CLASSICI DELLA FILOSOFIA
COLLEZIONE DIRETTA DA
NICOLA ABBAGNANO
STOICI ANTICHI
A cura di
MARGHERITA ISNARDI PARENTE
UNIONE TIPOGRAFICO-EDITRICE
TORINESE
© De Agostini Libri S.p.A. - Novara 2013
INDICE
Introduzione
Nota bibliografica
PARTE I. ZENONE DI CIZIO
Nota biografica
Testimonianze biografiche
Da singole opere
PARTE II. CLEANTE DI ASSO
Nota biografica
Testimonianze biografiche
Da singole opere
Testimonianze
PARTE III. I DISCEPOLI DI ZENONE E CLEANTE
Persèo di Cizio
Dionisio di Eraclea
Aristone di Chio
Erillo di Calcedone
Sfero di Boristene
Apollofane
PARTE IV. CRISIPPO
Nota biografica
Testimonianze biografiche
Da singole opere
PARTE V. I DISCEPOLI E I SUCCESSORI DI CRISIPPO
Diogene di Babilonia
Antipatro di Tarso
Apollodoro di Seleucia
Archedemo di Tarso
Boeto di Sidone
PARTE VI. TESTIMONIANZE SULLA STOA ANTICA IN GENERALE
Preliminari
Logica
Fisica
Etica
INTRODUZIONE
La storiografia filosofica antica, che amava procedere per
successioni, ci ha presentato gli Stoici come discendenti da
Socrate, ma secondo due diverse linee di discendenza: vi è una
tradizione che dà particolarmente rilievo alla discepolanza di
Zenone di Cizio, il fondatore della scuola stoica, presso Cratete
cinico, e un’altra tradizione che tende particolarmente a
sottolineare il debito di Zenone verso l’Accademia e la sua
discepolanza presso Polemone, se non addirittura già precedentemente
presso Senocrate1. Queste due tradizioni sono rappresentate
rispettivamente da Diogene Laerzio (che peraltro non tace circa le
diverse discepolanze di Zenone, pur dando particolare rilievo a
quella presso Cratete) e da Cicerone, il quale dipende in ciò da
Antioco di Ascalona. Ad alcuni studiosi moderni questa seconda
tradizione è sembrata particolarmente inficiata di tendenziosità in
ragione della sua stessa provenienza: in realtà nell’Accademia di
Antioco si tendeva a presentare Zenone come un accademico fedifrago
e a sottolineare una pretesa sua scarsa originalità rispetto alle
dottrine mutuate a Polemone2. Ma, per quante forzature la
tendenziosità indubbia di tale impostazione possa avere operato
sull’interpretazione del pensiero di Zenone, la mutuazione di temi
accademici da parte della Stoa antica appare un fatto innegabile;
uno studio accurato della dottrina di Senocrate può già dare di ciò
un’idea adeguata3; e quanto a Polemone, vedremo più oltre fino a che
punto le tematiche care a questi siano ancora operanti nel pensiero
della Stoa zenoniana.
Individuare il nucleo preciso della filosofia zenoniana non è cosa
facile, e in pari tempo è il primo compito che a noi s’impone, data
la genericità eccessiva con cui spesso, nella storia della filosofia
antica, gli Stoici sono stati accomunati in testimonianze d’insieme
che per lo più riportano dottrina di Crisippo, di quello cioè eh’è
stato il sistematizzatore della scuola e ha esercitato un vero e
proprio dominio sulla tradizione ulteriore. Il patrimonio zenoniano
è certamente un patrimonio iniziale che si è andato accrescendo e
anche, relativamente, trasformando nel corso della vita della
scuola; se la cesura più decisa corre fra Stoa antica e quella che
si usa chiamare Media Stoa, la stessa storia della Stoa antica si
presenta, ad una analisi rigorosa, tutt’altro che unitaria; né va
dimenticato che il trapasso al pensiero della Media Stoa è
tutt’altro che brusco, e che molti temi di questa sono anticipati
dai discepoli di Crisippo, per i quali si è potuto coniare perfino
l’espressione, non inadeguata, di «Frühmittelstoiker»4. Una
presentazione d’insieme della Stoa antica non può quindi avere
carattere sistematico senza con ciò forzare la realtà delle cose, e
dovrà invece osservare un andamento genetico, che renda conto
dell’interno sviluppo della scuola.
La filosofia ellenistica ha carattere eminentemente sistematico. La
strutturazione della filosofia che Zenone trova già virtualmente
formata e che fa sua, dandole il carattere che conserverà nella
filosofia ulteriore, è quella in logica, fisica, etica. Questa
struttura d’insieme rispondeva già ad un primo sforzo di
sistematizzazione, compiuto da Senocrate sul corpo della filosofia
platonica5; né vi è alcuna ragione di rifiutare la notizia secondo
cui la prima formulazione della tripartizione è di origine
senocratea6. È certo tuttavia che il concetto di phýsis che sta alla
base della «fisica» senocratea doveva essere assai più esteso e
comprensivo di quello zenoniano: la phýsis di Senocrate partiva
dall’ordine intellegibile incorporeo per giungere fino alle
manifestazioni della phýsis sensibile, attuantisi nell’ambito della
corporeità. Zenone, al contrario, aboliva ogni distinzione di
corporeo e incorporeo nell’ambito dell’essere, se questo sia
autenticamente inteso in tutta la sua portata: egli intendeva
rifiutare radicalmente la dottrina dell’incorporeità delle realtà
prime sia nella sua forma platonica (dottrina delle idee) sia nella
sua forma aristotelica (dottrina dell’atto), per rifarsi alla
filosofia anteriore. Ma nel rifarsi a questa, ovviamente, Zenone non
poteva non tener conto degli sviluppi della filosofia del iv secolo,
e vi tornava con una coscienza arricchita di ulteriori distinzioni:
la sua battaglia filosofica contro la «filosofía prima» in favore
della assoluta fisicità e corporeità del reale presupponeva
formulazioni filosofiche che erano ancora ignote alla filosofia
presocratica.
Egli ereditò dalla scuola cinica, ma anche dalla scuola megaricasi
ha notizia di una sua discepolanza anche presso il megarico
Stilponeil tema della polemica contro la dottrina delle idee.
Antistene aveva obiettato a Platone la concretezza dei «cavalli»
contro la vuota astrattezza della cavallinità (ἱππóτης)7 e Stilpone
di Megara aveva argomentato contro le idee in ragionamenti rimasti
famosi8. Coerentemente, Zenone affermava che le idee non sono altro
che formazioni mentali, ἐννοήματα (D.L. VII, 61 = S VF I, 65), ciò
che Platone nel Parmenide (132a) aveva esplicitamente negato; si
valeva dell’esempio stesso del «cavallo» (che era già stato caro ad
Antistene, nel suo famoso argomento contro la «cavallinità»). e
usava anche una singolare parola, ἀνατύπωμα, formata in base al
concetto della conoscenza come τύπωσις o impressione ἀνατύπωμα
impressione: ἀνατύπωμα è una forma d’impressione secondaria, una
superfetazione della conoscenza, qualcosa che non appartiene né al
dominio dell’essere né a quello della qualità, non è τί né ποιόν9.
Ciò che è, nel senso vero e autentico del termine, è corporeo: è ciò
che può agire e subire, essere soggetto e oggetto di azione. E
probabile che come vera forma di incorporeo Zenone non riconoscesse
altro che il vuoto, il grande vuoto extra-cosmico, che ammise
sussistesse intorno all’universo; e forse anche il tempo, giacché
concepiva questo come διἀστημα, intervallo, quindi come un
interstizio vuoto fra gli eventi (Stobeo, Ecl., I, p. 104, 7 W. =
SVF I, 93)10; del resto la analogia vuoto-non essere non era nuova
nel pensiero greco, ed era stata fatta valere dall’atomismo
democriteo11. Tuttavia si può far risalire a Zenone l’inizio di una
speculazione ontologica circa i concetti di causa ed effetto che
tende ad attribuire un diverso status all’uno rispetto all’altro, e
che sarebbe poi sfociata, con i successori, in una vera e propria
teoria degli incorporei. Sempre corporea è la causa, rifletteva
Zenone, e sempre corporeo è l’oggetto su cui essa agisce e che ne
subisce l’effetto. Ma che dire della relazione fra questi due
termini, in quanto azione, capace di tradursi, sul piano logico, nel
predicato di una proposizione? Se entità fisica è la ϕρόνησις
(entità fisiche sono, vedremo meglio, per Zenone le virtù) ed entità
fisica è l’anima di chi la esercita, si può dire altrettanto
dell’atto di esercitarla, che si esprime attraverso il predicato
ϕρονεῖ Se è veramente di Zenone il ragionamento che Stobeo gli
attribuisce (Ecl. I, p. 138, 14 W. = SVF I, 89), attingendo alla
raccolta di Ario Didimo, Zenone aveva già imboccato decisamente la
strada che porterà Cleante e Crisippo alla teoria dei λεϰτά, pur
senza ancora averla terminológicamente precisata né inserita, come
farà poi Crisippo, in un complesso sistematico.
Ogni realtà autentica appartiene quindi per Zenone al dominio della
corporeità. Nel suo insieme, la realtà dell’universo si configura
per lui come un tutto fluido e compatto, nel quale una forma-forza,
di tipo fisico e di natura ignea, agisce su di una πρώτη ὕλη amorfa
e di per sé priva di qualità12: uno schematismo in cui sono rifusi e
liberamente interpretati motivi aristotelici (il dualismo
fondamentale di materia e forma è chiaramente mutuato ad Aristotele)
ma anche platonici, se si pensa a certe caratteristiche del
«ricettacolo» del Timeo, là dove Platone sembra dare a questo una
sorta di consistenza fisica13. Queste due fondamentali ἀρχαί, questi
due principi dell’essere, erano, sembra, chiamati da Zenone anche
ποιοῦν e πάσχον, agente e paziente; e il principio agente era
identificato col divino. L’essenza del principio agente è per Zenone
il fuoco. Anche qui occorre peraltro fare una opportuna distinzione,
giacché si parla spesso troppo genericamente, per tutta la Stoa
antica, di fuoco cosmico come πνεῦμα o soffio igneo tutto
pervadente, mentre in Zenone non abbiamo di ciò attestazione di
sorta14. Zenone sembra aver parlato di Πνεῦμα solo in relazione
all’essere vivente e alla sua anima; e non faceva, in questo caso,
che proseguire una teoria già maturatasi in seno al Peripato e che
aveva nel ni secolo la sua prosecuzione in scuole mediche di
ispirazione peripatetica15. Per ciò che riguarda l’universo, Zenone
si limitava a parlare di un fuoco intelligente, capace di procedere
«con arte» (πῦρ τεχνιϰόν; Stobeo, Ecl. I, p. 213, 15 W. = SVF I,
120)16; tipo di fuoco che egli distingueva dal comune fuoco-elemento
e di cui, di fatto, faceva un elemento privilegiato, pur rifiutando
la dottrina accademica del quinto corpo e facendo professione di
accettare quella empedoclea dei quattro elementi17; né per esso
rifiutava di usare il termine di αἰθήρ, che sarà poi usato anche da
Crisippo (Cicerone, De nat. deor., I, 36, Acad. pr., II, 126 = SVF
I, 154).
La distinzione fra «sostanze», o «sostrati», e qualità, che avrebbe
poi assunto valore logico, come divisione categoriale dell’essere,
fu inizialmente compiuta da Zenone sotto l’aspetto strettamente
fisico: all’essere concreto e materiale dell’universo, la sua οὐσία,
sono inerenti le «qualità prime», corrispondenti alle
caratteristiche dei quattro elementi tradizionali; esse erano
concepite, ovviamente, come realtà corporee. Poiché Zenone affermava
Che le virtù sono qualità (o «forme qualitative», ποιάς,
qualitativamente differenziate, possiamo pensare che già per lui,
come poi, vedremo, per Crisippo, la differenziazione qualitativa
avesse un immediato riflesso sul piano etico (Plutarco, De Stoic.
rep., io34e = SVF I, 200). Ciò non contrasta in alcun modo col
carattere fisico e corporeo attribuito alle qualità, perché anche le
virtù, come ci si farà chiaro più oltre, erano concepite da tutta la
Stoa, e da Zenone certo per primo, come entità corporee. Ma non
abbiamo attestazioni di ulteriori apporti specificamente zenoniani
alla teoria dei generi dell’essere, che sarà ampliata e perfezionata
da Crisippo, e che nel fondatore della Stoa comincia a formularsi in
una forma che la collega strettamente alla visione fisica generale
dell’universo18.
Si è parlato, per l’universo stoico, di una sorta di
«cosmobiologia»19. In realtà le metafore usate da Zenone per il
fuoco cosmico sono spesso di carattere biologico. Poiché l’universo
si configurava ai suoi occhi come un essere animato e vivente - e
anche sotto questo aspetto è sensibile in lui, nonostante il suo
materialismo, l’eredità platonica - a tale universo erano anche da
prestarsi certe funzioni proprie dell’essere vivente. Non sappiamo
fino a che punto Zenone spingesse tale analogia, ma certo
considerava il fuoco cosmico alla stregua di un principio capace di
far crescere (αὐξητιϰόν) e conservare (τηρητιϰόν) l’universo, simile
al principio della vita fisica nel singolo vivente, e come una sorta
di seme (σπέρμα) l’universo, simile al principio della vita fisica
nel singolo vivente, e come una sorta di seme (σπρμα) emesso dal
cosmo per la propria conservazione e per il proprio perenne
rinnovamento (Sesto, Adv. phys., I, 101 = SVF I, 113). Non va però
dimenticato che la metafora biologica si intreccia con la metafora
artificialistica. Parlando di un fuoco immanente all’universo e suo
stesso principio che è intri-secamente dotato di capacità tecniche,
Zenone portava alle ultime conclusioni quel processo che, dal
demiurgo del Timeo platonico, artigiano cosmico che foggia
l’universo alla stregua di un costruttore intelligente guardando ai
modelli eterni, metteva capo successivamente alla concezione
aristotelica della ϕύσις, una natura dotata di interna intelligenza
costruttiva e procedente per fini20: Zenone risolveva cioè
totalmente il principio tecnico nella natura fisica, facendone una
realtà materiale e corporea, senza peraltro abolire le
caratteristiche dell’agire artificioso, intelligente e metodico. Si
può perciò riconoscere in lui la presenza di una cosmobiologia o
parlare del carattere vita-listico della sua visione dell’universo
solo a patto di non dimenticare che a questi caratteri si unisce e
si intreccia strettamente una concezione apparentemente con essi
incompatibile, ma che il pensiero antico non sentiva come
contraddittoria con essi, quella del procedere «artigianale» del
principio cosmico.
Una dottrina che può considerarsi introdotta da Zenone, nonostante
che egli probabilmente la giustificasse con l’autorità di Eraclito,
è quella dei cicli cosmici, del risolversi periodico dell’universo
nell’elemento-fuoco e del suo graduale rinascere nonché del
riprodursi sostanzialmente identico degli eventi. Che la dottrina
della conflagrazione universale e della palingenesi, o, in altri
tempi, la dottrina ciclica del tempo, sia già reperibile in
Eraclito, è ipotesi assai problematica, che riposa solo
sull’ambiguità di alcune testimonianze platoniche e aristoteliche
sul filosofo21; è probabile, al contrario, che la teoria cicHca
degli Stoici sia stata determinante per la più tardiva
interpretazione di Eraclito in tal senso. Zenone faceva del fuoco il
solo elemento veramente immortale in quanto indistruttibile, quello
in cui periodicamente l’universo ordinato si risolve e che
garantisce la continuità del tutto col suo persistere: il fuoco
primigenio contiene il seme dell’universo e ne permette la rinascita
e il nuovo graduale sviluppo, secondo linee predeterminate:
ricorrendo ad un esempio a lui caro, Zenone parlava del
ripresentarsi futuro di un nuovo Socrate per subire il processo, di
nuovi Anito e Meleto per accusarlo (così autori cristiani quali
Taziano, Orario adversus Graecos, 3, o Nemesio, De natura homìnts,
148 = SVF I, 109) e stabiliva con ciò il principio di una regolarità
del corso storico. Per la prima volta così con Zenone si instaurava
_a connessione fra il concetto di causalità e quello di regolarità
necessaria: a questa sorta di legge immanente che aveva carattere
necessitante e corso invariabile Zenone dava il nome di «fato» ο
εἱμαρμένη, e la concepiva come causa del prodursi degli eventi, in
un senso assai diverso da quello (tutto incentrato intorno al
binomio potenza-atto) con cui Aristotele aveva teorizzato il
concetto di causa22. Zenone identificò anche questa regolarità
cosmica col concetto di provvidenza, come intelligenza
materializzata in fuoco, che, all’interno del mondo, lo guida e lo
governa come suo principio direttivo: una teoria che denunciava
l’influenza della teologia dell’anima del mondo di Platone,
soprattutto nelle Leggi, ove questa appare in tutta la sua funzione
di intelligenza ordinatrice e provvidenziale23. Differenza
fondamentale, peraltro, restava il fatto che l’ordine era inteso da
Zenone, e dopo di lui dalla maggior parte della Stoa antica, come un
fatto di carattere perituro, sia pure destinato a rinnovarsi
periodicamente secondo un ritmo fisso, contrariamente non solo alla
teoria aristotelica dell’eternità del cosmo, ma anche a quella
platonica del Timeo, secondo la quale l’indistruttibilità
dell’ordine cosmico-sensibile riposa sull’eternità del modello
intellegibile. Dagli argomenti probabilmente antizenoniani che
Teofrasto usava per polemizzare contro la teoria del carattere
distruttibile dell’ordine cosmico24, Zenone appare difendere contro
i suoi avversari una concezione del cosmo come quella di un essere
vivente in senso integrale, soggetto per necessità a tutte le
vicissitudini degli esseri viventi e corporei, non sottratto - in
una forma che sarebbe incoerente - alla vicenda della distruzione
fisica e del riprodursi.
Corporea, e della stessa sostanza di cui è fatto il principio
intelligente del mondo, è anche l’anima dell’uomo: un corpo di
sostanza leggera, una «esalazione» (ἀναθυμίασις); uno πνεῦμα (le
testimonianze, da Diogene Laerzio, Galeno, Longino presso Eusebio di
Cesarea, Teodoreto, sono raccolte in SVF I, 135-140). Siamo sicuri
che, almeno in relazione alla psiche umana, Zenone si valesse di
quel concetto di πνεῦμα che dopo di lui acquisterà nella scuola
stoica una rilevanza cosmica generalizzata; ma la definizione di
ἀναθυμίασις di derivazione eraclitea, non doveva essere per lui meno
importante, e doveva essere poco dopo ripresa e fatta propria da
Cleante (Eusebio, Praep. ev., XV, 20, 2 = SVF I, 141). Il principio
direttivo, lo ἡγεμονιϰόν, era da lui distinto rispetto alle facoltà
sensorie e riguardo ad altre facoltà come quelle di emettere la voce
o il seme (Nemesio, De nat. hom., 96 = SVF I, 143). Ma il concepire
tutta la realtà, e anche quella stessa dell’anima, come corporea,
comportava significative conseguenze per la dottrina del conoscere:
questa ne era infatti motivata a dare importanza centrale a un tipo
di conoscenza fondata su realtà individue di natura sensibile.
Coniando una formula specifica, Zenone chiamò quella che considerava
la forma fondamentale di conoscenza ϰαταληπτιϰὴ ϕαντασία, o
rappresentazione comprensiva. La rappresentazione comprensiva è una
forma di conoscenza sensibile certa, capace di «afferrare»
(ϰαταλαμβἄνει) il suo oggetto, o tale che il suo oggetto le si
presenta con una forza di evidenza capace di imporre l’assenso
(συγϰατάθεσις) alla mente: un simile tipo di conoscenza non può non
derivare da alcunché di effettivamente reale, esistente25. Come,
diversamente, nella filosofia di Epicuro, anche nella filosofia
stoica e zenoniana la realtà fisica precede la conoscenza ed è
presupposta da questa: la teoria del conoscere deriva come un
corollario da una determinata visione dell’universo.
Era tipico delle scuole del primo ellenismo il motivo del «criterio
della verità», la ricerca dello strumento conoscitivo che ci
permetta di giudicare della verità o falsità delle nostre
conoscenze. Si è molto discusso se Zenone abbia identificato
senz’altro la ϰαταληπτιϰὴ ϕαντασία con il criterio, o se tale
identificazione sia stata poi compiuta da Crisippo, come sembrerebbe
indicare la testimonianza di Diogene Laerzio (VII, 54 = SVF II,
105)26. Se fu Crisippo a farlo esplicitamente, tuttavia egli
intendeva con ciò, - e in questo caso senza alcun tradimento - dare
particolare supporto alla principale teoria gnoseologica zenoniana:
giacché di Zenone è la posizione della ϰατάληψις e della
rappresentazione comprensiva come momento fondamentale del
conoscere, valido a formare la base dei momenti successivi. Essa non
è ancora di per sé arte né scienza (Cicerone ne parla come di
qualcosa che si pone «inter scientiam et inscientiam», con
espressione alquanto impropria, cfr. Acad. post. I, 11, 42 = SVF I,
60) ma arte e scienza sono forme ulteriori che si fondano su di
essa: arte, τέχνη (parola che in tutta la Stoa fu intesa sempre in
senso assai vasto, come competenza specifica ma anche, vedremo, come
regola metodica, capace di investire il campo dell’etica), è per
Zenone un complesso organico (σύστημα) di rappresentazioni
comprensive; scienza, επιστμη, è quel tipo di rappresentazione
comprensiva giunta alla sicurezza, al non poter essere rovesciata da
argomentazioni27. Né l’arte né la scienza devono esser quindi
considerate forme basate su concetti «universali» o su princìpi
intellettivi: la conoscenza specialistica restava per Zenone
strettamente ancorata al conoscere dei sensi, nel caso naturalmente
che questo sia solido e sicuro, e non ceda a quell’assenso
affrettato e oppugnabile che dà luogo solo all’opinione (Sesto, Adv.
log., I, 151 = SVF I, 67).
Zenone studiò anche la meccanica del conoscere, e la sua teoria ci è
giunta attraverso l’esegesi cleantea. Egli riteneva che le forme
sensibili si imprimessero sulla mente come impronta del sigillo su
cera (τύπωσις, ci dice Sesto, Adv. log. I, 236 = SVF I, 58);
Cleante, dal canto suo, interpretava questa «impronta» in una
maniera così puntigliosamente materialistica (ivi, I, 238 = SVF I,
484) che Crisippo sentì poi il bisogno di tradurre la teoria in
diverso linguaggio, parlando piuttosto di «modificazione» ο
ἐτεροίωσις. Abbiamo già visto in precedenza come la gnoseologia di
Zenone prevedesse anche formazioni secondarie del conoscere ο
ἀνατυπώματα, alle quali peraltro egli non dava dignità di vera
conoscenza. Idee platoniche e universali aristotelici dovevano esser
da lui accomunati in questa categoria, e la caratteristica di
negatività che contrassegnava ai suoi occhi questo tipo di
conoscenza ci dice quanto l’epistemologia stoica fin dal suo nascere
sia stata profondamente diversa dalla concezione aristotelica della
scienza, fondata su astrazione e dimostrazione (ἀπόδειξις).
La Stoa ulteriore avrebbe conosciuto, soprattutto con Crisippo, una
formulazione sistematica di principi logici. Zenone parlava già di
dialettica, distinguendo questa sia dalla dottrina del conoscere sia
dalla retorica; ma per dialettica intendeva soprattutto le
argomentazioni volte a risolvere quei ragionamenti capziosi che
costituivano le impasses del.a logica antica, e non ancora una vera
e propria scienza dell’argomentazione, come essa sarebbe poi
divenuta (Plutarco, De Stole. rep., 1034Ì = SVF I, 50). Egli era
passato attraverso la scuola megarica, che di soriti e ragionamenti
capziosi era la massima elaboratrice, e avvertiva fortemente questa
esigenza; non si può tuttavia per questo parlare di una logica
zenoniana in stretto senso28. Forme sillogistiche furono da lui
usate senza che con ciò possiamo in alcun modo attribuirgli una
teoria del sillogismo; e, se guardiamo alla forma di questi
ragionamenti vediamo ancora assente da essi quella struttura
ipotetica che sarà tipica del ragionamento crisippeo. Un tipo di
sillogismo zenoniano ci è reso, ad esempio, da Sesto, (Adv. phys.,
I, 104 = SVF I, in) «ciò che ha la ragione è superiore a ciò che non
ha la ragione; ma nulla è superiore all’universo; quindi l’universo
è dotato di ragione»29. E altre argomentazioni zenoniane reseci
ancora da Sesto o da Cicerone sembrano rispondere a questa
struttura, assai più vicina a quella del ragionamento aristotelico,
sotto l’aspetto formale, di quanto non lo siano al sillogismo
ipotetico crisippeo. Zenone dunque si valeva di formule schematiche
di tipo sillogistico o per argomentazioni filosofiche generali, o
per refutare tesi avversarie, a scopo controversistico30; sarà
Cleante a iniziare quello sviluppo in senso logico della dottrina di
scuola che riceverà poi da Crisippo la sua elaborazione ulteriore.
Un capitolo assai più complesso si apre con l’etica zenoniana, la
cui tematica sarebbe rimasta fondamentale per il seguito della
scuola. Zenone elaborò la dottrina del τέλος, di quello che è il
fine fondamentale del vivere, in una forma che la tradizione ci ha
resa con qualche ambiguità. La formulazione originaria zenoniana
sembra essere stata quella, strettamente coerente a dottrina
socratica, di ὁμολογουμένως ζῆν, «vivere secondo coerenza», secondo
quella ὁμολογίαche è virtù fondamentale del sapiente, come coerenza
con se stesso nel corso della propria azione31. Ma la formulazione
che più tardi offrirà la scuola stoica nel corso del suo sviluppo
sarà quella, più ampia, di ὁμολογουμένως τῇ ϕύσει ζῆν. Secondo
Stobeo (Ecl., II, p. 75 W. = S VF I, 179) Zenone avrebbe usato la
formula più ridotta; e la sua testimonianza è confortata da una di
Clemente Alessandrino, anche se questa suona più generica nella
formulazione (τò ϰατ’ ἀρετὴν ζῆν, Strom. II, 21 = S VF I, 180). Ma
Diogene attribuisce a Zenone stesso la formula ampliata, e precisa
anche ove la formula si leggesse: in un opera intitolata Della
natura deWuomo (VII, 87 = SVF I, 179). La precisazione è molto
importante: ci dice che, se Zenone ampliò una formula che
originariamente doveva suonare «vivere coerentemente» e niente di
più, lo fece con lo sguardo volto alla natura stessa, razionale,
dell’essere umano, e non alla natura del tutto32. La formulazione
cleantea, come vedremo, doveva invece spostare Finteresse sulla
natura cosmica, attuando quel totale, integrale inserimento
dell’essere umano nella vita cosmica che non si può correttamente
anticipare del tutto a Zenone.
È importante cercar di delimitare con precisione su che cosa, per
Zenone, dovesse rondarsi la natura stessa dell’uomo e il suo agire
coerente ad essa. Una dottrina tipica della Stoa, quella della
οἰϰείωσις, dovette esser sviluppata soprattutto da Crisippo e
trovare in questi il suo perfezionamento; ma non ci sono ragioni
sufficienti per negarla del tutto a Zenone, dati anche gli
addentellati socratici di concetti quali οἰϰεῖον e οἰϰειότης33. In
base a questa teoria, l’essere umano, per apparentato che sia con
gli altri esseri dell’universo, lo è in primo luogo e
fondamentalmente con se stesso: se Teofrasto e Senocrate, in forma
diversa e con diversa terminologia, avevano entrambi insistito sul
carattere di parentela e di comunanza di stirpe che unisce i viventi
fra loro, con la Stoa nasceva una nuova consapevolezza del carattere
anzitutto riflessivo di tale apparentamento: e a tale nuovo tipo di
«parentela» era dato il nome di οἰϰείωσις. La teoria si presentava
come uno sviluppo di quel concetto di πρῶτα ϰατὰ ϕύσιν che era stato
sostenuto soprattutto dall’accademico Polemone: vi sono beni primari
ed essenziali dai quali l’uomo non può prescindere, e che
costituiscono i! suo primo vincolo con la natura stessa34. Zenone
non concedeva a Polemone che queste realtà «prime secondo natura»
fossero veramente dei beni: bene, egli affermava, è solo la virtù,
che costituisce il τέλος. Ma Cicerone accusava più tardi Zenone di
incoerenza, riprendendo probabilmente un’accusa mossagli nella
scuola di Antioco di Ascalona: dopo aver accettato la teoria delle
realtà «prime secondo natura» da Polemone, incoerente e
contraddittorio è dichiarare bene la sola virtù, alla quale sola in
tal modo viene conferita la prerogativa di porsi come pienamente
secondo natura (De finibus, IV, 16, 45 = SVF I, 198)35.
La teoria del bene in Zenone si presenta in realtà alquanto
complessa. Anche se potrebbe non risalire a Zenone, ma ad Aristone
di Chio, la formulazione terminologica del concetto di ἀδιἀϕορον36,
esso è già presente in Zenone nel suo contenuto: fra bene e male
esiste una sfera intermedia di ciò che non è né l’uno né l’altro
(una dottrina questa che, del resto, era già stata senocratea37). A
ciò comunque Zenone aggiungeva un criterio relativistico: fra le
cose indifferenti ne esistono di dotate di valore e di prive del
tutto di valore, sì che si può stabilire una gerarchia fra di esse;
con termine certamente da lui inventato, e che ha causato qualche
problema interpretativo alla critica moderna - già prima, del resto,
aveva dato luogo da parte di Cicerone a traduzioni problematiche -38
Zenone chiamava i due tipi di indifferenti rispettivamente
προηγμνον, «preferibile», e πο-προηγμνον, parola difficile a
tradursi e che si rende impropriamente con «non preferibile». I
προηγμένα non si identificano con i πρῶτα ϰατα ϕύσιν, ma questi
ultimi appartengono naturalmente alla sfera dei προηγμένα e ne
rappresentano anzi la forma primaria, sottratta alla scelta: la vita
rispetto alla morte è un preferibile «primo» perché imposto da
natura, mentre la ricchezza rispetto alla povertà è un semplice
«preferibile»39. Per mezzo di questa distinzione, pur riconoscendo
validità alla dottrina polemonea, Zenone prendeva le sue distanze
dal concetto di bene, riservato alla sola virtù. Tuttavia anche il
problema della virtù si presenta in lui complesso, e tale da lasciar
sussistere, anche in questo caso, una duplicità di piani. Non
estremamente originale può dirsi in Zenone il quesito circa
l’unicità o meno della virtù, che sembra riportarlo nell’alveo
comune del socratismo per l’affermazione della sostanziale unicità
di essa in una forma tuttavia moderata, che sembra implicare
l’accettazione di una articolazione in virtù singole assai simile a
quella platonica: le virtù, come si è già accennato, hanno la loro
differenziazione qualitativa specifica, pur richiamandosi ad
un’unica realtà fondamentale che fa da sostrato alle differenze40.
Non è a caso che le differenze fondamentali fra le virtù fossero
indicate nel numero di quattro: quattro sono gli elementi fisici,
quattro le prime qualità, quattro le virtù che rappresentano le
qualità sotto l’aspetto etico, in quanto specificazioni dell’agire
umano. Quattro erano anche per Zenone le passioni, perturbazioni
dovute a «impulso che passa la misura», o «sovrabbondante»:
desiderio, paura, dolore, piacere (Diogene Laerzio, VII, iio = SVF
I, 211); ogni edonismo, come si vede, era rigorosamente bandito.
Tuttavia l’etica di Zenone non è rigoristica e ammette, nella
dottrina dei doveri, una duplicità di piani, che richiama in certa
misura la teoria dei preferibili. Zenone poneva una differenziazione
fra un agire virtuoso che è semplicemente conveniente (ϰαθῆϰον) e un
tipo di agire virtuoso superiore, proprio esclusivamente del
sapiente. Diogene Laerzio è assai chiaro nell’attribuzione del
concetto di ϰαθῆϰον a Zenone (VII, 107-108 = SVF I, 230); si può
solo discutere se tutta la definizione del concetto, che Diogene
riporta dopo averne data l’etimologia (da ϰατά τινας ἥϰειν) sia
attribuibile a Zenone. Καθῆϰον) sia attribuibile a Zenone. Καθκον,
dice Diogene, è «una forma di agire apparentata (οἰϰεῖοv) con le
disposizioni proprie della natura»; è, questa, una definizione che
non contrasta in alcun modo con la teoria zenoniana, dal momento che
si richiama a concetti come «ciò che è primo secondo natura» e a
quello di «apparentamento»41. In ogni caso, sembra risalire a Zenone
la distinzione fra un dovere relativo alla vita sociale, più
largamente generalizzato, che si manifesta come ὁμολογία nell’essere
umano, come semplice ἀϰολουθία nell’essere vivente in generale42, e
un dovere perfetto, attribuibile al solo sapiente; anche se può
sussistere il dubbio se egli abbia usato già per questo secondo tipo
di dovere l’espressione di ϰατόρθωμα o si sia limitato alla formula
di τέλειον ϰαθῆϰον (l’espressione ϰατόρθωμα (l’espressione ϰατόρθωμα
(l’espressione κατρθωμα, in realtà, compare nel titolo di un’opera
di Crisippo, nel catalogo delle opere di questi resoci da Diogene
Laerzio)43. Chiamasse o no Zenone già in tal modo il dovere
perfetto, certo il concetto di ϰαθῆϰον, quale ci è attestato dalle
numerose fonti (Cicerone, Diogene, Laerzio, dossografiche attraverso
Stobeo) è ben lungi dall’esaurire l’ideale etico stoico, e non è che
la posizione dell’aspetto secondario del concetto di dovere. Dovere
«medio» o conveniente (il «medium officium» ciceroniano) e dovere
perfetto si implicano in forma ϰατόρθωμα è anche un ϰαθῆϰον è anche
un καθκον, ma non ugualmente ogni ϰαθῆϰον è un ϰατόρθωμα è un
κατρθωμα: questo secondo si pone al di là e al di sopra del primo,
in un ambito di realizzazione del bene che supera il piano della
οἰϰείωσις, dei προηγμένα, dei πρῶτα ϰατά ϕύσιν, per attingere la
perfezione ultima del τέλος44.
Si pone a questo punto un problema di non piccola portata. Come
questa relativistica differenziazione di piani si concilia con la
concezione rigoristica che da tante parti ci viene testimoniata per
l’ideale zenoniano del sapiente? E noto che Zenone era fautore di
una concezione del sapiente come uomo che possiede la vera
conoscenza della realtà nel suo complesso in vista
dell’effettuazione del τέλος, e come capace di liberarsi da quelle
passioni che portano l’essere di natura razionale alla deviazione
dalla ragione, cioè dalla sua più vera natura di uomo. Ed è noto
anche per Zenone, come poi il resto della Stoa, il sapiente si
distinguesse dallo stolto in virtù di un taglio radicale: fra
sapienti e insipienti si poneva per lui un rapporto di opposizione
assoluta (ne dànno attestazione, ma molti potrebbero citarsene,
passi quali Stobeo, Eci, II, p. 99, 3 W. = SVF I, 216). Insipienti
lo si è anche se le proprie colpe, valutate secondo l’opinione
comune, appaiano di lieve entità, giacché, a un più corretto modo di
pensare, tutte le colpe risultano uguali fra loro (Diogene L., VII,
120 = SVF I, 224). D’altro canto, la sapienza raggiunta sembra
abilitare al retto esercizio di ogni attività, anche di natura
tecnica: o, in altri termini, solo il saggio può dirsi veramente
capace di esercitare ogni attività, sia essa politica, o culturale e
pertinente al campo delle «arti», nella maniera dovuta; solo la vera
conoscenza della natura abilita ad esser vero medico, e vero
politico, o vero retore, o vero re (ancora Stobeo, Ecl., II, p. 99,
3 segg. W.; e, ripetutamente, Cicerone, De fini bus, V, 84, Pro
Murena, 61 = SVF I, 220-221; o infine, con scherno, Plutarco). La
visione rigorosamente unitaria del reale ch’era propria dei filosofi
ellenistici non permetteva loro concessioni ad una visione
«parziale» della scienza, ad una scienza o capacità tecnica priva
del supporto della vera filosofia, come conoscenza generale delle
leggi che governano il tutto. Come, dunque, riconoscere validità a
un dovere «medio» accessibile anche a chi non ha raggiunto la
sapienza? Come considerare eticamente positiva un’azione non
sorretta da sapienza e scienza?
