ogni impostazione aprioristica e arrivando alla definizione di leggi generali solo dopo l'accurato esame dei fatti stessi.

Denis Diderot

« Finché le cose sono soltanto nella nostra mente, esse sono nostre opinioni: esse cioè sono nozioni che possono essere vere o false, a cui si può consentire o che si può contraddire. Esse acquistano consistenza soltanto collegandosi agli oggetti esterni. Questo legame avviene in virtù di una catena ininterrotta di esperienze, oppure in virtù di una catena ininterrotta di ragionamenti connessi da un lato con l'osservazione e dall'altro con l'esperimento, oppure in virtù con una catena di esperimenti sparsi di luogo in luogo, in mezzo a determinati ragionamenti, come pesi disposti lungo un filo sospeso tra due estremità. Senza questi pesi il filo diverrebbe preda di qualsiasi agitazione che movesse l'aria.26 »

Il mondo è una macchina che ha un ordinamento di leggi al suo interno che esclude qualsiasi teoria finalistica:

« Lo scienziato, la cui professione è quella di istruire e non già di edificare, lascerà da parte il perché, guardando solamente al come. Il come si trae dagli esseri, e il perché dal nostro intelletto...Quante idee assurde, quante false supposizioni, quante nozioni chimeriche si trovano negli inni che alcuni temerari difensori delle cause finali hanno osato comporre in onore del Creatore!27 »

Il rifiuto di ogni metafisica e la visione naturalistica della realtà non comporta per gli illuministi una concezione materialista, che anzi in genere essi rifiutano28: «Voltaire non si sente l'animo di decidersi né per il materialismo né per lo spiritualismo. Egli ripete spesso:»

« Come non sappiamo che cosa sia uno spirito, così ignoriamo cosa sia un corpo.29 »

Il materialismo infatti, secondo gli illuministi non è altro che un falso travestimento della vecchia metafisica che vuole offrire la facile spiegazione onnicomprensiva e totale dell'universo. Se essi sostengono talora il materialismo lo fanno per ragioni politiche e morali come polemica ed estrema protesta contro le imposizioni politiche e religiose del loro tempo. Solamente il D'Holbach sostiene in maniera convinta e scientifica la concezione materialistica30

la concezione della storia

Il barone Paul Henri Thiry d'Holbach

 Attraverso l'esame critico della storia, l'illuminista può riconoscere la continuità dell'opera della ragione e denunciare gli errori e le contraffazioni con cui erano state tramandate sino ad allora le vicende umane allo scopo di mantenere gli uomini nella superstizione e nell'ignoranza. Nella storia così come sinora veniva presentata

« si vedono gli errori e i pregiudizi susseguirsi via via e cacciare in bando la verità e la ragione.31 »

Pierre Bayle per primo si dedicherà nel suo Dizionario storico e critico (1697) alla compilazione di una «raccolta degli errori e delle falsità» da cui deve essere epurata la storia come fino ad allora è stata presentata. Egli è un minuzioso e preciso raccoglitore di fatti attestati da documenti e testimonianze così numerose che Ernst Cassirer (1874–1945) lo considera il fondatore dell' acribia storica.

« [Lo storico] deve dimenticare che appartiene a un certo paese, che fu educato a una data fede, che deve riconoscenza a questo o a quello e che questi o quegli altri sono i suoi parenti o i suoi amici. Uno storico in quanto tale è come Melchisedec, senza padre, senza madre, senza genealogia. Se gli si domanda da dove viene deve rispondere...sono abitante del mondo; non sono al servizio dell'imperatore, né al servizio del re di Francia ma solo al servizio della verità...32 »

Il criterio sommo dunque della ricerca, per lo storico neutrale, è quello di scoprire come vera storia quella che segna la vittoria della ragione sull'ignoranza e per questo dall'illuminismo viene condannato in blocco il medioevo come età di fanatismo e oscurantismo religioso mettendo da parte gli aspetti positivamente culturali di quel periodo.

Pierre Bayle

 La mutevolezza degli avvenimenti storici è solo apparente: al di là di queste differenze l'illuminista coglie il lento ma costante emergere sulla superstizione e l'errore l'elemento immutabile della ragione:

« Tutto ciò che deriva dalla natura umana si assomiglia da una parte all'altra dell'universo; invece tutto ciò che può dipendere dalla consuetudine è differente, e può risultare simile soltanto per caso...invece la natura ha diffuso l'unità stabilendo ovunque un piccolo numero di princìpi invariabili: così il fondamento è ovunque lo stesso, mentre la cultura produce frutti diversi.33 »

 Per Lessing la storia, come ricerca della verità comincia solo con l'Illuminismo, tutto ciò che l'ha preceduta è una sorta di "pre-istoria".34

Sarà il romanticismo a rilevare nella concezione illuminista della storia la mancanza di una visione unitaria e concreta che originava dall'astrattezza del concetto astorico di ragione che da loro viene identificato con la pura e semplice naturalità. Gli illuministi, cioè, non colgono l'interdipendenza tra l'uso della ragione che opera nella storia e le vicende economiche, sociali e culturali che realmente si sviluppano nella storia; essi riportano ogni differenza o sviluppo nella storia all'opposizione ragione-ignoranza.

Politica

 Da questa visione della storia dove prevale la ragione naturale universale ed eterna emergono i temi politici della tolleranza, uguaglianza e libertà intesi come valori politici naturali ed universali.

Ma l'uguaglianza per gli illuministi non comporta uguaglianza sociale o politica: l'essenziale è che il sovrano rispetti i diritti naturali: è trascurabile che egli sia un sovrano assoluto. È vero che ogni uomo per natura è uguale agli altri ma questo non comporta la parità tra i cittadini:

« Poiché la natura è la stessa in tutti gli uomini, è chiaro che secondo il diritto naturale, ognuno deve stimare e trattare gli altri come esseri che gli sono naturalmente uguali, cioè che sono uomini esattamente come lui...Tuttavia non mi si faccia il torto di supporre che per spirito di fanatismo io approvi in uno stato la chimera dell'uguaglianza assoluta che potrebbe appena nascere in una repubblica ideale; conosco troppo la necessità delle differenze di condizioni, di gradi, di onori, di distinzioni, di prerogative, di subordinazioni che devono regnare in tutte le formazioni sociali, e aggiungo anzi che non esiste incompatibilità tra queste differenze e l'uguaglianza naturale o morale.35 »

Busto di Montesquieu

 Così anche per il concetto della tolleranza l'illuminismo risente dei suoi limiti storici quando lo collega all'idea di emulazione e ai principi economici della libertà di scambio e della libera concorrenza:

« Entrate nella borsa di Londra, questo luogo ben più rispettabile di tante corti; vi troverete riuniti i rappresentanti di tutte le nazioni, in vista dell'utilità degli uomini. L'ebreo, il maomettano e il cristiano trattano tra loro come se appartenessero alla medesima religione, e qualificano infedeli soltanto coloro che fanno bancarotta. Il presbiteriano si fida dell'anabattista, e l'anglicano accoglie la promessa del quacquero.36 »

La libertà e l'uguaglianza sono riconosciute per gli illuministi solo a coloro che sanno "bene usare" della ragione e se "per natura" ne sono incapaci è giusto che nella vita civile essi siano sottoposti a chi sa ben governare: il "popolo" che ha dimostrato di fare cattivo uso della ragione non conseguendo la proprietà privata va rispettato nella sua umanità ma va guidato dall'alto:

« come il cielo è distante dalla terra, così l'autentico spirito di uguaglianza è lontano dallo spirito di uguaglianza spinto all'estremo...Allora il popolo vuol far tutto da solo...e se non ci sarà più rispetto per gli anziani, non ce ne sarà per i padri; i mariti non otterranno più deferenza e i padroni non otterranno più sottomissione... Le donne, i bambini, gli schiavi non saranno più sottoposti a nessuno.37 »

Jean-Antoine Caritat, marchese di Condorcet

 La semplice ragione non fa tutti uguali allo stesso modo: «è la proprietà che fa il cittadino»38

Le simpatie politiche degli illuministi sono rivolte alla monarchia costituzionale che per il suo carattere moderato dà garanzia di ordine e di pace favorendo l'uguaglianza oppure sono disposti a concedere fiducia anche al dispotismo illuminato:

« La democrazia e l'aristocrazia non sono degli stati liberi per loro natura. La libertà politica si trova solo negli stati moderati, ma essa non esiste sempre negli stati moderati, essa c'è soltanto quando non si abusa del potere. »

La Natura e la ragione uguale per tutti rendono gli uomini fratelli al di là di ogni differenza etnica o nazionale. La fratellanza si traduce nell'ideale politico del cosmopolitismo.

Quando però la parola cosmopolite fu immessa nel 1762 nel vocabolario dell'Accademia francese se ne dava una connotazione negativa39:

 (FR) 
« Celui qui n’adopte point de patrie. Un cosmopolite n’est pas un bon citoyen »

 (IT) 
« Colui che non si riferisce ad una patria. Un cosmopolita non è un buon cittadino »

 Il giudizio sul cosmopolitismo mutò radicalmente dopo gli avvenimenti della Rivoluzione francese e nell’edizione del vocabolario del 1798 appare scritto a proposito del termine cosmopolite:

 (FR) 
« Citoyen du monde. Il se dit de celui qui n’adopte pas de patrie. Un cosmopolite regarde l’univers comme sa patrie »

 (IT) 
« Cittadino del mondo. Il termine si riferisce a colui che non si riferisce a una patria. Un cosmopolita considera l'universo come la sua patria »

Cesare Beccaria

 Al di là dei limiti storici queste idee di libertà, uguaglianza tolleranza per merito degli illuministi divennero patrimonio comune della cultura della Francia che cercò di esprimerli nella Rivoluzione e poi di esportarle nel resto d'Europa.

