Afro Publio Terenzio - (195 o 185 ca Cartagine - 159 a.C.)

La formula che condensa, in forma sublime, l'apertura della cultura classica all'universalità della condizione umana - Homo sum: nihil alienum a me alienum puto - si deve ad uno schiavo cartaginese affrancato "ob ingenium et formam" (per ingegno e bellezza): Terenzio.

Della sua vita si hanno poche notizie. Entrò di sicuro a far parte del circolo scipionico, del cui ideale di "humanitas" divenne portavoce. Sensibile, riservato, probabilmente introverso, si dedicò alla commedia cercando di affrancarla dalla rozza ricerca del successo, che Plauto perseguiva indulgendo ai gusti del pubblico popolare, e dando ad essa un'impronta incline alla studio dei caratteri psicologici e alla complessità dei rapporti umani.

Troppo moderno per il suo tempo, troppo raffinato in rapporto al gusto popolare, la sua carriera di commediografo fu costellata da ripetuti insuccessi.

Amareggiato, e forse inviso ai più, eccezion fatta per i suoi mecenati, si ritirò in Grecia ove morì.

Di lui sono pervenute integralmente sei commedie d'ambientazione greca di cui si conoscono, tramite le "didascalie", l'anno e l'occasione del primo allestimento: Andria (166), Hecyra (165), Heautontimorumenos (163), Eunuchus (162), Phormio (162), Adelphoe (160) .

Le novità che Terenzio introduce nella commedia è agevolmente ricavabile dalla trama di due opere.

Protagonista di Heautontimorumenos è un vecchio genitore, Meneremo, che con la sua severità ha costretto il proprio figlio Clinia a lasciare la sua città e ad arruolarsi come soldato (pur di separarlo da Antìfila, una ragazza onesta ma povera), iniziando così una vita di pericoli e di disagi. Dopo essersi reso conto di ciò che ha fatto, il genitore si pente e decide di autopunirsi: vende tutti i suoi beni e si ritira in campagna, sottoponendosi a lavori massacranti. Un altro anziano, Cremète, che ha un campo vicino al suo, nota il comportamento del vecchio e lo invita ad aprirsi con lui, a confidarsi, contribuendo così al suo "cambiamento" caratteriale.

Quando allora Clinia, dopo una serie di peripezie, riesce a tornare in città, Meneremo lo accoglie a braccia aperte, sinceramente commosso e pentito. Il giovane può sposare infine l'amata Antìfila, riconosciuta nel frattempo come figlia di Cremète.

Protagonisti di Adelphoe sono due fratelli, Demea e Micione. Il primo è un uomo all’antica, rigido e austero che ha due figli: uno dei due, Ctesifòne, lo educa personalmente secondo i sistemi tradizionali, l’altro, invece, Eschino, lo affida al fratello Micione, che, scapolo, vive in città e ha idee piuttosto moderne: è padre per libera scelta e decide quindi di educare il figlio adottivo con indulgenza e liberalità. Secondo lui i giovani devono instaurare un rapporto basato sul dialogo con i genitori: non bisogna costringerli a fare il bene solo per paura di una punizione, ma per una scelta personale.

Proprio Ctesifòne tradisce ogni speranza del padre e ne combina di tutti i colori, anche con l'aiuto del fratello, che gli fa conoscere la citarista Bacchide. Alla fine, il vecchio padre riconosce d'aver sbagliato ed accorda al figlio tutta la libertà che prima gli aveva negato.

E' evidente che Terenzio, rispetto a Plauto, attenua decisamente i tratti caricaturali dei personaggi e ne fa delle figure delicate, tenere, sensibili. Protagonista del suo teatro non è più il "servus callidus", ma padri e figli. Egli non ridicolizza i sentimenti d’amore dei giovani, ma li segue con partecipazione e simpatia. Anche i padri terenziani sono differenti da quelli plautini: sono disponibili al dialogo coi figli e si preoccupano sinceramente della loro felicità più che del loro patrimonio o del veder affermata la propria autorità.

I giovani, accanto ad un comportamento sovente scapestrato, presentano tratti di maggiore consapevolezza e di disponibilità all'accettazione delle regole sociali; i vecchi non sono libidinosi ed invidiosi, ma tengono sinceramente al bene ed alla felicità dei figli; i servi non sono scaltri promotori di truffe, oppure quando lo sono, agiscono in buona fede, per il bene dei giovani ed anziani padroni, con cui dividono guai, tristezze e felicità, quasi in un nucleo familiare"allargato". Infine, gli stessi "milites" e le stesse cortigiane non sono lenoni lussuriosi vanagloriosi e approfittatori, o semplici donne di piacere avide di denaro, ma acquistano uno spessore di comprensione e di buona fede che li rendono uomini e donne come gli altri, casomai solo un po' più sfortunati.

Nel teatro di Terenzio non esistono personaggi del tutto negativi.

Si tratta, dunque, di un universo ingentilito anche in rapporto alla realtà storica, più vividamente rappresentata da Plauto, che esprime l'ideale di humanitas maturato nel circolo scipionico grazie all'incontro e al confronto con la civiltà greca, e rappresenta una grossa novità nella cultura e nella stessa mentalità, tradizionali, dei Romani.

Questo ideale fu inteso non soltanto come semplice traduzione del termine greco "filantropia", ma piuttosto soprattutto come apertura dell'uomo verso i propri simili, al di là di ogni barriera sociale, nella coscienza della comune natura umana, seppur nella consapevolezza delle sue innumerevoli sfaccettature: il singolo non è più soltanto "civis", ma soprattutto "homo humanus".

Humanitas significa in Terenzio aprirsi agli altri, rinunciare all’egoismo, comprendere i propri limiti ed essere indulgenti nei confronti degli errori altrui: essere, in una parola, tolleranti e solidali. Chi si apre agli altri vive veramente da uomo fra gli uomini. E' questo il senso del famoso ed emblematico "homo sum humani nihil a me alienum puto", contenuto nell' "Heautontimorumenos".

Il teatro di Terenzio è stato definito da alcuni critici "pedagogico". Di fatto, la sua comicità prescinde dalla battuta facile e dall'intrigo, e sembra sottesa da un sorriso, talvolta compassionevole, sempre venato di riflessione e di meditazione sulle vicende umane.