Zenone dovette ricorrere anche in questo campo ad un espediente non
molto dissimile da quello già formulato con la teoria dei
«preferibili». In questo caso, il medio termine era costituito dal
concetto di προϰοπή, ο «avanzamento», «progresso», progresso verso
la sapienza. Che il concetto fosse già zenoniano lo dice un passo di
Plutarco (De prof, in virt., 82f = SVF I, 234) nel quale si riporta
sotto il nome di Zenone una teoria singolare: ciascuno può
accorgersi di aver compiuto un progresso verso la virtù e la
sapienza dal proprio comportamento nel sonno, di fronte ai sogni, là
dove la volontà sfugge al controllo della ragione: quando, di fronte
a un sogno turpe, non si prova piacere ma ripugnanza, ciò significa
che la virtù è vicina. Chi è «progredito» certamente è capace di
compiere azioni convenienti e socialmente positive, anche se ancora
non è giunto all’attuazione del dovere perfetto45. Ciò significava
istituire di fatto una gradazione nei comportamenti e quindi nei
valori che essi rappresentano, anche se gli Stoici si preoccupavano,
per salvare il rigorismo tendenziale della loro dottrina, di
affermare che chi è «progredito» soltanto appartiene ancora in
realtà alla massa degli stolti (Cicerone, De fin., IV, 21 = SVF III,
532); un rigorismo poi attenuato sensibilmente da Seneca (Epist. 75,
8 segg.): «qui prof kit, in numero stultorum est, magno tamen
intervallo ab illis diducitur».
Sulla figura del sapiente intesa nel senso più rigoroso, Zenone
costruì un ideale di città che ha tratti analoghi alla Repubblica di
Platone; con la differenza che le norme già delineate da Platone
(abolizione della proprietà privata; collettivizzazione dei rapporti
familiari) venivano considerate valide per la città nel suo insieme,
e non soltanto per un ristretto ceto di governanti, e venivano da
Zenone spinte a un grado di radicalismo consequenziario che Platone
non aveva raggiunto: Zenone ammetteva apertamente, per i sapienti,
anche l’incesto, abolendo i residui di cautela tradizionale cui
Platone si era ancora dimostrato ossequiente46. La Media Stoa trovò
poi inaccettabile questo disegno di città zenoniana e lo sentì come
un ostacolo nella sua esegesi dell’opera del fondatore della scuola;
cercò perciò di esorcizzare la Repubblica, come operetta
radicaleggiante dovuta ad una influenza cinica poi dallo stesso
Zenone respinta47: si tratta di critiche che risalgono all’età di
Panezio o a lui immediatamente precedente, non certo a quella di
Crisippo, il quale riprendeva invece per suo conto i temi della
Repubblica zenoniana, il che ci induce a pensare che a quei temi
Zenone per primo debba esser rimasto fedele. Se egli si preoccupò,
una volta abbandonata la scuola cinica, che il suo sapiente fosse
tale da saper esercitare anche azioni di valore sociale comune, o
che tali azioni potessero essere esercitate anche da chi fosse
semplicemente «progredito» sulla via della sapienza, non cessò mai
peraltro di ritenere che il non sapiente, anche se capace di
realizzare solo dei «preferibili», fosse in realtà al di sotto del
bene, e quindi rimanesse un ϕαῦλος, in uno stato di inferiorità
irrimediabile. Era la ricerca di un difficile equilibrio che
salvasse la vita comune e non condannasse gli Stoici allo sterile
isolamento cinico. Aristone di Chio, in particolare, fra i discepoli
di Zenone, avrebbe rilevato la virtuale contraddizione e ne avrebbe
fatto aperta denuncia.
Dopo la morte di Zenone, lo Stoa subì una divisione radicale. Mentre
Cleante imboccava decisamente la strada del naturalismo cosmico, poi
proseguita da Crisippo e rimasta caratteristica della scuola nel suo
tronco ortodosso, Aristone di Chio ed Erillo rappresentavano, di
contro, l’ala radicaleggiante ed eticizzante. Scarsa rilevanza
teorica sembra avere il pensiero di altri discepoli, quali Persèo -
che rappresentò soprattutto l’impegno politico della Stoa accanto ai
sovrani - e Dionisio PEracleota48. Tuttavia anche il pensiero di
Cleante è tutt’altro che semplice esegesi ortodossa di quello
zenoniano. Diversa ne è Fimpostazione, e numerosi furono gli
elementi nuovi che Cleante introdusse49.
Anzitutto, si ha l’impressione che in Cleante, rispetto a Zenone, si
accentuasse il motivo della religiosità cosmica. Nel cosmo zenoniano
egli introdusse un elemento nuovo, la teoria del τόνος ο tensione:
una tensione fisica, definibile come πληγὴ πυρός, «colpo di fuoco»
(Plutarco, Stole. rep.y io34d= SVF I, 563). Questa percossa ignea,
da cui deriva l’energia psichica dell’universo stesso, sembra fosse
per lui impressa a quest’ultimo da quel corpo in cui si assomma
l’anima stessa, intelligente e senziente, del tutto, lo ἡγεμονιϰόν,
e cioè dal sole: Cleante introdusse quindi nella Stoa una sorta di
teologia solare della quale, in Zenone, non troviamo alcuna traccia.
Il sole era chiamato da lui «plettro dell’universo» (Clemente
Alessandrino, Strom. V, 8, 48 = SVF I, 502); l’immagine risalirebbe,
secondo Plutarco, al poeta eraclitizzante del v secolo Skithinos, ma
risente fortemente, anche per l’analogia fra il sole (Helios) e
Apollo.musico, di influenze pitagoriche; e architea era la teoria
del suono come prodotto da πληγή «percossa», teoria raccolta anche
nell’ambito dell’Accademia senocratea50. L’immagine del plettro
aiuta a dare alla parola τόνος tutto il suo reale significato:
perché τόνος è termine e concetto di natura musicale, e con esso
probabilmente Cleante accoglieva - pur traducendola in termini
strettamente fisici - la teoria pitagorica dell’armonia del tutto51.
Anche la sua concezione dell’elemento fuoco si differenziava da
quella zenoniana: pur accettando da Zenone due idee fondamentali,
quella del «fuoco artigiano» e quella della risoluzione nel
fuoco-seme di tutta la realtà nell’atto della conflagrazione, egli
conferiva al fuoco, «solo fra tutti gli Stoici» (ci dice la fonte
del dossografo Aezio, Piatita, I, 14, 5 = SVF I, 498), la forma del
cono. Cleante mostrava con ciò di riavvicinarsi a quella teoria
para-elementaristica di origine platonica che attribuisce agli
elementi cosmici forme geometriche originarie; non accettando però
il privilegia-mento che Platone, e dopo di lui l’Accademia antica,
avevano fatto delle figure poliedriche come base per tale
formazione. Se si può trovare un precedente alla sua posizione, esso
sta forse, anche in questo caso, nella tradizione pitagorica più
recente: Archita di Taranto, secondo una testimonianza dei
Problemata pseudo-aristotelici, aveva teorizzato la formazione della
natura sulla base di forme rotonde e non poliedriche, com’è
attestato dalle formazioni naturali più comuni di nostra esperienza
- le braccia negli esseri umani, Ì tronchi e i rami nelle realtà
vegetali. Né va dimenticato che, nel 111 secolo a. C, la ricerca
geometrica si andava particolarmente incentrando sulle figure a
superficie circolare, come cono e cilindro, a differenza di quella
del iv e del v secolo che aveva dato maggiore importanza - se si
eccettua, per l’appunto, Archita - alle figure poliedriche52.
Con un atteggiamento di avversione alle scienze e ai loro cultori
assai diffuso fra i filosofi dell’ellenismo, seppur con diverse
motivazioni, Cleante contrappose polemicamente questa sua visione
cosmica a quella di Aristarco di Samo, l’astronomo che appare essere
stato il primo deciso sostenitore dell’ipotesi eliocentrica nel
mondo antico. La teologia solare cleantea non dava luogo ad alcuna
posizione di tipo eliocentrico in ambito astronomico, e le ragioni
dell’opposizione di Cleante ad Aristarco, stando al riferimento di
Plutarco (De facie in orbe lunae, 923% = SVF I, 500), sembrano
essere siate eminentemente di tipo religioso. In realtà Cleante è,
fra gli Stoici antichi, quello che appare più dominato da
motivazioni di quest’ordine. Il suo inno a Zeus sarebbe stato più
tardi caro anche agli autori cristiani, che ne apprezzavano la forte
carica religiosa; e nella sua visione del tutto la vicenda cosmica,
dissoluzione nel fuoco per rinascere dal fuoco, sembra aver assunto
la forma di un gigantesco rito misterico, nel quale gli dèi-corpi
celesti o forze naturali avessero 1ε forma di μῦσται e il sole la
funzione del δᾳδοῦχος e il sole la funzione del δαδοχος, portatore
di fiaccola dell’universo: una sacra cerimonia, una sorta di
apoteosi (Epifanio, Adv. haeres., Ili, 2, 9 = SVF I, 538). La
conflagrazione diveniva così una sublimazione e acquistava un
significato metacosmico53). Questo nostro universo, inteso come una
totalità energetica che ha la fonte del suo essere nel sole, è la
forza che ci trascina nel suo ritmo, forza di fronte alla quale non
c’è che possibilità di adeguamento volontario, oppure, sull’incauto
che cerchi di resisterle, si eserciterà una superiore violenza:
questo è il senso della teologia cosmica di Cleante, anche se si
ritenga che le parole di Seneca «volentem fata ducunt. nolentem
tra-hunt» siano libera interpretazione dei versi cleantei da lui
tradotti e aggiunta ad essi54. Tuttavia Cleante, rispetto al suo
maestro Zenone, che aveva identificato fato e provvidenza, sembra
aver operato più sottili distinzioni. Un significativo passo di
Calàdio (In Timaeum, 144 = SVF I, 551) ci dice che Cleante lasciava
al fato, rispetto alla provvidenza, una sua fisionomia distinta: ciò
che avviene per volere provvidenziale di Zeus è anche necessità
assoluta, quindi fato; ma esiste anche una sfera in cui regna e
agisce la pura necessità: «nec ta-men quae fatali ter, ex
providentia». La testimonianza di Calcidio è isolata; l’assoluta
mancanza di un contesto esplicativo o di possibili riscontri con
altre testimonianze la rende per noi altamente problematica. La
provvidenza si esercita, come da qualcuno è stato ipotizzato, sul
mondo dei fatti umani, e nella natura regna la necessità pura; o la
distinzione fra i due piani corre nell’ambito della natura
stessa?55La seconda risposta è forse la più plausibile: anche se
Cleante avesse formulato tale distinzione nell’intento di esentare
Zeus dal ruolo di produttore dei mali esistenti nell’universo, il
male non riguarda solo il mondo delle azioni umane, delle quali in
definitiva l’uomo risulta responsabile, ma si estende ad abbracciare
parte della realtà naturale e cosmica; e una più ampia teodicea
giustificatrice del male nella natura sarebbe stata poi elaborata
soltanto da Crisippo.
Alla luce del naturalismo cleanteo e della nuova religiosità
cosmica, tutte le teorie zenoniane venivano riprese con una più
decisa interpretazione in termini fisicistici. La gnoseologia di
Zenone fu rivisitata da Cleante in termini di un materialismo assai
marcato: riprendendo la teoria dell’impressione, ο τύπωσις, Cleante
mostrava di intenderla in senso pregnante, e parlava di impronte
concave e convesse, di entrata e uscita delle realtà che si
imprimono nell’anima - o, almeno, un’esegesi di questo tipo è a lui
attribuita ripetutamente da Sesto Empirico (Adv, log., I, 228, II,
400, Pyrrh. Hypot., II, 70 = SVF I, 484)56: Ancor più chiara è
l’applicazione degli schemi fisico-cosmici al piano etico.
Anzitutto, Cleante operò la revisione della formula del τέλος, dato
che a lui, secondo l’interpretazione più attendibile, sembra non
tanto risalire l’aggiunta di τῇ ϕύσει al semplice
ὁμολογουμένωςinterpretazione di τῇ ϕύσειnel senso più largo e
schiettamente cosmologico: non si trattava più, come aveva inteso
Zenone, di parlare di coerenza alla vera natura dell’uomo, ma di
affermare la necessità dell’ adeguamento - insieme volontario e
passivo, in quanto condizionato da volontà superiore - alla legge
suprema del tutto (STOBEO, Ecl, II, 7, p. 76 W = SVF I, 552). Oltre
a ciò, troviamo in lui rispetto a Zenone un’ assai più decisa
volontà di spiegare in termini fisici realtà di ordine etico: la
teoria del τόνος come «percossa ignea» gli serviva a spiegare
l’essenza stessa delle virtù, una forma di τόνος, una percossa e
tensione che prende il suo nome a seconda del suo diverso
qualificarsi all’interno dell’anima, sia che si tratti di compiere
ciò eh’è pertinente, o sopportare, o resistere, o adeguarsi a certi
valori (Plutarco, Stoic. Rep., 1054C = SVF I, 563). Le virtù sono,
come già vedemmo in Zenone e torneremo a vedere in Crisippo,
qualitativamente differenziate e risale probabilmente a Cleante la
definizione delle qualità come πνεύματα ϰαì τόνοι (Plutarco, Stoic.
rep.y 1053Ì = SVF II 449): Cleante, nel formularla, aveva l’occhio
rivolto allo πνεῦμα psichico e a quei τόνοι psichico e a quei τνοι
qualificanti che sono le virtù, articolazioni energetiche
dell’anima.
A Cleante per primo nell’ambito della Stoa può essere attribuita una
vera e propria speculazione logica; la sua logica appare peraltro
elaborata in stretta concomitanza con la sua visione generale
dell’universo. La sua teoria del sillogismo, se una propriamente ve
ne fu, non appare elaborata indipendentemente dalla necessità di
argomentare in favore della sua visione teologizzante del cosmo. Ma
certo Cleante perfezionava su piano logico quelle prove
dell’esistenza del divino che Zenone aveva già cominciato a
formulare, e per la prima volta con lui vediamo spuntare quella
forma del sillogismo ipotetico che Crisippo renderà poi canonica. La
forma dell’ argomentazione di Cleante sembra essere stata la
seguente: «se esiste una natura che sia superiore ad un’altra, deve
esistere anche una natura che sia superiore a tutte le altre. Ma è
vero che esiste una natura che è superiore ad un’altra. Quindi è
anche vero che vi è una natura superiore a tutte» (Sesto, Adv.
phys., I, 88 segg. = SVF I, 529). Il ragionamento di Cleante
costituisce il passaggio dalla logica peripatetica e megarica, ove
il συνημμένον era già stato formulato, alla logica crisippea: la
prima premessa di questo sillogismo è ipotetica, ha forma complessa,
e contiene già in sé l’enunciazione del principio in base al quale
Cleante formulava la sua argomentazione, quello dell’impossibilità
del regresso all’infinito57. Cleante dunque conosceva e usava il
sillogismo ipotetico, anche se poi fu Crisippo a teorizzarlo
espressamente. Tuttavia tra le opere di Cleante troviamo titoli di
opere che ci dicono come egli avesse già iniziata una sua
elaborazione autonoma di problemi logici; che egli avesse scritto
un’opera Dei predicati e un’altra Dei modi (o «tropi»), ci dice che
più tipi di schema logico-dialettico cadevano già sotto la sua
trattazione diretta. E in realtà una teoria assai importante per la
Stoa ulteriore quale quella dei λεκτ comincia a prender corpo per la
prima volta chiaramente nella speculazione cleantea.
Zenone, come già si è visto, aveva cominciato a esprimere i suoi
dubbi circa la corporeità del predicato esprimente un’azione.
Cleante per la prima volta sembra aver sancito questo carattere
particolare del predicato con l’espressione λεϰτἁ, «significati», e
tale applicazione del termine specificamente alla predicazione
sarebbe stata poi raccolta da un discepolo di Crisippo, Archedemo di
Tarso (Clemente, Strom., Vili, 9, 26 = SVF I, 448). In tal modo il
concetto di incorporeo e quello di «significato» cominciavano a
confluire l’uno nell’altro, anche se poi fu Crisippo ad aggiungere i
λεϰτά, con un significato generalizzato, allargato al di là di
quello della semplice predicazione, alla lista degli incorporei,
come quarto fra di essi. L’innovazione semantica di Cleante doveva
quindi rivelarsi assai feconda; né la logica crisippea, che pure
dominò nella Stoa successiva, doveva soppiantare in maniera totale
quella del secondo scolarca della Stoa, se ancora successori di
Crisippo come il già citato Archedemo o Antipatro di Tarso potevano
richiamarsi a teorie cleantee. Ma che Cleante abbia avuto una sua
formulazione logico-dialettica e un suo posto nell’ambito delle
dispute che si andavano conducendo in quel settore della ricerca
filosofica ce lo dicono le notizie reseci, con maggiore precisione
da Arriano-Epitteto (Diss., II, 19, 1 = S VF I, 489) e con minore da
Cicerone (De fato, 7, 14) circa la sua argomentazione contro il
«discorso dominatore» di Diodoro Crono58. L’argomento di Diodoro
Crono si articolava in tre proposizioni, il cui significato è ancor
oggi assai discusso. Il significato globale, a parte i complessi
problemi di interpretazione che il riferimento di Epitteto ha posto
alla critica59, sembra esser quello della negazione del passaggio
dal possibile al reale. I fatti del passato sono reali e necessari,
in quanto immutabili; i fatti del futuro sono destinati a diventare
fatti accaduti, e quindi anch’essi reali e immutabili, il che vuol
dire che in qualche modo esistono già come necessari; non si passa
quindi dal possibile al reale, ma dal reale al reale, dal necessario
al necessario. Le nostre fonti ci dicono che Cleante negava la prima
delle tre proposizioni, quella che dice: «ciò che è stato vero nel
passato è anche necessario»; non ci dicono però, come talvolta si
propende a credere (se guardiamo soprattutto alla più precisa
testimonianza di Epitteto) che abbia ammesso le altre. E probabile
che Cleante abbia preso posizione solo sulla prima, e abbia fatto
ciò piuttosto dal punto di vista della teodicea che da quello della
logica vera e propria: non si può negare il possibile nel passato
-che cioè qualcosa di ciò che è avvenuto avrebbe potuto verificarsi
diversamente - senza correre il rischio di imputare il male alla
Provvidenza e al fato. Più tardi Crisippo, ragionando in termini di
più stretta modalità logica, trovò invece la prima proposizione di
Diodoro relativamente accettabile (mentre rifiutava le altre): ciò
che è stato vero nel passato, cioè che è divenuto realtà, è
irreversibile, immutabile, e da ciò deriva la sua necessità, senza
che questo metta in crisi l’esistenza del possibile in generale.
La suddivisione della filosofia data da Cleante è più complessa di
quella zenoniana. Egli distingueva la parte «logica» in dialettica e
retorica, distinzione che non sappiamo se ancora Zenone avesse fatto
espressamente: la parte fisica in fisica generale e teologia, dando
quindi un posto a sé stante alla trattazione degli dèi o del divino
e della provvidenza; ma distingueva anche una filosofia etica da una
politica, il che è interessante in un filosofo di età ellenistica
(Diogene Laerzio, VII, 41 = SVF I, 482). La parte etica conteneva
certo la teoria delle virtù, delle passioni, del fine; abbiamo già
visto come essa si ricollegasse strettamente alla fisica; dobbiamo
ancora notare almeno come Cleante tendesse a distinguere il
ragionamento dell’elemento passionale e irrazionale, da lui
chiamato, con un certo platonismo, θυμός Crisippo, più tardi,
avrebbe compiuto un passo assai più deciso verso l’unitarismo
psichico. Cleante infatti rappresentava in forma poetica, come era
suo uso frequente, la ragione (λογισμός) in conflitto col θυμός) in
conflitto col θυμς, che cerca di imporre la sua legge (Galeno, De
Hipp. PI. plac., V, 6 = SVF I, 570). Posidonio, a detta sempre di
Galeno (ivi, IX, 1 = SVF I 571) gli avrebbe attribuito addirittura
la divisione psichica triadica di Platone, il che è probabilmente un
forzare i termini della distinzione cleantea. Per ciò che riguarda
la parte politica, non abbiamo alcuna testimonianza di posizione di
città ideali o di utopie sofocratiche. Una testimonianza giunta
attraverso Stobeo (Ecl., II, 7, p. 103 W. = SVF I, 587) ci dice che
Cleante argomentava intorno alla città in forma di sillogismo
ipotetico in questi termini: «se la città è una struttura abitata in
cui è possibile rifugiarsi per dare e ricevere giustizia, non è
forse la città una cosa positiva? ma la città lo è; è quindi urta
cosa positiva». Sembra di vedere qui un’accettazione della città
reale e della giustizia positiva, prescindendo da contrapposizioni
ad essa di una più radicale forma di giustizia e di organizzazione
comunitaria, e forse una polemica contro certe negazioni ciniche
della città e affermazioni della assoluta indipendenza del sapiente
dalla vita cittadina. Ma va tenuto presente che per tutta la Stoa
nel suo insieme il sapiente non è ἄπολις, ma eminentemente πολίτης;
quella di ἄπολις, ma eminentemente πολτης; quella di απολις, privo
di città, straniero ovunque, è piuttosto la connotazione dello
stolto che non quella del saggio60. Se tale polemica vi fu, essa non
fu certo solo di Cleante; in Cleante può essersi forse accentuata,
rispetto agli altri filosofi della scuola, l’accettazione realistica
della città concreta; ma tutta la Stoa, nel suo insieme, si può dire
assai lontana dall’ideale, proprio di certe correnti della socratica
- non solo dei Cinisi, ma, se diamo retta a Senofonte, anche dei
Cirenaici61 - del sapiente «straniero ovunque», e quindi proprio in
virtù di questo, a suo modo e negativamente, cittadino ovunque.
Nel periodo in cui Cleante continuava nella Stoa Pecile la
tradizione di Zenone, un’altra scuola stoica, in gara con la sua, si
era aperta in Atene, e otteneva grande successo, quella del
discepolo dissidente di Zenone, Aristone di Chio. Aristone rifiutava
la divisione della filosofia in logica, fisica ed etica, che abbiamo
visto esser di derivazione accademica: affermava che la sola
possibilità di filosofare rettamente ci è data dall’etica, poiché
argomentare logicamente non ha alcun valore per noi, e speculare
sulla natura supera le capacità della nostra mente (Stobeo, Ecl.,
II, p. 8, 13 W = SVF I, 352 Diogene Laerzio, VII, 160 = SVF I, 351).
Ciò significava un rifiuto radicale non tanto della filosofia di
Zenone quanto dello sviluppo naturalistico-teologico che Cleante
stava dando a questa. Egli accettava da Zenone la teoria degli
indifferenti, anzi forse a lui è dovuta la prima esatta formulazione
terminologica di essa, se Diogene Laerzio, o meglio la sua fonte,
può affermare che Aristone è l’introduttore della αδιαφορα62. Ma
dilatava tale teoria ben oltre i limiti in cui Zenone l’aveva
concepita, rifiutando la teoria zenoniana dei preferibili e dei
valori relativi. Nulla vi è di oggettivamente preferibile o avente
valore; ogni realtà può diventare preferibile e acquisire un valore
a seconda della circostanza: la salute, per esempio, può essere un
valore in una situazione politica corretta, un disvalore sotto una
tirannide, che può rendere preferibile lo stato di malattia che
sottrae ai doveri cittadini (Sesto, Adv. eth., 63 = SVF I, 361). Di
per sé, quindi, ogni realtà è indifferente nella sua essenza, ed è
solo la περίστασις il contesto di circostanze in cui è inserita, a
conferirle il suo valore; perciò il sapiente non è che un attore
sulla scena dell’esistere, che adatta le sua capacità al ruolo che
occorre di volta in volta svolgere (Diogene Laerzio, VII, 160 = SVF
I, 351), e perciò (ivi) le virtù non sono che «modi di essere
relativi». L’espressione che Diogene Laerzio usa per questa
definizione, ϰατά τò πρός τί πως ἔχειν, non fu probabilmente usata
da Aristone, ma è l’espressione che Crisippo usava per polemizzare
contro di lui: Crisip-po scrisse infatti contro Aristone un’opera a
dimostrare che le virtù rispondono alla categoria della qualità, e
non a quella del «modo di essere relativo»63; questa divisione
categoriale così precisa è opera crisippea, e scarse sono le
possibilità che la distinzione fra ποιόν e πρóς τί πως ἔχον possa
venir anticipata ad Aristone. E chiaro però che Aristone dava la più
grande importanza al concetto di relatività, e che proprio la sua
speculazione in merito ad essa condusse poi Crisippo ad ampliare il
ventaglio delle distinzioni categoriali.
Molto del materiale filosofico che va sotto il nome di Aristone è
incerto, per ragioni di omonimia con altri filosofi, come Aristone
di Ceo peripatetico o Aristone di Alessandria, anch’esso di tendenza
peripatetizzante64. Che notoriamente Aristone di Chio esercitasse
brillantemente la retorica - il che gli servì per sottarre molti
seguaci a Cleante - non giustifica affatto l’attribuzione a lui,
sulla base di un assai tenue probabilità papirologica65, di una
«poetica» quale quella riportata da Filodemo, nell’opera De
poematiBus, e che appare piuttosto da attribuirsi a un dotto di
formazione filosofica complessa, parte stoica parte peripatetica: se
questo personaggio (filosoficamente formato, ma forse piuttosto un
letterato e critico che un filosofo in stretto senso) rifiuta la
teoria peripatetica della μετριοπαθία, segue però una psicologia di
tipo peripatetizzante che assai difficilmente può venir attribuita
ad Aristone; e la sua teoria della ϕωνή fa pensare a sviluppi stoici
più tardivi e post-crisippei, forse dell’età di Diogene di
Babilonia66. Certo Aristone si valeva della retorica come strumento,
ma si guardava dal teorizzarla, in base al principio che i discorsi
dei «dialettici» sono come viziose e capziose tele di ragno (Diogene
Laerzio., VII, 160); né avrebbe potuto, come fa invece l’autore
della «poetica» filodemea, conferire alla εὐϕωνία dei discorsi una
valore di per sé positivo. Tra le sue opere figurano una contro i
retori, un’altra contro i dialettici; né l’ultima né l’altra avrebbe
certo potuto contenere una teoria letteraria a giustificazione
dell’εὐϕωνία.
Erillo di Calcedone, l’altro stoico dissidente che si contrappose a
Cleante, rifiutava anch’egli gli sviluppi naturalistici della teoria
zeno-niana, per attenersi al piano dell’etica. La presentazione che
Cicerone ce ne fa in Acad. pr. II, 129 (= SVF I, 413) può essere in
qualche misura fuorviante: Cicerone ne fa quasi un sostenitore
dell’ideale della vita contemplativa, e lo accosta a Platone. Ma la
definizione del fine che Diogene Laerzio (VII, 165 = SVF I, 411) ci
riporta a suo proposito è qualcosa di più che la «cognitio»e la
«scientia» di cui parla Cicerone: l’ideale di Erilio è il «vivere
riconducendo ogni cosa al vivere con scienza», è un ideale pratico e
non teoretico, che non si discosta molto dalla generale impostazione
stoica, intellettualistica sempre pur nei suoi vari aspetti67.
Curiosamente, Diogene ci riporta subito dopo che per Erillo in
realtà non esisteva un fine ((jnqSèv etvoct TèXO$) ma che egli
riteneva il fine sempre relativo alle circostanze; è un’altra forma,
non coincidente ma sostanzialmente vicina a quella di Aristone, di
affermare la ἀδιαϕορία àSioccpopia e la relatività dei valori.
Erillo affermava anche, sempre secondo Diogene, nella non certo
chiara né lineare testimonianza già sopra riportata, che non esiste
solo il τέλος (cioè quel fine che il sapiente sa individuare in base
alla scienza, e che, se è di volta in volta altro secondo le
circostanze, costituisce pur sempre il bene e la virtù), ma esistono
anche fini «inferiori», quelli che egli, con termine da lui coniato
e che poi dovette rapidamente cadere nel liguaggio della scuola,
chiamava le ὑποτελίδες. Dire che le ὑποτελίδες sono «fini secondari»
sarebbe inesatto: Erillo, fermo al principio della relatività
assoluta del fine, non accettava la gerarchia zenoniana dei valori,
e non è quindi possibile indentificare con προηγμένα le
ὑποτελίδες68. Esse si contrappongono certamente in modo radicale,
nella visione di Erillo, al fine proprio del sapiente; e, per quanto
ambiguo, lo stesso testo di Diogene, con la sua conclusione, ci
porta su questa strada, concludendo con l’affermazione della
assoluta indifferenza di quanto è intermedio fra virtù e vizio, in
altra parola con la non esistenza di valori secondari.
Cicerone parla di queste sette minori della Stoa come presto
«frac-ta et extincta» (De oratore. III, 62 = SVF I, 414); il
naturalismo cleanteo conduce direttamente alla dottrina di Crisippo,
e non lascia spazio al radicalismo etico intellettualistico e
relativistico dei suoi rivali. E singolare che questi si
richiamassero a Socrate (ancora Cicerone nello stesso contesto, «se
omnes fere socraticos esse dicebant»), probabilmente proprio in
virtù del rifiuto socratico di filosofare su alcunché di diverso
dalle vicende umane e dai concetti di ordine etico-pratico, ma che
anche a Socrate - e probabilmente al Socrate senofonteo più che a
quello platonico - si rifacesse, nonostante il suo naturalismo, lo
stesso Cleante: sappiamo infatti che in una sua opera egli affermava
di seguire l’insegnamento di Socrate, il quale aveva dichiarato
l’uomo giusto essere anche felice e non potersi separare l’utilità
dalla giustizia (Clemente, Strom., II, 22, 131 = SVF I, 558)69.
Socrate continuava ad essere quindi per tutta la Stoa un modello.
Quanto a Platone, la sua eredità, nonostante le polemiche e i
rifiuti, è nella Stoa un fatto di ordine persistente. Sotto
l’aspetto politico, può essere interessante vedere come in questa
scuola continuasse ad esser vivo il motivo dell’educazione del
reggitore di stato alla filosofia, che era una delle due alternative
del programma politico platonico - fondare città con filosofi al
governo, o convertire alla filosofia i governanti delle città. Poco
sappiamo in realtà del filosofo cortigiano Persèo, mandato da Zenone
presso il monarca macedone Antigono Gonata; un poco di più della più
significativa figura del discepolo di Cleante, Sfero, che fu attivo
presso il re riformatore di Sparta Cleomene III. Il mito di Sparta
era attivo nella Stoa; lo aveva coltivato Zenone (secondo Plutarco,
Lyc., 31 = SVF I, 261, 263) e lo aveva trasmesso a Persèo, autore di
una Costituzione di Sparta di cui ci sono rimasti solo particolari
scarsamente significativi. Sfero dovette far opera più concreta per
tradurre nuovamente in realtà, tramite un’azione riformatrice, quel
mito famoso della Sparta arcaica: l’azione di Cleomene rappresenta
il momento in cui la tradizionale vita della città e la nuova
funzione centrale e dinamica del basilèus sembrano venire a
toccarsi: tendenza filomonarchica e culto dell’antica costituzione
spartana possono insieme aver ispirato l’insegnamento di Sfero al
re70. È interessante vedere, dal catalogo delle sue opere in Diogene
Laerzio, com’egli fosse l’autore di un’opera in tre libri incentrata
sul parallelo fra la figura di Licurgo e la figura di Socrate: forse
in esso stava il programma dell’azione riformatrice da lui ispirata:
ritorno all’antica costituzione di Licurgo alla luce della nuova
concezione socratica della giustizia.
La scuola di Cleante fu raccolta nel 232-231 da Crisippo, che ha
impresso a tutto il pensiero stoico seguente un’orma talmente
profonda e duratura da render spesso difficile per noi identificare
l’origine delle teorie, il loro stadio pre-crisippeo, la loro
identità ali’infuori di quella articolata sistematizzazione che
troveranno nella sua dottrina. Crisippo era uno spirito
eminentemente analitico. Sull’eredità raccolta dai suoi meaestri si
accinse ad operare nel senso di costruire in base ad essa una più
complessa articolazione logico-concettuale: il suo naturalismo
assunse forme logiche precise, mettendo capo alla formazione di una
rigorosa teoria della causalità cosmica. Si precisava e completava
con lui la teoria della divisione categoriale delle forme
dell’essere; la logica assumeva un’importanza assolutamente nuova
rispetto ai predecessori e si articolava in un complesso studio di
schemi formali e argomentazioni; la psicologia si precisava in una
forma più decisamente e integralmente intellettualistica rispetto a
quella di Zenone e Cleante, in base a quell’unitarismo psichico
rigoroso delle funzioni teoretiche e pratiche che ancora i
predecessori non avevano raggiunto.
Crisippo accettava la tripartizione della filosofia, e dava in essa
alla logica particolare importanza. Essa è non solo preliminare alle
altre parti nel corso di quell’insegnamento che deve portare l’uomo
prima al progresso e poi alla sapienza - anche se, vedremo, questa
potrà esser raggiunta da pochissimi - ma diviene parte costituente
della filosofia, a pieno titolo, non solo come dottrina del
conoscere, ma anche come dialettica o dottrina delle argomentazioni.
Questo discorso era compiuto da Crisippo in polemica con Aristotele
e con il Peripato, che avevano fatto della scienza dell’
argomentazione uno strumento propedeutico alla scienza più che una
parte vera e propria del sapere scientifico-filosofico71; e aveva la
sua spiegazione nel fatto che la logica stoica non mira mai a
fondare dimostrazioni valide per le scienze, a differenza della
logica peripatetica, ma a costruire una analisi articolata del
linguaggio comune, non dimostrativo, riducendolo a una serie di modi
fondamentali. Crisippo dedicò alla logica una parte vastissima della
sua produzione; il catalogo di Diogene Laerzio è amplissimo in
proposito; la tradizione parla di 262 libri. A Crisippo occorre far
risalire la maggior parte di quanto ci è tramandato come «logica
degli stoici» in generale, salvo alcune anticipazioni cleantee e
certe precisazioni e correttivi che vennero poi compiuti dai
discepoli Antipatro e Archedemo di Tarso.