Collegata alla visione illuministica della storia e alla fiducia nella ragione è l'idea fondamentale che il progresso dell'uomo, senza sottovalutare gli ostacoli posti dai diversi costumi e tradizioni, sia inarrestabile.

« Le nostre speranze sul futuro del genere umano possono venire riassunte in tre punti importanti: la distruzione delle diseguaglianze tra le nazioni, i progressi dell'uguaglianza all'interno di uno stesso popolo, ed infine il perfezionamento reale dell'uomo...Affrontando questi tre problemi troveremo - nell'esperienza passata e nell'osservazione dei progressi finora compiuti dalle scienze e dalla civiltà, nonché dall'analisi del cammino dello spirito umano e dello sviluppo delle sue facoltà - i motivi più forti per ritenere che la natura non ha posto alcun termine alle nostre speranze.40 »

Gli illuministi, inoltre, criticarono pesantemente l'uso della tortura e della pena di morte portando a radicali riforme giudiziarie come quelle di Maria Teresa d'Austria e di Pietro Leopoldo. La principale opera in questo senso è il libro Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, molto ammirato da Voltaire e Diderot.

Religione e morale

 Tipico del pensiero illuminista è il rifiuto di ogni religione rivelata e in particolare del Cristianesimo, ritenuto origine degli errori e della superstizione. Da qui la scelta del deismo come religione naturale e l'identificazione della religione con la morale.



Per approfondire, vedi Il deismo.

 Non considerando le posizioni materialistiche ed atee, come quelle dell'ultima fase del pensiero di Diderot, il deismo si ritrova nella maggior parte dei pensatori illuministi i quali, attraverso argomentazioni scientifiche, cercano di dimostrare l'esistenza di un Dio all'origine dell'universo. La meravigliosa macchina del cosmo fa infatti pensare che debba esserci come causa efficiente, non causa finale, un "eterno geometra":

« Quando mi rendo conto dell'ordine, della prodigiosa abilità delle leggi meccaniche e geometriche che governano l'universo, dei mezzi e dei fini innumerevoli di tutte le cose, sono preso dall'ammirazione e dal rispetto...Io ammetto così quest'intelligenza suprema senza temere che mi si possa far cambiare opinione...Ma dov'è quest'eterno geometra? Esiste in qualche luogo oppure dovunque, senza occupare uno spazio? Non ne so nulla.41 »

Un Dio quindi che non interverrà più nella creazione dell'universo che egli «lascia andare come va» e che non interferisce nella storia dell'uomo che alla fine non sarà né condannato né premiato per le sue azioni.

La guida dell'uomo nella sua condotta morale diviene una religiosità laica, trasformazione della religione in morale naturale i cui precetti sono uguali per tutti gli uomini:

« Per religione naturale si devono intendere i principi morali comuni a tutto il genere umano.42 »

« I doveri a cui siamo tutti tenuti nei confronti dei nostri simili appartengono essenzialmente ed unicamente al dominio della ragione, e pertanto sono uniformi presso tutti i popoli. La conoscenza di questi doveri costituisce ciò che si chiama morale e rappresenta uno degli oggetti più importanti a cui la ragione possa riferirsi ...43 »

Tra i doveri naturali va annoverato il nuovo concetto rivoluzionario di tolleranza che viene spesso riferito alla vita economica applicando il concetto illuministico della ragione operativa, nel senso di giudicare la razionalità dai suoi risultati pratici:

« Se ognuno avesse la tolleranza che qui sostengo, in uno stato diviso tra dieci fedi religiose vi sarebbe la stessa concordia che sussiste in una città nella quale varie categorie di artigiani si sopportano reciprocamente, Il risultato sarebbe quello di una onesta emulazione a chi meglio riesce a segnalarsi per pietà, per buoni costumi, per coscienza.44 »

Lo stesso valore di tolleranza non esclude che si possa professare la fede in una religione rivelata: questo però sarà consentito solo nell'ambito della morale privata e non in quello della morale pubblica:

« Reprimete con severità coloro che col pretesto della religione mirano a turbare la società, a fomentare sedizioni, a scuotere il giogo delle leggi; noi non siamo i loro apolegeti; ma non confondete con questi colpevoli coloro che vi chiedono solo la libertà di pensare, di professare il credo che giudicano migliore e che, per il resto, vivono da fedeli cittadini dello stato... Noi predichiamo la tolleranza pratica non quella speculativa, e si comprende a sufficienza la differenza che esiste tra il tollerare una religione e l'approvarla.45 »

La soppressione della Compagnia di Gesù

 (FR) 
« Écrasez l'Infâme46 »

 (IT) 
« Schiacciate l'infame »

(Voltaire)

 L'atteggiamento dell'Illuminismo nei confronti della religione cristiana e dei suoi rapporti col potere civile non furono uguali dappertutto: se in Inghilterra i problemi legati alla lotta contro l'assolutismo monarchico si erano già in parte risolti, seppure faticosamente, con l'editto di tolleranza del 1689, che poneva fine ufficialmente alle persecuzioni religiose e relegava la fede all'ambito soggettivo-individuale, nell'Europa continentale l'illuminismo «mantenne una dura avversione per la Chiesa Cattolica»47: «gli Stati cominciarono ad assumere un atteggiamento indipendente; si liberarono da ogni rispetto per la politica del Papato; rivendicarono per i loro affari interni, un'autonomia che concedeva alla curia un'influenza sempre minore, anche nelle questioni ecclesiastiche»48

« In questo clima intellettuale e politico non sorprende che la Compagnia di Gesù, tradizionale assertrice dei diritti della Chiesa e del Pontificato, si sia trovata esposta ad una violentissima campagna di accuse, (non esclusa quella di tramare contro lo Stato) ed abbia finito per essere travolta. All'anticlericalismo trionfante...si affiancarono le correnti giurisdizionalistiche che sostenevano l'urgenza di smantellare i secolari privilegi di cui godeva ancora la Chiesa: dal diritto d'asilo al foro ecclesiastico.49 »

 I gesuiti, intransigenti difensori del primato papale, sulla spinta dei conflitti crescenti tra chiesa e stato, nonché di un'opinione pubblica che ne chiedeva l'annientamento, vennero espulsi da quasi tutti i paesi europei:50 «Cominciò nel 1759 il Portogallo seguito dalla Francia (1762), dalla Spagna (1769), da Napoli e da Parma signoreggiate da principi borbonici. Non fu estranea a questa misura, per quanto riguarda le colonie spagnole e portoghesi, l'avversione dei coloni per le reducciones de indios, i villaggi costruiti dai gesuiti per raccogliervi gli indigeni e salvarli dallo sfruttamento degli encomenderos.51»

Il papa Clemente XIV nel 1773 con il breve Dominus ac Redemptor risolse di sopprimere la Compagnia di Gesù.525354 «I beni dell'ordine furono incamerati e destinati, in gran parte, alla creazione di opere pubbliche gestite dallo Stato, che presero il posto delle scuole gestite dai Gesuiti.55». La compagnia tuttavia non scomparve del tutto in Europa, in quanto in Russia, Caterina la Grande, pur essendo molto sensibile allo spirito illuminista, rifiutò la delibazione papale e mantenne vivo l'ordine.

Le controversie con la Chiesa cattolica

L'Inquisizione

 Fu inoltre a seguito all'apertura del dibattito sulla religione e del suo ruolo nella società, che trovava un confronto con i pensatori giansenisti dell'epoca, che vennero scritti saggi critici sull'Inquisizione, come la "Storia generale dell'Inquisizione" di Pietro Tamburini56.

L'Inquisizione venne descritta come il luogo per eccellenza nel quale, tramite ripetuti crimini e torture, si esprimeva l'autentica ortodossia cattolica, spesso peraltro resa un tutt'uno con quella protestante.57

Voltaire nel suo Dizionario filosofico introduce la voce "Inquisizione" scrivendo:

« L'Inquisizione è, come si sa, un'invenzione mirabile e autenticamente cristiana per rendere più potenti il papa e i monaci e per rendere ipocrita un intero regno »

 e, dopo una disamina della storia dell'inquisizione termina commentando le procedure del tribunale dell'inquisizione:

« Si è imprigionati dietro la semplice denuncia delle persone più scellerate; un figlio può denunciare il padre, una donna il marito; non si è mai messi a confronto con i propri accusatori, i beni vengono confiscati a favore dei giudici: così almeno si è comportata l'Inquisizione fino ai giorni nostri. V'è in ciò qualcosa di divino, perché è incomprensibile che gli uomini abbiano sopportato con tanta pazienza questo giogo.58 »

Secondo due storici revisionisti Edward Peters (1988)59 e Henry Kamen (1997)60 queste analisi, avrebbero operato uno stravolgimento dei dati storici sull'Inquisizione, distorsione che chiamano leggenda nera dell'Inquisizione o del "secolo dell'intolleranza". Questa stortura storica sarebbe stata opera di ambienti protestanti e, a seguire, illuministi, a partire almeno dal XVI secolo, con l'obiettivo di screditare l'immagine sia della Chiesa cattolica, sia dell'Impero spagnolo.

Diffusione dell'Illuminismo



Per approfondire, vedi Dispotismo illuminato, Illuminismo in Inghilterra, Illuminismo italiano, Illuminismo in Polonia, Illuminismo in Spagna, Haskalah e Illuminismo in Germania.

 L'Illuminismo fu anche un movimento profondamente cosmopolita: pensatori di nazionalità diverse si sentirono accomunati da una profonda unità d’intenti, mantenendo stretti contatti epistolari fra loro. Furono illuministi Pietro Verri, Cesare Beccaria e Mario Pagano in Italia, Halle, Wolff, Lessing in Germania, Benjamin Franklin e Thomas Jefferson nelle colonie americane.

Durante la prima metà del XVIII secolo, molti tra i principali esponenti dell'Illuminismo furono perseguitati per i loro scritti o furono messi a tacere dalla censura governativa e dagli attacchi della Chiesa, ma negli ultimi decenni del secolo, il movimento si affermò in Europa ed ispirò la rivoluzione americana e successivamente quella francese.

Il successo delle nuove idee, sorretto dalla pubblicazione di riviste e libri e da nuovi esperimenti scientifici inaugurò una moda diffusa persino tra i nobili e il clero. Alcuni sovrani europei adottarono le idee e il linguaggio dell'Illuminismo. Gli illuministi, attratti dal concetto di filosofo-re che illumina il popolo dall'alto, guardarono con favore alla politica dei cosiddetti despoti illuminati, come Federico II di Prussia, Caterina II di Russia e Giuseppe II d'Austria.
 La Rivoluzione francese, specie nel periodo compreso tra il 1792 e il 1794, espressione dell'ala più rivoluzionaria dell'Illuminismo, che è stato definito come "radicale"61 pose fine alla diffusione pacifica, ma talvolta anche solo elitaria, dell’Illuminismo e, per i suoi episodi più sanguinosi, viene citata come motivo per esprimere una valutazione negativa sull'Illuminismo.

Letteratura critica

 Nell'800 l'illuminismo fu giudicato come un movimento di pensiero che aveva rivoluzionato il mondo: Hegel e Marx, pur avanzando critiche, considerano il pensiero illuminista come una conquista definitiva dell'umanità.

Hegel contesta però all'illuminismo il fatto di non aver colto il vero senso della storia dove veniva fatta agire una ragione astratta e non la realtà dello Spirito assoluto.

Marx esalta la critica illuminista della religione ma ne coglie i limiti legati alla classe borghese che l'ha espresso: esso infatti non ha colto i fondamenti economici del fatto storico.

Accese critiche vengono rivolte all'Illuminismo nel periodo della Restaurazione con autori come De Bonald e De Maistre che negano che l'essenza dell'uomo sia la ragione: vale invece per determinare l'uomo una conoscenza religiosa. Infatti la critica individualistica della ragione che pretende di capire la realtà sulla base di principi immanenti non è altro che l'eterna presunzione dell'umanità: peccato di orgoglio che Dio può punire come ha fatto con il periodo del Terrore in Francia.62

Lo storicismo tedesco giudica positivamente la concezione illuminista della storia63 e così anche l'illuminismo in genere come «una nuova visione del mondo».

Nel '900 Croce riprende l'interpretazione hegeliana dell'Illuminismo riconsiderandola nell'ambito del neoidealismo italiano64 mentre la scuola di Francoforte con Max Horkheimer, risentendo della tragica esperienza della seconda guerra mondiale, ritiene che la portata rivoluzionaria dell'illuminismo sia fallita nel momento in cui l'uomo, che aveva imparato a padroneggiare il mondo con la sua ragione, ne sia stato poi dominato nel senso che la ragione soggettiva operava ormai senza chiedersi a quali fini si indirizzava limitandosi a trovare solo i mezzi più adatti per soddisfare quegli obiettivi che la società nel suo complesso aveva già indicato.6566

Sulla linea dell'interpretazione marxista Lucien Goldmann rileva i limiti della concezione illuminista della storia ma esalta la funzione critica della ragione alla quale occorre rifarsi per una critica rivoluzionaria della società contemporanea.67

La scuola neo-kantiana di Marburgo evidenzia la positività della filosofia illuminista della conoscenza che scopre lo strumento del tutto nuovo della funzione critica della ragione nell'interpretazione dell'esperienza.68

Paul Hazard mette in luce nelle sue opere, attraverso l'esame di diversi aspetti, da quello filosofico a quello letterario e culturale, il grande merito dell'illuminismo nell'aver messo in crisi il vecchio mondo; d'altra parte sono da ascrivere all'illuminismo le contraddizioni, ereditate dall'età successiva, insite nei concetti di natura e di progresso.69

Un aspetto particolare dell'illuminismo è trattato da Reinhart Koselleck che descrive la nascita di questo movimento nell'ambito della situazione politica europea con una speciale attenzione alla Massoneria.70

Nell'ambito della letteratura critica cattolica sull'Illuminismo, sviluppatasi nella seconda metà del secolo XX, si sostiene come l'Illuminismo fosse caratterizzato dall'esaltazione di idee e principi (quali l'uguaglianza, la libertà, la fraternità) che sarebbero già stati storicamente proposti in Europa dal Cristianesimo e successivamente ripresi dagli illuministi e ripresentati avulsi dalla loro origine religiosa, se non addirittura in funzione anticristiana.

Joseph Ratzinger, futuro pontefice della Chiesa cattolica, scrive in proposito:



« Il cristianesimo, fin dal principio, ha compreso se stesso come la religione del logos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo nelle altre religioni, ma in quell’Illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada dalle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene.... In quanto religione dei perseguitati, in quanto religione universale, al di là dei diversi Stati e popoli, ha negato allo Stato il diritto di considerare la religione come una parte dell’ordinamento statale, postulando così la libertà della fede.



Ha sempre definito gli uomini,... creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio,... la stessa dignità.
 In questo senso l’Illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. Laddove il cristianesimo, contro la sua natura, era purtroppo diventato tradizione e religione di Stato.



[...] È stato ed è merito dell’Illuminismo aver riproposto questi valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce.71 »



Secondo lo storico cattolico del Medioevo Franco Cardini:

« Gli intellettuali dell'Enciclopedia, che già avevano avviato la demonizzazione delle Crociate, della civiltà medievale e che stavano gettando cumuli di calunnie sulla conquista delle Americhe da parte delle potenze cattoliche di Spagna e Portogallo, non si lasciarono sfuggire le opportunità che la vicenda legata a Galileo Galilei offriva in termini di polemica anticattolica: e quello che era, e poteva restare, un caso umano, ancorché doloroso e drammatico, fu trasformato in un caso - il caso Galileo appunto -, esemplare, nell'intenzione dei suoi formulatori, di una costitutiva inconciliabilità tra fede e ragione, tra religione e scienza, tra dogma e libertà di ricerca.72 »

La visione della Chiesa e della stessa storia del cristianesimo in generale presentate dagli illuministi come un'epoca buia e irta di superstizioni sono state variamente contestate dalla letteratura critica d'ispirazione religiosa.737475

Si è anche sostenuto, in particolare da parte del filosofo Friedrich von Hayek, che diversi furono gli aspetti e le eredità dell'Illuminismo, e cioè che andrebbero distinte delle forme di Illuminismo autenticamente laiche e liberali, ispirate alla scuola anglo-sassone e kantiana, e altre invece di stampo totalitario e giacobino, di ascendenza francese.76

Quale sia oggi l'eredità dell'illuminismo percepibile nella società del XXI secolo è il tema trattato da Eugenio Scalfari nell'opera Attualità dell'illuminismo (ed. Laterza, 2001)77, una raccolta di tredici interventi tra i quali quelli di Umberto Eco, Umberto Galimberti, Norberto Bobbio, Lucio Villari e Gianni Vattimo che si possono riassumere nella considerazione che «l'illuminismo in quanto "sistema culturale" ha prodotto una cesura nella storia dell'Occidente cristiano, un taglio netto che ha determinato epocali cambiamenti materiali e di mentalità...ma esso ha anche evocato spettri e alimentato illusioni, suscitato conflitti e inasprito contrasti, non da ultimo proprio perché con l'affermazione dell'illuminismo si è imposto definitivamente il processo di secolarizzazione sociopolitica e di laicizzazione culturale della società europea»78 Nell'età contemporanea valgono quindi ancora

« Il tentativo di Montesquieu di difendere la libertà contro le incursioni del dispotismo, la campagna di Voltaire contro la perversione della giustizia, il sostegno di Rousseau per i diritti dei diseredati, il dubitare di ogni autorità di Diderot inclusa quella stessa della ragione: queste le armi lasciate dagli intellettuali del XVIII secolo ai loro epigoni di duecento anni dopo.79 »

Nella seconda metà del XX secolo, a livello accademico, in Italia si è assistito allo sviluppo di una corrente filosofica denominata "neo-illuminismo", i cui massimi rappresentanti furono Nicola Abbagnano e Ludovico Geymonat.

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Idealismo

L'idealismo in filosofia è una visione del mondo che riconduce totalmente l'essere al pensiero, negando esistenza autonoma alla realtà fenomenica, ritenuta il riflesso di un'attività interna al soggetto.

Nell'idealismo è generalmente implicita una concezione etica fortemente rigorosa, come ad esempio nel pensiero di Fichte che è incentrato sul dovere morale dell'uomo di ricondurre il mondo al principio ideale da cui esso ha origine.

In un senso più ampio, il termine abbraccia diversi sistemi filosofici, come il platonismo, che privilegiano la dimensione ideale rispetto a quella materiale, affermando così che l'unico vero carattere della realtà sia di ordine spirituale.

L'idealismo nella teoria della conoscenza

 Esistono varie accezioni del termine idealismo, la più diffusa è quella che di fatto equipara la vita a un sogno,1 anche se questa affermazione non va intesa in modo riduttivo. L'idealismo, infatti, si pone in antitesi radicale rispetto al senso comune, che non ci permetterebbe di accorgerci di vivere in un mondo di finzioni; paradossalmente, quindi, proprio il senso comune sarebbe il vero "dormiente", per la sua illusione circa l'esistenza di un mondo reale al di fuori di noi.