Nella gnoseologia Crisippo riprendeva i temi zenoniani, ma
rifiutando per lo più l’esegesi che di essi aveva dato Cleante. Per
prima cosa egli rifiutava non solo la teoria della τπωσις, ma
soprattutto la spiegazione strettamente materialistica che Cleante
aveva dato di questa: egli preferiva parlare di ἑτεροίωσις,
trasformazione o modificazione, che i nostri organi di senso
subiscono per opera dell’oggetto esterno «esistente» (Sesto, Adv.
log., I, 227 segg., 372 segg. = SVF II, 56). E forse per primo dava
alla ϰαταληπτιϰὴ ϕαντασία tutto il valore pieno di «criterio della
verità»; ma su questo punto egli dovè poi tornare su se stesso e
modificare il suo pensiero, dal momento che Diogene Laerzio (VII, 54
= SVF II, 105) lo accusa di contraddizione per aver poi in secondo
tempo parlato di αἴσθησις e πρόληψις come «criteri»72. Possiamo
anche pensare che in questa seconda sede (l’opera Del ragionamento)
Crisippo ponesse il termine αἴσθησις come sostitutivo di quello, più
autenticamente stoico, di ϰατάληϕις ma certo col termine πρληψις o
anticipazione veniva ad allargare il concetto di criterio e a
ritenere necessaria una sua formulazione anche per il piano
concettuale e non solo per quello della pura sensazione con la quale
percepiamo immediatamente il vero. Il termine πρόληψις è di origine
epicurea73, e Crisippo lo mutuava da quella scuola per indicare
quelle formazioni mentali che fino allora, e anche da lui stesso in
altre occasioni, erano state chiamate ϰοιναὶ ἔννοιαι o nozioni
comuni: nozioni formatesi per ripetuta esperienza e fattesi schemi
mentali anticipatori dell’esperienza successiva (anche se un’ambigua
testimonianza parla di ϕυσιϰαὶ ἔννοιαι74, sarebbe in contraddizione
con la generale gnoseologia crisippea vedere in queste un vero e
proprio innatismo). Tuttavia si può dubitare che i due termini di
ϰοιναὶ ἔννοιαι e προλήψεις se si coprissero totalmente. Se prestiamo
attenzione a un testo dosso-grafico quale Aezio, IV, 11 = SVF II,
83, sembra che questo ci dica che nell’espressione πρόληψις Crisippo
e la sua scuola vedevano qualcosa di più e di ulteriore rispetto
alla pura «nozione comune»: in questa sarebbe da vedersi una pura
tendenza naturale a concepire la distinzione fra ciò ch’è bene e ciò
eh’è male, virtù e vizio; nell’anticipazione vi sarebbe anche un
elemento ἐϰ διδασϰαλίας, un insegnamento che proviene dal ripetersi
delle esperienze; la πρόληψις sarebbe insomma una primaria
formulazione conoscitiva del comune sentire intorno al bene,
perfezionata tramite una schematica esemplificazione mentale. In
ogni caso, «nozioni comuni» e «anticipazioni» erano considerate da
Crisippo relative alla sfera etica, al bene, e si distinguevano
quindi ben nettamente dalla οἰϰείωσις e dalla coscienza prima e
immediata dei πρῶτα ϰατὰ ϕύσιν, realtà che si pongono al di qua
della sfera etica, anteriormente ad essa75.
Crisippo fu attento più degli altri stoici alle ambiguità del
linguaggio, sì da dare una definizione della filosofia come
«corretto uso del discorso»76. Pur avendo ereditato da Zenone e
Cleante la teoria, di origine eraclitea, del carattere naturale e
non convenzionale della lingua, che portava alla ricerca del
«significato vero» tramite la individuazione delPetimo, aveva -
rispetto a quei suoi predecessori - un senso assai più acuto delle
possibili fallacie dei nomi e delle insidie che si celano nelle
anomalie linguistiche. Se le parole primitive imitano direttamente
la cosa col suono, la formazione delle locuzioni astratte,
successivamente, porta ad allontanarsi progressivamente dalla
natura, a perdere il diretto contatto con essa, a cadere in
ambiguità infinite: su questa base, ci dice Varrone De lingua
latina, IX, i = S VF II, 151) Crisippo polemizzava contro le teorie
analogiste di Aristarco di Samotracia, sostenendo una teoria
linguistico-letteraria fondata sull’anomalia, e sosteneva contro le
teorie di Diodoro Crono (Gellio, Noct. Att., XI, 12 = S VF II, 152),
ogni parola essere fondamentalmente ambigua. A lui, per quanto una
testimonianza ci dia già per Zenone la fissazione di elementi
fondamentali del discorso77, risale certamente la vera e propria
prima formulazione della grammatica, che doveva esser poi largamente
continuata non solo dai suoi discepoli e continuatori, ma da
letterati e critici di formazione stoicheggiante anche se non
presentantisi con precise etichette filosofiche, fino a divenire
patrimonio comune dell’educazione letteraria.
Zenone aveva già insegnato (Diogene Laerzio, VII, 55) che la voce è
fatto fisico e che va ricondotta al concetto di «aria percossa». E
che l’oggetto indicato dalla voce fosse una realtà di ordine fisico
-a parte quei casi limite già riconosciuti come incorporei - era
teoria stoica già ben prima di Crisippo. Tuttavia Crisippo seppe
dare pieno sviluppo alla distinzione fra oggetto fisico indicato e
indicazione semantica di esso. Lo fece riprendendo l’espressione che
Cleante aveva già usato per indicare i predicati, quella di λεκτόν,
ed esplicitando tutto ciò che essa conteneva. Se corpo è la voce e
corpo l’oggetto -e lo stesso nome lo è - non è però corporeo il
contenuto semantico del nome o dell’espressione che designa
l’oggetto, il suo «significato». Ad ogni possibile indicazione
semantica, ad ogni σημαινόμενον, corrisponde quindi una realtà
incorporea, che può a buon diritto collocarsi nella lista delle
realtà considerate tali. Era, questo, un importante passo avanti
sulla via del concettualismo: era infatti togliere ad ogni
«significato» il suo carattere realistico (quel carattere che
Platone e Aristotele avevano inteso in senso metafisico, come idea o
come forma) senza peraltro attribuirgli carattere «materialistico»,
quello che gli Stoici erano propensi, sotto altro aspetto, ad
attribuire anche a realtà di tipo non spaziale (anche le virtù, come
si è visto, erano da essi considerate, ad esempio, realtà di ordine
fisico). Il significato, appartenente all’ordine dell’incorporeo
pensabile-esprimibile, è una realtà di puro ordine
linguistico-concettuale; e, pur essendo da Crisippo considerato
quarto nella serie degli incorporei, in aggiunta al tempo al luogo
allo spazio, non è un incorporeo di ordine fisico come gli altri
tre, e non la fisica ma la logica deve prenderlo in considerazione.
Esso è, in realtà, un concetto di relazione; rappresenta una
relazione non fisica istituita fra enti fisici78.
La teoria del giudizio era derivata agli Stoici da Platone e da
Aristotele. Già prima di Crisippo, forse, essi dettero al giudizio
il nome di ἀξίωμα e formularono la distinzione dei giudizi veri e
propri da varie altre forme, l’interrogazione, il quesito, l’ordine
ecc. (Diogene Laerzio, VII, 66 = SVF II, 186). Risale però a
Crisippo la distinzione estremamente articolata di queste
proposizioni che ci dà Diogene, ma più accuratamente ancora Sesto
(Adv. log., II, 70 = SVF II, 187): sotto il genere comune di λεϰτά
si possono raccogliere quei «significati compiuti» ο «perfetti»,
αὐτοτελῆ, che sono gli assiomi o giudizi, indicativi del vero e del
falso, e quei significati «non compiuti», «difettosi», si», ἐλλιπῆ,
che sono altre proposizioni, appunto come l’interrogazione e il
quesito e l’imprecazione o il comando, che non comportano
affermazione o negazione, verità o falsità79. Quanto ai giudizi,
essi possono essere semplici o complessi: e qui si apre un capitolo
assai importante della logica crisippea, quello della formazione dei
sillogismi. Fra i giudizi complessi, Crisippo operava numerose
distinzioni: i συμπεπλεγμένα (uniti semplicemente fra di loro da una
particella congiuntiva), i διεζευγμνα o disgiuntivi, quelli
introducenti un rapporto di tipo causale e uniti dalla congiunzione
διότι, «poiché». Ma il giudizio complesso e il ragionamento
sillogistico fondamentale era per Crisippo il ragionamento, ο
sillogismo, ipotetico, il συνημμένον;e su di esso si basava tutta la
sua logica. L’elaborazione del sillogismo ipotetico era stata
iniziata da Filone megarico da una parte, da Teo-frasto ed Eudemo
peripatetici dall’altra80; Crisippo la continuò dandole una sua
impronta originale: secondo la testimoninaza di Sesto Empirico,
diverso era il «criterio della consequenzialità» di cui egli si
valeva nei riguardi degli autori precedenti; si può essere d’accordo
con la maggior parte della critica che a Crisippo alluda Sesto nel
parlare di un certo tipo di sillogismo ipotetico modellato sul
criterio della «connessione» ο συνάρτησις81.
Il sillogismo crisippeo, nella sua forma più tipica, si esprime al
modo seguente: «se è giorno, c’è luce - ma è giorno - quindi c’è
luce». Esso non gioca su tre termini, come quello aristotelico, ma
su due; ciò non vuol dire che non contenga in sé il momento della
mediazione, eh’è necessario ad ogni tipo di ragionamento discorsivo;
semplicemente, questa mediazione, costituita dalla seconda premessa,
riprende il termine della protasi, mentre la conclusione riprende
quello della apodosi del periodo ipotetico iniziale. Le varianti di
questo tipo fondamentale di sillogismo furono debitamente elencate
da Crisippo nel numero di cinque ragionamenti, o sillogismi,
anapodittici, non dimostrativi82: egli riteneva infatti che la
maggior parte dei sillogismi rispondessero a questa forma, e non
considerava la dimostrazione scopo precipuo del sillogismo (si è già
detto sopra che la logica non era da lui considerata strumento in
vista della scienza, come in Aristotele e in genere nella tradizione
peripatetica). Un solo tipo di sillogismo Crisippo considerava
dimostrativo, ma il suo ruolo era limitato e il tipo di
dimostrazione che esso offriva non aveva nulla a che vedere con
l’apodissi aristotelica: era di tipo induttivo e non deduttivo, o di
tipo, più precisamente, inferenziale. Il sillogismo è dimostrativo
quando le sue premesse hanno in sé qualcosa di oscuro sulla cui base
occorre esplicitare ciò ch’è nascosto. Nella frase «se questa
femmina ha latte nelle mammelle, vuol dire che ha partorito» c’è
un’inferenza che il seguito del ragionamento non fa poi che
applicare a un caso particolare: «ma essa ha latte nelle mammelle,
quindi ha partorito» (Sesto, Adv. log., II, 244 = SVF II, 221).
Crisippo con ciò non faceva che piegare a forma sillogistica il
vecchio motivo della fisica anassagorea ὄψις ἀδήλων τὰ ϕαινόμενα,
già usato ampiamente nell’ambito della medicina ippocratica, che ben
conosceva la teoria del σημεῖον o «indizio», rivelazione di un fatto
nascosto83. E la teoria del «segno» lo ricollegava ad uno stadio
decisamente pre-ellenistico della scienza; giacché tutta la scienza
nel iv secolo andava svolgendosi sotto il segno dell’assiomatica
aristotelica e dell’apodissi deduttiva, e la stessa medicina di
ispirazione peripatetica andava compiendo un notevole sforzo in
questo senso (si vedrà più oltre come Crisippo polemizzasse anche su
singoli punti e momenti con i medici suoi contemporanei, con Erofilo
ed Erasistrato)84.
Nonostante gli elaborati schemi interpretivi ch’essa in effetti
presentava, e gli sforzi di interpretazione formalizzante compiuti
dalla critica moderna per interpretarla (con il rischio, spesso, di
estrapolarla dal suo contesto storico concreto e di perder di vista
le sue ragioni), la logica crisippea era orientata tutt’altro che in
senso formalistico: era in realtà fortemente realistica, giacché
Crisippo, nel giudicare della verità o falsità dei ragionamenti,
aveva l’occhio costantemente volto alla realtà di fatto e alla
rispondenza delle singole proposizioni con questa assai più che non
alla pura concatenazione logica fra i membri del sillogismo stesso.
Egli riteneva che un sillogismo del tipo di quello sopra posto ad
esempio fosse «vero» quando la seconda premessa («ma è giorno»)
corrispondesse a verità effettiva, quando cioè fosse realmente
giorno; e che quindi la proposizione ipotetica iniziale dovesse
essere la condizione introduttiva di un giudizio vertente su di una
realtà di fatto direttamente verificabile (Sesto, Adv. log., II, 411
= SVF II, 239). Altrimenti il sillogismo può dirsi semplicemente
συναϰτιϰός, «concludente» ma non vero: come, per esempio, nel caso
che «se è notte, è buio; ma è notte, quindi è buio» non corrisponda
all’effettiva realtà della notte. I sillogismi di Crisippo si
commisuravano quindi, quanto a verità, indipendentemente dalla
correttezza della loro consequenzialità formale, sulla conoscenza
empirica della realtà singola, e sull’effettivo «esistere», υπάρχει.
E un aspetto da non trascurarsi se non si vuol perdere la
connessione della formalizzazione logica crisippea con la
gnoseologia empiristica sua propria e della scuola stoica in
generale.
Crisippo si interessò ampiamente, come i titoli delle sue opere
attestano, alla soluzione di sofismi e dell’analisi dei soriti. E
interessante qui ricordare soprattutto la sua presa di posizione nei
riguardi di Diodoro Crono, che non coincideva con quella di Cleante,
il quale, come abbiamo visto, negava la prima delle tre proposizioni
del «ragionamento dominatore», quella secondo cui ogni passato è, in
quanto reale, necessariamente vero; proposizione che invece Crisippo
riteneva legittima, mentre negava le proposizioni seguenti (dal
possibile non consegue l’impossibile / il possibile è ciò che non è
vero né lo sarà). Per Crisippo, infatti (Arriano, Epici. Diss., II,
19, 1, segg. = SVF II, 283), al possibile può conseguire
l’impossibile, cioè il non realizzato (o, in altri termini, la
modalità dell’antecedente non determina quella del conseguente).
Questa argomentazione antidiodorea ci avvicina alla fisica di
Crisippo, e costituisce in certo modo il passaggio dal piano logico
al piano della considerazione generale della realtà e ai problemi
del rapporto fra possibilità e necessità che costituiscono la base
della visione crisippea dell’universo. Crisippo si opponeva a quello
che in Diodoro gli appariva necessitarismo assoluto85: nella logica
successione degli eventi vi sono possibilità che non dànno
necessariamente luogo a eventi reali, come la possibilità di
spezzarsi della pietra che non dà necessariamente luogo alla sua
frantumazione di fatto. Crisippo traeva da questa sua teoria della
modalità conseguenze di carattere non solo fisico in generale ma
anche astrologico, come vediamo da Cicerone nel De fato; è, questo,
problema sul quale si tornerà più oltre.
Altra dottrina già impostata, ma che Crisippo sviluppò portandola a
completezza, è quella delle categorie; a Crisippo risale con ogni
pròbabilità l’elaborazione dei due schemi categoriali dei modi di
essere (πὼς ἔχοντα) e dei modi di essere relativi (πρóς τί πως
ἔχοντα)86; egli dava quindi grande importanza alle categorie della
modalità e della relatività, che venivano a modificare il panorama
zenoniano, consistente soprattutto in sostrati e qualità. Le
esigenze della polemica contro Aristone di Chio furono certamente
alla radice di questa nuova attenzione crisippea nei riguardi del
campo dei relativi: Crisippo si trovava di fronte alla necessità di
formulare concettualmente tali forme di essere delimitando il loro
ambito in maniera corretta. Il concetto di relativo, per esempio,
non poteva investire anche il campo delle virtù, cioè quello del
bene e del fine; occorreva quindi ribadire contro Aristone che non
si può risolvere tutto per mezzo dell’applicazione di tale schema
concettuale, e Crisippo lo fece nell’opera Che le virtù sono qualità
(o «forme qualitative», ποιας). Crisippo ridava valore con ciò ad
una forma categoriale che era stata molto importante per l’Accademia
(Senocrate aveva teorizzato la divisione delle forme dell’essere in
«realtà in sé», e «forme relative ad altro», ο πρóς, opponendosi
all’inutile moltiplicazione delle categorie da parte di
Aristotele87; un altro accademico, Ermodoro, aveva ulteriormente
operato su questi schemi categoriali, distinguendo fra relativi per
opposizione e semplici correlativi88); tuttavia, per lui, maggiore
importanza che non i relativi avevano i «modi di essere», e solo più
tardi nella Stoa, stando ad una testimonianza di Simplicio che
vedremo più oltre, sarà formulata una divisione categoriale fondata
primariamente sul concetto di relativo. A Crisippo si può attribuire
la divisione quadripartita in sostanze o sostrati - qualità - modi
di essere - modi di essere relativi, contro la quale avrebbe poi
polemizzato Plotino, e che ci è resa da numerose testimonianze89.
Largo sviluppo dava Crisippo alla trattazione della categoria della
qualità (mentre, coerentemente al carattere qualitativo della sua
fisica, come già Zenone, non poneva la quantità come categoria a sé
stante). Egli distingueva fra una qualità (ποιότης) generale e in
astratto, ο un ποιόν («quale», «realtà qualificata»), ssecondo la
testimonianza di Simplicio, (In Arisi. Categ., p. 212, 7 segg.
Kalbfleisch = SVF II, 390); e denotava con ciò il suo intento di non
piegare la dottrina delle categorie esclusivamente allo scopo della
comprensione delle realtà singole. Nell’ambito dello stesso ποιόν,
con la sottigliezza propria di tutto il suo pensiero, distingueva
fra ciò ch’è ϰοινῶς ποιόν τι, «realtà qualificata in modo generale»,
e ciò che è ἰδίως ποιόν τι, qualificazione strettamente individuale
(Filone, De aetern. mundi, 236 = SV II, 397). E teorizzava fino al
paradosso l’impossibilità che in una stessa sostanza o sostrato
potessero trovarsi due caratterizzazioni individuali uguali l’una
all’altra, come lo stesso passo di Filone dimostra nel suo arduo
contesto90. Ma grande importanza egli dava anche alla categoria dei
«modi di essere», che gli servivano a designare tutte quelle
modificazioni e forme differenziate del reale ch’egli non credeva di
poter sussumere sotto la categoria della qualità. Egli fece della
categoria dei «modi di essere» un uso precipuo in ambito
psicologico: tutte quelle facoltà che la tradizione platonica e
aristotelica avevano considerate distinte nella loro essenza e che
Zenone e Cleante non avevano negate a fondo, lasciandole
sostanzialmente sussistere nella loro teoria psicologica, furono
ridotte da Crisippo a «modi» di una realtà psichica unitaria, o, per
usare una parola moderna, ad atteggiamenti: la parte direttiva
dell’anima assume diversi modi di essere che prendono via via il
nome di pensiero, o di volontà, o di azione, o di passione. Vedremo
più oltre quale visione d’insieme di questa parte del pensiero di
Crisippo emerga dalla polemica che Galeno, riprendendo in parte una
polemica già svolta da Posidonio, mosse contro di lui in nome di un
ritorno alla psicologia tripartita platonica.
Vi è tuttavia per Crisippo ancora un genere sommo, che comprende
tutte e quattro le categorie. E non è l’essere (nemmeno Aristotele
aveva posto l’essere come genere sommo, anzi aveva rifiutato
esplicitamente tale identificazione91), ma il tI, espressione che
forse Crisippo riprendeva da Platone (Epist. VII, 3436). Il tIera
reso necessario dalla considerazione che le quattro categorie
abbracciano le realtà corporee, le realtà vere e proprie, capaci di
agire e patire, mentre occorre un genere ancora superiore e
omnicomprensivo per abbracciare anche gli incorporei, che sono pur
sempre «qualcosa» (cfr. Alessandro d’Afrodisia, In Top., p. 301, 19
segg. e p. 359, 12 segg. Wallies = SVF 11, 239). Difficile invece
dire se ancora a Crisippo si possa far risalire la nozione di οὔτινα
(«ciò che non è neanche qualcosa») di cui ci parla Sesto [Adv.
phys., II, 218 = SVF II, 331) e, con qualche ambiguità, Seneca
(Epist. 58, 12-15 = SVF II, 332). Questa nozione si applica a forme
puramente immaginarie, come i centauri o gli ircocervi, realtà che
sono sì «significati», ma mancanti di un referente corporeo reale.
Tale aggiunta potrebbe anche essere un tratto di esegesi scolastica
della dottrina crisippea, dovuta ad una esigenza di assoluta
completezza, e potrebbe ascriversi a continuatori di Crisippo; ma
non si può escludere del tutto che l’esigenza di completezza sia
stata sentita da Crisippo stesso92.
In ogni caso, le categorie di Crisippo sono pertinenti all’ordine
fisico piuttosto che a quello logico-dialettico; esse sono pensate
non in funzione della predicazione e con l’occhio volto al problema
del giudizio, ma come forme concrete del reale93, concepito come
reale fisico. Sostanze e qualità, modi di essere e forme di
relazione, sono proiettati immediatamente sul piano di quella realtà
fisica nella cui concezione Crisippo, partendo dal naturalismo
cleanteo, portò correttivi ed elaborazioni assai importanti. Prima
innovazione fu l’estensione generalizzata del concetto di πνεῦμα94,
concetto rispetto al quale Cleante non sembra essersi differenziato
da Zenone nel considerarlo proprio della realtà dell’essere vivente.
Al contrario, nella visione cri-sippea lo πνεμα assurgeva a soffio
igneo cosmico, che tutto pervade e permea, sostituendo il πῦρ
τεχνιϰόν zenoniano. Si perfezionava in tal modo la teoria della
continuità assoluta del reale e della interpretazione totale della
realtà: tutto risolvendosi nel corpo leggerissimo del soffio
vivente, misto di aria e fuoco, la teoria della permeabilità saliva
al grado supremo della sua elaborazione, come ci accorgiamo
soprattutto dalla serrata polemica che contro la teoria stoica, e in
particolare crisippea, della mistione delle cose condurrà poi
Alessandro d’Afrodisia, (cfr. passi quali De mixtione, p. 216, 14
Bruns = SVF II, 473, ed altri analoghi). Lo πνεῦμα è anch’esso πῦρ è
anch’esso rcop, ma è prima di tutto soffio e spirito, e all’elemento
aereo Crisippo veniva con ciò a dare una importanza che a Zenone era
stata ignota; all’antico carattere «freddo» dell’aria si sostituiva
il concetto di un elemento aereo come capace di costituire, insieme
col fuoco, un tipo di elemento superiore, fuoco anch’esso ma allo
stato di alito infuocato, intelligente e pensante: Crisippo preferì
forse, all’attributo di τεχνιϰόν, quello di νοερόν che troviamo in
numerose testimonianze sulla Stoa95.
In un universo così concepito, in cui tutto trapassa in tutto e i
corpi entrano, penetrano e si dissolvono l’uno nell’altro, bisogna
considerare bandita ogni discontinuità e affermare il principio
della divisibilità infinita (Diogene Laerzio, VII, 150 = SVF II,
482); e ciò non solo per i corpi, ma anche per quelle realtà che
sono «rassomiglianti ai corpi» (τοῖς σώμασι προσεοιϰότα), come
chiarisce un’importante testimonianza di Stobeo, Ecl. I, p. 142 W.
(= SVF II, 482)96. L’affermazione della divisibilità infinita in
campo matematico-geometrico potrebbe esser stata un atto di polemica
contro Epicuro e la sua teoria dei «minimi nell’atomo», che segnano
un punto d’arresto anche nella divisibilità geometrico-spaziale, al
di là di quella fisica97; ma ciò che ci interessa di più nel passo
di Stobeo è che esso ci apre uno squarcio sullo statuto ontologico
degli enti matematici nella Stoa cri-sippea: questo sembra
consistere in una semicorporeità, una corporeità sui generis,
distinta dalla corporeità fisica e in pari tempo dall’assoluta
incorporeità di spazio, tempo, luogo. In un altro passo, che ci è
reso questa volta da Simplicio (In Arisi. Categ., p. 264, 34 segg.
Kalbfleisch = SVF II, 456) e che è di difficile attribuzione
nell’ambito della Stoa - nulla vieta che esso possa essere cleanteo
- alle figure geometriche che non è τόνος ma τάσις, non tensione
energetica-vitale, propria degli enti corporei, ma quel suo
succedaneo eh’è la semplice tensione estensiva; e si tratta, anche
in questo caso, di una concezione riduttiva della corporeità98.
L’universo fisico crisippeo è un σύστημα organico, razionalmente
ordinato in una complessa connessione di cause. Crisippo perfezionò
e articolò la teoria zenoniana della causalità, e nell’insieme a lui
risalgono le distinzioni fra i vari tipi di cause reseci da Clemente
Alessandrino, dallo pseudo-Galeno delle Definitiones medicete, da
Cicerone con traduzioni per lo più alquanto improprie. L’essenziale
della teoria crisippea della causalità consisteva nella distinzione
fra forme di causa determinante e di causa attenuata, pur sempre nel
quadro della teoria stoica della causalità, comportante il prodursi
regolare e costante del rapporto antecedente-conseguente; il che
permetteva di garantire uno spazio a quella contingenza che
Crisippo, pur negandola in generale nel senso aristotelico, si
forzava però in qualche modo di reintrodurre anche nell’ambito del
suo universo. Egli distingueva perciò le cause vere e proprie,
«coessenziali», ο συνεϰτιϰαί, secondo un’espressione che ricorre più
volte in Clemente, (Strom., Vili, 9 = SVF II, 346, e altrove) ma
anche αὐτοτελεῖς o «perfette» (quelle che, con termine più dubbio
perché legato assai strettamente all’uso peripatetico, lo
pseudo-Galeno chiama anche προηγούμεναι, SVF II, 354) dalle cause
incoative, προϰαταρϰτιϰοί, antecedenti o presupposti necessari
perché l’evento si possa produrre ma non producenti l’evento stesso
di necessità; e, analogamente, dalle cause semplicemente
coadiuvanti, συνεργοί, o dalle concause, concetti sottilmente
distinti fra loro; e ancora da certe condizioni ουκ ανευ («senza di
cui non») che difficilmente noi distinguiamo dalle cause incoative,
ma che Crisippo non sembra aver considerato nemmeno vere e proprie
cause (ancora Clemente, loc. cit. = SVF II, 345)99. Così Crisippo
identificava la stessa ragione universale che regge il cosmo con la
serie delle cause, ma sottolineando il fatto che la serie non
comprende solo cause «perfette», cioè necessitanti in pieno, e che
il fato può esser causa αὐτοτελής di un certo ordine di fenomeni, ma
può presentarsi come causa προϰαταρϰτιϰή nei riguardi di altri,
senza che con ciò la connessione causale si interrompa.
Con ciò Crisippo recuperava anzitutto, entro certi limiti, un
concetto ambiguo quale quello di τύχη Questa non era accettata se
non in via secondaria, come nome improprio dato ad una causa a noi
oscura, o come una lacuna nella nostra conoscenza delle cause e
dell’ordine causale, come la nostra soggettiva denuncia di un nesso
per noi inafferrabile (Aezio, Plac. I, 29, 7 = SVF II, 966;
Alessandro, De anima, p. 179, 6 Bruns = SVF II, 967). Tuttavia non
si può dire che questa «causa secondaria» e «oscura» non fosse
considerata dagli Stoici ancora un fattore di rilievo nella comune
vita degli uomini: giacché l’ordine razionale e intellegibile era
per gli Stoici, né certo Crisippo faceva eccezione, riscontrabile
nell’ordine della natura e non in quello della storia umana,
soggetto a infinite imprevedibili deviazioni dalla norma. In esso
continuavano a dominare le «cause imperfette» o «indirette», e
soprattutto in esso la provvidenza e il suo corso universale e
necessario trovavano un ostacolo nell’agire umano, anche se poi
questo corso universale, fato e provvidenza, concepiti da Crisippo
in forma rigidamente unitaria, era destinato sempre a prevalere
reimponendo la legge della ragione. Al di là del problema della
tUX*1, Crisippo mirava soprattutto a garantirsi contro le insidie di
un determinismo rigido, quello che gli avversari della Stoa venivano
già da un pezzo rimproverando alla scuola, e a conciliare con la
teoria del fato provvidenziale quella della libertà dell’agire
umano. Egli perciò da un lato volse la teleologia in vera e propria
teodicea, affermando la assoluta redimibilità del male e facendosi
promotore di un ottimismo cosmico assai marcato, in nome di un bene
universale che volge anche il male ai suoi fini, ma dall’altro si
preoccupò di inserire nell’ambito di questo quadro universale la
teoria di ciò che più tardi si sarebbe chiamato il «libero
arbitrio», facendo di questo la causa precipua degli accadimenti che
si verificano nel mondo delle realtà umane.
Già Cleante doveva aver affermato il principio della teodicea stoica
che gli aspetti inferiori e apparentemente negativi del reale sono
volti al bene da quella superiore scienza dei fini che è
l’universale πρόνοια, posta al governo dell’universo: nell’inno a
Zeus leggiamo che il male non viene da Zeus, viene dai «cattivi» in
virtù delle loro proprie stoltezze (v. 18, σϕετέραις ἀνοίαις); ma
Zeus rende armonico il disarmonico, conveniente lo sconveniente,
amico il nemico (vv. 19-20). Tuttavia Cleante non era giunto ancora
a identificare questa volontà di Zeus con la serie delle cause, né
ad articolare la serie delle cause in modo tale da trovare in esse
un posto per la finalità provvidenziale. Crisippo dovette farlo, in
nome di quello stretto unitarismo che, vedremo, domina non solo la
sua fisica ma anche la sua psicologia e la sua etica; la finalità
provvidenziale poteva identificarsi con una sorta di causa
indiretta: il male in natura diventava una sorta di effetto
secondario, destinato a venir meno di fatto di fronte a un bene
superiore (così ad esempio in natura gli aspetti vili e fastidiosi
venivano subordinati a un vantaggio indiretto, sempre possibile a
trarsi da essi: è una teoria che sarà ridicolizzata ampiamente da
Plutarco100, ma che sarà messa in rilievo da numerosi altri autori,
e infine accolta nella teodicea neo-platonica e in quella
cristiana). Perciò fini e cause, nella visione universale di
Crisippo, si fondevano e si univano strettamente: la provvidenza, in
quanto causa del bene anche attraverso il male, eh’è posto
esclusivamente in vista di quello (le malattie in vista della
salute, secondo Gellio, Noct Att., VII, i, 7 = SVF II, 1170; la
malvagità di Meleto in vista della giustizia di Socrate, secondo
Plutarco, De comm. not., 10650 = SVF II, 1181) si risolveva senza
residuo in εἱμαρμένη. Tuttavia Crisippo si preoccupava che la
εἱμαρμένη non fosse tale da distruggere la contingenza dell’azione a
tal punto che non potesse esservi nemmeno più spazio per il giudizio
circa il bene e il male: portato alle ultime conseguenze, il
necessitarismo avrebbe abolito ogni possibilità di distinzione e
cancellato alla radice ogni giudizio sul valore morale dell’azione.
Era il problema che si era già posto a suo tempo ad Epicuro, e che
questi aveva inteso risolvere con la teoria del clinamen; quella
teoria che agli Stoici pareva una assurda rottura nella serie
continua delle cause, una soluzione dell’ordine stesso
dell’universo101. Crisippo tentava di risolverlo in tutt’altra
maniera. L’atto morale, come l’atto conoscitivo, implicava per gli
Stoici, come già vedemmo da Zenone, un assenso: ora, tale assenso
può dirsi forzato dall’evidenza nel caso di ϰατάληψις conoscitiva;
tale atto di ϰατάληψις però rimane, nei confronti dell’azione, un
semplice presupposto, una causa προϰαταρϰτιϰή, «incoativa», non
essenziale e determinante. L’assenso viene dato alla conoscenza
dalla quale l’azione prende le mosse e che è necessario presupposto
dell’azione, non all’azione stessa, che è moto autonomo. Se
veramente Crisippo si serviva ad esempio del cilindro, così come
Cicerone ci riporta (De fato, 43 = SVF II, 974), non si può dare
tutti i torti alla critica dallo stesso Cicerone preventivamente
mossagli (ivi, 39: «delabitur in eas difficultates, ut necessitatem
fati confirmet invitus»), e che era probabilmente largamente diffusa
fra gli avversari della Stoa: Crisippo veniva a dire di fatto che,
come il cilindro non può non rotolare, tale essendo la sua natura,
così la volontà umana non può non muoversi autonomamente, essendo di
per sé «princi-pium motionis»; affermava quindi la necessità della
libertà come facente parte della legge stessa dell’universo, ma non
dava in realtà alcuna spiegazione della contingenza dell’agire.
Un campo in cui assai sottili si fecero le distinzioni di Crisippo,
sì da prestarsi di nuovo e più pesantemente alle ridicolizzazioni
avversarie che Cicerone fa proprie, fu quello della mantica e della
predizione basata su ragioni astrologiche. Tutta la Stoa, a partire
da Zenone, aveva riconosciuto validità alla mantica: la possibilità
della predizione era strettamente legata a quella della ripetizione
degli eventi in forma simile, che autorizzava la previsione del
futuro in quanto, in forme analoghe, già esistito. Ma Crisippo si
trovava di fronte al diffondersi di una raffinata tecnica di
predizione, quella basata sull’astrologia, e dovette prendere
posizione di fronte ad essa. Crisippo riteneva che la divinazione
non dovesse identificarsi con la predizione astrologica, e che
soprattutto vi fossero errori logici nel modo con cui gli astrologi
esprimevano le loro predizioni. Gli astrologi, ci riporta Cicerone
(De fato, 8, 15) non avrebbero dovuto dire: «se Fabio è nato sotto
la canicola, non morirà in mare» ma «non si verifica che uno (Fabio)
sia nato sotto la canicola e muoia in mare»: non si tratta di un
nesso causale necessario, ma di una concomitanza da esprimersi in
forma negativa; l’esser nato sotto la canicola appare come
circostanza impediente di altro fatto, non può configurarsi sotto
l’aspetto di causa, non rientra nella serie delle spiegazioni
causali102. In realtà in un universo concepito come quello di
Crisippo c’era un posto assai scarso, per non dire nullo, per
l’influenza degli astri, se pensiamo che per questo filosofo il
mondo naturale era retto da una intelligente legge provvidenziale e
necessaria, che nel mondo umano c’era un margine notevole lasciato
all’ autodeterminazione, e che le circostanze estrinseche del mondo
degli uomini continuavano ad esser regolate da cause oscure alla
nostra mente, impropriamente dette TUXTè103. I «segni» validi per la
predizione non erano dati per Crisippo da eventi di ordine celeste,
come sarebbe stato necessario presupporre per abbracciare una
spiegazione astrologica degli eventi umani, ma da fatti di ordine
più empirico: osservazione di fatti precedenti; forme di
avvertimento di tipo arazionale, per immagini, come il sogno. Solo
una divinazione di questo tipo può servire a illuminare di qualche
certezza quella selva intricata di eventi indecifrabili che,
nonostante le certezze apodittiche proclamate in riferimento alla
legge universale, concorrevano per Crisippo a formare la vita umana.
La psicologia di Crisippo ci è descritta in forma assai polemica da
Galeno, il quale le contrappone di continuo l’articolata psicologia
platonica e la stessa psicologia platonizzante di uno stoico
ulteriore quale Posidonio104; sul monismo psicologico stoico si era
del resto già espresso Plutarco nel De vèrtute morali105. Crisippo
accentuò certo -i caratteri monistici della concezione dell’anima
non solo nei confronti di Platone e della tripartizione psicologica
della Repubblica, ma anche nei confronti di Zenone e Cleante. Questi
avevano concepito unitariamente il conoscere, all’insegna della
conoscenza sensibile, e si erano riavvicinati (contro Aristotele, ma
anche contro certi aspetti della teoria di Platone)
all’intellettualismo socratico; tuttavia avevano ancora concepito le
passioni in termini pratici, e non teoretici, come ὁρμαί
πλεονάζουσας, «impulsi sovrabbondanti», e avevano con ciò accettato,
almeno in forma implicita, certe conseguenze della distinzione delle
facoltà dell’anima in funzioni conoscitive e volitive. Non così
Crisippo, il quale, al contrario, si valse della categoria del πώς
ἔχον per contrassegnare in forma il più possibile unitaria le
diverse facoltà dell’anima, ricondotte al concetto di semplice
«atteggiamento psichico», o conformarsi, o atteggiarsi in vario modo
di una forma assolutamente unitaria106. L’anima, consistente in
πνεῦμα xa come l’anima universale dalla quale prendeva origine, era
una formazione corporea come lo erano tutti i suoi πὼς ἔχοντα
e’xovtoc, modi di essere e conformazioni dello πνεύμα stesso; con
l’estensione, di cui si è già detto, della teoria pneumatica a tutto
l’universo fisico, Crisippo legava più saldamente a questo l’anima
singola e immergeva l’essere umano totalmente nella vita cosmica;
tanto più contraddittorio, e con qualche ragione, doveva sembrare ai
suoi avversari il suo sforzo per salvare la contingenza e
l’autonomia, se non la piena e assoluta libertà, dell’azione. Il
carattere incorporeo dell’anima era negato radicalmente da Crisippo
in virtù dell’impossibilità di reale contatto e interazione fra un
corpo e ciò che non è corpo (Nemesio, De nat. hom. 2 = SVF II, 790;
Tertulliano, De anima, 5 = SVF II, 791); ciò che non è corpo rimane
in realtà ai margini del reale, data la sua incapacità di agire e
patire; gli compete non il sussistere concreto, ὑπάρχειν, ma il
semplice «essere», ὑϕεστάναι,107; tutte cose che non hanno senso se
applicate a quella concretezza vivente e operante ch’è il nostro
essere psichico.