« Per il punto di vista empirico delle altre scienze è convenientissimo assumere il mondo oggettivo come semplicemente esistente: non così per quello della filosofia, che come tale deve risalire ai principi e alle origini. Solo la coscienza è data immediatamente, perciò il fondamento della filosofia è limitato ai fatti della coscienza: ossia essa è essenzialmente idealistica. Il realismo, che trova credito presso l'intelletto incolto, perché si dà l'aria di essere aderente ai fatti, prende addirittura come punto di partenza un'ipotesi arbitraria ed è perciò un edificio di vento campato in aria, perché sorvola o rinnega il primissimo fatto: che, cioè, tutto ciò che noi conosciamo si trova nella coscienza »

(Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, II, 12)

Rapporti con altri sistemi di pensiero

 Nel fare dell'Idea, cioè del pensiero, o del Soggetto, il principio primo da cui nasce e si deduce la realtà concreta (l'essere o l'oggetto), l'idealismo viene contrapposto in particolare:

    •     al dogmatismo, secondo cui, al contrario dell'idealismo, il soggetto trae la propria esistenza dall'oggetto e non viceversa. Si tratta, comunque, di due prospettive in fondo complementari, basate su una stessa unità immediata di soggetto e oggetto.3;

    •     al realismo, secondo cui la realtà esiste indipendentemente dal soggetto. Per gli idealisti, questa concezione sarebbe ferma a uno stadio di inconsapevolezza, incapace di riconoscere che la realtà è una produzione della mente umana. Alcuni idealisti, ad ogni modo, non vollero distruggere del tutto l'impianto scientifico-ontologico del realismo.4;

    •     al materialismo, al meccanicismo, e a tutte quelle teorie che si basano su un approccio riduzionistico o utilitaristico alla realtà; ad essi l'idealismo contrappone la dimensione inconscia e interiore dell'individuo, esaltando il sogno, la fantasia, l'immaginazione, il sentimento morale ed artistico come le vie maestre in grado di condurre alla verità.

Occorre comunque tener presente che l'idealismo, per la varietà degli autori a cui può essere ricondotto, confina con le più diverse tradizioni di pensiero. Vi è chi, come Hans Georg Gadamer, ritiene che l'idealismo coincida di fatto col realismo medievale, per l'"anteriorità" attribuita ai concetti rispetto alla realtà.5 Si possono poi trovare affinità anche col razionalismo di Cartesio, che confida nella capacità della ragione di raggiungere la res a prescindere dai sensi, anche se va fatta in proposito una distinzione radicale, dato che Cartesio era comunque un realista. In secondo luogo, il problema cui intendeva rispondere era diverso da quello posto dall'idealismo: egli cercava una risposta circa lo strumento della conoscenza, l’idealismo invece circa l’oggetto di tale conoscenza.

C'è poi il caso di un idealismo empirista, facente capo a George Berkeley, che potrebbe essere considerato uno degli idealisti più radicali: il suo empirismo si contrapponeva alla concezione razionalista che le idee della ragione avessero un fondamento nella realtà oggettiva.

Schema sintetico delle principali tendenze epistemologiche di fronte al quesito sulla conoscenza

Diverse accezioni del termine

La parola idealismo venne introdotta nella terminologia filosofica alla metà del Seicento, in particolare in riferimento a Platone e alla sua "teoria delle idee".

Nel corso dei secoli, tuttavia, a questa accezione limitata alla filosofia greca classica se ne aggiunsero altre, di natura diversa.

Fino ad oggi sono prevalsi tre significati principali del termine, che si riferiscono, a seconda dei casi:

      1.       all'idealismo platonico e neoplatonico, spesso in contrapposizione al realismo tomista, del quale fu un concorrente in ambito scolastico; l'idealismo platonico permeò di sé il Medioevo e in modo particolare la filosofia rinascimentale;

      2.       all'idealismo gnoseologico: concezione per cui oggetto della conoscenza non è la realtà, bensì l'idea o la rappresentazione fenomenica (se ne rintracciano riferimenti in molti filosofi, da Cartesio a Berkeley a Kant);

      3.       all'idealismo assoluto o romantico: la corrente filosofica post-kantiana, nata in Germania nel periodo romantico con Fichte e Schelling per poi diffondersi in tutta Europa, la cui idea fondamentale è riassumibile nell'assunto per cui l'Io o lo Spirito è il principio unico di tutto, che genera il mondo in uno stato di estasi più o meno onirico. È l'epoca dei grandi ideali romantici, caratterizzati dalla sete dell'Assoluto, della libertà, e del bello, che trova in Kant un precursore.6

Vi è infine il neoidealismo, derivante da quest'ultima accezione, per la quale vengono definiti "idealisti" anche alcuni filosofi del Novecento, che trassero ispirazione, in forma più o meno accentuata, dall'idealismo romantico (in particolare dal pensiero hegeliano). Fra questi si suole includere gli italiani Benedetto Croce e Giovanni Gentile, il quale reinterpreta l'idealismo tedesco in un'ottica attualista. 7

Idealismo platonico

 La teoria di Platone è stata a volte definita idealismo, ma in un'accezione diversa dagli esiti a cui è giunto l'idealismo moderno che è incentrato principalmente sul soggetto. Le idee di Platone infatti non sono contenute solo nella mente, ma sono forme superiori, che possiedono una duplice valenza, gnoseologica e ontologica: riprendendo Parmenide, che già aveva equiparato essere e pensiero8, le idee di Platone non solo rendono conoscibile il mondo, ma gli consentono anche di esistere. Soltanto nelle idee però risiede la vera realtà, a differenza degli oggetti che l'uomo conosce nella vita di tutti i giorni, i quali non sono che pure ombre di quelle forme supreme.9 Risale quindi a Platone la concezione che fa del mondo fenomenico un'entità illusoria.10

Con Plotino e il neoplatonismo si verifica un'accentuazione del carattere mistico delle idee platoniche: al di sopra di esse Plotino colloca l'Uno assoluto, che è superiore persino all'Essere. Ciò significa che l'Uno non è una semplice realtà statica, ma è pura attività creatrice, perenne atto di pensiero che produce la realtà ontologica come risultato della propria estasi contemplativa. Si tratta in effetti di una dottrina che si avvicina a quella orientale del Tao, e, in Occidente, agli esiti cui perverranno Meister Eckhart, Nicola Cusano, Spinoza (con la sua Natura Naturans) e lo stesso idealismo tedesco.11

In ambito cristiano è soprattutto Agostino d'Ippona ad appropriarsi dell'idealismo neoplatonico, sostenendo che la Verità dimora nell'interiorità dell'uomo. L'agostinismo dominerà poi il Medioevo fin quando nel Duecento entrerà in attrito col tomismo aristotelico, maggiormente ancorato al realismo dogmatico e ad una metafisica della sostanza. Nell'ambito della disputa sugli universali esso prende comunque posizione contro il nominalismo, ritenendo gli universali ante rem.12
 L'idealismo neoplatonico gode quindi di nuova fioritura con l'avvento della filosofia rinascimentale, grazie a pensatori come Marsilio Ficino, Giordano Bruno13, e Tommaso Campanella (secondo cui l'autocoscienza è condizione dell'essere).

Idealismo gnoseologico sei-settecentesco

 L'impostazione epistemologica idealista fu tipica del ciclo moderno del pensiero occidentale (quello che, secondo alcuni storici della filosofia come Gustavo Bontadini, perse progressivamente di vista il concetto greco classico di essere: è per questo motivo che oggi si tende ad evitare di parlare di idealismo a proposito della dottrina platonica delle Idee). Il ciclo moderno, invece, si presenta come un cammino verso l’idealismo assoluto: i passi sono legati tra loro, pur essendo diversi l'uno dall'altro.

Cartesio

René Descartes non era idealista: il suo intento è proprio quello di spiegare il legame tra res cogitans e res extensa, non di negare la seconda delle due.

Tuttavia, per il suo Cogito ergo sum Cartesio può essere considerato anticipatore dell'idealismo gnoseologico moderno. Per Cartesio, infatti, la conoscenza è un processo che avviene tutto all'interno della res cogitans, cioè il soggetto pensante che si contrappone alla res extensa, la realtà materiale. Cartesio non negò mai l'esistenza della res extensa, ma considerava tale esistenza "vera" solo nella misura in cui si giunge ad averne un'idea chiara e cosciente.

In questo senso, Cartesio gettò "germi di idealismo" in tutta la filosofia moderna:

    •     con il dubbio metodico, un dubbio assoluto che coinvolge tutta l’esistenza del mondo così come viene conosciuta dai sensi umani, viene incrinata la certezza che la conoscenza ci possa mettere davvero di fronte alla res.

    •     per Cartesio il cogito è la prima conoscenza, l’unica conoscenza umana sicura e immediatamente certa. È vero che anche il pensiero era inteso da Cartesio come una res, una sostanza nel senso metafisico del termine, ma il superamento di questa impostazione metafisica era estremamente facile, dato che sarebbe stato sufficiente far slittare il cogito cartesiano nella idea absoluta idealista.

    •     per Cartesio il conoscere stesso è ridotto alla stregua di "avere idee" (e il conoscere veritativo ad "avere idee innate).



Malebranche e Leibniz

 Lo sforzo dell’occasionalismo di Nicolas Malebranche andava ancora in senso realista: garantire la corrispondenza tra pensiero e "cose". Gli sforzi del dibattito occasionalista, tuttavia, erano anche la prova di un certo fallimento del tentativo di Cartesio.

Malebranche ipotizzava un intervento di Dio per garantire la corrispondenza tra pensiero e cose, e perciò il suo discorso appare teoreticamente molto debole.

Anche la dottrina dell'armonia prestabilita di Leibniz appare molto apparentata con l’occasionalismo, e se ne distingue soltanto per il fatto che l’intervento “risolutore” di Dio è concentrato all’inizio dell’esistenza del soggetto.

Leibniz criticava la metafisica di Cartesio, affermando che esistono anche livelli dell'essere di cui non si ha coscienza. Attribuendo capacità di pensiero alla materia stessa, la gnoseologia di Leibniz pervadeva la realtà di coscienza, anche nella sua dimensione ontologica (panpsichismo): veniva così riabilitato l'idealismo metafisico neoplatonico.

Berkeley

George Berkeley viene considerato il primo idealista in senso moderno. Secondo Berkely, tutta la realtà si riduce alle nostre idee, dato che esse est percipi ("essere è essere percepito", ossia esiste solo ciò che viene percepito). Fautore di un empirismo e un nominalismo radicali, Berkeley negò che vi siano essenze di cui non possiamo fare esperienza diretta; la materia stessa sarebbe comunque un'essenza percepibile.

In tal senso, Berkeley intende la percezione non come semplice sensazione corporea, ma come percezione "intellettuale", inviataci da Dio. Non esistono corpi, ma solo idee spirituali a cui noi, associandole tra loro, attribuiamo illusoriamente una natura corporea. Ad ogni modo, la radicalità dell'idealismo di Berkeley era incrinata dal fatto che il filosofo irlandese escludeva dalla categoria del "percepito" il soggetto umano conoscente (l’anima) e Dio, per i quali esse est percipere.

L'idealismo di Berkeley fu di matrice tipicamente gnoseologica perché egli slegava la conoscenza da ogni presunta sostanza materiale a noi esterna.

Kant

 Per Immanuel Kant, almeno dopo la “rivoluzione” del 1770 (quando egli discusse la sua dissertazione "Principiorum primorum cognitionis metaphysicae nova delucidatio", ottenne la cattedra di metafisica e abbandonò la composizione di trattati scientifici, in particolare relativi a questioni di fisica), si può forse già parlare di idealismo, forse meglio ancora di "idealismo trascendentale": l’oggetto della conoscenza è organizzato e reso conoscibile da criteri a priori, e si può ammettere l’esistenza delle cose in sé ma non dimostrandola con la ragione pura, bensì postulandola con la ragione pratica.

Secondo Kant, quindi, è il nostro stesso intelletto a determinare gli oggetti della conoscenza. Anche se non negava l'esistenza di una realtà indipendente dal modo in cui i nostri sensi la recepiscono, Kant venne accusato di chiudersi in un soggettivismo senza vie d'uscita. Le categorie trascendentali dell'intelletto, infatti, sono forme del pensiero, non dell'essere: non ci permettono di conoscere la realtà in sé (noumeno), ma soltanto come questa ci appare (fenomeno).

Idealismo assoluto



Per approfondire, vedi Idealismo tedesco.

 Una delle scuole idealiste più note è quella dell'idealismo tedesco romantico, che poneva come fondamento della filosofia l'identificazione tra il mondo reale, naturale e storico, e un principio infinito. Tutto è fenomeno, la realtà è solo ciò che il soggetto conoscente produce, e la res è soltanto uno dei modi in cui l’idea si struttura.

Nell'idealismo tedesco vengono normalmente raggruppati tre filosofi principali, che furono (in ordine cronologico) Fichte, Schelling e Hegel.

L'idealismo assoluto si sviluppò, in una stagione ancora dominata dal pensiero di Kant, attraverso una discussione del suo criticismo: gli idealisti, infatti, negavano l'esistenza stessa del noumeno (che era per Kant la realtà esterna al soggetto, situata al di là dei suoi limiti conoscitivi), ed affermavano l'esistenza del solo fenomeno (la realtà come noi la conosciamo), traendo la conseguenza che può esistere solamente ciò che si trova nella nostra coscienza. Questo primato conoscitivo della coscienza divenne così uno degli elementi più significativi dell'idealismo assoluto.

Il problema del noumeno kantiano era dovuto al fatto che, se si afferma che è inconoscibile, non vi è alcuna ragione logica per postularne l'esistenza. Ammettere l'esistenza della cosa in sé indipendentemente dal soggetto che la conosce, per esempio, era per Fichte una posizione dogmatica e irrazionale, che conduceva a un dualismo incoerente tra soggetto e oggetto, ovvero tra il noumeno e il cosiddetto io penso. Kant considerava l’io penso come il vertice della coscienza critica che era la condizione formale senza la quale noi non potremmo neanche pensare. Gli idealisti tedeschi diranno invece che l’io penso è l'origine trascendentale non solo della conoscenza ma anche dell'essere, sia dal punto di vista formale, sia dal punto di vista del contenuto. Il dualismo kantiano è superato dall'interazione di carattere pragmatico, artistico, creativo dell'uomo con il mondo, poiché entrambi appartengono allo stesso fondamento costitutivo.

Si possono distinguere due linee di pensiero nell'ambito dell'idealismo assoluto, che in ultima analisi hanno alla radice della loro distinzione due diverse interpretazioni di Kant:

    •     linea hegeliana (idealismo dialettico): il reale è ciò che l’idea dialetticamente si fa; la metafisica hegeliana abbraccia e spiega tutto il sapere umano, e quindi tutta la realtà;

    •     linea fichtiana (idealismo critico): la filosofia ha lo scopo di analizzare il soggetto conoscente, l'io penso, mentre è la scienza che ha il compito di studiare le “cose”, il cosiddetto “mondo”; la filosofia studia criticamente l’atto del pensare.



Fichte prima, e poi Schelling, fecero dell'Io il principio assoluto a cui ricondurre l'intera realtà, che per la ragione può diventare così oggetto di scienza. Mentre però in costoro la ragione si limitava a riconoscere l'atto creativo con cui il soggetto pone l'oggetto, ma non a riprodurlo (che restava prerogativa di una suprema intuizione intellettuale), sarà invece con Hegel che la ragione stessa diventava creatrice, attribuendosi il diritto di stabilire cosa è reale e cosa non lo è.14 «Ciò che è reale è razionale» sarà la summa del pensiero hegeliano:15 una realtà esiste solo se soddisfa certi criteri di razionalità, rientrando nella triade dialettica di tesi-antitesi-sintesi tipico del procedimento a spirale con cui l'Idea giunge infine a identificarsi con l'Assoluto.

L’idealismo critico ebbe molto meno fortuna di quello di Hegel; eppure, mentre l'idea hegeliana è “finita” (è già tutta data, non ha più niente da dire: Hegel era convinto di essere l’ultimo filosofo), l'idealismo critico era più aperto, si pensava in costante evoluzione.

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    •     P. Di Giovanni, Idealismo e anti-idealismo nella filosofia italiana del Novecento, Franco Angeli Editore, Milano 2005 ISBN 88-464-6429-X

    •    Marcello Mustè, La filosofia dell'idealismo italiano, Carocci, 2008

Voci correlate

    •    Attualismo (filosofia)

    •    Dogmatismo

    •    Idea

    •    Monismo

    •    Positivismo

    •    Realismo (filosofia)

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Altri progetti

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Collegamenti esterni

    •     Guido Calogero, « Idealismo» in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1933.

    •     Vittorio Mathieu, « Idealismo» in Enciclopedia del Novecento, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1978.

    •     Idealismo in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Positivismo

« L'amore per principio, l'ordine per fondamento, il progresso per fine. »

(Motto del Positivismo, ideato da Auguste Comte nel 1852)

 Il Positivismo è un movimento filosofico e culturale, nato in Francia nella prima metà dell'800 e ispirato ad alcune idee guida fondamentali riferite in genere all'esaltazione del progresso scientifico. Questa corrente di pensiero, trainata dalle rivoluzioni industriali e dalla letteratura ad esso collegata1, si diffonde nella seconda metà del secolo a livello europeo e mondiale influenzando anche la nascita di movimenti letterari come il Verismo in Italia e il Naturalismo in Francia.

Henri de Saint-Simon introdusse per la prima volta il termine Positivismo

  Il Positivismo non si configura dunque come un pensiero filosofico organizzato in un sistema definito come quello che aveva caratterizzato la filosofia idealistica, ma piuttosto come un movimento per certi aspetti simile all'Illuminismo, di cui condivide la fiducia nella scienza e nel progresso scientifico-tecnologico, e per altri affine alla concezione romantica della storia che vede nella progressiva affermazione della ragione la base del progresso o evoluzione sociale.

Etimologia

 Il termine Positivismo deriva etimologicamente dal latino positum, participio passato neutro del verbo ponere tradotto come ciò che è posto, fondato, che ha le sue basi nella realtà dei fatti concreti.

Positivo vorrà dire allora:

    •     ciò che è reale, concreto, sperimentale, contrapponendosi a ciò che è astratto.

    •     ciò che è utile, efficace, produttivo in opposizione a ciò che è inutile.



Contesto storico-sociale

Auguste Comte

 Nel Positivismo si possono distinguere due fasi:  

    •     nella prima metà del XIX secolo, ad iniziare dal periodo della Restaurazione il Positivismo si presenta come il progetto di superamento della crisi politica e culturale seguita all'Illuminismo e alla Rivoluzione francese, tramite un programma politico antiliberale2



In questo periodo il Positivismo è messo in ombra dalla preminente cultura romantica e dalla filosofia dell'Idealismo, ma è proprio in questi anni che nasce il termine Positivismo ad opera di Henri de Saint-Simon, che lo usò per la prima volta nell'opera Catechismo degli industriali (1823-1824) e che venne diffuso da Auguste Comte quando nel 1830 pubblicò il primo volume del Corso di filosofia positiva.



    •     Nella seconda metà dell'Ottocento il Positivismo rappresenta l'elaborazione ideologica di una borghesia industriale e progressista per cui, in particolare in Inghilterra, ma anche nel resto d'Europa, trova corrispondenze con l'affermazione del pensiero economico del liberismo.3

È in questa fase che il Positivismo, messa da parte la filosofia idealistica considerata come un'inutile astrazione metafisica, si caratterizza per la fiducia nel progresso scientifico e per il tentativo di applicare il metodo scientifico a tutte le sfere della conoscenza e della vita umana.