La sede dell’anima era per Crisippo, come Galeno ci attesta
abbondantemente, il cuore. La teoria era assai antica, e aveva
trovato nell’area «presocratica» la sua più precisa espressione in
Empedocle108; tuttavia l’autorità cui Crisippo sembra essersi
rifatto era il medico Prassagora, vissuto nel iv secolo, le cui
teorie fisiologiche erano state soppiantate assai largamente da
quelle dei medici di formazione peripatetica, Erofilo, Erasistrato:
se Prassagora sosteneva ancora il cardiocentrismo, a Erofilo e ad
Erasistrato si devono le grandi scoperte relative alla priorità del
cervello e alla retta individuazione della funzione dei nervi e del
rapporto fra cuore e sistema nervoso109. Incurante di questo ingente
patrimonio di scienza medica, Crisippo non solo si rifaceva
liberamente alla medicina prassago-rea, ma, ciò ch’è più singolare,
fondava le sue asserzioni circa il ruolo centrale del cuore come
sede dell’egemonico e come fonte del pensiero e della sensibilità su
citazioni letterarie anziché su dati desunti all’osservazione:
Galeno ci dice che egli aveva raccolto una serie di citazioni
omeriche per offrire una prova dell’insidenza delle passioni, non
solo, ma della stessa riflessione e dello stesso raziocinio, giù nel
profondo del petto (De Hippocr. et Pl. plac., III, 2 = SVF II, 906);
e spesso, lasciando da parte i poeti, Crisippo si serviva a pretesa
prova anche semplicemente di espressioni del linguaggio comune110.
Un po’ più aderente al metodo dell’osservazione empirica era
l’asserzione secondo cui risentiamo nel petto di tutte le
impressioni subitanee e violente, ira, emozione e simili (De
Hippocr. et PI. plac, III, 1 = SVF II, 886, e altrove), o quella
secondo cui, poiché dal petto emettiamo la voce, con la quale
enunciamo il significato delle cose, dal petto deve pure derivare
quel pensiero in base al quale formuliamo i «significati» (ivi, II,
5 = SVF II, 894). Ma nell’insieme si può dire che Crisippo era
dominato dal presupposto aprioristico secondo cui, tutte le facoltà
psichiche essendo manifestazioni dell’egemonico come semplici «modi
di essere», una sola dovesse esserne la fonte anche sotto l’aspetto
fisiopsichico (e ciò contro la teoria di Platone difesa da Galeno,
delle differenti sedi fisiche delle facoltà psichiche); e che
l’esperienza elementare dei sensi allo stadio immediato e
pre-scientifico, confortata da usi del linguaggio e formule
letterarie cui egli era portato a dare un valore di rispondenza
all’intima natura delle cose (e ciò nonostante certe sue esigenze di
correzione delle imperfezioni e deviazioni del linguaggio stesso),
lo conduceva alla convinzione che là dove più comunemente si
avvertiva la presenza della sensibilità dovesse esisterne
effettivamente la fonte. La polemica contro i risultati delle
scienze positive era di casa presso i filosofi ellenistici; Crisippo
polemizzava contro la grande medicina del suo tempo così come
Cleante aveva polemizzato contro la grande astronomia, con la
convinzione che scienziati ignari delle ragioni ultime del tutto e
volti solo al raggiungimento di risultati parziali nell’ambito del
sapere si trovassero in una posizione non solo di fondamentale
debolezza, ma anche di fondamentale errore111.
Coerentemente alla teoria dell’unità dell’egemonico, Crisippo
concepiva le passioni non come moti susseguenti a giudizi, ma
direttamente esse stesse come giudizi e come forme deviate di
giudizi. La concezione intellettualistica delle passioni era, in
fondo, un portare a coerenza la concezione intellettualistica della
virtù, che era stata propria anche di Zenone: se la virtù è
fondamentalmente scienza, ἐπιστήμη (scienza, di volta in volta, del
comportarsi, o del sopportare, o del giudicare, o in generale di
esplicare rettamente un’azione), e se virtù è retta azione, appunto
in quanto azione condotta secondo scienza, ecco che la passione
veniva a identificarsi con il suo opposto, cioè con falsa opinione,
ignoranza, deviazione della ragione dal suo retto corso. Forse
all’inizio Crisippo si contentò di aggiungere alla definizione
zenoniana di «impulso sovrabbondante» la precisazione «ribelle alla
ragione» (anche se Clemente Alessandrino, Strom., II, 13, 59 = SVF
III, 377, mostra di considerare le due definizioni contrapposte Luna
all’altra, non c’è ragione di considerarle tali); poi il suo
consequenziarismo intellettualistico lo spinse a identificare la
passione con un atto di ϰρίσις errato, una falsa opinione intorno a
ciò che sia da farsi (Plutarco, De virt. mor.y 449e, 45oe = SVF III,
384, 390, senza contare l’ampia testimonianza di Galeno112), così
come aveva identificato la virtù con una determinata scienza
relativa a ciò che sia da farsi. D’altro canto, la sua concezione
fisicistica dell’anima lo portava anche a sviluppare il parallelo
fra passione psichica e malattia, con distinzioni sottili fra
indisposizioni e vere e proprie malattie, stati di perturbazioni più
o meno gravi (Cicerone, Tusc. disp., IV, 23 = SVF III, 424); se
tutte le virtù sono uguali, non tutte uguali fra loro sembrano
essere le passioni. Ma difficilmente si potrebbe attribuire a
Crisippo, date queste premesse, la teoria delle tre passioni o
disposizioni affettive di carattere positivo, le εὐπάθειαι, che
Cicerone traduce col nome di «constantiae»: la volonterosità, la
gioia, la precauzione, forme di ὀρέξεις εὔλογοι, disposizioni
affettive ragionevoli (Diogene Laerzio, VII, 115 = SVF III, 431). E
assai più probabile che si tratti di un correttivo apportato alla
teoria crisippea, e un correttivo comportante una più benevola
valutazione dei moti affettivi e un ritorno ad una psicologia più
articolata, proclive al riconoscimento di una effettiva
differenziazione fra le funzioni psichiche113.
Alla virtù, unico bene, conduce la retta azione del saggio. E anche
per Crisippo il bene è il fine. Crisippo mediò, a questo proposito,
fra la coerenza ai fini della natura umana voluta da Zenone e
all’adesione alla legge del tutto affermata da Cleante (Diogene
Laerzio, VII, 87 = SVF III, 4): noi siamo parte della natura del
tutto, occorre vivere secondo la nostra natura in quanto ciò
significa anche vivere secondo l’ordine universale. Certo, in questa
mediazione, quello che veniva particolarmente sottolineato era
l’ideale naturalistico affermato da Cleante: la Stoa «minore», la
Stoa prammatizzante di Aristone e di Erillo era definitivamente
battuta. Variazioni della definizione del τέλος (come quella, pure
attestata per Crisippo, di vivere «secondo l’esperienza delle cose
che sono secondo natura» (Galeno, De Hip-pocr. et PI plac.y V, 6 e
Stobeo, Bel, II, 7, p. 76 W. = SVF III, 12) non appaiono
particolarmente significative, anche se forse valgono a porre
maggiormente l’accento sull’attività del soggetto, sulla sua
partecipazione consapevole alla legge universale. Ci resta traccia
delle sue polemiche contro Aristone - sul tema, di cui già sopra si
è detto, della differenziazione qualitativa specifica di quelle
virtù che costituiscono il bene - ma anche contro Erillo, che aveva
posto come fine la scienza e il vivere secondo scienza, formulazione
che non si prestava, per Crisippo, a definire rettamente l’essenza
del fine stesso: poiché la scienza è προς το τλος e non τλος essa
stessa, si pone in vista del bene, che è coerenza con la ragione che
governa l’universo (Plutarco, De eomm. not., io7od = SVF III, 25).
Che la virtù sia unico vero bene e sia sufficiente al raggiungimento
della felicità, è principio che accomuna Crisippo ai suoi
predecessori, e non ha carattere di sua peculiarità dottrinaria.
Resta incerto se sua sia la distinzione fra ϰαθῆϰον e ϰατόρθωμα,
distinzione peraltro che, se fosse da attribuirsi a lui, non
porterebbe una novità sostanziale della sua etica rispetto a quella
zenoniana, ma solo una maggiore precisazione
terminologico-concettuale: se solo nelle opere di Crisippo troviamo
la presenza di un’opera relativa al concetto di ϰατόρθωμα, già la
distinzione fra un dovere «medio» e uno assoluto e perfetto doveva
già come vedemmo, trovarsi in Zenone114.
Assume piuttosto un carattere particolare, nella speculazione
cri-sippea, la figura del sapiente. Quasi tutto ciò che si riferisce
alla figura del sapiente - l’uomo dotato di tutte le perfezioni, e
abilitato dalla sua conoscenza del tutto a esercitare rettamente
ogni azione, anche le azioni di carattere tecnico; l’uomo che
possiede quella superiore arte ch’è l’arte relativa alla vita, τέχνη
περὶ τòν βίoν115 - ci è riferito come proprio in generale della
dottrina stoica, sì che ci è difficile, nella maggior parte dei
casi, far distinzione fra Zenone e i successori. Tuttavia alcune
testimonianze relative strettamente a Crisip-po ci dicono che
questi, pur riconfermando tutte le proprietà che già Zenone e
Cleante avevano attribuite al sapiente e la distinzione radicale
sussistente fra sapienti e insipienti, era portato a restringere il
numero dei sapienti effettivamente esistenti a entità talmente
minime da far quasi coincidere la qualifica di «sapiente» con un
modello ideale pressoché irragiungibile. Plutarco (De Stoic.
rep.y10486= SVF III, 668) ci dice che Crisippo non concedeva la
qualifica d: sapiente a nessuno di coloro che appartenevano alla sua
cerchia filosofica, non solo, ma neanche ai suoi maestri; e
l’epicureo di età imperiale Dioge-niano, alcuni frammenti del quale
ci sono resi da Eusebio di Cesarea (Praep. evang., VI, 8, 5 = SVF
III, 668), riferisce che secondo Crisippo non ci sarebbero stati che
uno o due sapienti al massimo, non sappiamo se in tutto il corso
della storia umana o - il che è più probabile - nel corso di ciascun
ciclo della medesima, fra i due verificarsi della conflagrazione.
Ciò significa che, in una prospettiva del genere, doveva dilatarsi
al massimo l’importanza della προκοπ: lo stesso Zenone non incarnava
la figura del saggio, ma semplicemente la figura di chi era al grado
più alto «progredito» verso la sapienza116. Si deve dunque pensare
che Crisippo spingesse la sapienza al limite della idealità della
norma, e che la trascendenza di questa al reale assumesse un
carattere preponderante.
Un atteggiamento non dissimile si può riscontrare anche
nell’atteggiamento crisippeo verso la città. È lo stesso Diogeniano
a riferirci che, per Crisippo, tutte le città esistenti non
sarebbero state che «deviazioni» o corruzioni di quella vera
(Eusebio, Praep. evang., VI, 8, 14 = SVF III, 324). E per quella
«vera» dobbiamo intendere, a quel che sembra, la città di Zenone,
giacché più fonti ci parlano di una sostanziale adesione di Crisippo
ai paradossi cinicizzanti della città zenoniana: la città del
sapiente che tutto riscatta interiormente tramite la sua διάθεσις,
cui tutto è lecito poiché tutto compie secondo una ragione
superiore, anche l’incesto, anche il cannibalismo117. Ma la città
dei sapienti è anche una città impossibile, dal momento che del
sapiente esiste forse sì e no un paio di esemplari in un ciclo
cosmico: è una città-modello allo stesso modo che la città
platonica. Anche qui Crisippo accentuava dunque la trascendenza
della norma: l’ordine immanente della natura, nella sua razionalità,
non dava luogo in alcun modo a un corrispondente ordine razionale
dei fatti umani, ché anzi questi restavano soggetti a tutte le
deviazioni possibili. Ciò si riallacciava del resto alla sua
posizione relativa al problema del «libero arbitrio»: la possibilità
di deviare dalla norma era insita nella libertà stessa dell’azione
umana, libertà ch’egli si era sforzato di salvare anche con qualche
incoerenza rispetto alla rigidità della sua teoria generale delle
cause.
Crisippo non fece in alcun modo vita attiva; nonostante le
contraddizioni rimproverategli da Plutarco, sembra che la forma
preferibile di vita sia stata rappresentata per lui dallo
σχολαστιϰòς βίος, la vita della ricerca nell’ambito della scuola (De
Stoic. rep., 10433. = SVF III, 703)118. La sua partecipazione alla
vita politica della città è nulla. Delle espressioni di
cosmopolitismo che possiamo considerare risalenti alla Stoa antica,
non è molto facile dire quali a lui possono in particolar modo
essere attribuite: l’immagine della città cosmica fatta di uomini e
dèi, in cui gli uomini sono cittadini imperfetti così come lo sono i
bambini nella città - immagine che proietta nell’universo le forme
della vita politica, secondo uno schema mentale in definitiva assai
arcaizzante119 - può essere crisippea, ma ha anche qualche chance di
essere stata già zenoniana. È un tipo di cosmopolitismo che non ha
ancora assunto caratteri monarchici, come sarà invece nella
letteratura politica di età imperiale o tardo-antica, ove la figura
del re-immagine di Dio verrà ad assumere una funzione
trascendente120. I filosofi ellenistici accettavano praticamente
l’istituto monarchico (Epicuro non meno che gli Stoici) e gli Stoici
sviluppavano il principio platonico del sapiente come vero re (ma
non diversamente da come solo il sapiente può essere vero medico o
vero oratore: nel senso cioè che solo la sapienza, o almeno il
progresso verso di essa, può dar significato e pieno contenuto ad
una funzione). Tuttavia la loro città dei sapienti è una sorta di
aristocrazia ideale, non ha forma monarchica; e anche la città
cosmica di cui ci parlano le testimonianze di Cicerone (De
república, I, 19; De legibus, I, 22 = SVF III, 338-339) o di Filone
Alessandrino (De opificio mundi, 143 = SVF III, 337; e altrove) non
culmina in un vertice supremo, ma è una comunanza organica retta da
una sorta di divina aristocrazia.
Ciò che gli Stoici elaborarono, e che Crisippo certamente perfezionò
rispetto ai predecessori, ma che era già in lui una eredità, fu la
concezione della legge universale secondo natura; e Diogene Laerzio
attribuisce in particolare a Crisippo la teoria secondo cui il
giusto è per natura e non per convenzione o posizione (Diogene
Laerzio, VII, 128 = SVF III, 308). Nell’ordine universale della
natura ha la sua radice la legge della città; essa è posta prima e
al di sopra di ogni convenzionale accordo fra gli uomini, e ad essa,
come a modello, occorre rifarsi nella legislazione empirica delle
città. La teoria del diritto naturale come legge posta ab aeterno
come modello della legge positiva che Cicerone ci illustra nel De
legibus può essere forse passata attraverso la mediazione di Antioco
di Ascalona121 ; ciò non toglie che essa sia stoica nella sua
sostanza, e che Crisippo le abbia dato la sua piena formulazione.
Inutile dire l’importanza ch’essa avrà più tardi per la formulazione
dei principi generalissimi del diritto romano: Marciano, nel libro I
delle sue Istituzioni (SVF III, 314), mutuava alla Stoa e a Crisippo
la sua formulazione generale della legge naturale e positiva nella
loro distinzione e nei loro reciproci rapporti, discendente dalla
concezione dell’universo come retto da ragione universale.
Dalla ϰοινωνία universale Crisippo escludeva universale Crisippo
escludeva gli animali irragionevoli: la comunanza fra gli uomini si
fonda sul λόγος; ma non c’è possibilità di diritto o norme comuni
fra chi possiede la ragione e chi ne è privo. E qui il senso di
quella ἀνομοιότης, «somiglianza» fra noi e gli animali di cui parla
Diogene Laerzio (VII, 129 = SVF, III, 367), che suonava, in
Crisippo, come una polemica diretta contro la ὁμογένεια fra tutti i
viventi teorizzata da Senocrate ο la οἰϰειότης universale teorizzata
da Teofrasto122. Anche qui su questo punto la teoria di Crisippo
poteva suonare in qualche modo dissonante dai principi generali su
cui pretendeva di fondarsi: gli Stoici e Crisippo, infatti,
parlavano di una uguale partecipazione di tutte le parti
dell’universo al divino tutto permeante ed estendentesi fino agli
aspetti più umili e più vili123, ma istituivano in pari tempo una
ben precisa gerarchia fra i viventi: la legge della ragione
universale esclude dalla comunanza chi non ne partecipa a pieno
titolo. E un motivo che forse si accentuò in Crisippo, giacché di
Cleante ci viene detto (Plutarco, De soll. anim., 967c, Eliano, De
natura anim., VI, 50 = SVF I, 515) che questi faceva agli animali
non ragionevoli molte concessioni, riconoscendo e studiando in loro
l’elemento Texvtxóv, esplicantesi in capacità artigianali e sociali,
senza tuttavia venir meno con questo ad un principio di esclusione
che era stato anche zenoniano. La società universale ideata dagli
Stoici era una società aristocratica organizzata a diversi livelli,
escludente da sé in primo luogo gli uomini non degni di esser tali,
cioè non suscettibili almeno di progresso verso la sapienza, e
ulteriormente i viventi privi di ragione.
La Media Stoa (quella fase di vita della scuola dominata dalle due
personalità emergenti di Panezio e di Posidonio, e che vide il
ripresentarsi di molte posizioni platonizzanti e aristotelizzanti)
si annuncia già in quei discepoli e successori di Crisippo che
vissero fra III e II secolo: uno dei più importanti fra questi,
Diogene ci Babilonia o di Seleucia, fu maestro di Panezio. Essi
cominciarono ad operare nella dottrina del maestro revisioni
sostanziali, lasciando cadere alcuni motivi e modificando altri
aspetti in maniera tale da trasformare sensibilmente le primitive
teorie stoiche cui Crisippo aveva dato sviluppo.
Abbiamo qualche ragione di credere che la dottrina delle categorie
fosse rielaborata da Antipatro di Tarso, e, in questa
rielaborazione, anche sensibilmente modificata. Antipatro aveva dato
una definizione tutta sua dell’attività definitoria, come λόγος ϰατ’
ἀνάλυσιν ἀπαρτιζόντως ἐϰϕερόμενος (= «discorso enunciato in maniera
definita secondo analisi», Diogene Laerzio, VII, 60 = SVF III,
A.T.8), e non è a caso che una forma analoga (ἀπηρτισμένως ϰατ’
ἐϰϕοράν usi Simplicio nel riferirci alcuni aspetti della
speculazione stoica intorno alla categoria del ποιόν, p. 212, 12
segg. = SVF II, 390): un passo che fa pensare, per il suo andamento,
a una esegesi postcrisippea relativa al concetto di qualità124.
Inoltre, lo stesso Simplicio fa esplicitamente il nome di Antipatro
in un altro passo (In Categ., p. 209, 24 segg. K.): Antipatro di
Tarso è indicato come il filosofo che ha dato uno stesso termine, un
termine nuovo nella Stoa, quello di ἑϰτά, alle qualità dei corpi e
alle qualità degli incorporei. Forse si potrebbe andare leggermente
più oltre, e pensare che sia stato lo stesso Antipatro a parlare di
qualità corporee e incorporee; giacché la teoria stoica «ortodossa»,
per così dire, dei generi dell’essere contempla le qualità sotto la
specie del corporeo e non diversamente: come abbiamo già visto, le
qualità sono chiamate πνεύματα ϰαì τόνοι tóvot, e le stesse virtù,
in quanto qualità, sono considerate non solo realtà corporee, ma
addirittura esseri animati, Coc (così Stobeo e Seneca, SVF III,
305-307). Il tempo, lo spazio-vuoto, il luogo, sono indefiniti privi
assolutamente di qualità; diversamente si pone il problema, però,
per i λεϰτά, che sono incorporei differenziati: come negare ad essi
differenze qualitative?125 Se Crisippo si sia già posto questa
domanda, non possiamo sapere e non potremmo escluderlo in assoluto.
Tuttavia la distinzione fra qualità corporee e incorporee viene
associata da Simplicio al nome di Antipatro, insieme con la notizia
della sua ricerca di nuove espressioni terminologiche; e
l’affermazione fatta dallo stesso Simplicio altrove, che «gli
Stoici» affermavano essere incorporee le qualità degli incorporei
(In Categ., p. 217, 28 segg. K. = SVF III, 389), non sembra quadrare
con le caratteristiche che al concetto di qualità era propenso a
riconoscere Crisippo.
Se Antipatro fu il revisore della teoria dei generi dell’essere,
forse a lui potrebbe risalire un tentativo di revisione più
approfondita che nuovamente Simplicio ci attesta senza darci
indicazioni circa i suoi autori: abbiamo, in un suo passò (In
Categ., p. 215, 35 segg. K. = SVF II, 403), il riferimento di uno
schema di divisione categoriale che ha ormai poco a che vedere con
la divisione quadripartita crisippea. Vi erano Stoici che dividevano
le categorie in esseri per sé ed esseri relativi (ϰαθ’ αὐτά e πρóς
τι) e poi nuovamente in tali esseri relativi distinguevano quelli
differenziati ο qualificati, i ϰατά διαϕοράν e i puri correlativi,
detti προς τί πως ἔχοντα, «modi di essere relativi»; come esempio di
differenziazioni viene dato una coppia di opposti, entrambi
qualificati, bianco-nero, dolce-amaro; come esempio di «modi di
essere relativi» concetti che trovano l’uno nell’altro la propria
completezza, destra-sinistra, padre-figlio. Una divisione del genere
considera più universale la forma del relativo che non quella della
qualità, subordinando la seconda alla prima, e toglie al concetto di
qualità ogni rapporto con la corporeità fisica, considerandola sotto
l’aspetto formale dell’opposizione e della relazione
differenziata126. La teoria che qui Simplicio ci riporta si avvicina
sensibilmente alla divisione accademica delle categorie, che dava
grandissima importanza alla contrapposizione fondamentale esseri per
sé ο in sé (ϰαθ’αὐτὰ) - esseri relativi ad altro (πρóς τι) - esseri
relativi ad altro (προς τι): già vedemmo che Senocrate aveva opposto
questa sua divisione, come più valida, a quella troppo articolata di
Aristotele, e una divisione assai simile aveva presentata un altro
accademico anch’egli allievo di Platone, Ermodoro. Un simile modo di
ripensare il problema dei generi dell’essere potrebbe esser indice
di quel riavvicinamento a teorie accademiche che troviamo attestato
sotto più aspetti in questa fase di transizione della scuola stoica.
Antipatro fu fra coloro che davano grande importanza alla teoria del
linguaggio e studiavano questo nella sua articolazione grammaticale
(Diogene Laerzio, VII, 57 = SVF III, A. T. 22); in ciò la sua
attività si svolgeva parallelamente a quella di Diogene di
Babilonia, al quale si deve uno studio analitico della voce (τέχνη
περί τῆς ϕωνῆς, Diogene Laerzio, VII, 55 = SVF III, D. B. 17) e del
discorso, da lui analizzato nelle sue parti componenti (id., VII,
56-60 = SVF III, D. B. 20-25)- Ma la teoria dei suoni fu
approfondita da Diogene di Babilonia anche sotto un altro aspetto,
quello della teoria musicale; e qui la sua teoria viene ad assumere
non solo aspetti conoscitivi (egli elaborava una distinzione fra
sensazione innata ο ingenita, αὑτοϕυής, e un tipo di sensazione
επιστημονικ, «scientifica», esercitata tecnicamente, quella con cui
possiamo gustare e giudicare l’opera musicale, cfr. Filodemo, De
musica, p. n Kemke = SVF III, D. B. 61)121, ma anche aspetti
etico-pedagogici, giacché alla musica Diogene attribuiva
un’importanza educativa del tutto rilevante, tale da avvicinarlo a
Platone e all’Accademia: nella sua opera, di cui abbiamo notizia
attraverso la polemica che gli mosse contro Filodemo dal punto di
vista epicureo, egli rivendicava questa efficacia della musica nella
disciplina degli affetti umani con una ricca presentazione di esempi
mitici e storici128. Diogene fu portato anche a una relativa
rivalutazione della retorica, purché naturalmente associata alla
filosofia, e in particolare alla visione stoica dell’universo; se la
retorica allo stato puro non fa gli uomini né buoni reggitori né
buoni cittadini, altro è per una retorica filosoficamente orientata,
accompagnata dalla chiarezza che dà la conoscenza filosofica. Da
quanto conosciamo in proposito anche in questo caso da Filodemo,
questa volta nell’opera Della retorica, abbiamo motivo di arguire
che Panezio abbia molto appreso dal suo maestro sotto questo aspetto
per la sua rivalutazione dell’uomo politico attivo, filosoficamente
formato, e che buona parte delle teorie di Diogene di Babilonia
siano ancora ravvisabili nell’ideale del buon retore disegnato dal
ciceroniano De oratore129.
Anche nella fisica stoica, in questo periodo, le innovazioni furono
di non poco rilievo. Si cominciava a mettere in dubbio la validità
dell’universo stoico così come Zenone lo aveva introdotto e Cleante
e Crisippo lo avevano sviluppato: Diogene di Babilonia, pur avendo
in gioventù accettato la credenza nelle conflagrazioni, da vecchio
dichiarava di sospendere il giudizio in merito (Filone, De aetern.
mundi, 15 = SVF III, D. B. 27) e Boeto di Sidone non solo rifiutava
la conflagrazione, ma si spingeva, ci dice una testimonianza
peraltro difficile da comprendersi dato il suo carattere isolato,
fino a negare al mondo il suo carattere di «essere vivente» (Filone,
loc. cit., e Diogene Laerzio, VII, 143 = SVF III, B. S. 6 e 7).
Archedemo di Tarso tornava ad una concezione discontinua del tempo,
fatto di νυν, di «adesso», di attimi, ciascuno dei quali si
configurava come un limite (πέρας χρόνου), assai simile a quella di
Senocrate130 (Plutarco, De comm. not., io8ie = SVF III, Ap. T. 14).
Apollodoro di Seleucia abbandonava la teoria più tipicamente stoica
della corporeità (corpo inteso come ciò che può essere causa ed
effetto, agire o subire: una definizione buona a coprire anche
realtà non spaziali come l’anima o la virtù) per tornare ad una
teoria geometrizzante, quella del corpo come τριχη διαστατν, xs
entità a tre dimensioni, che sosteneva nella sua Fisica (Diogene
Laerzio, VII, 135 = SVF III, A. S. 6): forse è dovuta a questa
impostazione di tipo geometrico dato al problema della corporeità da
Apollodoro la duplicità che troviamo in proposito nella tradizione
relativa al concetto stoico di corporeità131.
Anche l’etica subì una notevole trasformazione in questo periodo.
Veniva sviluppata da Antipatro di Tarso la teoria dei preferibili,
gli «aventi valore» (ἀξία), i quali erano ormai considerati
pienamente secondo natura, al contrario dei non preferibili,
contrassegnati da disvalore, che erano ormai identificati con le
realtà «contro natura» (Sto-beo, Bel. II, p. 83 W.= S VF III,
A.T.52); la capacità che ci governa nei riguardi dei preferibili è
una capacità di scelta, ὲϰλεϰτιϰή il concetto di ἐϰλογή assumeva una
importanza più marcata anche nella definizione del fine, che era per
Antipatro il «vivere scegliendo ciò che è secondo natura» (Stobeo,
Bel. II, p. 75 W. = S VF III, A. T. 57). Assai simile era la
definizione del fine secondo Archedemo di Tarso, che anch’essa
faceva spazio alla «scelta»: «vivere scegliendo (ἐϰλεγόμενον) tutte
le cose più alte e importanti che sono secondo natura» (Clemente,
Strom. II, 21 = S VF III, Ar. T. 21). Ciò sembra indicare un intento
di dare sviluppo alla tematica del «libere arbitrio», prendendo le
distanze ulteriormente, rispetto allo stesso Crisippo, da un
determinismo rigidamente concepito. E dovette esser riveduto anche
il monismo psichico crisippeo, che poi Panezio e Posidonio avrebbero
decisamente abbandonato: lo dice quella stessa teoria delle «buone
passioni», εὐπάθειαι, di cui già sopra si è parlato, teoria che
presuppone il distacco dalla concezione del πάθος come perversione
dell’intelligenza e la valutazione di esso, al contrario, nei
termini di un modo di essere che può assumere caratteri positivi o
negativi, quindi come una facoltà a sé stante, distinta dalla pura
ragione raziocinante, non necessariamente identificantesi con una
ragione capovolta e ribelle. La teoria delle εὐπάθειαι dice anche
che almeno in una parte di questi pensatori la rigidità dell’etica
stoica e della concezione del sapiente veniva perdendo le sue punte
acute. Solo in una parte: giacché per Apollodoro di Seleucia, ad
esempio (secondo Diogene Laerzio, VII, 121), abbiamo l’attestazione
di una valutazione positiva del modo di vivere cinico, come «via
rapida verso la virtù», che contrasta con la linea di sviluppo che
si è tracciata. Certo, almeno filosofi come Diogene di Babilonia e
Antipatro di Tarso dovevano avvicinarsi a quell’ideale nuovo del
sapiente che un po’ meglio conosciamo per Panezio e per Posidonio, e
che tanto avrebbe significato per la concezione romana dell’uomo
politico filosoficamente formato132.
La storia della Stoa antica termina con queste espressioni di
pensiero; con il seguito di questa storia ci inoltriamo in un mondo
diverso, segnato dal predominio di Roma e dal diverso carattere
della società romana. Dal tratteggiamento che di tale storia si è
tentato emergono già a sufficienza le caratteristiche della scuola,
sì che sembra superfluo tornare nuovamente a tentarne un bilancio. È
forse più. opportuna una presa di posizione nei riguardi della
valutazione della filosofia stoica nella critica più recente: il che
equivale ad un chiarimento.
Nell’ambito della generale rivalutazione della filosofia
ellenistica, la Stoa ha avuto una sua parte generosa. La fisica
stoica è stata reinterpretata alla luce di moderne teorie
energetiche133 o in essa si è vista l’anticipazione della teoria del
continuum133. La logica stoica, che Prantl e Zeller ritenevano una
sorta di sottoprodotto tautologico di quella aristotelica, ha
conosciuto una sorta di riscoperta nella forma di logica
«proposizionale» ed è stata riproposta con tutta una varietà di
schematismi formalistici135. Ma queste rivalutazioni rischiano
spesso di risultare traditrici e fuorvianti. La fisica stoica,
fondata su di una concezione «continuistica» della materia, è in
realtà in pari tempo la fisica del divino cosmologico, che mette
capo all’apoteosi «mistica» della conflagrazione; né la logica
stoica è isolabile dalla fisica se non a prezzo di una mutilazione
che ne snatura il carattere: essa è infatti strettamente connessa ad
una ben determinata teoria dello πρχειν come esistenza in atto di
realtà particolari corporee, così come lo è analogamente la
gnoseologia stoica. Lo studioso di filosofia che voglia esercitare
correttamente il suo mestiere di storico ha il dovere di non
dimenticare in primo luogo la norma generale del riconducimento di
ogni espressione di pensiero al proprio contesto; in secondo luogo,
nel nostro caso specifico, il carattere strettamente sistematico
della filosofia ellenistica, che non permette la trattazione a sé
stante di alcun problema senza il richiamo a un tutto ben articolato
in cui esso s’inquadra, che rifiuta le scienze «parziali», così come
rifiuta una filosofia non ricondotta rigorosamente al fine supremo
del sapere e del vivere. La storia della Stoa antica è strettamente
soggetta a queste regole, e in questi termini va compresa.
1. DIOGENE LAERZIO, Vétae Philosophorum, VII, 2, dà Zenone come
discepolo non solo di Polemone, ma anche di Senocrate, mentre di
Polemone parla il Lessico di Suida (s. v. Ζήνων, 79, II, p. 507
Adler), e così pure Numenio presso EUSEBIO, Praeparatio Evangelica,
XIV, 5, 11 (= fr. 25 Des Places). Per la discepolanza presso
Senocrate si pone qualche difficoltà cronologica: se, com’è seguendo
la cronologia più accettata, Zenone fosse giunto ad Atene nel 312 a.
C, non avrebbe potuto ascoltare Senocrate, morto nel 314. Tuttavia
cfr. l’ipotesi cronologica di A. GRILLI, Antigono II e Zenone,
«Rivista di Filologia e di Istruzione Classica», XCI, 1963, pp.
287-301, secondo cui il passo di Diogene L., VII, 28, indicante il
numero di 72 anni per la vita di Zenone, possa essere corrotto e
debba leggersi 92; ipotesi vista con favore da K. v. FRITZ, Zenon
von Kition, in «Real-Encycl.», X A i, 1972, coli. 83-121, in part.
83-84. Ciò porterebbe la data di arrivo di Zenone in Atene al
332/331, e renderebbe possibile il discepolato. Cfr. infra, nota
biografica.
2. Per le testimonianze di Cicerone cfr. Acad. pr., 42, 131 (=
Antioco, fr. 41 Luck); De finibus honorum et malorum, IV, 6, 15; in
generale K. v. FRITZ, Polemon, in «Real-Encycl.», XXI, 2, 1953,
coli. 2524-2529 (contro le tesi di M. POHLENZ, Die Stoa. Geschichte
einer geistigen Bewegung, I, Gòttingen 1948-49, 19592, pp. 251-253,
volte ad asserire la assoluta originalità di Zenone rispetto a
Polemone e a negare credibilità alla testimonianza ciceroniana).
3. Rimando a M. ISNARDI PARENTE, Preellenismo in Senocrate,
«Elenchos», II, 1981, pp. 5-44; per i momenti preludenti alla Stoa
in part. pp. 22-23, 27) 29) 34-35.
4. Così M. SCHèFER, Ein frühmittelstoisches System der Ethik hei
Cicero, München, 1934. «Medio-stoico» è definito senza esitazioni
Diogene di Babilonia dallo stesso, Diogenes als Mittelstoiker,
«Philologus», XCI, 1936, pp. 174-196.
5. Non ci sono serie ragioni per respingere la testimonianza di
SESTO EMPIRICO, Adv. lógicos, I, 16 (= Senocrate fr. 1 Heinze, 82
Isnardi Parente) secondo la quale Senocrate è il primo introduttore
della tripartizione. Cfr. già una tripartizione analoga in
ARISTOTELE, Topica, I, 105b 19, il quale parla di λoγιϰαί ϕυσιϰαί,
ἡθιϰαὶ προτάσεις; passo significativo che, anche se non verte
esattamente sulla tripartizione della filosofia, ci dice che questa
divisione in «settori» era già corrente nell’Accademia. Rimando a
quanto già detto in Preellenismo in S., cit., p. 25 segg., e
SENOCRATE-ERMODORO:Frammenti («La Scuola di Platone», III,
Collezione di testi diretta da M. GIGANTE), Napoli, 1982, pp.