Il Positivismo diviene la cultura predominante della classe borghese. Secondo Ludovico Geymonat infatti, sebbene non possa stabilirsi una rigida identità tra Positivismo e borghesia, in quanto essa ha incoraggiato il Positivismo ma per certi aspetti lo ha anche contrastato, non vi è dubbio che il Positivismo della seconda metà dell' 800, ha rappresentato anche e in modo rilevante gli ideali borghesi quali l'ottimismo nei confronti della moderna società industriale4 e il riformismo politico in opposizione al conservatorismo e nello stesso tempo al rivoluzionarismo marxista fortemente critico nei confronti del moderno sistema industriale che non teneva conto dei "costi umani" collegati allo sviluppo economico. Non a caso il Positivismo si diffonde soprattutto nei paesi più progrediti industrialmente mentre è limitatamente presente in quelli meno sviluppati come l'Italia.5

Il Positivismo si sviluppa in un periodo in cui l'Europa, dopo la guerra di Crimea e quella Franco-prussiana sta attraversando un periodo di pace che favorisce la borghesia nell'espansione coloniale in Africa e in Asia e nella contemporanea evoluzione del capitalismo industriale in un fenomeno economico internazionale.

C'è una profonda trasformazione anche nei modi di vita della città, dove si verificano, in pochi anni, cambiamenti più incisivi di quelli avvenuti nei secoli precedenti con le innovazioni tecnologiche dell'uso della macchina a vapore, dell'elettricità, delle ferrovie che mutano profondamente non solo le dimensioni spazio-temporali ma anche quelle intellettuali. Tutto questo porterà nei primi anni del '900 a quella esaltazione delle "magnifiche sorti e progressive"6 raggiunte dall'Europa della Belle epoque che si avvia al crollo delle illusioni nel baratro della Prima guerra mondiale.

Positivismo e Illuminismo: affinità e differenze

Tempio positivista a Porto Alegre (Brasile) con iscritti sul frontone gli ideali del Positivismo: «O amor por principio, e a ordem por base, o progresso por fin» traduzione del motto di Comte: «L'Amour pour principe et l'Ordre pour base; le Progrès pour but.»7 («L'amore per principio, l'ordine per fondamento, il progresso per fine.»). Il motto ordem e progresso si ritrova anche nella bandiera brasiliana8.

 Per certi aspetti il Positivismo appare una originale riproposta del programma illuministico con cui presenta delle affinità quali:

    •     la fiducia nella ragione e nel sapere al servizio dell'uomo come mezzi per conseguire la "pubblica felicità"9, obiettivo questo fallito dagli illuministi per cui i positivisti si propongono di portare ordine, tramite il metodo scientifico applicato in ogni campo delle conoscenze umane, per una riorganizzazione globale della società resa caotica dalle rivoluzioni che l'hanno sconvolta.  

    •     esaltazione della scienza vista in contrapposizione alla metafisica: il metodo scientifico avrebbe dovuto sostituire la metafisica nella storia del pensiero10.

    •     una visione laica e tutta immanente della vita dell'uomo in contrasto con i pensatori cattolici.



Nello stesso tempo il Positivismo si caratterizza per incisive differenze con l'Illuminismo:

    •     mentre gli illuministi combattevano contro la tradizione metafisica e religiosa e i privilegi dell'aristocrazia in una visione del mondo ancora dominante, i positivisti, che pure si oppongono a quella tradizione che ostacola la razionalizzazione della cultura e della società, agiscono contro posizioni anacronistiche e in nome di un atteggiamento culturale che è già consolidato in una società borghese stabilmente al potere con una mentalità scientifica e laica ormai largamente condivisa.

    •     mentre il riformismo illuminista tendeva a tradursi in una rivoluzione, come fu poi quella francese, il riformismo positivista è antirivoluzionario e, pur contrastando la vecchia tradizione, è ostile alle nuove forze rivoluzionarie del proletariato e alla pretesa scientificità dell'ideologia socialista.

    •     mentre gli illuministi, come Kant, ancora si preoccupano di dare una giustificazione teorica del valore limitato di verità delle scienze, i positivisti la danno per scontata e puntano a una "visione scientifica globale del mondo" cadendo nella metafisica di un'interpretazione unica e totale della realtà.

    •     gli illuministi ricorrono alla scienza, pur con il suo limite, contro la metafisica e la religione, i positivisti rendono la scienza una metafisica di certezze assolute con la fondazione di una nuova religione scientifica11.



I vari aspetti del Positivismo

 Assumendo come spartiacque le teorie di Charles Darwin, secondo la tradizione, il Positivismo è stato diviso in due correnti fondamentali:

    •     Positivismo sociale, nella prima metà del XIX secolo, che ha come rappresentanti Saint-Simon, Auguste Comte e John Stuart Mill

    •     Positivismo evoluzionista con Herbert Spencer, il materialismo tedesco e Roberto Ardigò.





Per approfondire, vedi Evoluzionismo (scienze etno-antropologiche).

 Oggi si preferisce identificare i vari aspetti del Positivismo attraverso i contesti nazionali per cui si ha un Positivismo francese, inglese, tedesco e italiano.

I due criteri in realtà non sono divergenti ma si fondono tra loro poiché le varie identità nazionali del pensiero positivista costituiscono lo sfondo su cui si sviluppano, nella prima metà dell' '800, la concezione di una scienza come risanatrice dei mali sociali, la quale, nella seconda metà del secolo, dopo la formulazione della teoria dell'evoluzione di Darwin, viene estesa in maniera totalizzante a strumento di interpretazione della storia dell'intera umanità.

Positivismo e Romanticismo

Nicola Abbagnano ha definito il Positivismo "Romanticismo della scienza" poiché come i romantici nella lor brama del conseguimento dell'infinito davano alla poesia e alla filosofia valori assoluti così i positivisti vedono la stessa assolutezza nella scienza. I positivisti hanno un concetto della storia non diverso da quello dell'Idealismo romantico: la storia è progresso necessario e continuo in cui si vive attuando o manifestando l'Umanità nel suo sviluppo progressivo.12

La diffusione del Positivismo

Frontespizio della prima edizione del 1859 de L'origine delle specie di Charles Darwin

 Il Positivismo ebbe per le sue concezioni più importanti, una dimensione internazionale: la biologia darwiniana, si diffuse in Europa e in America settentrionale, e le nascenti scienze della sociologia, psicologia, antropologia diedero avvio in Occidente a nuovi settori di studio dell'uomo; ma anche per gli aspetti minori e negativi, come la fiducia acritica e superficiale nella scienza, il pensiero positivista ebbe vasta risonanza sino a divenire un fenomeno di costume per la borghesia colta occidentale.

Come osserva Nicola Abbagnano: «Nonostante questa profonda incidenza culturale, il Positivismo...ha finito per sembrare un nuovo dogmatismo, avente la pretesa di racchiudere l'uomo negli schemi riduttivi della scienza. Anzi, il Positivismo... è apparso come una nuova metafisica della scienza...Tutto ciò spiega la massiccia "reazione antipositivistica" che ha caratterizzato la filosofia degli ultimi decenni dell'Ottocento e degli inizi del Novecento.» A questa reazione ha contribuito lo sviluppo stesso delle scienze avvenuto proprio in contrasto con «il quadro gnoseologico ed epistemologico del Positivismo»13

Il Positivismo s'innestò su tradizioni culturali e filosofiche nazionali profondamente differenti:

    •     in Francia riprese la tradizione razionalistica che va da Cartesio all'Illuminismo sensista ed assunse specialmente l'aspetto di filosofia sociale (Saint-Simon, Fourier, Proudhon, Comte, Émile Littré);

    •     in Inghilterra si inserisce nel filone empirista e utilitarista con Malthus, Ricardo, Bentham, James Mill, Stuart Mill;

    •     in Italia il Positivismo ebbe uno sviluppo minore e i campi in cui si applicò, come nella scuola e nell'analisi della criminalità (Cesare Lombroso), mostrano come ancora fossero incisivi i problemi di integrazione nazionale e sociale che l'Italia dovette affrontare dopo l'unificazione.

Tra i filosofi seguaci del Positivismo in Italia ci furono Carlo Cattaneo e Roberto Ardigò. Il Positivismo ebbe anche influenza sulle concezioni pedagogiche di Aristide Gabelli ed in seguito di Maria Montessori.

    •     in Germania il Positivismo assume carattere fortemente materialistico e specialistico come reazione alle tendenze idealistiche e totalizzanti della filosofia accademica.



L'eredità del Positivismo

 Il Positivismo influì fortemente nella cultura ottocentesca sino a divenire una "moda culturale" tanto che si può parlare di una "civiltà positivistica" che ha improntato di sé correnti culturali come il realismo, il verismo, la nuova pedagogia incentrata su una scuola "laica" e su una didattica "scientifica".

Nonostante i suoi aspetti critici il Positivismo ha lasciato in eredità alla cultura moderna la considerazione dell'importanza per la conoscenza e per la trasformazione della società della ricerca scientifica. Dobbiamo inoltre al Positivismo la codificazione delle "scienze umane" della sociologia e della psicologia.

Il Positivismo ha demolito la filosofia intesa come forma di conoscenza metafisica che man a mano che si realizza il progresso scientifico, non potendosi basare su i fatti concreti, perde ogni capacità di indagare e risolvere i problemi filosofici. Il Positivismo ne indicò un nuovo ruolo consistente non più nella presunzione di conoscere i fenomeni naturali, umani e sociali ma quello di definizione e unificazione dei principi generali del metodo scientifico e dei risultati delle singole scienze in una visione generale dell'uomo.14 Dal Positivismo la filosofia è stata obbligata a riconsiderare criticamente se stessa e a meglio definire il suo rapporto con le scienze.

Dal Positivismo si origina inoltre nel Novecento il fondamento del neopositivismo che ha elaborato un metodo di ricerca che soddisfi il rigore proprio della scienza eliminando equivoci e incomprensioni derivate dall'uso distorto del linguaggio.

Bibliografia

    •     L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico-scientifico Editore: Garzanti Libri 1978, Collana: Collezione maggiore ISBN 88-11-25036-6

    •     A. Comte, Corso di filosofia positiva, a cura di Franco Ferrarotti, Utet, Torino 1967, 2 voll.

    •     P. Rossi, Positivismo e società industriale (antologia), Loescher, Torino 1973

    •     L. Geymonat, Il problema della conoscenza nel positivismo, Bocca, Torino 1931

    •     N. Urbinati, Le civili libertà. Positivismo e liberalismo nella Italia unita, Marsilio (collana Saggi. Critica), 1991 ISBN 978-88-317-5435-4

    •     L. Kolakowski, la filosofia del Positivismo, Laterza, Bari 1974

Voci correlate

    •    Idealismo

    •    Naturalismo

    •    Romanticismo

    •    Verismo

Altri progetti

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Collegamenti esterni

    •     Positivismo, voce enciclopedica di Michele Marsonet sul sito di Documentazione Interdisciplinare di Scienza e Fede (DISF)

    •     Société Positiviste Internationale, Paris

    •     Parana, Brazil

    •     Porto Alegre, Brazil

    •     Rio de Janeiro, Brazil

    •     Posnan, Poland

    •     Positivists Worldwide

    •     Maison d'Auguste Comte, France

    •     Positivismo in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Filosofia contemporanea

La filosofia contemporanea trova la sua delimitazione iniziale, secondo la comune storiografia filosofica, nel periodo in cui i grandi ideali e sistemi di pensiero ottocenteschi declinano di fronte alle tragedie e alle disillusioni tipiche del Novecento.

Filosofia del XIX secolo

 Apertasi con la grandiosa stagione del Romanticismo, la filosofia assiste alla riformulazione del criticismo kantiano in chiave idealistica. Fichte prima, e poi Schelling, fanno dell'Io il principio assoluto a cui ricondurre l'intera realtà, che per la ragione può diventare così oggetto di scienza. Mentre però in costoro la ragione si limitava a riconoscere, ma non a riprodurre, l'atto creativo con cui il soggetto poneva l'oggetto (che restava prerogativa di una suprema intuizione intellettuale), sarà invece con Hegel che la ragione stessa diventa creatrice, attribuendosi il diritto di stabilire cosa è reale e cosa non lo è. «Ciò che è reale è razionale» sarà la summa del pensiero hegeliano:1 vale a dire che una realtà esiste solo se soddisfa certi criteri di razionalità, rientrando nella triade dialettica di tesi-antitesi-sintesi tipico del procedimento a spirale con cui l'Idea giunge a identificarsi con l'Assoluto.

Dopo la possente sistemazione onnicomprensiva di Hegel, la filosofia ha visto la reazione a questo panlogismo nel duplice volto di uno spiccato materialismo (Feuerbach, Marx) e di un richiamo all'irriducibiltà del singolo uomo e all'importanza assoluta della sua vita come essere umano e non come semplice fase di un processo dialettico (Schopenhauer, Kierkegaard, Emerson). Mentre poi il Positivismo (Comte, Mill, Ardigò), in piena età della Seconda rivoluzione industriale, esaltava la ricerca scientifica e il progresso tecnico e tecnologico, la voce isolata di F. Nietzsche preconizzava il declino dell'Occidente e la nascita di una umanità nuova, dando avvio ad un indirizzo nichilistico che nel Novecento verrà riproposto.  

Dopo il declino dell'idealismo in Germania si svilupparono due movimenti simili, ma opposti: il neokantismo che voleva tornare a Kant e una corrente più empirista e scientifica che negando l'idealismo si appellava alla ricerca sperimentale come nuovo modello d'indagine. Questo secondo movimento fu anche influenzato da una rinascita aristotelica al seguito del lavoro di Friedrich Adolf Trendelenburg, il quale influenzò Franz Brentano (La Psicologia dal punto di vista Empirico), Ernst Laas (Idealismo e Positivismo) e Friedrich Paulsen (varie opere su Kant). Aristotele non veniva più fatto solamente oggetto di studi storici e filologici, ma discusso anche in maniera sistematica. Trendelenburg, grande critico di Hegel, aveva non solo edito opere di Aristotele, ma aveva anche sviluppato una propria posizione, basata su Aristotele.2

Filosofia del XX secolo

In Europa

 Agli inizi del Novecento sulle cattedre di filosofia venivano nominati anche gli esponenti della nuova scienza sperimentale della psicologia. Dopo il lavoro di Fechner quello fondamentale per le scuole sociologiche di Max Weber e Wundt, furono proprio vari studenti della Scuola di Brentano a fondare i primi istituti di ricerca sperimentale in psicologia, mentre tenevano cattedre di filosofia. Carl Stumpf e Alexius Meinong fondarono rispettivamente la Scuola di Berlino e la Scuola di Graz, portando allo sviluppo della Psicologia della Gestalt.  

Edmund Husserl, matematico e studente di Brentano, proprio al volgere del secolo pose le fondamenta di una delle correnti filosofiche più influenti del XX secolo: la fenomenologia. Varie tendenze menzionate sopra, si ritrovano nello sviluppo della fenomenologia, ad esempio il rapporto problematico tra filosofia e psicologia nell'indagine della mente e della coscienza e il "ritorno a Kant", riformulando la fenomenologia dal 1913 in poi esplicitamente come disciplina trascendentale. La fenomenologia esercitò un notevole influsso sia sulla filosofia continentale (e.g. l'esistenzialismo) che quella analitica (e.g. Gilbert Ryle, Wilfrid Sellars, Dagfinn Føllesdal, Daniel Dennett) e continua a contribuire e informare le discussioni su temi quali intenzionalità e coscienza, ontologia e mereologia, atti linguistici e grammatiche formali.

Il Novecento vede un notevole fiorire di idee e proposte filosofiche, che vanno dal "ritorno a Kant" della Scuola di Marburgo e della Scuola del Baden all'analisi della società moderna della Scuola di Francoforte allo Spiritualismo di Bergson, dal Neotomismo (o Neoscolastica) di Maritain, alla poderosa riflessione dell'Esistenzialismo che riprenderà tematiche che si ritrovavano già in Kierkegaard di Martin Heidegger, Karl Jaspers, Sartre, Camus all'ermeneutica di Hans Georg Gadamer. In Italia lo storicismo di Benedetto Croce e l'idealismo di Giovanni Gentile. Nei paesi di lingua tedesca l'Epistemologia del Wiener Kreis e di Karl Popper. Sempre su tematiche che prendono in considerazione i legami fra scienza e filosofia anche Bachelard, Kuhn e Feyerabend. La filosofia mistica di Pavel Aleksandrovič Florenskij3, che nell'ambito religioso della Russia subirà le ripercussioni del pensiero di Nietzsche in modo decisamente originale. Inoltre si deve segnalare la riflessione sulla teologia svolta da autori quali Barth, Bonhöffer, Tillich.

Nei paesi di lingua inglese

 Contemporaneamente agli indirizzi sopra esposti si assiste alla nascita - dovuta all'opera di filosofi come Hermann Lotze, Bernhard Bolzano, Gottlob Frege - della filosofia analitica con esponenti quali Bertrand Russell, Ludwig Wittgenstein che amplierà la riflessione alla filosofia del linguaggio.  In Gran Bretagna e negli Stati Uniti iniziava la rinascita dell'interesse per Hegel - neoidealismo - con rappresentanti principali l'inglese Francis Herbert Bradley e lo statunitense Josiah Royce. Contemporaneamente a questa rinascita il pensiero autoctono si sviluppa negli Stati Uniti con autori quali Charles Sanders Peirce fondatore del pragmatismo e attento alla dimensione logica nella filosofia, William James (fratello dello scrittore Henry) continuatore dell'opera di Peirce e che definì la propria speculazione come pragmatismo indirizzandola verso la psicologia e infine John Dewey che si orientò - pur essendo legato strettamente a Peirce - verso la pedagogia.

Bibliografia

    •     Tiziana Andina, Filosofia contemporanea. Uno sguardo globale, Carocci, 2013 ISBN  978-88-430-6704-6

    •     Kwame Anthony Appiah, "Quell'x tale che...", introduzione alla filosofia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 2009 ISBN 978-88-420-8755-7

    •     Romina Bicicchi, La Filosofia contemporanea, Liberamente, 2009 ISBN 88-6311-076-X

    •     Maurizio Ferraris, Nietzsche e la filosofia del Novecento, Bompiani, 2009 ISBN 88-452-1409-5

    •     A. Massobrio, N. Scialfa, Storia della filosofia contemporanea 800-900. Una nuova proposta di studio, Nuove Edizioni del Giglio, 1996 ISBN 88-86082-02-9

    •     F. Polidori, F. Sossi, A. Rovatti, Dizionario dei filosofi contemporanei, Bompiani, 1990 ISBN 88-452-1641-1

    •     P. Aldo Rovatti, Introduzione alla filosofia contemporanea, Bompiani, 1996 ISBN 88-452-2820-7

    •     Fernando Savater, I dieci comandamenti nel XXI secolo, Mondadori, 2006 ISBN 88-04-55581-5

    •     Teresa Serra, A partire da Hegel. Momenti e figure dell'idealismo italiano, CEDAM, 2009 ISBN 88-13-29184-1

    •     E. Severino, La filosofia dai Greci al nostro tempo. La filosofia contemporanea, BUR Rizzoli, 2004 ISBN 88-17-00170-8



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Neokantismo

Il Neokantismo è una corrente filosofica che si sviluppò nella seconda metà del XIX secolo in Germania con l'obiettivo di recuperare, dall'insegnamento kantiano, l'idea che la filosofia debba essere innanzitutto riflessione critica sulle condizioni che rendono valida l'attività conoscitiva dell'uomo. Se come attività conoscitiva si intese in particolare la scienza, il discorso neocriticista guardò anche ad altri campi di attività, dalla morale all'estetica e alla pedagogia.

In linea con i principi del criticismo i neokantiani rifiutano ogni tipo di metafisica, e se questo li contrappone polemicamente alle contemporanee correnti neoidealiste e spiritualiste, li allontana allo stesso tempo dallo scientismo del positivismo che tende ad una visione assoluta e misticheggiante della scienza.