309-311. Risponde al metodo senocrateo nel riferire teorie
platoniche, o pretese tali, anche Passerzione che una simile
tripartizione si trovi già «potenzialmente», δυνάμει. in Platone;
Senocrate tende infatti a presentare sempre la propria esegesi come
corretta e coerente esplicitazione di quanto è ancora implicito
nell’insegnamento del maestro. Diversamente, A. GRAESER, Zenon von
Kition Berlin-New York, 1975, p. 8, non accetta questa indicazione e
tende a far risalire la -ripartizione preferibilmente alla scuola
peripatetica. Per un’altra opinione recente in favore della
derivazione senocratea cfr. H. J. KRAMER, Platonismus und
hellenistische Philosophie, Berlin-New York, 1971, p. 174.
6. Per le origini del sistematismo filosofico nell’esegesi
accademica di Platone rimando a M. ISNARDI PARENTE, II Platone non
scritto e le autotestimonianze, «Elenchos», V, 1984, pp. 201-209, in
part. 207 segg.; e «Gnomon», LVII, 1985, pp. 120-127, in part. 125
segg.
7. Antistene, frr. 50 A-B-C Decleva Caizzi = VA 149 Giannantoni
(Socratico-rum reliquiae, Roma-Napoli, 1984, II, p. 375). Fra le
testimonianze, da Simplicio e da Ammonio, la più precisa è quella di
Ammonio (In Porphyrii Isag., p. 40, 6 segg.) che parla di εἰδη o
γένη mentre Simplicio usa terminologia stoica (πoιτητες πoιά). Per i
rapporti di Zenone con Antistene cfr. v. FRITZ, Zenon, cit., col.
98; GRAESER, Zenon, cit., p. 69 segg.
8. 11 o 27 Giannantoni (Diogene L., II, 119). Per i rapporti di
Zenone con Stilpone cfr. M. FREDE, Die Stoische Logik, Gòttingen
1974 («Abhandl. Akad. Wissenschaften in Gòttingen», Phil. Hist. Kl.
3, LXXXVIII), p. 12 segg.; J. M. RIST, Zeno and the Origins of Stoic
Logic, in Les Sto’iciens et leur logìque, Cofloque de Chantilly
1976, Paris, 1978, pp. 387-400.
9. Non vi sono motivi sufficienti per attribuire a Zenone una già
articolata dottrina delle categorie sulla base di questa asserzione
(cfr. per questo infra, nota 18). È probabile che qui la polemica di
Zenone riprenda puntualmente una terminologia platonica: di un
contrasto fra τί e ποιόν aveva parlato Platone, Epist. VII, 343b-c;
Zenone ritorce polemicamente il discorso dicendo che le idee
platoniche non solo non possono esser intese come «qualcosa», -ci,
una realtà per sé, ma neanche come una vera e propria manifestazione
qualitativa di oggetti reali.
10. E. BREHIER, La théorie des incorporels dans l’ancien Stoïcisme,
Paris, 1928 (19623), si riferisce a Zenone soprattutto per il
concetto del tempo, a proposito del quale le testimonianze indicano
chiaramente il più marcato naturalismo crisip-peo (il tempo, in
quest’ultimo, come «intervallo» relativo all’universo fisico e ai
cieli, contro la più generica definizione zenoniana). Cfr. V.
GOLDSCHMIDT, Le système stoïcien et l’idée de temps, Paris, 1953
(19794), p. 33 segg. (e infra, nota 107).
11. Per l’atomismo in genere cfr. Aristotele, Metaph., I, 985b 4
segg. (= 67 A 6 Diels-Kranz); per Leucippo e poi per Democrito le
più tardive testimonianze di Simplicio, In Arisi. Phys., p. 28, 4
segg. Diels (67 A 8 Diels-Kranz), In Arisi. De caelo, p. 294, 33
segg. Heiberg (= 68 A 20 Diels-Kranz).
12. Testimonianze in SVF I, 85-88, cfr. infra, parte I, pp. 157-160.
K. v. FRITZ, Zenon, in Real-Encycl., cit., coli. 102-103, nota a
ragione la contraddizione potenziale che non è eliminabile da questa
concezione della ὕλη come principio passivo, messa a confronto con
la generale concezione energetica stoica della materia. L’influenza
di Aristotele su questo punto è stata sottolineata numerose volte,
da interpreti più antichi, come C. BèUMKER, Das Problem der Materie
in der griechischen Philosophie, Münster, 1890, pp. 346 segg., ai
più recenti: POHLENZ, Stoa I, p. 67, II, p. 38; D. E. HAHM, The
Órigins of Stoic Cosmology, Ohio St. Univ., 1977, p. 29 segg., e p.
53, note 39-40. Per la terminologia stoica sulla materia e l’uso di
οὐσία, «essenza», «sostanza», nel senso di πρώτη ὕλη, cfr. infra,
parte I, nota 141.
13. Tim., 50b segg., in generale; la parola ἅμορϕος ritorna più
volte, 5od 7, 51a 7.
14. In generale sullo πνεῦμα nella Stoa cfr. G. VERBEKE, Revolution
de la doctrine du pneuma des Sto’iciens à St. Augustin,
Paris-Louvain, 1945. La distinzione fra la posizione di Zenone e
quella di Crisippo si è andata chiarendo negli studi più recenti:
cfr. F. SOLMSEN, Cleanthes or Poseidonios? The Basis of Stoic
Physics, «Mededel. Nederl. Acad. Wetensch.», 1961, pp. 265-289, in
part. 286 segg. (= Kleine Schriften, I, Hildesheim, 1968, pp.
436-460, in part. 457 segg.); HAHM, Origins St. Cosm., pp. 163-165;
R. B. TODD, Monism and Immanence. The Foundation of Stoic Physics,
in The Stoics, Berkeley-Los Angeles-London, 1978, pp. 137-160, in
part. 148 segg.; M. LAPIDGE, Stoic Cosmo logy, ivi, pp. 161-185, in
part. 169.
15. Rimangono classici in proposito gli studi di W. JAEGER, Das
Pneuma im Lykeion, «Hermes», XLVIII, 1913, pp. 29-74 (= Scripta
Minora, Romae, i960, pp. 57-106) e Diokles von Karystos. Die
Griechische Medizin und die Schule des Aristoteles, Berlin, 1938.
Oggi, per i rapporti fra Aristotele e la Stoa su questo punto
specifico, vedi HAHM, Origins St. Cosm., pp. 70 segg., 163 segg.
16. Altre citazioni non portano il nome di Zenone, ma si riferiscono
certamente alla teoria zenoniana del «fuoco artigiano»; cfr. Diogene
L., VII, 156 (= SVF II, 774), con la specificazione βαδίζον εἰς
γένεσιν, «che procede alla generazione».
17. Per i quattro elementi in Zenone cfr. Diogene L., VII, 136;
Stobeo, Ecl, I, 17, 3, p. 152, 19 segg. W.= SVF I, 102 (e per il
seguente, aggiunto dall’Arnim in calce, Probo, ad Verg. Ecl. VI, 31,
cfr. infra, parte I, nota 131). A proposito dell’influenza di
Empedocle su Zenone mediata attraverso Teofrasto cfr. J. MAN-SFELD,
Providence and the Destruction of the Universe in early Stoic
Thought, in Studies in Hellenistic Religions, ed. Vermaseren,
Leiden, 1979, pp. 129-188, in part. pp. 146-147, nota 52; 171, nota
131.
18. La teoria dei generi dell’essere presente in Zenone è stata ben
delimitata nel suo probabile ambito da M. REESOR, The Stole
Categories, «Amer. Journ. Philos.», LXXVIII, 1957, pp. 63-82; ma
cfr. anche, già prima, della stessa, The Stoic Concepì of Quality,
«Amer. Journ. Philol.», LXXV, 1954, pp. 40-55, in part. per Zenone
41 segg. Che Zenone ignorasse la categoria del relativo, tanto
importante per l’Accademia platonica attraverso la quale egli era
passato, non è certamente possibile; ciò che è sicuramente attestato
di lui non sembra comunque indurre a pensare che egli le avesse dato
rilievo.
19. Cfr. il capitolo V, Cosmobiologyy in HAHM, Origins, pp. 136-174.
Lo Hahm si fonda, per tale interpretazione, soprattutto
sull’estensione fatta da Crisippo dello πνεῦμα psichico dell’essere
vivente organico, uomo o animale, all’universo nel suo insieme.
20. Per l’immanentizzazione di τέχνη, arte, procedere artigiano,
finalisticamente orientato, in seno alla natura (ϕύσις), cfr. già
passi di Aristotele quali Phys., II, i99b 26 segg.; rimando a M.
ISNARDI PARENTE, Techne. Momenti del pensiero greco da Platone ad
Epicuro, Firenze, 1966, pp. 153-154.
21. La questione se Eraclito abbia già sostenuto la teoria della
ἐϰπύρωσις è tutt’altro che chiusa. Cfr. in proposito la nota di R.
Mondolfo in E. ZELLER -R. MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo
sviluppo storico, I, 4, Eraclito, Firenze, 1961, pp. 251-261, contro
le tesi opposte di Burnet, Reinhardt, Kirk; e le osservazioni alla
testimonianza di Aristotele in De cáelo, I, 279b, che, per il
termine ἐναλλάξ («alternativamente») appare al Mondolfo
testimonianza inoppugnabile in favore dell’attribuibilità della
teoria della conflagrazione a Eraclito, in ERACLITO, Testimonianze e
Frammenti, ed. R. Mondolfo - L. Tarán, Firenze, 19-2, p. 106 segg.,
e note pp. 113-117. E tuttavia in discussione, come sempre,
l’attendibilità dell’attribuzione da parte di Aristotele: sulla
testimonianza di questi e di Teofrasto cfr. J. KERSCHENSTEINER, Der
Bericht Theophrasts uber Heraklit, «Hermes», LXXXIII, 1955, pp.
385-411, in part. 397 segg. Negativamente in proposito M. MARCOVICH,
Heraklitos, in Real-Encycl., Suppl. X, 1965, coli. 246-320, in part.
296 segg., e Eraclito: Frammenti, Firenze, 1978, pp. 193-194, a
oommen-o dei frr. 51-54.
22. L’identificazione di εἱμαρμένη, «fatum» nelle fonti latine, con
provvidenza è pacifica per Zenone, mentre - cfr. più oltre - non lo
sarà altrettanto per i suoi successori. Trattazione del concetto di
ειμαρμνη in W. GUNDEL, Beiträge zur Entwicklungsgeschichte der
Begriffe Ananke und Heimarmene, Giessen, 1914; W. CHASE GREENE,
Moira. Fate, Good and Evil in Greek Thought, Cambridge Mass., 1944,
19482, in part, per Zenone p. 337 segg. La novità del concetto di
causa proprio della Stoa, come regolarità «legale», è stata
sottolineata efficacemente di recente da R. SORABJI, Causation, Laws
and Necessity, in Doubt and Dogmatism, ed. M. Schofield, M.
Burnyeat, J. Barnes, Oxford, 1980, pp. 250-282, in part. 253 segg.
23. Legg. X, 89Ód-897C (in particolare 897c 6-7, ove si parla
dell’anima «ottima» che si prende cura dell’universo).
24. In passi del De aeternitate mundi filoniano, E.
ZELLERriconosceva una polemica di Teofrasto contro Zenone di Cizio;
cfr. Der Streit Theophrasts gegen Zenon über die Ewigkeit der Welt,
«Hermes», XI, 1876, pp. 422-429 (poi in Kleine Schriften, I, Berlin,
1910, pp. 166-174)eThilos, d. Gr., AI, 1, 18894, p. 155 nota 1. Si è
opposto a questa ipotesi W. WIERSMA, Der angebliche Streit des Zenon
und Theophrasts über die Ewigkeit der Welt, «Mnemosyne», III, 8,
1939-40, pp. 235-243; scettico anche J. B. MCDIARMID, Theophrastus
on the Eternity of the World, «Trans. Amer. Philological
Association», LXXI, 1940, pp. 239247. Ma l’ipotesi può ancora oggi
esser presa in considerazione, anche se gli argomenti, così come
sono esposti da Filone, presentano non poche difficoltà
interpretative; per una disamina recente cfr. GRAESER, Zenon v. K.,
Anhang II, pp. 187-206, con difesa del carattere zenoniano degli
argomenti; più dubitativo ma non sostanzialmente discorde MANSFELD,
Providence and Destruction, p. 138 e nota 32.
25. Cfr., diversamente da F. ADORNO(Sul significato del
termineυπρχον in Zenone Stoico, «Parola del Passato», XII, 1957, pp.
362-374, in part. 369), A. A. LONG, Language and Thought in
Stoicism, in Problems in Stoicism, London, 1971, pp. 75-113, in
part. 91 e nota 72, p. 110.
26. Numerose le trattazioni di questo punto: cfr. A. BONHèFFER,
Epiktet und die Sto a, Stuttgart, 1890, pp. 160 segg.; BRèHIER,
Chrysippe, p. 80 segg.; POHLENZ, Stoa,I, pp. 60 segg.; G. WATSON,
The Stoic Theory of Knowledge, Belfast, 1966, p. 34 segg.;
recentemente J. M. RIST, Stoic Philosophy, Cambridge, 1969, pp.
133-147, in part. 138-143, e F. H. SANDBACH, Phantasia Kataleptiké,
in Probi. in St., pp. 9-21, in part. 15 segg. e nota 18, per una
ragionevole opposizione al punto di vista del Pohlenz, il quale
tendeva a differenziare su questo punto la posizione di Zenone da
quella di Crisippo contro il silenzio delle fonti antiche, che non
ci lascia supporre nulla in proposito. Circa il carattere
prevalentemente accademico ο stoico della nozione di ϰριτήριον cfr.
GRAESER, Zenon ν. Κ., p. 60 segg., e di contro J. MANSFELD,
«Mnemos.» XXXI, 1978, pp. 134-178, in part.p.155
27. Per la formula zenoniana circa la téchne, la variazione
cleantea, la ripresa e gli ampliamenti fattine da Crisippo, cfr.
oggi particolarmente J. MANSFELD, Techne. A new Fragment of
Chrysippus, «Greek Roman Byzantine Studies», XXIV, 1983, pp. 57-65;
e infra, parte II, nota 54, parte IV, nota 329.
28. Cfr. le conclusioni di M. FREDE, Stoische Loglk, p. 26 (supra,
nota 8), che sembrano assai ragionevoli. Che Zenone conoscesse e si
valesse dell’implicazione sulla scorta di Filone di Megara è stato
supposto da J. M. RIST, Zeno and the Origins of Stole Logic, in Les
Stoi’ciens et leur loglque, pp. 387-400, in part. 389 segg.;
basandosi però su un ipotetico riconoscimento di Zenone e Cleante
negli «Stoici» citati genericamente da Sesto Empirico, Adv. log.,
II, 141 segg.
29. Queste forme dell’argomentazione zenoniana sono ampiamente
studiate da parte di M. SCHOFIELD, The Sylloglsm of Zeno,
«Phronesis», XXVIII, 1983, pp. 31-58.
30. Sesto parla poco più oltre di una polemica col megarico
Alessino, allievo di Eubulide, cfr. Adv. phys., I, 108-110; il quale
avrebbe obiettato a Zenone che può anche argomentarsi: «ciò che è
grammatico è superiore a ciò che non lo è; ma non c’è nulla di
superiore al cosmo; dunque il cosmo è grammatico» e che da questa
argomentazione gli Stoici si sarebbero preoccupati di difendere
Zenone, affermando che questi intendeva «superiore in senso
assoluto». Cfr. infra, parte I, nota 160 per i problemi del testo.
31. POHLENZ, Stoa, II, 67, ricorda anche la «aequabilitas in omni
vita» attribuita a Socrate da Cicerone, De officiis, I, 90, tramite
Panezio. Il titolo περὶ ἀνομολογίας che Plutarco (De véri, mor.,
450c = SVF III, 390) dà per Crisippo ci dice che il tema continua
nella Stoa e non si esaurisce con Zenone.
32. Sulla questione, assai dibattuta, cfr. oggi lo status qmestionis
di A. M. IOPPOLO, Aristone di Ch’io, Napoli, 1980, pp. 143-144, nota
5. La questione è già dibattuta a partire da ZELLER, Philos, d.
Griech., III, 1, p. 215 nota 1, e da R. HIRZEL, Untersuchungen zu
Ciceros Philosophischen Schriften, Leipzig, 1882-87, II, p. 105
segg., negativi entrambi - più dubitativamente Zeller - circa la
possibilità che l’ampliamento della formula debba attribuirsi a
Zenone; cfr. peraltro già in HIRZEL, Unters., II, p. 108, il ricorso
al concerto di ϕύσις ἀνθρώπου, ipotesi che sarà poi ripresa da A.
DYROFF, Die Ethik der alien Stoa, Berlin 1897, con una soluzione
sostanzialmente conciliatoria: aggiunta zenoniana, poi intesa in
senso sostanzialmente diverso dai successori. Propendevano già per
l’attribuzione a Zenone autori come A. C. PEARSON, The Fragments of
Zeno and Cleanthes, London, 1891, pp. 14, 163; E. BRèHIER,
Chrysippe, p. 220, nota 2: negativo poi invece nuovamente M.
POHLENZ, Zenon und Chrysipp, «Nachrichten d. Gesellschaft d.
Wissenschaften Gòttingen», N. F. II, 1939 pp. 173-210. in part. 200,
e Stoa, II, p. 65. La soluzione conciliatoria, che tende
all’attribuzione a Zenone almeno nel senso più limitato e
circoscritto, ha riguadagnato favore nella critica contemporanea:
cfr. V. GOLDSCHMIDT, Système stoïcien4, p. 77, nota 1; J. M. RIST,
Zeno and Stoic Consistency, «Phronesis», XXII, 1977, pp. 161-174, in
part. 170 segg., ed altri.
33. Per questi efr. soprattutto S. G. PEMBROKE, Oìkeiosis, in Probi,
in St., pp. 113-149, in part. 132 segg. Ma anche su questo punto la
questione dell’attribuzione a Zenone, che fu difesa ampiamente da
POHLENZ(Die Grundfragen der Stoischen Philosopkie, «Abhandl. d.
Gòttingischen Gesellschaft», Phil. Hist. Kl., III F., 26, 1940, pp.
1-47, e Stoa, II, p. 65), è oggi più che mai sub iudice. Cfr. di
recente l’incertezza ci N.P. WHITE, The Basis of Stoic Ethics,
«Harward Studies Class. Philolcgy», LXXXIII, 1979, pp. 143-178, e la
più decisa posizione di A. M. IOPPOLO, Arisi., p. 154 segg. La
posizione della Ioppolo dipende tuttavia da una sua presa di
posizione precedente, la negazione a Zenone del concetto di πρῶτα
ϰατὰ ϕύσιν (per cui cfr. infra, nota 35). Che le testimonianze sulla
teoria della οἰϰείωσις siano prevalentemente legate al nome di
Crisippo non è fatto di carattere decisivo, se non si accompagna ad
una incompatibilità della teoria con posizioni zenoniane; può
semplicemente significare che Crisippo diede poi sviluppo alla
teoria, forse mutandone la formulazione terminologica, in Zenone,
anche in questo caso, più imprecisa (cfr. infra, parte VI, nota
634). Per un ulteriore problema, quello dell’origine teofrastea,
tesi sostenuta da F. DIRLMEIER, Die Oikeiosis-Lehre des
Theophrastos, «Philologus», Suppl. XXX, 1, 1931 e oppugnata da
POHLENZ, Grundfragen St. Philos., pp. 13, 26 segg., e Stoa, I, p.
111 segg., II, p. 64 segg., cfr. l’equilibrata posizione di O.
BRINK, Theophrastus and Zeno on Nature in mora! Theory, «Phronesis»
I, 1956-57, pp. 123-145 (la οἰϰειότης di Teofrasto non è la
οἰϰείωσις di Teofrasto non è la οικειωσις stoica, ma certo la
seconda ha nella prima le sue radici).
34. POLEMONE, frr 125 e 127-128 Gigante (Cicerone, Acad. pr., 42,
131; De fin. II, 11, 33-35 e IV, 16, 45).
35. Questa interpretazione implica che si intenda lo «acceperat» del
testo ciceroniano nel suo senso pieno («a quo [ = Polemone] quae
essent principia naturae acceperat», «dal quale aveva accettato la
teoria delle cose prime secondo natura») e non semplicemente nel
senso di «audierat»; cfr. IOPPOLO, Arist., pp. 149-150, la quale usa
l’ambiguo «ricevuto», ma mostra poi di ritenere che Zenone non
avesse condiviso la teoria; per la traduzione del passo, che ha per
me un significato diverso da quello che la Ioppolo gli attribuisce,
cfr. infra, parte I, nota 202. Né mi sembra di dover dare all’altro
passo De fin., IV, 17, 47 un significato che sia in qualche modo in
contrasto con tale posizione zenoniana (Zenone avrebbe fondato i
«preferibili» sul solo concetto di «appetitio» e li avrebbe
considerati validi solo sulla base della inclinazione); ciò
contrasta con passi in cui i προηγμένα appaiono fondati chiaramente
su un ordine oggettivo naturale dei valori, cfr. De fin. Ili, 52 =
SVF I, 194, Acad. post. 36 = SVF I, 191.
36. Sul precisarsi della terminologia e del concetto di ἀδιαϕορία in
Aristone di Chio cfr. HIRZEL, Unters., II, p. 45, nota 1; G. KILB,
Ethische Grundbegriffe der alten Stoa und ihre Uebertragung durch
Cicero im dritten Buch de finibus, Freiburg, 1939, p. 65; IOPPOLO,
Arist., p. 158; e infra, parte III, nota 75.
37. SENOCRATE, fr. 76 Heinze, 231 I. P. (da Sesto, Adv. ethicos, 3).
Cfr. oggi le osservazioni di O. LUSCHNAT, Das Problem des ethischen
Fortschritts in der alten Stoa, «Philologus», CU, 1958, pp. 178-214,
in part. p. 212; e M. ISNARDI PARENTEin SENOCRATE-ERMODORO,
Frammenti, «La scuola di Platone», III, Napoli, 1982, p. 419.
38. Sulla singolare formula ἀποπροηγμένον cfr. osservazioni varie di
studiosi infra, parte I, nota 205 (ma K. v. FRITZ, Zenon v. K., col.
115, richiama giustamente a Odyss. XVII, 457, contro i tentativi di
individuazione di un’origine extra-greca del termine). Per le
traduzioni ciceroniane cfr. KILB, Eth. Grundbegriffe, p. 78 segg.
39. Il rapporto fra προηγμένα e πρῶτα ϰ. ϕ. è stato studiato a più
riprese: essi sembrano identificarsi per R. PHILIPPSON, Das erste
Naturgemàsse, «Philolo-gus», LXXXVII, 1932, pp. 445-466, in part.
445 segg.; mentre appaiono più esattamente correlati in altri
autori, a partire da BONHÖFFER, Die Ethik des Stoiker Epiktet,
Berlin, 1894, pp. 175-177; cfr. poi POHLENZ, Grundfragen St.
Philos., pp. 47-57. E chiaro che tutte le successive articolazioni
fra i προηγμνα indicate da vari testi di provenienza dossografica
(Stobeo, Diogene Laerzio, Cicerone; cfr. SVF III, 133-136, e infra,
parte VI, nota 205) non risalgono al fondatore della Stoa, ma
attestano la analiticità definitoria di Crisippo e successori.
40. Per le principali testimonianze cfr. CICERONE, Acad. post. I,
38; PLUTARCO, Stoic. rep.,1034C;De virt. mor., 441%,441C (= SVF I,
199-201).Cfr., non solo per Zenone ma in genere per la virtù
quadripartita nella Stoa, C. J. CLASSEN, Der platonisch-stoische
Kanon der Kardinaltugenden bei Philon, Clemens Alexandri-nus und
Origenes, in Kerygma und Logos. Festschrift C. Andresen, ed. A. M.
RITTER, Gòttingen, 1979, pp. 68-88. Per la differenziazione
qualitativa delle virtù in Zenone M. REESOR, Stoic Concepì of
Quality, p. 41 segg.
41. LèArnim, nonostante la sua attribuzione del concetto di
οἰϰειωσις a Zenone, non considera zenoniana la definizione finale
del passo, Diogene L., VII, 108 (ἐνέργημα… ταῖς ϰατὰ ϕύσιν
ϰατασϰευαῖς οἰϰεῖον) e la riporta non in SVF I, 230 ma in SVF III,
493, come probabilmente crisippea; senza però che sia data di questo
una ragione precisa.
42. I limiti del ϰαθῆϰον sono già delineati chiaramente in HIRZEL,
Unters., II, p. 405 segg.; M. POHLENZ, ΤΟ ΠΡΕΠΟΝ, «Gotting.
Nachrichten», 1933, pp. 53-92, in part. p. 70, avvicina il concetto
a quello di πρπον. Per G. NEBEL, Der Begriff des K., «Hermes», LXX,
1935, pp. 439-460 in part. pp. 444-45, è la coscienza ciò che
contraddistingue la ὀμολογία-ἀϰολουθία dell’uomo da quella
concordanza con la natura che è propria del vivente in generale.
LUSCHNAT, Fortschritt, p. 184 e passim, parla di «untersittliche
Menschennatur».
43. In favore della distinzione crisippea, o per lo meno precisatasi
nettamente solo in Crisippo, di ϰαθῆϰον e ϰατόρθωμα, con
l’osservazione che per primo Crisippo scrive un’opera con questo
specifico titolo, cfr. D. TSEKOURAKIS, Studies in the Terminology of
the Early Stoic Ethics, «Hermes», Einzelschr. XXXII, 1974, p. 36
(cfr. anche ivi, pp. 26-28, per lo status quaestionis circa le
differenti interpretazioni della parola εὔλογος nel passo laerziano
che ci rende la definizione del ϰαθῆϰον infra, parte I, nota 101).
Su questa stessa linea oggi A. M. IOPPOLO, Arisi., p. 98 segg.
44. «Sich-Gehòrendes» e non «Pflicht», suggerisce come traduzione
NEBEL, Begr. d. K., p. 439; ma la traduzione «dovere» è resa
necessaria nelle lingue moderne attraverso k mediazione, pur non del
tutto rispondente, dell’«officium» ciceroniano. Cfr. per altre
osservazioni, infra, parte I, nota 231.
45. LUSCHNAT, Fortschritt, pp. 192 segg., 205 segg., ha chiarito
bene lo schema logico che soggiace alla teoria stoica del «progresso
etico»: in particolare per Crisippo virtù e vizio, bene e male, non
sono contrari (manca nella filosofia di Crisippo uno schema logico
adeguato a giustificare l’opposizione pura) ma sono contraddittori:
cioè - per seguire le definizioni aristoteliche - concetti fra i
quali non esiste mediazione, e che si escludono a vicenda, come
affermazione e negazione. Questo rende particolarmente difficile la
delucidazione delk teoria del progresso etico, che sembra costituire
uno stadio intermedio; la quale peraltro trova una sua fondazione
nei concetti etici generali della Stoa. Più di recente cfr. un
tentativo di spiegazione con ricorso al contrasto aristotelico ϰατὰ
στέρησιν -ϰατὰ ἕξιν da parte di F. DECLEVACaIZZI: F. DECLEVA
CAIZZI-M. S. FUNGHI, Un testo sul concetto stoico di progresso
morale (PMil Vogliano inv. 1241), in Aristoxeni-ca, Menandrea,
Fragmenta Philosophica (Accademia Toscana «La Colombaria», Studi,
XCI), Firenze 1988, pp. 85-124, in part. 113 segg.
46. Cfr. Resp. V, 46ib-e e diversamente Zenone, testimonianze
raccolte in SFV I, 254-258.
47. Sulla questione cfr. T. DORANDI, Filodemo, Gli Stoici ipap.
herc. 155 e 339), in «Cronache ercolanesi», XII, 1982, pp. 91-133,
in part. 93 e 118-119 e infra, parte I, nota 108. Il tema del
cosmopolitismo in Zenone è stato accentuato in forma eccessiva da
W.W. TARN, Alexander the Great, Oxford, 1933, poi più ampiamente,
Cambridge, 1948, II, p. 417 segg.; contro l’ipotesi da questi
avanzata di due diverse e successive Politeiai zenoniane, una,
primitiva, di semplice adesione al mito di Sparta (cfr. Plutarco,
Lycurgus, 31 = SVF I, 261, 263) e un’altra, successiva, incentrata
intorno ad Alessandro Magno quale portatore dell’ideale
cosmopolitico, cfr. H. C. BALDRY, Zeno’s Ideal State, «Journ. Hell.
Stu-dies», LXXXIX, 1959, pp. 3-15; e, più sfumato e più calzante, E.
N. TIGER-STEDT, The Legend of Sparta in Classical Antiquity, II,
Stockholm, 1965, p. 41 segg. Rimando a M. ISNARDI PARENTE, La
politica della Stoa antica, «Sandalion», III, 1980, pp. 67-98, in
part. 73.
48. I temi della riflessione di questi due autori appaiono
prevalentemente etici; cfr., per Persèo, la valutazione dei rapporti
fra il sapiente e la τύχη, TEMISTIO, Oratio XXXII = SVF I, 449, per
cui infra, parte III, nota 21; per Dionisio, detto «il transfuga»
per il successivo suo abbandono della scuola, la tematica incentrata
tutta intorno ai temi del piacere e del dolore, resaci da Cicerone,
Tusc. disp., II, 60, e III, 18, Acad. pr., II, 71 = SVF I, 432-434.
49. La non ortodossia di Cleante è sottolineata in particolare da H.
DòRRIE, Kleanthes, «Real-EncycL», Suppl. XII, 1970, coli. 1705-1707.
Ma la voce non rende assolutamente giustizia all’ampiezza del
pensiero di Cleante, sottovaluta gli aspetti logici di questo (cfr.
la valutazione riduttiva, col. 1706) e non tiene nel conto dovuto
l’accentuato fisicismo dell’orizzonte cleanteo risetto a quello
zenoniano; non può dirsi quindi in alcun modo non dico sostitutiva,
ma neanche integrativa della voce già a suo tempo stesa per la
«Real-Encyclopàdie» da H. v. ARNIM, ivi, XI, I, 1921, Coli. 558-574.
50. Per le possibili influenze pitagoriche su Cleante cfr. già P.
BOYANCè, Etudes sur le Songe de Sclplon, Bordeaux-Paris, 1936, p.
116 segg.; e più tardi La religión astrale de Platon à Clcéron,
«Rev. Et. Gr.», LXV, 1952, pp. 312-350, in part. 345 segg.;
L’Apollon solane, in Mélanges Carcoplno, Paris, 1966, pp. 148-170,
in part. 166 segg. Skythinos di Teo è forse contemporaneo di
Eraclito (H. DIELS, Poètarum Philosophorum Fragmenta, Berolini 1901,
p. 169); per incertezze tuttavia circa la sua cronologia cfr. F.
JACOBI, «Real-EncycL», III A 1, 1927, coli. 696-697. Eraclitismo e
pitagorismo sono in Cleante strettamente intrecciati, e il
pitagorismo risente, come si vedrà anche più oltre, di motivi tipici
del IV secolo e della speculazione di Archita; al quale si deve in
origine probabilmente anche il concetto di πληγή percossa, come
generatrice del suono, e quindi anche dell’armonia - forza dinamica
che muove l’universo; cfr. PORFIRIO, In Ptolomael Harmónica, p. 56
Düring = 47 B1 Diels-Kranz (commento in M. TIMPANARO-CARDINI,
Pitagorici, II, Firenze, 1962, p. 363 segg.). Il concetto di %k(\yr\
come punto dinamico di origine dei suoni passa in Senocrate, ancora
in Porfirio, In Ptolem. Harm., p. 30 segg. Düring = fr. 9 Heinze,
89, Isnardi Parente; a proposito del quale rimando a M. ISNARDI
PARENTE, Un fragment de Xénocra-te et le problème de la connalssance
sensible, «Revue Philosophique de la France et de l’Etranger», CVII,
1982, pp. 293-303.
51. Anche qui l’influenza eraclitea non va sottovalutata (cfr. la
παλίντονος ἁρμονίη di ERACLITO, 22 B51 Diels-Kranz; per le varianti
al testo KRANZ, ad loc.; MARCOVICH, fr. 27, p. 81); ma è chiaro
ch’essa si intreccia con influenze pitagoriche e con nozioni di
carattere musicale (cfr. per τόνος l’indice di C. v. JAN, Musici
scriptores graeci, Lipsiae 1895). L’importanza della musica per
Cleante è del resto attestata da Filodemo, De musica, coli. XXVIII,
1 segg., p. 97 Kemke (infra, parte II, p. 261). In generale per il
τνος in Cleante POHLENZ, Stoa, I, 74-75; II, 42.
52. Rimando per questo a M. ISNARDI PARENTE, Il fuoco conico di
Cleante e i Pitagorici, in Sapienza antica. Studi in onore di D.
Pesce, Milano, 1985, pp. 120-129. Per il passo di Archita cfr. PS.
ARISTOTELE, Problemata, 16, 9i5a 25 segg. = 47 A 23a Diels-Kranz;
Timpanaro Cardini, Pitag., II, p. 347. Per gli studi, fra iv e 111
secolo, su cilindro e sfera, e sulle sezioni coniche (Archita,
Eudosso, il discepolo di Eudosso Menecmo) cfr. in generale T. HEATH,
A History of Greek Mathematics, Oxford, 1921, rist. anast. i960, I,
pp. 170 segg., 213 segg., 251 segg. L’universo matematico di Platone
nel Timeo riflette ancora le ricerche della matematica e della
stereometria del v secolo, prevalentemente di Teeteto di Atene,
incentrate intorno alle figure poliedriche.
53. MANSFELD, Providence and the Destruction, p. 160, nota
giustamente il carattere metacosmico che la ἐϰπύρωσις viene ad
assumere nell’ambito di questa visione religiosa: non ritorno al
caos primigenio, ma ordine divino superiore, in cui Zeus solo regna
sovrano. Mansfeld ritiene peraltro che già in Zenone sia ravvisabile
questo aspetto, e che la polemica di Zenone contro Fiatone e
Aristotele sul tema della indistruttibilità o meno del cosmo
contenga chiaramente la concezione della conflagrazione come ritorno
ad uno stato migliore e più elevato, ad una condizione non cosmica
ma «metacosmica»; quanto alla concezione della ἐϰπύρωσις come una
sorta di apoteosi (ivi, p. 174), egli ritiene che la s: possa
attribuire a Crisippo allo stesso modo che a Cleante, in base a
Phnarco, De Stoic. rep., 1051Ì = SVF II, 1049,ove si insiste
sull’eternità assoluta di Zeus in confronto alle altre divinità, ’o
anche a Stoic. rep., 10353L = SVF II, 42, ove si parla del «discorso
intorno agli dèi» come «mistero», τελετοαί. In realtà Epifanio
sembra assai chiaro neh"indicare come specificamente cleantea la
rappresentazione dell’apoteosi cosmica; ed è anche da notarsi il
ruolo del sole-egemonico nella rappresentazione cleantea della
ἐϰπύρωσις stessa (secondo Plutarco, De comm. not., io75d = SVF I,
510). Sul carattere misterico e sulla relazione particolare eoe i
misteri eleusini cfr. già BOYANCè, Sur les mistères d’Eleusis, «Rev.
Et. Gr.), LXXV, 1962, pp. 460-482, in part. 466 segg. La religiosità
cleantea ha una nota particolare rispetto a quella stessa della Stoa
in generale, per cui per Cleante meno che per gli altri stoici può
essere fatto valere in pieno il discorso di L. EDELSTEIN, The
Meaning of Stoicism, Cambridge, 1966, circa l’assoluta impersonalità
del divino stoico; cfr. per questi aspetti dell’atteggiamento, oltre
che del pensiero, di Cleante A. J. FE-STUGIèRE, La Révélation
d’Hermes Trismégiste, II, Paris, 1949, p. 310 segg., e Personal
Religion among the Greeks, Berkeley-Los Angeles, 195^ (i9602), p.