Le due massime espressioni del neocriticismo tedesco furono incarnate dalla Scuola di Baden e dalla Scuola di Marburgo, che influenzarono buona parte della filosofia tedesca successiva (storicismo, fenomenologia); nonostante questa corrente filosofica si sia diffusa in tutti i paesi europei, altre manifestazioni degne di nota si ebbero solo in Francia (Charles Renouvier).

Origini

 La riscoperta in chiave moderna di Kant che si verificò in Germania avvenne ad opera dei filosofi Friedrich Albert Lange, Otto Liebmann, Eduard Zeller e Hermann von Helmholtz.  

Lange nella sua "Geschichte des Materialismus" ("Storia del Materialismo", 1866) criticò fortemente il materialismo stesso. Liebmann, nella sua opera "Kant und die Epigonen" ("Kant e i suoi epigoni", 1865), aveva refutato in quattro sezioni l'idealismo tedesco (Fichte, Schelling, Hegel), il realismo (Herbart), l'empirismo (Fries) e la filosofia trascendentale (Schopenhauer) e posto alla fine di ogni capitolo il grido di battaglia: "Auf Kant muß zurückgegangen werden!" ("Bisogna tornare a Kant!"). Successivamente Liebmann sviluppò egli stesso le linee principali di questo ritorno a Kant (Analisi della realtà (1876), Pensiero e fatti (1882-1904)), da lui inteso come la fondazione di una metafisica critica che tenesse sempre conto dei principi e limiti dell'intelletto come dati originari.

Le scuole del movimento

    •     La Scuola di Marburgo

    •    Hermann Cohen

    •    Paul Natorp

    •    Nicolai Hartmann

    •    Ernst Cassirer

    •    

    •     La Scuola di Baden

    •    Wilhelm Windelband

    •    Heinrich Rickert

    •    Emil Lask

    •    

Esponenti

    •    Eduard Zeller, fondatore della gnoseologia come disciplina

    •    Otto Liebmann, bisogna tornare a Kant "Zurück zu Kant!"

    •    Friedrich Albert Lange, scrisse una storiografia critica del materialismo

    •    Hermann Cohen, non concetti ma giudizi sono il fondamento del pensiero umano. Fondatore della scuola di Marburg

    •    Paul Natorp, si occupò soprattutto della logica delle scienze. Rifiuta l'esistenza della "cosa in sé" (Ding an sich) e delle intuizioni indipendenti dal intelletto

    •    Karl Vorländer, storico della filosofia e marxista. Biografo e editore di Kant

    •    Rudolf Stammler, filosofo del diritto

    •    Wilhelm Windelband, dottrina dei valori universali. Verità nel pensare, bontà nel volere, bellezza nel sentire. Capire Kant significa andare oltre

    •    Heinrich Rickert, filosofia dei valori. Scienza della cultura contro Scienza della Natura

    •    Emil Lask, teoria delle categoria e dei giudizi

    •    Bruno Bauch

    •    Jonas Cohn

    •    Robert Reiniger, problema psicofisico e filosofia dei valori

    •    Ernst Cassirer, storia dell'epistemologia. Filosofia delle forme simboliche

    •    Alois Riehl, criticismo per rendere attuale Kant

    •    Richard Hönigswald, il problema del "dato". Teoria generale del metodo

    •    Hans Vaihinger, "Philosophie des Als Ob". Fondatore della rivista "Kant-Studien"

    •    Georg Simmel, filosofia della vita (Lebensphilosophie)

Voci correlate

    •    Immanuel Kant

    •    Positivismo

    •    Criticismo

    •    Storicismo

    •    Charles Renouvier (Maggiore esponente del Neokantismo in Francia)

Collegamenti esterni

    •     Neokantismo in « Tesauro del Nuovo Soggettario», BNCF, marzo 2013.



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Metafilosofia

La metafilosofia è la disciplina filosofica indirizzata a chiarire la natura della filosofia, e i suoi metodi e applicazioni.

Storia

La riflessione metafilosofica è stata uno dei temi dominanti del lavoro di Platone e di Aristotele: entrambi infatti erano impegnati a difendere la 'vera' filosofia dalla sofistica, e a precisare la differenza tra la filosofia e altre forme di attività culturale, come la poesia, la retorica, l'avvocatura, la politica. In particolare la Metafisica di Aristotele contiene una grande quantità di considerazioni metafilosofiche. La 'scienza prima' di cui Aristotele parla, che definisce variamente nel corso dell'opera, e che in seguito fu chiamata 'metà-tà-physikà', è secondo alcuni interpreti semplicemente la filosofia pura: la filosofia nel suo significato più alto e generale.

In seguito, tutti i grandi autori della tradizione si sono misurati con il problema metafilosofico, ossia hanno avvertito l'esigenza di specificare la loro concezione della filosofia. Considerazioni metafilosofiche originali si trovano in Sant'Agostino, in Cartesio, in Leibniz, in Kant. Tra gli autori moderni forse il filosofo che ha dato i contributi maggiori in metafilosofia è G. W. F. Hegel. Tutta l'opera di Hegel può anzi essere letta come una grande messa a punto della pratica filosofica, che proprio in quell'epoca era diventata pratica professionale, accademica.

Nel Novecento, la metafilosofia ha acquisito una posizione di speciale rilievo. Il problema fondamentale che il Novecento filosofico si trova a dover fronteggiare è infatti in quale misura la riflessione filosofica, con le sue caratteristiche pretese di generalità e fondamentalità, abbia ancora un senso e un ruolo all'interno del sistema delle scienze specializzate. Nel secondo Ottocento, in effetti, l'assetto dei saperi andava definendosi in modo tale da far pensare che la filosofia potesse decisamente scomparire. Nel corso del secolo alcune discipline cardine della filosofia, come la logica e la psicologia (intesa come studio del pensiero, o della mente), erano diventate scienze autonome. Anche l'antropologia, la sociologia, la linguistica, la scienza politica, che una volta facevano parte del territorio della filosofia, vantavano ora lo statuto di scienze specializzate. "Se la filosofia fosse qualcosa di cui si potesse fare a meno" ha scritto Ortega y Gasset, "non v'è dubbio che in quell'epoca [alla fine dell'Ottocento] sarebbe decisamente morta". In seguito la prospettiva della 'fine della filosofia' è rimasta uno dei temi favoriti delle riflessioni dei filosofi.

Tuttavia, proprio le scienze che avevano minacciato il ruolo scientifico e pubblico della filosofia arrivavano nel corso del Novecento a risultati tali da richiedere proprio l'intervento di quelle riflessioni generali e fondamentali che erano caratteristiche della filosofia, e che erano state decisamente escluse dalla metodologia scientifica. Le scoperte della fisica (quanti, relatività) e in seguito le vicende della logica (sviluppo delle logiche non classiche, nascita della filosofia analitica del linguaggio), e verso la metà del secolo l'inizio della grande rivoluzione informatica presentavano un quadro culturale completamente diverso, e capace di far ipotizzare una nuova importanza e nuovi ruoli per la filosofia.

È in questo quadro che si presenta nella seconda metà del Novecento una delle questioni metafilosofiche più rilevanti della storia della filosofia: il confronto-conflitto tra la tradizione analitica e la tradizione detta 'continentale' (analitici-continentali). Infatti, proprio nel momento in cui la scienza e la vita pubblica sembrano interpellare di nuovo la filosofia, questa si ritrova divisa. Non tanto dispersa in molte e diversificate correnti, ma decisamente spezzata in due grandi filoni, in cui si esprimono diversi stili di ricerca, vocabolari teorici, canoni. I filosofi analitici (in linea generale) difendono un tipo di lavoro filosofico molto attento alla logica e all'argomentazione, rispettoso della scienza e del senso comune, preferenzialmente estraneo alla vita pubblica e ai media. I filosofi detti 'continentali' invece generalmente non curano molto l'argomentazione, non hanno simpatia per la logica, né per il senso comune o la scienza, e invece sono molto interessati all'uso pubblico della filosofia, e frequentano i mass media, intervenendo spesso sui giornali e nelle battaglie culturali. Da queste differenze di principio emergono stili filosofici molto diversi.

La percezione di questo "great divide", le cui origini affondano nel tardo Ottocento, va approfondendosi nel corso del secolo, e negli ultimi anni del Novecento emergono opere interessate a una riconsiderazione generale della disputa, e a tentativi di mediazione.

Temi

Temi caratteristici della metafilosofia sono:

    •     la definizione di 'filosofia'  

    •     i rapporti tra filosofia e scienza, filosofia e religione, filosofia e arte

    •     difesa della filosofia dai suoi critici

    •     l'uso pubblico (culturale e politico) della filosofia

    •     metodi filosofici

    •     didattica della filosofia

    •     uso della logica in filosofia

    •     stili e generi di scrittura filosofica

    •    esperimenti mentali

    •     le teorie metafilosofiche nella storia

    •     differenze e continuità tra filosofia come professione e come pratica di vita

    •     usi terapeutici della filosofia

    •     conflittualità e continuità tra filosofia e senso comune

    •     professionalità e specializzazione in filosofia

    •     rapporti tra filosofia analitica e filosofia continentale

    •     caratteri delle controversie filosofiche

    •     fine della filosofia?



Bibliografia

    •    J. Knobe e S. Nichols, Experimental Philosophy, Oxford University Press, Oxford 2008

    •    T. Williamson, The Philosophy of Philosophy, Blackwell, Oxford 2007

    •    F. D'Agostini, Nel chiuso di una stanza con la testa in vacanza: dieci lezioni sulla filosofia contemporanea, Carocci, Roma 2005

    •    U. Bonanate, M. Valsania, Le ragioni dei filosofi, Carocci, Roma 2003

    •    N. Rescher, Philosophical Reasoning. A Study in the Method of Philosophising, Blackwell, Oxford 2001

    •    G. Deleuze e F. Guattari, Qu'est-ce que la philosophie?, Minuit, Paris 1994

    •    R. A. Sorensen, Thought Experiments, Oxford University Press, 1990



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