105 segg. Cfr. anche infra, parte II, note 244-250.
54. Si rimanda anche qui, per l’esame dell’inno a Zeus di Cleante e
delle altre «preghiere», oltre che del più breve inno tradotto e
probabilmente com pletato con qualche libertà almeno formale da
Seneca, a parte II, nota 80 e note 85 segg.
55. CHASE GREENE, Moira, pp. 344-345 chiamando a confronto di questa
testimonianza i versi dell’inno a Zeus che si riferiscono agli
«uomini malvagi», ritiene che il discorso di Cleante fosse volto a
salvare la provvidenza di Zeus da ogni corresponsabilità col male,
che si verifica soprattutto sotto l’aspetto del male morale,
dell’azione umana deviata dal corso del fato. Ma la differenziazione
con Crisippo avrebbe poco senso sotto questo rispetto, giacché
Cleante e Crisippo sembrano essere stati ugualmente interessati a
salvare sia la bontà della provvidenza sia la libertà dell’agire
umano. Se la teoria è da intendersi come effettivamente cleantea,
Cleante intendeva probabilmente riferirsi anche agli aspetti
fisicocosmici del male; è legittimo peraltro anche lo scetticismo
che, a riguardo della medioplatonizzante testimonianza di Calcidio,
nutre un interprete più recente, M. DRAGONA MONACHOU, Providence and
Fate in Stoicism and pre-Neoplatonism, Chal-cidius as an authority
on Cleanthes’ Theodicy, SFV 2, 933, «Philosophia», III, 1973, pp.
262-306. Per ulteriori osservazioni cfr. A. A. LONG, The Stoic
Concepì of Evil, «Philos. Quarterly», XVIII, 1968, pp. 329-343.
56. A proposito di questa esegesi e della seguente reazione critica
di Crisippo cfr. GRAESER, Zenon v. K., pp. 34-35;e supra, p. 19.
57. La prova di Cleante ha la sua radice nell’argomentazione
aristotelica del Περὶ ϕιλοσοϕίας, fr. 16 Ross = 25 Untersteiner (da
Simplicio, In De Caelo, p. 289, 2 segg. Heiberg); per citazione di
molta letteratura critica cfr. M. UNTERSTEINER, Aristotele. Della
filosofia, Roma, 1963, p. 198 segg. (a commento del passo); si
possono qui ricordare W. JAEGER, Aris tote les. Grundlinien einer
Geschichte seiner Entwicklung, Berlin, 1923, p. 161 segg.; J. MORE
AU, Uâme du monde de Platon aux Stoïciens, Paris, 1939, p. 183, nota
5; oggi MANSFELD, Providence and the Destruction, pp. 142-143: HAHM,
Orig. St. Cosmol., Appendix VI, il quale fa il confronto con
CICERONE, De nat. deor., II, 33-36, nonché con SESTO, Adv. Phys.,I,
88; a proposito della presenza di Cleante in Cicerone cfr. più
ampiamente infra, parte II, nota 68, parte VI, nota 422. Cleante ha
certamente ripreso e sviluppato dal giovane Aristotele quello che
più tardi verrà assunto fra le prove cristiane dell’esistenza di Dio
col nome di «argumentum ex gradibus». La forma logica cui Cleante lo
piega, quella del συνημμένον, è certamente ulteriore rispetto ad
Aristotele, e desunta alle «forme ipotetiche», coniate da un lato da
Filone megarico, dall’altro da Teofrasto. Cfr. per il sillogismo
ipotetico più oltre, nota 80.
58. Per l’attribuzione di una vera e propria logica, per primo, a
Cleante, cfr. FREDE, St. Log., p. 12 segg. I passi di Diodoro Crono
che riportano la teoria del ϰυριεύων λόγος sono di ARRIANO-EPITTETO,
Diss., II, 9, 1-5; CICERONE, De fato, 6, 12-7, 13; PLUTARCO, Stoic.
Rep., 46, io^d-f (II F24-31 Giannantoni). La letteratura
sull’argomento è assai ricca; cfr. P. M. SCHUHL, Le dominateur et
les possibles, Paris, i960; F. MICHAEL, What is the Master Argument
of Diodorus Cronus, «Amer. Philos. Quart.», XIII, 1976, pp. 229-235;
G. GIANNANTONI, Il κυριεων λγος di Diodoro Crono, «Elenchos» II,
1981, pp. 239-272, con l’ipotesi che il discorso non sia rivolto,
come per lungo tempo si è creduto, contro Aristotele e la teoria
della potenzialità, ma contro Filone Megarico e la sua teoria della
modalità. Sulle polemiche degli Stoici, fra il molto citabile, cfr.
di recente H. BARREAU, Cléanthe et Chrysippe face au Maître Argument
de Dioaore, in Stoïc. Log., pp. 21-40; M. MiGNUCCi, Sur la logique
modale des Stoïciens, ivi, pp. 317-346.
59. Cfr. la discussione sulle possibili traduzioni delle tre
proposizioni di Diodoro in BARREAU, cit., pp. 22-27. Barreau ritiene
che alla prima proposizione dio-dorea, quella negata da Cleante,
occorra dare un significato logico e non realistico-fattuale: non
«tutto ciò che appartiene al passato è necessariamente vero» ma
«ogni verità che appartiene al passato è necessaria», quindi è
necessaria solo ogni proposizione «vera» riguardante il passato. Ma
così non si risolve certo la difficoltà relativa alla posizione
cleantea, che Rist, partendo dalla convinzione che Cleante negasse
solo la prima delle tre proposizioni di Diodoro accettando le altre
(Stoic Philosophy, Cambridge, 1969, pp. 117-118), dice difficilmente
conciliabile con le dottrine fisiche professate da Cleante stesse, e
tale che di una possibile conciliazione con queste non possediamo la
minima prova. La difficoltà è probabilmente solubile solo ad una più
attenta lettura del testo di Epitteto, il quale ci dice
implicitamente che Cleante, e poi Archedemo, presero posizione solo
riguardo alla prima proposizione; e probabilmente lo fecero non
secondo i criteri della modalità logica, ma rifiutandosi di
considerare rispondente al corso determinato degli eventi, e quindi
«necessario», tutto ciò che è accaduto, anche quell’azione degli
uomini stolti che va contro la regola della διαϰόσμησις. inguere il
ragionamento del lDalla negazione della prima proposizione di
Diodoro, in realtà, non può non discendere implicitamente anche la
negazione delle altre, giacché l’accettazione del possibile «nel
passato» implica l’accettazione del possibile in generale.
60. SVF I, 187 (STOBEO, Ecl., II, 7, p. 103 W.);ci è riportato un
sillogismo, probabilmente (ει è integrato dagli editori a partire
dallo Heeren) nella forma del συνημμένον, col quale si argomenta da
parte di Cleante la positività della città: della città reale,
sembra, e non della città dei sapienti cara a Zenone (cfr. per
questo V. GOLDSCHMIDT, La doctrìne d’Epicure et le droit, Paris,
1977, p. 17). L’aggettivo σπουδαίος riferito a città e legge è di
tradizione accademica, e, ancor prima, socratica (cfr. SENOFONTE,
Mem., IV, 4, 14; per Speusippo cfr. CLEMENTE, Strom., II, 4, 19, p.
122 Stàhlin = fr. 2 Lang, 119 I.P.)
61. Cfr. SENOFONTE, Mem., II, 1, 13 (-IVA 163, p. 248); ove
Aristippo dichiara la propria professione di libertà consistente nel
non rinchiudersi nell’ambito di alcuna città ma nell’essere
«straniero ovunque».
62. Che il termine compaia solo dopo Aristone, che quindi il
discorso di Diogene Laerzio, VII, 37, debba essere inteso nel senso
della introduzione di un terminus technicus, fu già sostenuto da
HIRZEL, Untersuchungen, II, p. 45, nota 1; cfr. già supra, nota 36,
e altra bibliografia in IOPPOLO, Aristone di C, p. 158. DYROFF,
Ethik d. alt. Stoa, p. 119, nota 3, nota che in ATENEO, Deipnosoph.,
VI, 233D-C, ove il termine sembrerebbe attribuito a Zenone, in
realtà il tramite è Crisippo e la teoria può dirsi genericamente
stoica. Cfr. tuttavia GELLIO, Noci. Att., IX, 5, 5 (= SVF I, 195).
63. L’espressione si trova in DIOGENE LAERZIO, VII, 160 (SVF I,
351); per l’opera di CRISIPPO, Che le virtù sono qualità cfr. infra,
p. 51.
64. La critica è stata spesso incerta nell’attribuzione allo Stoico
o al Peripatetico di materiale di per sé non caratterizzato in forma
precisa sotto l’aspetto filosofico; e la presenza di un terzo
Aristone complica ulteriormente le cose. Per ciò che si riferisce al
catalogo di Diogene Laerzio (VII, 163) e alle diverse attribuzioni
delle opere in esso elencate (WEHRLI, Sch. d. Arist., VI, p. 50
attribuisce buona parte del catalogo ad Aristone di Ceo), cfr.
infra, parte III, nota 65. Ipotetica è l’attribuzione dei Paragoni,
da più studiosi considerati in buona parte del Peripatetico; anche
per questi cfr. infra, parte III, nota 65. L’opera già più volte
citata di A. M. IOPPOLO, Aristone di Chio e lo stoicismo antico,
rappresenta la punta più avanzata finora mai raggiunta nel tentativo
di una attribuzione globale ad Aristone di Chio; per i frammenti ivi
attribuiti allo stoico e che in realtà risultano diversamente
classificabili cfr. infra, parte III, pp. 306 segg. («Testimonianze
dubbie»).
65. La lettura ’Aρίστων là dove il testo dà semplicemente un -cov
(non si potrebbe nemmeno dire con assoluta certezza se da
considerarsi desinenza di un nome) è di CHR. JENSEN, Philoàem ùber
die Gedichte Fùnftes Buch, Leipzig, 1923, p. 32 segg. per il testo,
128 segg. per il commento; per tut.a la questione nei particolari
cfr. infra, parte III, nota 85. Il nome Αρστων integrato in quella
sede ha permesso allo Jensen di «costruire» tutta una teoria
estetico-retorica di Aristone di Chio, che mal si accorda con quanto
di lui sappiamo da altre fonti più sicure e sembra frutto di
contaminazione fra teorie stoiche e peripatetiche, come poteva
facilmente verificarsi in un critico letterario-filologicc
ellenistico del tipo di quelli di cui - anche in questo stesso
contesto - Filodemo ci parla. Peripatetizzante è la gnoseologia che
l’autore qui citato da Filodemo presuppone quando distingue fra un
giudizio della mente, pertinente al λόγος., e un giudizio proprio
della sensazione dell’udito, ἀϰοή (FILODEMO, De poemat., col. XX, 22
segg.); mentre noi sappiamo che per Aristone di Chio una era la
δύναμις dell’anima (cfr. GALENO, De Hipp. et Plat. plac., VII, 2,
pp. 208, 591 M.; PLUTARCO, Stoic. rep., 8, io34d=SVF I, 374; 373).
Pohlenz, che accettava l’ipotesi dello Jensen (Stoa, I, pp. 163-164,
II, p. 85), si basava anche, per poter sostenere l’attribuibilità
del passo ad Aristone di Chio, sull’accettazione di SFV I, 377
tPorfirio presso Sto-beo, EcL, I, p. 347, 21 segg. Wachsm.),
attribuibilità oggi decisamente respinta da A. GRILLI, Un frammento
d’Aristone Alessandrino in Porfirio, «Giornale Ital. Filol.», n.
ser. II, 1971, pp. 292-307 (segue il rifiuto del Grilli in questo
caso la stessa Ioppolo, Aristone di Chio, pp. 276-278). Cfr. in
proposito M. ISNARDI PARENTE, Una poetica di incerto autore in
Filodemo, in Filologia e forme letterarie. Studi in onore di F.
Della Corte, V, Urbino, 1987, pp. 81-98.
66. Autore di una τέχνη περί ϕωνῆς, come sappiamo da Diocle di
Magnesia in DIOGENE LAERZIO, VII, 55 (= SVF III, D. Bab., 17). Cfr.
infra, parte V, note 11 e segg.
67. La testimonianza di Cicerone, che tenderebbe a riportare il
contrasto di Erillo con la Stoa nei termini di una contrapposizione
fra vita pratica e vita contemplativa di tipo platonico («vides
quantum ab eo (= Zenone) dissenserit, et quam non multum a Platone»)
è testimonianza tendenziosa, volta al solito a puntualizzare
soprattutto il confronto fra scuola di Platone e momenti del
pensiero stoico. Cfr. in proposito quanto già detto in Etica
situazionale nell’antica Stoa?, in L’etica della situazione. Studi
raccolti da PIETRO PIOVANI, Napoli, 1974, pp. 37-54, in part. 41; e
oggi A. M. IOPPOLO, Opinione e scienza. Il dibattito fra Stoici e
Accademici nel in e nel 11 secolo a. C, Napoli, 1986, p. 85 segg.
68. Questo sarebbe lo sbocco effettivo di una interpretazione
tendente ad accentuare il carattere «moderato», in contrasto con
quello radicale di Aristone, dell’etica di Erillo e della dottrina
della ipotelide; su questa strada appaiono DYROFF, Ethik d. alt.
Stoa, p. 48segg.; BONHòFFER, Ethik d. Stoiker Epiktet, p. 178, ed
altri. Ma nella frase dì Diogene (διαϕέρειν δὲ τέλος ϰαì ὑποτελίδα,
VII, 165 = SVF I, 411) va accentuato il momento del διαϕέρειν, VII,
165 = SVF I, 411) va accentuato il momento del Bia96petv, del
differire radicalmente; così giustamente, crediamo, M. GIUSTA,
Dossografi di etica, Torino, 1964, I, pp. 382-383; cfr. ancora Etica
situazionale, p. 42. A queste conclusioni mi sembra attenersi anche
A. M. IOPPOLO, LOStoicismo di Erillo, «Phronesis», XXX, 1985, pp.
58-78, in part. p. 73 segg.
69. Ricordo, forse, di Mem., IV, 2, 11 segg., ove si puntualizza il
necessario accordo fra giustizia, sapienza e capacità di esercitare
una funzione utile sul modello delle technai.
70. Per la storia dell’idealizzazione di Sparta, a parte il meno
recente F. OLLIER, Le mirage spartiate,I, Paris, 1933, II, 1943,
rist. anast. New York, 1963, cfr. E. N. TIGERSTEDT, The Legend of
Sparta in Classical Antiquity, Stockholm, 1965: in particolare per
l’azione di Sfero II, p. 69 segg. Già Ollier si era posto del resto
largamente il problema di certe singolarità delle fonti e della
possibilità di ricostruzione dell’opera del filosofo stoico relativa
a Sparta, cfr. Mir. Spart., II, pp. 83-123 passim (con propensione a
spostare indietro l’azione di Sfero fino al regno di Agide, il che
resta peraltro problematico).
71. La Stoa fa della logica una parte della filosofia a pieno
diritto, non uno strumento, come Aristotele e i Peripatetici. La
posizione degli Stoici è espressa nel modo più chiaro da AMMONIO, In
Arisi. Anal. pr., p. 8, 20 segg. WaU lies = SVF II, 49.
72. Cfr. già supra, nota 26: è probabilmente forzato vedere su
questo punto una differenziazione fra Zenone e Crisippo. E certo
comunque (cfr. Diogene Laerzio, VII, 54 = SVF II, 105) che Crisippo
espresse due opinioni differenti in proposito; non però così
differenti come Diogene sembra affermare; in un secondo tempo egli
avrebbe esteso l’ambito del criterio ο dei criteri, includendovi le
προλήψεις. Se le προλήψεις. Se le προλψεις sono intese in senso
etico, si può pensare che a Crisippo non bastasse più la limitazione
del «criterio della verità» all’ambito puramente gnoseologico e
volesse includervi anche la facoltà di scelta fra bene e male (del
resto anche Epicuro nel Kanón non limitava i «criteri» all’ambito
teoretico: cfr. Diogene L., X, 30 = fr. 35 Us.). Quanto αll’ὀρθὀς
λόγος, di cui ci parla Posidonio (cfr. parte VI, nota 23) almeno le
radici di questo «criterio» sono nella speculazione crisippea; esso
si lega alla concezione della dialettica come «scienza del vero e
del falso», concezione che è da ascriversi a Crisippo, e non è certo
zenoniana. Lo ὀρθòς λόγος «attitudine a ragionare correttamente», e
si traduce nel ragionamento corretto, quindi «vero» almeno
virtualmente. Cfr. in proposito A. A. LONG, Dialectic and the Stole
Sage, in The Siolcs, pp. 101-124.
73. In proposito V. GOLDSCHMIDT, Remarques sur l’orìgine épicurienne
de la prénotion, in Stoïc. Log., pp. 155-169 (= Ecrits, I, Etudes de
philosophie ancienne, Paris, 1984, pp. 113-127).
74. Viene da Plutarco tramite Olimpiodoro, In Platonis Phaedonem, p.
156, 8 Norvin, ed è quindi tinta di platonismo.
75. A parte Cicerone, De fin., III, 6, 20-21, ove ἔννοια posta in
rapporto anzitutto con la «prima conciliatio» (= SVF III, 188), gli
altri passi ciceroniani in cui si parla delle «nozioni comuni»
vertono intorno al bene (cfr. De fin., Ili, 10, 33 = SVF III, 72);
così pure Sesto Empirico, Adv. e th., 22 = SVF III, 75. PLUTARCO,
Stoic. rep. 9, 1035 e (= SVF II, 68) ci parla di una derivazione
delle ἔννοιαι «dalla comune natura», e sembra non limitarle al solo
piano etico: la seconda parte dell’opera plutarchea è volta alla
refutazione di pretese nozioni comuni stoiche relative alla fisica.
Come «criteri della verità» e relative alla fisica ce le presenta
anche Alessandro d’Afrodisia, De mixtione, p. 216, 34 segg. Bruns =
SVF 11, 473. Si tratta però veramente di ciò che gli Stoici
definivano come ϰοιναὶ ἔννoιαι Non va dimenticato che Plutarco è
testimone infido, che sovrappone i propri schemi (in questo caso
l’innatismo platonico) a quelli stoici. La testimonianza di
Alessandro è più precisa, ma può riferirsi a Crisippo così come a
sviluppi postcrisippei.
76. Per le definizioni date della filosofia come «scienza che si
occupa della correttezza del discorso» cfr. più oltre, parte VI,
nota 670 (una nuova testimonianza è stata aggiunta da B. KEILa
quelle già offerte dall’Arnim; cfr. «Hermes», XL, 1905, pp.
155-158). Cfr. in generale H. DèRRIE, Chrysippus, «Real-Encycl.»,
Suppl. XII, 1970, coli. 148-155, in part. 151 segg. Da questa
convinzione che il linguaggio è fondamentalmente ambiguo prende
concreto inizio lo studio sistematico delle sue parti, che si
concreterà nella ricerca grammatica. G. VERBEKE, La philosophie du
signe chez les Stoïciens, in Stoïc. Log., pp. 401-124, in part. 403:
il linguaggio è come una sorta di σημεον, che rinvia al pensiero,
cioè ad una realtà «oscura» e non evidente.
77. ARRIANO, Epict. diss., IV, 8, 12 = SVF I, 51. Ma parte da
Crisippo la vera e propria costruzione della grammatica. Il saggio
classico di R. T. SCHMIDT, Stoi-corum gramática, Halis Saxonum, 1839
(rist. anast. Amsterdam, 1967) è stato tradotto in tedesco con
introduzione (e con bibliografia di U. EGLI) da H. HèLSER,
Universität Konstanz 1982; la raccolta dello HèLSER, Die Fragmente
zur Dialektik der Stoiker, Universität Konstanz, 1981 (oggi
Stuttgart-Bad Cannstatt, 1987-1988) offre un panorama amplissimo
della grammatica stoica e dell’influenza stoica sui grammatici.
78. Molti gli studi recenti da cui si posson trarre precisazioni
illuminanti circa il concetto di λεϰτόν, la sua formazione e
origine. Ci si può limitare qui a citare (a parte quanto già detto
supra circa il carattere di incorporeo proprio del «significato»),
J. M. RIST, Zeno and orìg. St. Logic, in St. Log., p. 396segg. (in
relazione alla prima formazione del concetto in Cleante); A.
GRAESER, The Stoic Theory of Meaning, ivi, pp. 77-100, in part. 91
segg., e A. A. LONG, Language and Thougt, in Probi, in Stoic., pp.
75-113, in part. 105, per il trapasso da «predicato» a «espressione
significante»; MèLLER, Intr. St. Log., in The Stoics, pp. 1-26, p. 7
con l’osservazione che il λεϰτόν, in realtà, non è un termine ma è
una proposizione.
79. Queste forme sono studiate da Crisippo nei Λογιϰὰ ζητήματα, di
cui resta un frammento papiraceo abbastanza lungo (cfr. infra, parte
IV). Cfr. in proposito P. PACHET, Uimperatif stoicien, in St. Log.,
pp. 361-374.
80. Su Teofrasto in particolare parecchio è stato scritto; cfr. I.
BOCHENSKI, La logique de Théophraste, Fribourg en Suisse, 1947 (a p.
no un confronto ’col sillogismo stoico); A. GRAESER, Die logische
Fragmente des Theophrasts, Berlin, 1973: L. REPICI, La logica di
Teofrasto, Bologna, 1977: per Eudemo cfr. WEHRLI, Sch. d. Arist.
Vili, 19692, p. 83 a commento dei frr. 20-22: il Wehrli tende a
sottolineare in particolare la maggior vicinanza del sillogismo
«ipotetico» teofra-steo ed eudemeo al sillogismo aristotelico che
non al συνημμένον stoico. Per la teoria dell’implicazione ipotetica
in Filone di Megara cfr. i frr. 140-142 Dòring = 11 F 19, 20, 23
Giannantoni (i primi due da Sesto, Pyrrh. Hypot. II, nò-in e Adv.
log. II, 112-117; l’altro da Cicerone, Acad. pr. II, 47, 143; Sesto
parla senz’altro di συνημμένον, ma usando probabilmente terminologia
stoica). In proposito J. B. GOULD, The Philosophy of Chrysippus,
Leiden, 1970, pp. 72-73.
81. Per il passo di Sesto (Pyrrh. Hypot., II, 111-112) cfr. infra,
parte VI, nota 166. Uno status quaestionis delle posizioni della
critica, a partire da Zeller, è dato da GOULD, op. cit., p. 74
segg.: la critica ha per lo più riconosciuto Crisippo nella terza
posizione descritta da Sesto. Fra gli studiosi della logica stoica
da vedersi in particolare MATES, St. Logic, p. 48; FREDE, Stoische
Logik, p. 90 segg.
82. Anche qui cfr. MATES, St. Log., p. 68 segg.; GOULD, Philos. of
Chrysippus, pp.83-85; MèLLER, Orig. St. Logic, pp. 10-11, per
l’elencazione delle cinque forme di sillogismo anapodittico. Cfr.
anche infra, parte VI, pp. 725 segg.
83. De arte, ce. 12-15 (ove sono in particolare applicate al
procedere del medico le nozioni di σημεῖον e di τεϰμήριον, e
considerate fondamentali per la fondazione della medicina come
«arte», τέχνη. Cfr. per il concetto in generale e le sue
applicazioni H. DILLER, ΟΨΙΣ ΑΔΗΛΩΝ ΤΑ ΦΑΙΝΟΜΕΝΑ, «Hermes», LXVII,
1932, pp. 14-42, poi in Kleine Schriften zur antiken Litteratur,
München, 1972, pp. 119-142. Per l’uso logico di σημεον in ambito
stoico cfr. PH. H. DE LACY, Philodemus on Methods of Inf er enee,
Napoli, 19782, pp. 206-214. Che gli Stoici abbiano parlato di
σημεῖον anche in senso metempirico, allargando la «semeiotica» al di
là dell’ambito logico-scientifico ad argomenti anche di natura
filosofico-teologica, come la natura del divino o del cosmo, è stato
del resto osservato giustamente da G. VERBEKE, La Philosophie du
signe chez les Sto’iciens, in St. Log., pp. 401-424, in part. 409
segg.; il concetto di σημεῖον è assai ambiguo, e non si esaurisce
del tutto su piano logico-empiristico.
84. Su questa svolta della medicina antica in periodo ellenistico
(che corrisponde del resto ad una generale svolta della cultura
scientifica del periodo) basti qui rimandare a La scienza
ellenistica, a cura di G. GIANNANTONIe M. VEGETTI, Napoli 1984; in
particolare cfr. M. VEGETTI, La scienza ellenistica: problemi di
epistemologia antica, ivi, pp. 427-470, per la medicina 442 segg.
85. Questa teoria crisippea della possibilità sembra influenzata da
quella di $ Filone di Megara, fondata sul concetto di ἐπιτηδειότης o
tendenza, attitudine: per f la teoria filoniana della ἐπιτηδειότης
(attitudine di una certa realtà ad un evento che poi in realtà è
anche soggetto a non verificarsi) cfr. i frr. 135-136 Dòring = II F
27 Giannantoni (da ALESSANDRO DèAFRODISIA, In Arisi. Anal. pr., pp.
183; 34 segg. Wallies e SIMPLICIO, In Arisi. Categ., p. 195, 31
segg. Kalbfleisch.). Sulla critica degli Stoici al «discorso
dominatore» di Diodoro cfr. quanto citato supra, nota 58.
L’argomentazione di Crisippo è esplicitata dal GOULD, Philos. of
Chrysip-pus, pp. 76-82, in forma convincente. J. MOREAU,
Immutabilité du vrai, nécessité logique et lien causai, in St. Log.,
pp. 347-356, sostiene che, nonostante gli sforzi di Crisippo, la sua
differenza da Diodoro e dal determinismo di questi rimanei% più
verbale che reale. Non è però esatto: la posizione di Crisippo,
assai più che % a quella di Diodoro, si avvicina semmai a quella di
Filone, come dimostra l’argomento della spezzabilità della pietra
usata come esempio di possibilità (se Filone risolveva il problema
della possibilità pura, non realizzata, in quello della ἐπιτηδειότης
tendenza che può rimaner tale senza effettuarsi, Crisippo
implicitamente I sembra aver risolto il problema della possibilità
in quello della ἔξις come tendenza intrinseca che rimane fine a se
stessa se le circostanze ne impediscano la realizza- f zione).
86. Per la teoria della qualità in Zenone cfr. supra, nota 18; per
la terminologia IL usata da Diogene Laerzio nella descrizione della
polemica crisippea cfr. nota 63; * la coniazione dell’espressione
πρóς τί πὼς ἔχον si può far già risalire ad Aristotele (Categ., 8 a
31), ma nella Stoa non si oserebbe ipotizzarne la anteriorità a
Crisippo. Per il πὼς ἔχον, del quale Crisippo doveva fare largo uso,
cfr. infra, nota 89.
87. Simplicio, In Arisi. Categ., p. 63, 22 segg. Kalbfleisch = fr.
12 Heinze, 95 Isnardi Parente; per il commento cfr.
SENOCRATE-ERMODORO, Frammenti, p. 327 segg.
88. Simplicio, In Arisi. Phys., p. 247, 30 segg. Diels = fr. 7
Isnardi Parente. Per il commento cfr. SENOCRATE-ERMODORO, Frammenti,
p. 439 segg.
89. La testimonianza più importante è quella di Plotino, Enn., VI,
1, 29-30. Cfr. in proposito RIETH, Grundbegr., p. 84 segg.; REESOR,
Stoic Categories, p. 67 segg., 77, a proposito delle aggiunte
crisippee relative a πὼς ἔχοντα e a πρóς τί πως ἐ. e alla formazione
definitiva dello schema categoriale da parte di Crisippo. Fra gli
studi più importanti cfr. M. POHLENZ, Die Begründung der
abendländischen Sprachlehre durch die Stoa, «Nachr. Gesellschaft
Wissenschaften Göttingen», Phil. Hist. Kl. N. F. 1, 1939, pp.
151-198; A. VIRIEUX-REYMOND, La logique et Vépisté-mologie des
Sto’iciens, Lausanne, 1949, p. 65 segg.; P. DE LACY, The Stoic
Categories as metodological Principles, «Trans. Amer. Philol. Ass.»
LXXVI, 1945, pp. 245-263; J. M. RIST, Categories and their Uses, in
Problems in Stoicism, pp. 38-57; A. GRèSER, The Stoic Categories, in
St. Log., pp. 199-221 (ove è data anche una rassegna dei principali
punti di vista interpretativi in merito).
90. Per l’interpretazione del difficile passo di Filone cfr. REESOR,
Stoic concepì quality, pp. 46-47; GOULD, Philos. Chrys., pp.
105-106; e infra, parte IV, nota 152. Le relazioni fra ποιότης e
διαϕορά e Bioccpopà con tutte le diverse implicazioni di questo
termine sono state messe in evidenza soprattutto dal RIETH,
Grundbegr., p. 67.
91. Metaph., III, 998022; Vili, 104507, e altrove. Cfr. Anal. post.,
II, 92013.
92. Gli ουτινα appaiono come λεϰτά cui non corrisponde un contenuto
corporeo reale (formazioni totalmente immaginarie). Cfr. P. HADOT,
Porphyre et Victori-nus, Paris, 1968, I, pp. 156-162; e infra, parte
VI, nota 223, per l’analisi del passo senechiano. Che gli
incorporei, e in particolare fra di essi i λεϰτά, non siano puro
«non essere» e puri costrutti immaginari della mente (contro
interpretazioni quali quelle di J. CHRISTENSEN, An essay on the
Unity of Stoic Philosophy, Copenhagen, 1962, p. 25, e J. WATSON, The
Stoic Theory of Knowledge, Belfast, 1966, p. 42) è stato sostenuto
da A. A. LONG, Hellenistic Philosophy, London, 1974, pp. 136-137, e
ribadito da P. PASQUINO, Le statuì ontologique des incorporéis dans
Vancien Stoicisme, in St. Log., pp. 375-386. Gli incorporei sono
quindi da considerarsi xtvá, anche se non òVTOCa pieno titolo, in
quanto non possiedono sussistenza autonoma. Queste contrapposizioni
sono peraltro non anteriori, se non addirittura posteriori, a
Crisippo, e non credo - a differenza del Pasquino - che siano in
alcun modo applicabili alla polemica di Zenone contro le idee
platoniche, interpretate come puri ἐννοήματα (supra, note 9 e 18).
93. A differenza di Aristotele, gli Stoici hanno considerato le
categorie pertinenti all’ordine fisico e non a quello logico, o a
quello logico solo in via del tutto secondaria. E fuori strada A. C.
LLOYD, Grammar and Metaphysics in Stoa, in Probi, in Stoicism, pp.
58-74, in part. p. 70, nell’affermare che lo status ontologico delle
categorie stoiche è quello di λεϰτά. In realtà quelle che noi
chiamiamo impropriamente «categorie» stoiche non sono predicati, ma
generi dell’essere in senso realistico-obiettivo, e un’affermazione
di questo tipo riposa sulla errata assimilazione preliminare di tali
generi dell’essere a predicati, in virtù della quale assimilazione
potrebbe valere l’ulteriore passo che li identifica con i
«significati». Per l’appartenenza delle categorie all’ordine fisico
cfr. V. GOLDSCHMIDT, Système stoicien4, p. 19 segg., con le
osservazioni sull’ambigua posizione di E. Zeller, che inserì la
trattazione delle «categorie» nella parte relativa alla logica
stoica pur rendendosi perfettamente conto dello stretto rapporto
intercorrente fra fisica e teoria dei generi dell’essere (Philos. d.
Gr., Ili, 1, p. 95, nota 2). Un problema potrebbe porsi solo a
proposito dell’ultima delle «categorie» nella quadripartizione
crisippea, quella del relativo, sia per il carattere intrinsecamente
relativo del λεϰτόν (che è una sorta di relazione intercorrente fra
nome e oggetto), sia per la notizia di Sesto Empirico secondo cui
gli Stoici negavano vera e concreta realtà, quindi corporeità,
(ὕποϕξις) ai relativi; cfr. per questo infra, parte VI, nota 254.
94. Per la teoria dello πνεῦμα in Crisippo, che rappresenta un salto
notevole rispetto alla più limitata teoria zenoniana e cleantea;
cfr. la letteratura già citata supra, nota 14; per Crisippo in
particolare GOULD, Philos. of Chrysippus, p. 99 segg.
95. Si parla di σῶμα νοερόν in PLUTARCO, De comm. not., io85d = SVF
II, 313; di πνεμα νοερν in Aezio, I, 6 = SVF II, 1009; di πῦρ νοερόν
in SERVIO, In Aen., VI, v. 727 = SVF II, 1031. L’aggettivo è
largamente usato da Crisippo e lo αἰθήρ viene ad identificarsi
sempre più strettamente con il soffio igneo. Per l’associazione
dell’aria al freddo e all’oscuro cfr. PLUTARCO, De primo frigido,
948d, 952c = SVF II, 430, 429; DIOGENE LAERZIO, VII, 137 = SVF II,
580. Si direbbe che il soffio igneo costituisca ormai anche una
sorta di aria superiore e vivificante, al di sopra dell’aria comune,
anche se questo punto non viene mai esplicitato dalle fonti.
96. Crisippo ha virtualmente allargato il numero degli incorporei,
con la creazione di questa ulteriore forma; ma solo virtualmente;
gli enti matematico-geometrici partecipano a loro modo dello spazio
come estensione e possiedono una forma, non possono esser quindi
definiti incorporei in assoluto. Non ha quindi del tutto ragione di
sottolineare il loro carattere incorporeo J.P. DUMONT,
MoSgeometricus mos physicus, in Sto’tc. Log., pp. 121-134; i veri
incorporei, vuoto, luogo, tempo, sono indefiniti (STOBEO, Eclog. I,
18, 4d= SVF II, 503), e non semplicemente si dividono all’infinito,
ma sono privi di limite e di forma. Cfr. anche infra, nota 98.
97. Epist. ad Herod., 58-59; rimando in proposito a quanto discusso
e citato in L’atomismo di Epicuro fra Democrito e Senocrate, in
Democrito e l’atomismo antico, Atti convegno interri. 1979, Catania,
1980, pp. 367-391.
98. BRèHIER, Théorie des incorporei, p. 5, vedeva in questo passo
una prova del carattere corporeo degli enti matematico-geometrici,
tenuti insieme da una «tensione» come tutti gli enti corporei, e una
riduzione della matematica a fisica (già Simplicio, del resto,
sembra aver inteso la teoria in questo senso). Di contro oggi
DUMONT, art. cit., pp. 127-128. In realtà si tratta di una
descrizione della figura geometrica che non ne fa un corpo a pieno
diritto (altrimenti si tratterebbe di τόνος e non di τάσις), ma un
quasi-corpo. τάσις, come del resto τόνος, come del resto τνος, è
parola di origine musicale; cfr. in proposito JAN, Musici scriptores
Graeci, Lipsiae, 1895, Indices, s. v. Indica qui una certa tensione
estensiva, in virtù della quale la figura acquista una sua
concretezza spaziale definita entro limiti.
99. «Turba causarum», dice di questa divisione così articolata
Seneca, Epist.65, 11 (= SVF II, 346a). Clemente chiarisce che alle
condizioni οὐϰ ἄνευ («sine qua non») possono appartenere incorporei
come il tempo, senza il quale, ad esempio, nessun processo si
compie; tali realtà si dicono quindi cause solo impropriamente,
perché un incorporeo non può essere «causa». Se le variazioni
semantiche nella designazione delle cause appartengano a Crisippo o
alla sua scuola, è impossibile decidere. Il termine προηγούμενος è
di tradizione peripatetica, ma assume grande importanza nel tardo
ellenismo ed è presente soprattutto nella stoa po-stcrisippea. Cfr.
in proposito A. GRILLI, Contributo alla storia di προηγομενος, in
Studi linguistici in onore di V. Pisani, Brescia, 1969, pp. 409-499.
100. Cfr. passi quali Stoic. rep., io44c-d = SVF II, 1163, e
analoghi; cfr. in generale per la critica plutarchea della teodicea
di Crisippo D. BABUT, Plutarque. et le Stoïcisme, Paris, 1969, p.
287 segg.
101. PLUTARCO, De procr. an. in Timaeo, ioi^d; rimando in proposito
a M. ISNARDI PARENTE, Stoici, Epicurei e il «motus sine causa»,
«Riv. Crit. Storia Filos.», XXXV, 1980, pp. 23-31.
102. Crisippo non poteva parlare, in proposito, di semplice
concomitanza fortuita; Alessandro d’Afrodisia (De fato, 25, p. 195,
1 Bruns = SVF II, 948) potrà poi rimproverare agli Stoici di aver
fatto di ogni semplice concomitanza un nesso causale. GOULD,
Philosophy of Chrysippus, p. 79, parla di una «empirical
implication», di una necessità di fatto e non rientrante nell’ordine
logico delle cose: Fabio è nato sotto la costellazione del cane /
Fabio non morirà in mare è un nesso che si verifica realmente, ma
non rientra nell’ordine logico dell’universo; o altrimenti ciò
vorrebbe dire che Crisippo accetta in pieno il determinismo di
Diodoro, e Cicerone sarebbe nel giusto quando lo rimprovera di
contraddizione. La «necessità empirica», non deducibile, può essere
avvicinata alla «causa oscura», la tUXTJ, che sfugge alla
comprensione dell’intelletto raziocinante, ma non si può dire che si
identifichi con questa.
103. Cfr. Servio, In Vergil. Aen., Vili, v. 334, p. 248 Hagen = SVF
II, 972, là ove afferma che «Stoici … nasci et mori fatis dant,
media omnia fortunae».
104. Per le obiezioni di Posidonio alla teoria crisippea
dell’egemonico - e per stretto collegamento alla teoria delle
passioni - cfr. THEILER, Poseidonios, Die Fragmente, Berlin-New York
1982, I, frr. 405-422b (per le parti dell’anima in particolare fr.
414, da Galeno, De Hipp. et Plat, plac, p. 432, 5 segg. Müller; fr.
418, ancora da Galeno, ivi, p. 456, 14 segg. M.). Sulle obiezioni
posidoniane (ancora frr. 408, 410 Theiler) cfr. lo stesso THEILER,
Fragmente, II, p. 350; e GOULD, Philosophy of Chrysippus, p. 189
segg.
105. D. BABUT, Plutarque. De la vertu éthique, Paris, 1969, p. 55
segg., discute il problema delle analogie e delle possibili fonti
comuni (Posidonio?) fra Plutarco e Galeno, con la conclusione che
probabilmente si tratta di argomentazioni risalenti a Posidonio ma
diventate poi molto comuni (p. 62).
106. Cfr. già supra, p. 36, per il problema dell’unitarismo
psichico, e per la differenza fra Zenone e Crisippo su questo punto
sostenuta soprattutto dal POHLENZ, Zenon und Chrysipp, «Nachr.
Göttingen Gesellschaft», 1938, cit. GRAESER, Zenon v. K., p. 158
segg., ha minimizzato tale differenza; attraverso le forzature, la
relazione di Plutarco e di Galeno è comunque abbastanza concordante
da far pensare ad un suo fondamento reale. Il ϰρίσεις ἢ ϰρίσησι
ἐπόμενα (De Hipp. et PI. plac., p. 335, 12 M.) cui il Graeser dà
molto rilievo al fine di dimostrare che anche Crisippo sostenne la
possibilità di ritenere le passioni «conseguenza» di un giudizio,
alla maniera senoniana, sembra smentito dalla più precisa
testimonianza data da Galeno altrove, là ove afferma che Crisippo
non considerò, come Zenone, le passioni solo (μόνον) conseguenze di
giudizi, ma giudizi esse stesse (fr. 408 Theiler = De Hippocr. et
Plat, plac, p. 362, 5 segg.; ove la contrapposizione a Zenone è
esplicita). Cfr. anche infra, nota 112.
107. Il significato di ὑπάρχειν è stato chiarito da V. GOLDSCHMIDT,
ΥΠΑΡΧΕΙΝ et ΤΦΙΣΤΑΝΑΙ dans la philosophie stoïcienne, «Rev. Ét.
Gr.», LXXXV, 1972, pp. 331-344 (poi in Ecrits I, pp. 187-200), in
risposta a P. HADOT (èArchiVf. Begriffscheschichte», XIII, 1969, pp.
115-127): esso significa sussistenza attuale ed è usato in
concomitanza di un concetto di realtà corporea, mentre ὑϕιστάναι si
trova per lo più in concomitanza col concetto di realtà incorporee
(Goldschmidt si guardava peraltro dal generalizzare, in quanto la
distinzione precisa fra i due termini sembra venir compiuta da
Crisippo solo in relazione al concetto di tempo; cfr. infra, parte
IV, note 119 e 150).
108. Cfr. il περιϰάρδιον νόημα di di 34 B 105 Diels-Kranz (da
Stobeo, EcL, I, 49) 53).
109. Su Prassagora e la sua differenziazione dalla seguente
generazione di medici di età ellenistica cfr. F. STECKERL, The
Fragments of Praxagoras of Cos and bis School, Leiden, 1958, p. 2
(fissazione dei rapporti cronologici), 18 segg., 35. Per il giudizio
di Crisippo su questo, e la sua contrapposizione alla posizione
en-cefalocentrica dei successori, cfr. Galeno, De Hippocr. et Plat.
plac., I, 7, p. 145 Mùller = SVF II, 897 (fr. 11 Steckerl).
110. Gli esempi usati da Crisippo sono in genere, letterari; si
tratta quindi di un tipo di linguaggio cui viene conferita una
particolare autorità ed esattezza. Ma alcune testimonianze di Galeno
ci dicono che egli non disdegnava anche di ricorrere al linguaggio
comune, nonostante (cfr. supra, nota 76) la diffidenza da lui
mostrata in genere rispetto agli usi del linguaggio. Cfr. l’analisi
di espressioni e termini come «ti ho toccato il cuore», o «senza
cuore», «di buon cuore», in Galeno, SVF II, 899, 901.
111. Per questi atteggiamenti della filosofia ellenistica nei
riguardi della scienza rimando a quanto detto altrove, M. ISNARDI
PARENTE, Le obiezioni di Stratone, cit., p. 298 segg., e La scienza
ellenistica, «Rivista St. Filos.», XLII, 1987, pp. 273-295, in part.
286 segg.
112. Cfr. THEILER, Fragmente, I, frr. 405-4220; e quanto già detto
supra, nota 106, il problema dell’autonomia delle passioni essendo
in strettissimo rapporto con quello dell’unitarismo psichico. Cfr.
in particolare frr. 411, 412 Theiler; KILB, Grundbegr., p. 7 segg.,
ha voluto identificare il sostantivo ϰρίσεις applicato alle passioni
con quello di δόξαι πρόσϕατοι, «lebhaft empfundene Meinungen» (per
il significato di πρόσϕατος) = recens cfr. infra, parte I, nota
222).
113. Credo sia da riprendersi la supposizione dell’ARNIM,
Quellenstudien zu Philo von Alexandreia, Berlin 1888, p. 129 segg.,
secondo il quale la teoria delle επθειαι non si inquadra rettamente
nel pensiero crisippeo. Fuorviante la supposizione del RIST, Stole
Phllosophy, p. 72, che paragona la εὐπάθεια alla ἀπάθεια alla
oOTaGeiot cinica, anche per la semplice ragione che l’espressione si
trova sempre al plurale e designa alcuni singoli particolari stati e
non una ἔξις generalizzabile.
114. Cfr. supra, nota 43. Va ricordato che, se le virtù non sono per
Zenone né per Crisippo un concetto relativo, lo sono però i doveri,
e soprattutto quei doveri sociali per una parte dei quali, se non
per tutti, può porsi anche il problema del rapporto con la
περίστασις o situazione: cfr. passi quali Diogene L., VII, 109 (=
SVF III, 496), in cui si parla di ϰαθήϰοντα περιστατιϰά ad altri non
soggetti a circostanza. È una relativa concessione a teorie quali
quelle aristonee, ma con una rigorosa circoscrizione dell’ambito al
quale il concetto di situazione e occorrenza può applicarsi.
115. Cfr. in particolare per il concetto (che Cicerone tradurrà con
«ars vivendi») SESTO, Adv. eth., 200 = SVF III, 516; rimando a
Techne, p 329 segg.
116. Cfr. SESTO, Adv. log., I, 432; e LUSCHNAT, Probi, eth.
Fortschritts, p. 181 segg. per la difficoltà della dottrina. La
figura del «progredito al massimo grado» (ἐπ’ ἄϰρον) doveva esser un
tratto caro a Crisippo: cfr. STOBEO, Ecl.y III, p. 906 Hense = SVF
III, 510. NEBEL, Begriff d. Kathekon, p. 453, ha cercato di
ricostruire le fasi del passaggio da προϰύπτων a σοϕός. Cfr. per la
presenza della dottrina della non esistenza del sapiente in Diogene
Cinico, dal quale sarebbe passata, perfezionandosi, nella Stoa
attraverso Zenone, A. JAGU, Zenon de Cit-tìum, Paris, 1946, p. 33,
con riferimento a DIOGENEL., VI, 89.
117. RIST, St. Philosophy, p. 80, fa a questo proposito la giusta
osservazione che la svolta verso la «rispettabilità» è
postcrisippea. Per gli atteggiamenti radicali di Crisippo cfr. SVF
III, 728, 744-48 (da Diogene Laerzio e Sesto Empirico) cfr. G. D. A.
AALDERS, Politicai Thought in the Hellenistic Times, Amsterdam,
1975, p. 81; DORANDI, Filodemo: gli Stoici, p. 96. Nella «non
sussistenza» ordinaria del sapiente sta la vera ragione dell’estrema
difficoltà di trovare città che non deviino dalla norma, giacché
tutte le città esistenti di fatto o quasi hanno tutt’al più un
reggitore «progredito», non un vero sapiente.
118. A. GRILLI, Il problema della vita contemplativa nel mondo
greco-romano, Milano-Roma 1953, p. 94 segg., per un esame
dettagliato della sfumata posizione di Crisippo, quale ci risulta -
etichettata, al solito, come contraddittoria - attraverso Plutarco.
119. Cfr. De comm. not., 1083d = SVF II, 313; di πνεύμα νοερόν = SVF
II, 645, ove ai corpi celesti vengono attribuite per scherno
funzioni amministrative cittadine.
120. Così nei neopitagorici trattati di Diotogene, Ecfanto, Stenida;
cfr. L. DELATTE, Les traités de la royauté de Diotogene, Ecphante,
Sthénidas, Liège-Paris, 1942 (e più di recente H. THESLEFF, An
Introduction to the Pythagorean Writings of the Hellenistic Period,
«Acta Academiae Aboensis», XXIV, 3, 1961).
121. Per la presenza di Antioco di Ascalona nel De legibus cfr. P.
BOY ANCE, Cicéron et le Premier Alcibiade, «Rev. Ét. Lat.», XXII,
1964, pp. 210-255, poi in Études sur Vhumanisme cicéronien,
Bruxelles, 1970 (in part. p. 261 nota 4); con la citazione, a suo
supporto, di Hoyer, Reitzenstein, Theiler. La teoria della legge
naturale, seppur mediata attraverso Antioco (questione che peraltro
deve qui rimanere aperta), è in ogni caso di schietta marca stoica.
122. Per Senocrate cfr. PLUTARCO, De esu carnium, 996b = fr. 99
Heinze, 53 Isnardi Parente; per Teofrasto PORFIRIO, De abstin., III,
25, ivi riconosciuto da J. BERNAYS, Theophrasts Schrift über die
Frömmigkeit, Berlin 1866. Rimando a M. ISNARDI PARENTE, Le «tu ne
tueras pas» de Xénocrate, in Histoire et Structure. A la mémoire de
V. Goldschmidt, Paris, 1985, pp. 161-172.
123. SESTO, Pyrrh. Hypot., III, 218; riecheggiato da autori
cristiani, quali CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrept., 5, 66, 3, I, p.
50 Stählin, o TAZIANO, Oratio ad Graecos, 3 (SVF I, 159).
124. Per l’attenzione particolare portata al linguaggio tecnico di
Antipatro nella testimonianza di Simplicio cfr. A. SCHMEKEL, Die
Positive Philosophie in ihrer Entwicklung, ed. J. SCHMEKEL, Berlin
1938, I, p. 629 segg. Per le distinzioni assai sottili operate
all’interno della categoria di qualità cfr. infra, parte IV, note
151, 252.
125. Cfr. in particolare DE LACY, Stoic Categories as method.
Princ., pp. 249-250, per il Xexxóv come un tipo di incorporeo
qualitativamente differenziato. Ciò è stato certamente il veicolo
per un ampliamento della teoria dei generi dell’essere; mi sembrano
ancora valere le buone ragioni in base alle quali SCHMEKEL, Positive
Philos., I, p. 627 segg., riteneva doversi ad Antipatro la
distinzione fra qualità corporee e incorporee. A tale attribuzione
si attiene ancora la REESOR, Stoic concepì Quality, p. 50.
126. Rimando in proposito a M. ISNARDI PARENTE, Simplicio, gli
Stoici e le categorie, «Rivista Storia Filos.», XL, 1986, pp. 3-18,
in part. p. 8, nota 13 e p. 10, nota 17. Le analogie fra la
«divisione» di Simplicio e quella, soprattutto, di Ermodoro erano
state notate dal RIETH, Grundbegriffe, p. 91 nota 4; questo tema ha
poi avuto ampio sviluppo in KRèMER, Piatonismus hellen. Philos., p.
85 segg. Sia Rieth (il quale, op. cit., p. 70 segg., tenta una
interpretazione conciliatoria fra la teoria quadripartita crisippea
e quella qui riportata da Simplicio in base a PLOTINO, Enn.,VI, I,
30) sia, più sistematicamente, Krämer, sostengono la tesi della
continuità fra teoria accademica e teoria stoica; ma si tratta, più
che di continuità, di un riavvicinamento a teorie accademiche
verificatosi nella fase di transizione della scuola stoica.
127. La distinzione risale probabilmente a Speusippo (SESTO, Adv.
log. I, 146 = fr. 29 Lang, 34 I. P.). Cfr. infra, parte V, nota 41;
già notato dal Kemke, cui si riferisce A. J. NEUBECKER, Die
Bewertung der Musik bei Stoikern und Epikureern, Berlin 1957, p. 12.
Cfr. GRILLI, Contributo, p. 483 nota 17; e quanto detto nel commento
al fr. 34 in SPEUSIPPO, Frammenti, pp. 243-246.
128. In generale su Diogene M. SCHèFER, Diogenes als Mittelstoiker,
«Philolo-gus», XCI, 1936, pp. 174-196. Cfr. anche H. KOLLER, Die
Mimesis in der Antike. Nachahmung, Darstellung, Ausdruck, Bern,
1954, pp. 152 segg.; e NEUBECKER, Bewertung, cit.
129. Somiglianze e analogie fra l’ideale stoico e l’ideale
ciceroniano sono messe in luce da H. v. ARNIM, Dio von Prusa,
Berlin, 1898, pp. 91-92.
130. PORFIRIO, In Ptotem. Harm., p. 30, 1 segg. Dùring = fr. 9
Heinze, 87 I. P. Sulla concezione del tempo di Senocrate - giacché
il frammento, a parere di chi scrive, riporta autentica teoria
senocratea - rimando ancora al mio scritto Un fragment de Xénocrate
et le problème de la connaissance sensible, pp. 293 segg.
131. Agli Stoici è attribuita anche una teoria della corporeità
tridimensionale, affine a quella accademica (cfr. infra, parte VI,
nota 235); ma è chiaro che non si tratta della concezione più tipica
della corporeità così come la Stoa la intende, dal momento che il
concetto di corporeità è applicabile a entità come le virtù o le
funzioni psicologiche, né si adatta a quelτνος o a quello πνεμα a
quello 7cveùfjia che del corporeo gli Stoici ritengono l’essenza.
Cfr. la critica, con la quale concordo, mossa al Graeser dal
MANSFELD, «Mnem» 1978, p. 158 segg., a proposito
dell’interpretazione del concetto di corporeità nella Stoa.
132. Rimane classico in proposito M. POHLENZ, Antìkes Fùhrertum.
Ciceros de officiis und das Lebensideal des Panaitios, Leipzig,
1934, rist. anas:. Amsterdam 1967. Ma su virtù attiva e
contemplativa in Panezio cfr. le pagine, più sfumate, di B. TATAKIS,
Panétius de Rhodes, le fondateur du moyen Stoïcisme. Sa vie et son
oeuvre, Paris, 1931, p. 163 segg.
133. Così E. WEIL, Remarques sur le «matérialisme» des Stoïciens, in
Mélanges A. Koyré, Paris, 1966, pp. 556-573; a proposito del quale,
prendendone le distanze, K. v. FRITZ, Zenon v. K., coli. 100-101.
134. S. SAMBURSKY, The Physics of the Stoics, London, 1959, p.
VIIsegg., 52 segg. e altrove passim.
135. La rivalutazione della logica stoica come «logica
proposizionale» (formula della quale poi si è fatto un certo abuso)
si può dire abbia preso inizio da J. LUKASIEWICZ, Zur Geschichte der
Aussagenlogik, in «Erkenntnis», 1935, poi in Selected Works,
Amsterdam, 1970 (trad. ingl.: On the History of the Logic of
propositions). Tuttavia lo studio analitico delle sue forme ha preso
l’avvio soprattutto a partire dal già più volte citato studio di B.
MATES, Stoic Logic, Barkeley-Los Angeles, 1953. C•r.5 in Italia, M.
MIGNUCCI, La logica degli Stoici, Padova, 1967; gli studi citati
sopra di M. FREDEe di A. VIRIEUX-REYMOND; e il volume collettivo più
volte citato del Colloque di Chantilly, 1976, Les Stoïciens et leur
logique, che contiene anche una bibliografia essenziale (p. 476).
Altri saggi verranno citati di volta in volta nel corso delle note.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Le opere
I. Raccolte di frammenti
Una prima raccolta di frammenti di Zenone di Cizio e di Cleante è
quella di C. WACHSMUTH, De Zenone et Cleanthe Assio commentatio
prima, Gottingae, 1874, seguita da quella di A. C. PEARSON, The
Fragments of Zeno and Cleanthes, London, 1891. Resta ancora
fondamentale e imprescindibile la raccolta di H. VON ARNIM,
Stoicorum Veterum Fragmenta, Lipsia 1903-1905, ed. anast.
Stuttgardiae, 1964 (I, Zeno et Zenonis discipuli; II, Chrysippi
fragmenta logica et physica; III, Chrysippi fragmenta moralia;
Fragmenta successorum Chrysippi) cui fu aggiunto nel 1924 un vol. IV
(Indices) da parte di M. ADLER, anch’esso ristampato anastaticamente
nel 1964. Per le più antiche edizioni, a partire dall’inizio del XIX
secolo, cfr. le notizie date dall’Arnim stesso nella Praefatio al
volume I dei Fragmenta (d’ora in poi indicati in questo testo con la
sigla SVF).
E in corso una serie di nuove iniziative volte a rifare su nuove
basi e con nuova impostazione metodologica la raccolta dei frammenti
e delle testimonianze relative agli stoici antichi. Ha avuto in un
primo tempo un’edizione provvisoria la raccolta di K. H. HÜLSER, Die
Fragmente zur Dialektik der Stoiker (= FDS), pubblicata in fascicoli
ciclostilati presso l’Università di Costanza nel 1981; recentissima
l’edizione in 4 voll., Stuttgart-Bad Cannstatt, 1987-88. E anche in
preparazione una nuova raccolta generale dei frammenti ad opera di
J. MANSFELD (Università di Utrecht).
II. Fonti antiche sulla Stoa
Numerose sono le opere antiche importanti per la conoscenza della
Stoa, le cui edizioni peraltro non possono esser che citate
sommariamente in questa sede. Si sono tenute presenti le edizioni
Teubner delle opere di Cicerone, di cui oggi cfr. le edizioni
anastatiche (così per il De finibus bonorum et malorum, ed. TH.
SCHICHE, 1915; le Tusculanae Disputationes, ed. M. POHLENZ, 1918;
gli Academici, ed. O. PLASBERG, 1922; il De natura deorum, ed. O.
PLASBERG, 1927, poi W. AX-O. PLASBERG, 1933; il De fato, ed. W. Ax,
1938). Particolare considerazione merita l’ampio commento di A. S.
PEASEal De natura deorum, Cambridge (Mass.), 1955, 2a ed. Darmstadt,
1968. Di Plutarco andrà citato almeno De Stoicorum repugnantus e De
communibus notitiis adversus Stoicos, per cui, oltre l’edizione di
Lipsia, 1895, di G. BERNARDAKIS (Plutarchi Moralia VI), cfr. M.
POHLENZ, Lipsiae, 1952; M. POHLENZ-R. WESTMAN, Lipsiae, 1959; e la
più recente, con ricchissimo commento, di H. CHERNISS, Plutarch’s
Moralia, XIII, 2, Cambridge (Mass.)-London, 1976.
Di Galeno occorrerà qui far menzione in particolare dell’opera De
Hippocratis et Platonis placitis, importantissima per la
ricostruzione del De anima e del De affectibus crisippei, per la
quale ci si è basati sull’edizione di I. MèLLER, Lipsiae, 1874.
Per le opere, per lo più filodemee, reseci dalla tradizione
papiracea, si troveranno notizie date di volta in volta nelle note
apposite: le opere di Filodemo sono tutte oggi in corso di nuova
edizione critica, sulla base di nuove letture autoptiche, a cura del
Centro Internazionale per lo studio dei papiri ercolanesi, diretto
da M. Gigante. Da citarsi qui in particolare, per le testimonianze
su Diogene di Babilonia, PHILODEMUS. Ueber die Musik IV Buch,
ed. A. J. NEUBECKER (La Scuola di Epicuro IV), Napoli, 1986.
Per Diogene Laerzio, la recente edizione di H. S. LONG, Oxonii,
1964, 2a ed. 1966, va integrata sulla base non solo di edizioni
critiche più antiche, che non hanno perduto la loro importanza, ma
anche delle osservazioni critiche contenute in opere quali M.
GIGANTE, Diogene Laerzio: Vite dei filosofi, Bari, 1962, 2a ed.
1975, e, per quel che riguarda il frammento dossografico di Diocle
di Magnesia in Vitae Philos., VII, dall’edizione di U. EGLI, Das
Diokles fragment bei Diogenes Laertios, cfr. oggi Hülser, FDS I-IV
passim (prospetto in vol. IV, p. 1856).
III. Traduzioni italiane
N. FESTA, I frammenti degli Stoici antichi, I: Zenone di Ozio, Bari,
1931; II, Cleante di Asso, Bari, 19321.
R. ANASTASI, I frammenti degli Stoici antichi, III: Crisippo: i
frammenti morali, Padova, 1962 (traduce il III volume degli SVF, a
parte i «Successori di Crisippo»).
D. PESCE, Il pensiero stoico ed epicureo, Firenze 19582.
Una traduzione sistematica di scritti concernenti la logica stoica è
ora in corso ad opera di M. BALDASSARREsotto il titolo generale La
logica stoica. Testimonianze e frammenti, testi originali con
introduzione e traduzione commentata a cura di M. Baldassarri, Como
1985-86 (voll. I, Introduzione alla logica stoica; II, Crisippo: il
catalogo degli scritti e i frammenti dei papiri; III, Diogene
Laerzio, Dalle «Vite dei filosofi», VII; IV, Sesto Empirico, Dai
«Lineamenti pirroniani» II: Dal «Contro i matematici», Vili; VI,
Cicerone, Testi dal «Lucullus», dal «De fato», dai «Topica»; VII,
Alessandro di Afrodisia, Dal «Commento agli Analitici Primi» e dal
«Commento ai Topici»; VIIA, Galeno, Dalla «Introduzione alla
dialettica»).
Cfr. anche, a cura dello stesso Baldassarri, già precedentemente,
PLUTARCO, Gli opuscoli contro gli Stoici, Trento, 1976, voll.
I (Delle contraddizioni degli Stoici. Gli Stoici dicono cose
più assurde dei poeti) e II (Delle nozioni comuni, contro gli
Stoici).
La critica
Non esiste, di mia conoscenza, una bibliografia recente di carattere
esaustivo o per lo meno esauriente sulla Stoa. Ci si potrà ancora
rifare a quella di P. M. SCHUHL, L’état des études stoïciennes, in
Actes VII Congrès Ass. Budé, 1964, pp. 263-276; peraltro, dagli anni
Sessanta a oggi, la letteratura sulla Stoa si è assai arricchita.
Bibliografie selettive potranno vedersi in opere quali Les Stoïciens
et leur logique, o Problems in Stoicism; o in saggi complessivi
sulla scuola quali RIST, Stoic Philosophy, o dedicati a singoli
pensatori della Stoa, quali le monografie di A. GRAESER su Zenone,
di J. B. GOULD su Crisippo ecc., che si citano infra.
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J. P. DUMONT, Diogène de Babylone et la déesse Raison. La Métis des
Stoiciens, «Bull. Ass. G. Budé», 1984, pp. 260-278.
La presente edizione
Finché non esisterà una nuova edizione completa, dedicata a tutta la
Stoa antica nel suo complesso, di frammenti e testimonianze, la
raccolta di H.v. ARNIM, Stoicorum Veterum Fragmenta, continuerà a
costituire base imprescindibile per ogni ulteriore opera di tipo
complessivo riguardante questa scuola. La presente traduzione
continua quindi a basarsi in linea di principio su di essa.
Tuttavia, soprattutto per quanto riguarda Crisippo, alcuni
cambiamenti rilevanti sono stati operati. Tutto ciò che porta
esplicitamente il nome di Crisippo è stato scorporato dal II e dal
III volume della raccolta dell’Arnim, in quanto rappresenta un tutto
coerente di sicura attribuibilità al filosofo; mentre le
testimonianze (che nel volume II e III dell’Arnim venivano distinte
dai passi sicuramente crisippei solo mediante alcuni artifici
tipografici) sono state tutte raggruppate insieme a costituire la VI
parte.
Ovviamente, i cambiamenti non si limitano a questo. Sono stati
omessi, dandone in genere notizia, alcuni passi che l’Arnim a suo
tempo inserì nella sua raccolta, perché considerati o talvolta
puramente ripetitivi, o, ed è il caso più frequente, tali da
rappresentare un ulteriore svolgimento oppure una semplice eco di
teorie stoiche, ma non una vera e propria testimonianza sulla Stoa
(è il caso, questo, di diversi passi di Filone Alessandrino, cui
l’Arnim fece una parte troppo generosa negli SVF). Sono stati al
contrario aggiunti passi che sfuggirono all’Arnim o che egli non
considerò rilevanti ai suoi fini, mentre appaiono invece esserlo ad
un più attento esame; o passi di opere reseci dalla tradizione
papiracea o epigrafica (come nel caso di Diogene di Enoanda) ancora
non emersi o non posti nella debita luce quando l’Arnim compose la
sua raccolta; per ciò che riguarda la tradizione papiracea e gli
studi papirologici, in molti casi si è semplicemente compiuta una
revisione di brani già dall’Arnim inseriti, condotta in base alle
nuove edizioni che si son fatte e si vanno compiendo e rinnovando
nel corso degli anni più recenti. Per l’aggiunta di frammenti o
testimonianze relative a problemi logico-dialettici è stato prezioso
il confronto con la nuova raccolta di K. HÈLSER, Die Fragmente zur
Dialektik der Stoiker; in ogni caso, vastissima presentandosi la
messe di testimonianze offerta da quest’ultima, si è fra esse
trascelto ciò che sembrasse più significativo per l’intelligenza
filosofica del testo o più nuovo rispetto a quanto già raccolto
dall’Arnim e tale da allargare l’orizzonie della nostra conoscenza
della Stoa antica, limitandoci necessariamente a rinviare ai FDS per
una visione più completa.
Si è talvolta cercato di evitare l’eccessivo frazionamento cui
esigenze di presentazione analitica del materiale avevano condotto
l’Arnim, e di ricostruire il più possibile l’unità di alcuni testi
di provenienza dossografica, quale ad esempio quelli di Diogene
Laerzio o di Cicerone, almeno in alcune opere come il De natura
deorum, allo scopo di rendere alla testimonianza la sua vitalità.
I criteri usati per le note e la bibliografia si adeguano
sostanzialmente a quelli già usati per l’edizione delle Opere di
Epicuro in questi stessi «Classici della Filosofia». La bibliografia
ha carattere necessariamente selettivo, vastissima essendo la
fioritura di studi sulla Stoa soprattutto in anni più recenti.
All’ingrosso, e con le inevitabili lacune che questa pur necessaria
selezione prescrive, si è tenuta presente la letteratura critica
fino al 1986; eventuali contributi più recenti vengono citati di
volta in volta. Per l’aiuto relativo alla stesura della bibliografia
si ringrazia la dott.ssa Giuseppina Santese Saraceno.
1. Sui pregi e i difetti di questi due volumi, e sulle
caratteristiche che li rendono interessanti, ma difficilmente
utilizzabili come base di lavoro, cfr. infra parte I, nota 90.
2. La scelta antologica dei passi e la traduzione dei medesimi sono
di R. Mondolfo; di D. Pesce l’Introduzione critica e il commento.
3. Contiene articoli di A. A. Long, F. H. Sandbach, "Εννοια and
πρόληψις J. M. Rist, A. C. Lloyd, S. G. Pembroke, I. G. Kidd, G.
Watson, molti dei quali vengono citati nelle note di questo volume.
4. Contiene una serie numerosa di contributi, molti dei quali
vengono citati di volta in volta, di J. Barnes, H. Barreau, J.
Bertier, J. Brunschwig, M. Darakii Mallet, J. P. Dumont, U. Egli, V.
Goldschmidt, R. Goulet, A. Graeser, C. Imbert, G.B. Kerferd, I.G.
Kidd, A.C. Lloyd, A. A. Long, M. Mignucci, J. Moreau, P. Pachet, P.
Pasquino, J. M. Rist, G. Verbeke, F. Caujoulle Zaslawsky.
5. Contiene contributi, anch’essi via via citati infra, di J.
Müller, M. Frede, A. Graeser, A. A. Long, G. B. Kerferd, R. B. Todd,
M. Lapidge, M. E. Reesor, C. Stough, A. C. Llyod, L G. Kidd, J. M.
Rist, F. E. Sparshott.
6. Raccolta di scritti precedenti, quelli sulla Stoa risalenti al
1957.
7. Cfr. supra per la citazione dell’originale latino; si torna a
citare questa che non costituisce una semplice traduzione, per gli
strumenti aggiornativi dei quali è corredata.
8. A parte casi particolari, non viene ripetuto ciò che si trova già
citato nella bibliografia generale: nella quale potrà quindi
trovarsi molto di riguardante singoli filosofi. Così pure non
vengono ripetuti i titoli dall’una all’ahra sezione di questa
rubrica nel caso che riguardino insieme due o più autori.
9. Si tralascia molto della vastissima bibliografia riguardante
l’inno a Zeus, costituita di scritti spesso vertenti sulla lezione
filologica di singoli versi, della quale si darà conto più
ampiamente nelle note della II parte relative all’inno medesimo.
10. Per il commento di A. J. NEUBECKER all’edizione di
FILODEMO, De musica, IV, cfr. supra, II, Fonti antiche.
PARTE I
ZENONE DI CIZIO
NOTA BIOGRAFICA
La cronologia di Zenone è incertissima. Nato nella città di Cizio,
nell’isola di Cipro, fonti diverse lo dànno come vissuto 72, 98 e
perfino 101 anni; poiché è certa la sua data di morte (262/1 a. C),
la data della sua nascita oscilla fra il 363/2 e il 334/3 a. C; e
quindi si pone fra il 341 e il 312 la data del suo arrivo ad Atene,
se veramente, come vuole un biografo, vi giunse a 22 anni. Varia, di
conseguenza, l’attendibilità delle notizie circa le sue
discepolanze. Una data più remota dell’arrivo ad Atene permetterebbe
di dar credito alla notizia di un discepolato presso Senocrate,
morto nel 314 a. C; è certo tuttavia che egli fu alla scuola del
successore di Senocrate Pole-mone. Il suo primo maestro in Atene,
secondo la tradizione biografica più accreditata, dovrebbe essere
stato il cinico Cratete, lasciando la cui scuola sarebbe poi passato
all’Accademia; altre notizie lo dànno anche uditore di Stilpone
Megarico e di Diodoro Crono, con i quali ebbe vivaci polemiche.
Giunse alla filosofia dal commercio, dopo aver perduto i suoi beni
in un naufragio (a meno che anche questa non sia tradizione
aneddotica, forgiata sui luoghi comuni connessi alla sua origine
fenicia, assai spesso rimproveratagli). Aprì la sua scuola ad Atene
all’estremo scorcio del IV secolo sotto il Portico dipinto, non
avendo lo stato giuridico di cittadino che gli permettesse di
acquistare un fondo; tuttavia godeva in Atene di una posizione di
rilievo, come dimostra il fatto che fu dagli Ateniesi onorato con un
pubblico decreto, una effigie in bronzo, una corona, una tomba nel
Ceramico; una fonte dice che gli fosse stata offerta la stessa
cittadinanza, da lui rifiutata. Senza partecipare direttamente alla
vita politica, manifestò sentimenti filomacedoni almeno nei riguardi
di Antigono Gonata, il figlio di Demetrio Poliorcete assurto al
regno di Macedonia nel 276; presso di lui, che lo aveva invitato
alla sua corte, mandò il discepolo prediletto Perseo, insieme con un
altro discepolo, Filonide di Tebe. La sua scuola conobbe un rapido
fiorire e si impegnò in una gara e una polemica assai vivace con
l’Accademia di Arcesilao, che aveva assunto una impostazione
scetticizzante. Morì, come si è detto, nel 262/1.
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, VII, I segg. (SVF I, i)
Zenone, figlio di Mnasea (o Demea), era di Cizio, nell’isola di
Cipro, una città greca che aveva avuto dei coloni fenici. Sembra che
— come dice Timoteo di Atene nelle sue Vite1 — avesse il collo
piegato da una parte; e Apollonio di Tiro2 ci dice che era gracile,
abbastanza alto, di colorito bruno, ragion per cui lo chiamavano
anche Clematide egizia, a quanto, nel primo libro dei Proverbi,
racconta Crisippo3; aveva grosse le gambe, ma nel complesso era
floscio e malaticcio. Per questo — come riferisce Persèo nei suoi
Ricordi conviviali — rifiutava la maggior parte degli inviti a
pranzo. Si dice che gli piacesse mangiare fichi verdi e starsene a
prendere il sole.
Come già si è detto in precedenza4, fu allievo di Cratete. Dicono
che poi fu anche alla scuola di Stilpone e — come dice Timocrate nel
Dione — per dieci anni a quella di Senocrate, e successivamente fu
anche allievo di Polemone5. Ecatone e Apollonio di Tiro, nel libro I
del Zenone6, narrano che, essendo egli andato a interrogare
l’oracolo circa il da farsi per vivere nel miglior modo possibile,
il dio gli rispose: «procura di eguagliarti ai morti»; egli
comprese, e si dedicò alla lettura degli antichi. Quanto a Cratere,
si dice che venne in contatto con lui nel modo seguente. Mentre
tornava dalla Fenicia, ove aveva fatto acquisto di porpora, presso
il Pireo fece naufragio; sbarcò allora e sali ad Atene — aveva in
quel periodo già treni’anni — e si mise a sedere presso un venditore
di libri; e ascoltando quegli, che leggeva il libro II dei
Memorabili di Senofonte, dilettandosi altamente chiese dove fosse
mai possibile trovare uomini di tal fatta. Proprio in quel momento
passava per strada Cratete; e il libraio, indicandoglielo, gli
disse: «segui costui».
Da allora divenne discepolo di Cratete, e si dedicò con tutte le sue
forze alla filosofia; però provava vergogna di fronte all’impudenza
dei Cinici. Si racconta che Cratete, volendo guarirlo da ciò, un
giorno gli diede una pentola con polenta di lenticchie da portar
fuori per il Ceramico; non appena si accorse che quello si
vergognava e cercava di nascondere la pentola, la ruppe con un colpo
di bastone; e mentre Zenone fuggiva con tutta la polenta che gli
correva giù per le gambe, gli andava gridando: «ma perché scappi,
fenicino mio? non ti è proprio successo niente di male!».
Rimase per un certo tempo alla scuola di Cratete; e poiché quello fu
il periodo in cui scrisse la Repubblica, alcuni per scherzo dicono
che egli la scrivesse «sulla coda del cane»7. Ma egli, oltre alla
Repubblica, scrisse anche tutte queste altre opere: Della vita
secondo natura; Dell’impulso o della natura umana; Degli affetti;
Del dovere; Della legge; Della vista; Dell’universo; Dei segni;
Questioni pitagoriche; Questioni generali; Delle forme del dire;
Problemi omerici, libri V; Dell’audizione poetica. Scrisse inoltre:
Arte Retorica; Soluzioni; Confutazioni, libri II; Memorabili di
Cratete; Etica.
Queste sono le sue opere8.
Dopo parecchio tempo abbandonò Cratete, e per venti anni seguì gli
altri maestri che sopra abbiamo ricordato. Cosicché dicono che alla
fine esclamasse: «ho proprio fatto buona navigazione quel giorno che
feci naufragio!» Ma vi sono altri che affermano che questa frase la
diceva nel tempo in cui era discepolo di Cratete. Non manca poi chi
dice che Zenone, quando la sua nave fece naufragio, si trovava già
in realtà ad Atene, e che alla notizia disse: «bene fa la sorte a
spingermi in tal modo alla filosofia»9. Altri ancora dicono che
egli, sbarcato ad Atene, vendé egli stesso il carico per potersi
dare alla filosofia.
Usava far lezione sotto il Portico Dipinto, detto anche Portico di
Pisianatte («dipinto» perché vi erano pitture di Polignoto), perché
voleva che il suo insegnamento si svolgesse lontano dalla folla.
Sotto i Trenta Tiranni in quel luogo erano stati uccisi mille e
quattrocento cittadini. Molti accorrevano ad ascoltarlo; e così
furono detti «stoici», ossia «quelli del portico», nome che rimase
ai loro successori; mentre all’inizio, come dice anche Epicuro nelle
sue lettere, erano stati semplicemente chiamati zenoniani10. Ma
Eratostene, nel libro VIII Sulla commedia antica, racconta che
anche i poeti che si intrattenevano in quel luogo, precedentemente,
erano già stati chiamati «stoici», e che questi avevano reso ancor
più famoso il nome di stoico11.
Gli Ateniesi resero grandi onori a Zenone: giunsero fino al punto di
affidargli le chiavi della città, a tributargli una corona d’oro,
un’effigie in bronzo. Tale onore gli fu tributato anche dai suoi
concittadini, nella convinzione che la statua di quell’uomo fosse un
ornamento per la città. Lo rivendicavano come loro concittadino
anche gli abitanti della colonia cizia in Sidone. Lo considerava con
benevolenza anche Antigono; ogni volta che veniva ad Atene si
intratteneva a lungo ad ascoltarlo, e lo invitava ad andare alla sua
corte. Egli però rifiutò tale invito per sé, e mandò in sua vece uno
dei suoi discepoli, Persèo; questi era figlio di Metrèo, anch’egli
oriundo di Cizio; la sua acme si pone nella Olimpiade 130a, quando
Zenone era ormai vecchio12. Apollonio di Tiro, nella sua opera su
Zenone, ci ha conservato la lettera di Antigono, che è la
seguente13:
«Il re Antigono saluta il filosofo Zenone. Mentre mi considero al di
sopra di te per fortuna e gloria, mi dichiaro inferiore a te per
intelletto, per cultura, e per quella felicità perfetta che tu
saldamente possiedi. Ho deciso perciò di invitarti presso di me, e
son persuaso che non respingerai la mia preghiera. Procura di
legarti strettamente a me, riflettendo che con questo non sarai
educatore di me solo, ma, insieme con me, di tutti i Macedoni: è
chiaro infatti che chi educa e guida alla virtù l’uomo che sta a
capo di tutti i Macedoni educa anche i sudditi di questo a divenire
uomini buoni, poiché, quale è il principe, tali con ogni probabilità
saranno per lo più i sudditi».
Questa fu la risposta di Zenone:
«Zenone saluta il re Antigono. Apprezzo il tuo desiderio di sapere,
giacché vedo che tu aspiri al possesso di una cultura vera e
veramente utile, non di quella del volgo, che porta solo al
pervertimento dei costumi. Chi aspira alla filosofia con tutte le
forze dell’animo e aborre da quel tanto decantato piacere che snerva
l’animo di certi giovani, chiaramente è portato a nobile sentire non
solo per sua natura, ma anche per sua determinata elezione. Una
nobile natura rafforzata dall’esercizio della moderazione e da una
istruzione aliena da malevolenze perviene facilmente al perfetto
possesso della virtù. Ma, quanto a me, sono sofferente, e la mia
infermità è aggravata dalla vecchiaia; ho infatti già ottant’anni14!
Per questo non posso venire a vivere presso di te. Ti mando però
alcuni di quelli che mi sono compagni nell’esercizio della
filosofia; essi non mi sono inferiori nell’esercizio della virtù, e
mi sono superiori per vigore fisico. La consuetudine con loro ti
permetterà di diventare il primo fra coloro che possiedono la
felicità perfetta».
E così gli mandò Persèo e Filonide di Tebe15; di entrambi Epicuro fa
menzione nell’epistola al fratello Aristobulo, come di conviventi
con il re Antigono16.
Mi sembra opportuno riportare a questo punto il decreto degli
Ateniesi che riguarda Zenone. Esso suona nel modo seguente17:
«Sotto l’arcontato di Arrenide, nella quinta pritania della tribù
Acamantide, il giorno 11 del mese di memacterione, ventitreesimo
della pritania, in assemblea plenaria, il presidente Ippone di
Cratistotele, del demo di Sipete, e i suoi colleghi di presidenza,
misero ai voti il decreto; e su di esso parlò Trasone di Trasone,
del demo di Anacea:
Poiché Zenone di Cizio, figlio di Mnasea, per molti anni ha fatto
professione di filosofia nella nostra città e la sua condotta è
stata ottima sotto tutti i rispetti; poiché egli ha incitato alle
azioni più nobili i giovani che si accostavano a lui, esortandoli
alla virtù e alla saggezza, e a tutti offrendo in esempio la sua
stessa vita, condotta in assoluta coerenza con la filosofia che egli
professava; il popolo ha decretato — con buona fortuna — di
tributare lode a Zenone di Cizio figlio di Mnasea, di incoronarlo
con le corone d’oro, e di costruirgli a spese pubbliche una tomba
nel Ceramico. Il popolo decide anche di eleggere subito cinque
uomini che si occupino della preparazione della corona e della
costruzione della tomba e lo scrivano dell’assemblea scriverà il
decreto su due stele, che sarà permesso esporre l’una nell’Accademia
e l’altra nel Liceo. La spesa per le stele sarà suddivisa ad opera
del magistrato che presiede all’amministrazione, sì che tutti vedano
come il popolo di Atene rende onore a tutti i buoni, sia vivi che
morti».
E per la preparazione della corona e della tomba vennero eletti
Trasone di Anacea, Filocle del Pireo, Fedro di Anaflisto, Medone di
Acarne, Micito di Sipaletto, Dione di Peania.
Questo per quanto riguarda il decreto.
Antigono di Caristo18 dice che egli non rinnegò mai la sua patria
Cizio; trovandosi fra i contribuenti per la costruzione di un bagno
pubblico, quando vide che il suo nome era stato scritto sulla stele
come «Zenone filosofo», volle che fosse aggiunto anche «di Cizio».
Si dice che portasse con sé denaro in una ampolla, sulla quale aveva
posto un coperchio concavo, e ciò perché il suo maestro Cratete
avesse di che soddisfare immediatamente i propri bisogni. Infatti
egli era, dicono, venuto ad Atene con più di mille talenti, e li
aveva impiegati nel prestito marittimo. Ma era solito cibarsi solo
di piccoli pani e di miele, e bere un vinello da poco, ma di buon
profumo; raramente ebbe rapporti amorosi con giovinetti, una volta o
due soltanto con una meretrice, proprio per non apparire misogino.
Abitava nella stessa casa con Persèo: e una volta che questi
introdusse in casa una giovane flautista, subito Zenone la spinse
verso Persèo e si ritirò. Comunque sapeva adattarsi a ogni
circostanza: più volte il re Antigono banchettò con lui e lo portò
seco a festini presso il citaredo Aristocle; tuttavia poi Zenone
fuggiva di nascosto.
Raccontano che rifuggisse dalla folla eccessiva; si metteva a sedere
sempre all’estremità della panca, per essere libero dalla folla
almeno da una parte; non passeggiava mai con più di due o tre
persone; a quelli che gli facevano ressa attorno talvolta chiedeva
una moneta di bronzo, cosicché quelli, per non dovergliela dare, si
facevano da parte, come racconta Cleante nell’opera Sulla moneta di
bronzo19.
Quando molta gente gli si affollava intorno, egli, mostrando il
recinto ligneo dell’altare che si trovava all’estremità del portico,
diceva: «quello un tempo stava nel mezzo, poi fu posto in disparte
perché non desse fastidio; e così anche voi, se vi toglierete di
mezzo, ci darete molto meno fastidio».
Democare di Lachete una volta lo salutò con molta effusione e lo
pregò di dire e scrivere per lui, esponendogli le sue necessità, ad
Antigono, giacché questi non gli negava niente: ma Zenone, dopo
averlo ascoltato, non volle avere più niente a che fare con lui20.
Si dice che Antigono, alla morte di Zenone, esclamasse: «quale
teatro ho perduto!» Quindi, tramite il suo legato Trasone, si
interessò presso gli Ateniesi perché egli avesse la tomba nel
Ceramico. A chi gli chiedeva perché lo ammirasse tanto, rispose:
«non si montò mai la testa per i grandi doni ricevuti da me, né mai
mi apparve meschino».
Era accuratissimo nella ricerca e portava estrema esattezza in tutto
ciò che faceva. Perciò Timone nei Silli21 dice di lui: «ho visto una
vecchia fenicia ingorda, gonfia di fumo e di boria, piena di
bramosia. Ora, le fibre del suo tessuto troppo sottile sono andate
in malora; aveva poi un intelletto inferiore a quello di uno
strumento a corde22». Era solito disputare col dialettico Filone, e
si dava allo studio insieme con lui; questi fu ammirato da Zenone,
che era più giovane di lui, non di me no di quanto lo era il suo
maestro Diodoro23. Ma Timone disse che intorno a lui stava tutta
gente nuda e sordida: «raccoglieva intorno uno stuolo di miserabili
servi, i più sciagurati e affamati che vi fossero»24; e che egli
stesso aveva il volto arcigno e sgradevole, e la fronte sempre
corrugata. Era eccessivamente dimesso, e, col pretesto
dell’economia, mostrava una tirchieria indegna di un greco. Se
motteggiava qualcuno, lo faceva con concisione e senza dilungarsi
troppo, ma con la precisione di uno che colpisca di lontano un
bersaglio. Per esempio una volta disse di un bellimbusto che
indugiava a passare un rigagnolo di acqua melmosa: «ha ragione a
guardare con sospetto la melma: infatti non ci si può specchiare». E
ad un Cinico che gli chiedeva olio per la sua ampolla, dicendo che
non ne aveva, lo rifiutò; e mentre quello se ne andava lo esortò a
considerare chi di loro due fosse più impudente.
Amava teneramente Cremonide25; e una volta che si erano messi a
sedere accanto a lui Cremonide e Cleante, egli si alzò; poiché
Cleante se ne meravigliava, disse: «sento dire dai buoni medici che
il riposo è il miglior rimedio contro gli stati febbrili».
Durante un banchetto, si trovava fra due convitati, e quello più in
alto colpì col piede quello più in basso; egli allora rispose,
colpendolo col ginocchio; e poiché quello si rivoltava gli disse: «e
che? chi sta di sotto di te credi che sia disposto a sopportare
tutto ciò che fai?» Ad un amante di fanciulli disse: «non hanno
cervello né i ragazzi, né i maestri che passano tutto il loro tempo
con loro». Le espressioni ben levigate e prive di solecismi, le
diceva simili alla moneta di Alessandro: come quella, erano belle a
vedersi e ben arrotondate, ma non per questo migliori. Quelle
opposte le paragonava ai tetradrammi attici, spesso coniati con
negligenze e senza bravura tecnica, ma tuttavia spesso superiori
alle frasi ben scritte e stilizzate26. Una volta che il suo allievo
Aristone [di Chio] discorreva di molti argomenti in maniera non
spregevole, ma trattandone alcuni con avventatezza e addirittura con
tracotanza; gli disse: «non potresti parlare così, se tuo padre non
ti avesse generato nell’ebbrezza»; ed essendo egli conciso di
parole, chiamava l’altro chiacchierone.
Trovandosi con un ghiottone che non lasciava mai niente ai suoi
compagni di tavola, non appena fu messo in tavola un grosso pesce lo
afferrò come se volesse mangiarlo tutto lui: e poiché l’altro lo
guardava stupefatto: «che cosa pensi» disse «che debbano soffrire i
tuoi compagni di tavola ogni giorno, se tu non sopporti la mia
ghiottoneria nemmeno per un sol giorno?» Un fanciullo una volta gli
fece una domanda troppo difficile per la sua età: egli allora gli
mise in mano uno specchio e lo esortò a guardare la sua faccia, e
poi gli chiese se domande di tal genere gli sembravano in accordo
con essa. A un tale che gli diceva che molte cose non gli piacevano
in Antistene, egli, citando lo scritto di Antistene su Sofocle27,
gli chiese se gli sembrasse che in questo vi fosse qualcosa di
buono; poiché quello diceva di non veder velo, «non ti vergogni»
disse «di rimproverare e ricordare accuratamente tutto ciò che di
meno buono può aver detto Antistene, mentre non cerchi neppure di
ritenere ciò che può aver detto di buono?»
Poiché un tale gli diceva che i ragionamenti dei filosofi gli
sembravano piccola cosa, rispose: «dici il vero: se possibile, anche
le loro sillabe dovrebbero essere brevi». E ad un altro che gli
diceva che Polemone proponeva una tesi e ne svolgeva poi un’altra,
facendosi scuro in volto rispose: «e tu, quanto avresti creduto di
poter stimare la tesi proposta?»28.
Diceva che chi conduce un dialogo deve comportarsi come un attore:
avere gran forza di voce ma non aprire troppo la bocca; fanno questo
quelli che chiacchierano molto, ma dicono assurdità29. Diceva che
non bisogna star molto a lungo ad ascoltare le belle espressioni30
così come non bisogna stare a lungo a contemplare le opere belle
degli artisti: chi ascolta deve invece esser tanto preso dal
contenuto da non aver tempo da perdere dietro la forma
dell’espressione.
Una volta a un giovinetto che chiacchierava molto disse: «le tue
orecchie sono confluite sulla tua lingua». E a un giovane bello, il
quale diceva che il sapiente non deve innamorarsi, rispose: «o
belli, non c’è nulla di più infelice di voi». Diceva che tra i
filosofi la maggior parte sono saggi per ciò che riguarda le grandi
cose e ignoranti circa le piccole e fortuite31. E riportava il detto
di Cefisia; il quale, a un suo discepolo che si studiava in tutti i
modi di soffiare forte nel flauto, disse percuotendolo: «il bene non
è riposto nel grande, ma il grande nel bene»32. A un giovinetto che
parlava con arroganza disse: «non vorrei dirti, ragazzo, quel che mi
viene in mente». E una volta che un giovane di Rodi, bello e ricco
ma non dotato assolutamente di altro, voleva diventare suo
discepolo, ed egli non voleva accoglierlo, prima lo fece sedere
sulla parte più polverosa dello sgabello perché la sua clamide si
sporcasse, poi nel luogo dei poveri, per farlo strofinare ai loro
cenci, e così finalmente ottenne che il giovinetto se ne andasse.
Diceva che fra tutte le cose la più vergognosa, soprattutto fra i
giovani, è la vanità. Diceva anche che non dobbiamo tenere a mente
le voci e le espressioni, ma esercitare la mente intorno all’utilità
di quanto ci vien proposto, e non fare come se gustassimo la buona
cottura di un cibo o la sua bella imbandigione a tavola. Diceva che
i giovani devono essere dignitosi nel camminare, nella figura, nelle
vesti; e adduceva a commento i versi di Euripide circa Capaneo e la
vita che questi conduceva: «non si inorgogliva per la sua ricchezza,
e non aveva pensieri più audaci di quelli di un uomo povero»33.
Diceva che nulla allontana dal possesso delle scienze più della
presunzione, e che di nulla abbiamo tanto bisogno quanto del tempo.
Richiesto chi sia un amico, «un secondo io», rispose34. Una volta
che, raccontano, frustava un servo che aveva sorpreso a rubare,
questi gli disse: «è per destino che ho rubato», ed egli rispose:
«ed è anche per destino che sei spellato». Diceva che la bellezza è
il fiore della temperanza35, ma secondo alcuni invece che la
temperanza è il fiore della bellezza. Una volta che vide un servo di
uno dei suoi intimi tutto coperto di lividure, volgendosi all’amico
disse: «vedo le tracce della tua ira». E a uno che si era unto di
unguento: «chi è che odora di donna?»
Dionisio il transfuga36 gli chiese un giorno: «perché io sono il
solo discepolo che non cerchi di correggere?» ed egli gli rispose:
«perché non ho fiducia in te». Ed ad un giovinetto che diceva
sciocchezze disse: «la ragione per cui abbiamo due orecchie e una
sola bocca è perché possiamo ascoltare di più e parlare di meno».
Una volta che sedeva in banchetto silenzioso, gliene fu chiesta la
ragione: a chi gli muoveva l’appunto rispose che riferissero al re
che c’era qualcuno che sapeva tacere (quei tali che lo interrogavano
erano infatti venuti in ambasceria da parte di Tolomeo37, e volevano
sapere che cosa dovessero dire al re da parte sua). Una volta che
gli chiesero come si comportasse in caso di parole offensive,
rispose: «come quando un ambasciatore viene mandato via senza
risposta». Apollonio di Tiro racconta che una volta Cratete cercava
di distoglierlo da Stilpone tirandolo per il mantello, ma Zenone gli
disse: «o Cratete, un filosofo si cattura più abilmente attraverso
le orecchie; trascinami via persuadendo queste; se mi usi violenza,
solo il mio corpo verrà con te, l’anima resterà da Stilpone»38.
Ebbe rapporti di studio anche con Diodoro, a quanto racconta
Ippoboto39; e presso di lui si esercitò nella dialettica. Già
progredito nella sua formazione di filosofo, ancora andava ad
ascoltare Polemone, giacché non aveva alcuna albagia; e si dice che
una volta Polemone lo apostrofò così: «non mi sfugge, o Zenone, che
tu penetri in casa mia per la porta del giardino, e mi rubi le mie
teorie travestendole in veste fenicia»40. A un dialettico che, con
un sofisma chiamato «il mietitore», gli aveva dimostrato che ci sono
sette forme dialettiche, e alla sua richiesta di quanto gli dovesse
gli aveva risposto «cento dracme», egli ne diede duecento, tanto era
il suo amore di apprendere. Dicono che per primo abbia introdotto il
termine di καθκον per «dovere» e abbia scritto intorno a questo un
trattato. E dicono anche che cambiò i versi di Esiodo41 in questa
forma:
«ottimo fra tutti è chi si lascia persuadere da chi ben consiglia /
ma uomo eccellente è anche chi sa, da solo, pensare ogni cosa».
Riteneva, infatti, che l’uomo capace di ascoltare quanto gli venga
detto e di ben valersene sia superiore a chi vi arriva da solo con
la propria mente, perché questi dimostra solo di essere
intelligente, all’altro, a chi si lascia ben persuadere, va
riconosciuta anche la capacità di bene agire.
Interrogato perché, austero com’era, si lasciasse andare talvolta a
bere nei simposii, rispose: «anche i lupini, che sono amari, bagnati
diventano dolci». Anche Ecatone, nel libro II delle Sentenze,
afferma che in quelle occasioni egli era uso rilassarsi42.
Soleva dire che è meglio scivolare con i piedi che non con la
lingua; e anche che ciò che è bene si conquista a poco a poco, ma
non è da poco (detto che altri attribuiscono a Socrate). Era di
carattere assai perseverante, e molto frugale; si cibava di cibo non
cotto e portava un mantello leggerissimo, sì che di lui si disse:
«non lo piega il gelido inverno, né la pioggia senza fine, non la
vampa del sole, non morbo atroce, non la baldoria senza numero43 del
popolo, infaticabile giorno e notte è proteso al sapere».
Non si accorgevano, i comici, che con i loro motteggi non facevano
altro che dargli lode. Filemone, per esempio, nella sua commedia I
filosofi, così dice di lui:
«un pane, un fico per companatico, e sopra un sorso d’acqua.
Costui propone proprio una filosofia originale: insegna ad aver
fame, e intanto raccoglie discepoli!»
Ma altri attribuiscono questi versi a Posidippo44.
Passò presto in proverbio: si diceva: «più temperante del filosofo
Zenone»; anche Posidippo nella sua commedia I convertiti dice:
«sì che in dieci giorni sembra diventato più temperante di
Zenone»45.
In realtà egli era superiore a tutti per il suo modo di vivere, per
la sua solennità, e, per Zeus, anche per la sua felicità. Morì a
novantotto anni46, dopo esser vissuto senza malattie e in buona
salute. Tuttavia Perseo, nelle sue Lezioni di etica, afferma che
morì a settantadue anni, e che aveva ventidue anni quando venne ad
Atene; Apollonio poi dice che tenne lo scolarcato per cinquantotto
anni. Morì nel modo seguente: venendosene via dalla scuola, inciampò
e si ruppe un dito; allora batté la terra con la mano, pronunciando
il verso della Niobe47: «vengo: perché mi chiami?»; e,
mancatogli il respiro, spirò subito.
Gli Ateniesi lo seppellirono nel Ceramico e lo onorarono coi decreti
di cui si è fatta menzione, ad attestazione della sua virtù.
Antipatro di Sidone48 fece questo epigramma:
«qui giace quel famoso Zenone, caro a Cizio, che scalò l’Olimpo
senza congiungere il Pelio con l’Ossa, e senza compiere le fatiche
di Eracle: con la sola temperanza trovò il sentiero che porta alle
stelle».
Un altro ne compose lo stoico Zenodoto, discepolo di Diogene49:
«Hai fondato l’autosufficienza, o Zenone, disprezzando la vana
ricchezza, con il tuo aspetto solenne, con il tuo ciglio canuto.
Hai inventato una filosofia virile; hai elaborato con la tua
previdenza una scuola che è madre di intrepida libertà.
Se la tua patria è la Fenicia, che biasimo può venirtene? Non forse
anche Cadmo, quello famoso, da cui l’Eliade ha avuto la scrittura,
venne di là»
In comune per tutti gli Stoici l’epigrammatista Ateneo50 così dice:
«o voi esperti di favole stoiche, o voi che gli ottimi princìpi
scriveste sulle tavolette sacre, che la sola virtù dell’anima è
bene; che essa sola salva la vita e le città degli uomini — una sola
delle figlie della Memoria ha raggiunto il piacere della carne, che
per tutti gli altri uomini è il fine».
Infine, anche noi, nel Libro di tutti i versi51, abbiamo narrato
così come fu la fine di Zenone:
«si narra che Zenone di Cizio morì per la vecchiaia consunto, dopo
molta sofferenza per il lungo digiuno:
ma dicono altri che un giorno, inciampando, disse battendo la terra:
Vengo da me: perché chiamarmi?».
C’è infatti chi dice che è morto proprio in questo modo; queste
comunque sono le versioni circa la sua morte.
Demetrio di Magnesia, negli Omonimi52, dice che il padre di lui
Mnasea, avendo occasione di venire spesso ad Atene per ragioni di
commercio, portava di là a Zenone ancor fanciullo molti libri
socratici; e che quindi egli studiava la filosofia già da quando era
in patria. Quindi, venuto ad Atene, si imbatté in Cratete. Sembra,
egli dice, che mentre gli altri oscillavano nelle definizioni, egli
definisse subito il fine con sicurezza. Dicono che era solito
giurare «per il cappero», come Socrate «per il cane».
SUIDA, Lexikon, s.v. Ζήνων ὁ Μνασέου [79] 16, p. 507 Adler
Zenone di Mnasea o di Demea, di Cizio (Cizio è una città di Cipro);
filosofo, iniziatore della setta stoica. Fu chiamato «Stoico» perché
insegnava nel portico (στοά) in Atene, quello che prima fu detto di
Pisianatte, successivamente «portico dipinto». Era stato allievo di
Cratete cinico, poi di Polemone ateniese. Visse novant’anni, e morì
per essersi astenuto dal cibo fino a che non fu consumato
dall’inedia. A una domanda circa la forma migliore di vita,
sentenziò che consiste nell’assimilarsi ai morti, cioè agli antichi,
con la lettura dei loro libri. Fu chiamato il Fenicio perché fenici
erano gli abitanti della piccola città. Ebbe la sua acme sotto
Antigono Gonata, nell’olimpiade 125a53. Si è formato il proverbio
«più continente di Zenone»: ebbe infatti un modo di vita così
estremamente sobrio da passare in proverbio. Fu inventore di una
filosofia di tipo nuovo; e realmente superava tutti gli altri per il
suo aspetto, la sua solennità, la sua serenità. Trascorse la vita
senza malattie, in buona salute.
Index Stoicorum Herculanensis (pap. herc. 1018, coll. I-IX, pp. 5-17
Traversa54).
Se qualcuno volesse conoscere quello che fu il suo abito di vita
costante, non potrebbe averne indizio migliore se non dai giudizi
che egli diede su ciò che è decoroso e ciò che è turpe, e similmente
sui giudizi che aggiunse a questi, ponderando ciò ch’è bene e ciò
eh’è male.
Infatti Apollodoro epicureo in due li(bri)…55
…Apollodoro Cassandreo, ed esser giusti alcuni che invece furono
empi, per esempio Arpalo e Filetero, e Mentore per come agì nei
riguardi Ermia56…
…col titolo: Sul capo della mia propria setta. (Altre cose) in
particolare a proposito di ciò, occupandosi di tali argomenti per
quasi tutto il libro, aveva scritto, come già abbiamo ricordato. … e
vuole anche che Zenone si desse raramente a viaggi (?), per la sua
debolezza fisica, come nei D(iscorsi Conv)iviali (racconta
Persèo?)57.
…Ci sono stati di quelli che hanno gettato vergogna e sospetto su
quest’opera, dicendo che essa in certo modo è stata ricucita insieme
(da Zenone) come altrove si mostrerà con tutta evidenza58. Persone
simili a queste fra gli amici della sua cerchia lo dicono, come
attestano Persèo e Filonide…59.
…Udito ciò disse: «e varrebbe la spesa di far ciò per uno che non sa
leggere tre lettere di fila? Ma questa, egli dice, è cosa
indifferente; è un otre pieno (di aria?»)60
…e alcuni dicono che gli piacevano i fichi, e che sopportava … con
dolcezza e buona disposizione. E giusto aggiungere anche questo alla
sua lode, e inoltre che ebbe la tomba a spese pubbliche…61
…e composizioni molto più gradevoli e graziose in fatto di danze e
di musiche per flauto. Tuttavia, poiché lodiamo l’uomo sapiente, è
il caso di citare anche aspetti della sua gradevolezza…62
... i giovani sfrontati e i postulanti alle porte. Non sapendo bene
dove andare, dice che potresti porti a fianco di chi sovraintende
alle monete; non sarà male, perché così avresti il compito di punire
i (falsificatori?)». Al che Zenone, volto lo sguardo agli stranieri,
rispose: «che dite?…»63.
Verso di lui si comportava come nei confronti di un eguale e simile,
con competizione benevola e cortese; e ammirava ed amava
straordinariamente l’uomo ch’egli era64.
FILODEMO, De Stoicis, col. IV (pap. herc. 339), p. 99 Dorandi =
SVF I, 36a
E poiché nella lettera che riguarda Antifo(nte) (?) chiaramente
(scrive) che egli aveva nova(nt’anni), non rimane che pensare che
Zenone debba esser vissuto (fino a) 101 anni; infatti ne passano
trentano(ve) più tre mesi d(all’)arcontato di Clearco a quello di
(Ar)renide, durante il quale Zenone morì65.
LUCIANO, Macrobius, 19 = SVF I, 36
Zenone, l’iniziatore della filosofia stoica, visse novantott’anni.
Dicono che, mentre faceva il suo ingresso nell’assemblea, inciampò
ed esclamò: «a che mi chiami?»; voltosi e tornato a casa, rifiutò di
nutrirsi, e finì così la sua vita per inedia.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, VI, 105
… Zenone, che fu allievo di Cratete.
DIOGENE LAERZIO, ivi, I, 13-15
Da Socrate derivò Antistene, e da questi Diogene «il cane», e da
questi Cratete Tebano, da questi poi Zenone di Cizio; da lui
Cleante, da quest’ultimo Crisippo.
DIOGENE LAERZIO, ivi, II, 120
Eraclide66 dà notizia che anche Zenone, fondatore della Stoa, fu
allievo di costui (= Stilpone di Megara).
SUIDA, Lexicon, s.v. Ζνων [78], II, p. 507 Adler
Zenone di Sidone… allievo di Diodoro Crono; il quale fu anche
maestro di Zenone di Cizio67.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, VI, 15
Questi (Antistene) anticipò l’impassibilità di Diogene, la forza
d’animo di Cratete, la capacità di sopportazione di Zenone68.
CICERONE, Acad. post., 9, 34 = SVF I, 13
Sia Zenone che Arcesilao avevano ascoltato assiduamente Polemone. Ma
Zenone, che era più vecchio in età di Arcesilao, e sapeva dissertare
con la più grande acutezza e destreggiarsi assai sottilmente, si
mise all’impresa di modificarne la dottrina69.
CICERONE, De finibus bon. et mal., III, 2, 5 = SVF I, 34
Benché tutti i filosofi stoici siano autori di espressioni
terminologiche nuove, Zenone, il primo fra tutti loro, si può
inventore non di cose nuove, ma di nuove parole70.
CICERONE, Tusc. disp., V, 12, 34 = SVF I, 35
Zenone di Cizio, uno straniero, un ignobile foggiatore di parole,
appare chiaramente essersi insinuato nei panni di una filosofia che
già esisteva.
NUMENIO, presso EuSEBIO, Praeparatio evangelica, XIV, 5, 11 = SVF I,
11-12
Furono discepoli di Polemone Arcesilao e Zenone … Ricordo di aver
già detto che Zenone era stato allievo prima di Senocrate e di
Polemone, poi che aveva fatto professione di cinismo alla scuola di
Cratete; si può aggiungere ora su di lui che aveva preso parte anche
alla scuola di Stilpone e alle dispute eraclitee. Infatti, quando —
dopo essere stati condiscepoli alla scuola di Polemone — Arcesilao e
Zenone divennero nemici, nella loro lotta presero per alleati l’uno
(Zenone) Stilpone ed Eraclito, oltre a Cratete (aveva appreso ad
essere combattivo da Stilpone, austero da Eraclito, cinico da
Cratete); quanto ad Arcesilao, aveva dalla sua parte Teofrasto,
Crantore platonico, Diodoro, inoltre Pirrone, che gli insegnavano
Crantore la persuasione, Diodoro i sofismi, Pirrone la versatilità,
l’ardire, la capacità di ridurre all’assurdo…
Essi quindi, Arcesilao e Zenone, partiti da tali premesse, con
queste loro competizioni e argomentazioni in polemica reciproca, si
scordarono di quel Polemone dal quale entrambi avevano preso le
mosse: eccoli che, prese fra loro le distanze e armati di tutto
punto, «cozzano con gli scudi, con le lance, con la loro furia di
uomini armati di bronzo: gli scudi ombelicati si urtano; un urlo
immenso si leva. Scudo su scudo, elmo su elmo, uomo su uomo si
abbatte; e allora salgono su dagli astanti gemito e tripudio,
rispettivamente per chi vince e per chi cade»71 — e questi ultimi
erano soprattutto gli Stoici, perché gli Accademici invece
sfuggivano ai loro colpi…
(ivi, 6, 9) E perciò, dopo avere così preso le distanze,
cominciarono a darsi colpi, non però tutti e due alla pari, ma era
Arcesilao che ne dava a Zenone. Quest’ultimo riusciva a conservare
una certa gravità e solennità nella battaglia; ma non riusciva a far
di meglio che il retore Cefisodoro… Del resto, Zenone, quando
lasciava da parte Arcesilao, a mio giudizio filosofava in una
maniera assai degna, non foss’altro che per la disposizione pacifica
che allora dimostrava. Esarebbe bastato che lasciasse stare di
polemizzare contro Platone! Invece, nella sua polemica, perché forse
conosceva le dottrine di Arcesilao, ma certo ignorava quelle di
Platone (è facile dedurre questo da ciò che ha scritto contro di
lui), si comportò con incoerenza, colpendo chi non avrebbe dovuto,
oltraggiando chi meno si sarebbe dovuto oltraggiare; e tutto ciò in
maniera più malvagia di quanto non si converrebbe perfino a un
Cinico. Del resto, dimostrò di aver risparmiato Arcesilao non certo
per magnanimità72: o perché non conoscesse bene le dottrine di
Arcesilao, o perché avesse timore degli Stoici «dall’amara guerra
con fauci giganti»73, si rivolse altrove, attaccando cioè Platone
stesso…
Dal canto suo Arcesilao, che vedeva in Zenone un rivale e un
competitore, si accinse a demolire tutte le sue argomentazioni,
senza arretrare davanti a nulla. Degli altri punti del suo attacco
non saprei dire, né questo sarebbe il luogo adatto per parlarne;
basti dire che, vedendo come fosse in gran fama ad Atene quella
teoria che egli per primo aveva inventata, quella della
rappresentazione comprensiva, si accanì con ogni mezzo contro
questa. L’altro, che si trovava in posizione di inferiorità — e
avrebbe anche potuto sperare di non subire attacchi, se solo fosse
stato tranquillo dal canto suo! — si astenne dall’attaccare
direttamente Arcesilao; anche se avrebbe avuto molte cose da dire,
non volle, preferendo comportarsi altrimenti: se la prese invece con
Platone, che non era più tra i viventi, e dall’alto del suo carro
mise scompiglio in tutto il suo seguito, vedendo che Platone non
poteva difendersi né c’era alcuno che potesse perorare la sua causa;
e se Arcesilao si fosse assunto questo incarico, per lo meno così
egli pensava di averlo stornato da se stesso. Sapeva bene che ad un
simile stratagemma Agatocle aveva fatto ricorso per allontanare dal
suo territorio i Cartaginesi! Quanto agli Stoici, furono presi da
sgomento e lo assecondarono: «non era la loro Musa molto amante del
discorso né serva» delle Grazie74; e così Arcesilao riuscì a dar
loro ora una buona batosta, ora a tagliar loro la ritirata, ora a
dar loro lo sgambetto: e tagliava loro la lingua, e risultava più
credibile di loro.
TEMISTIO, Orat. XXIII, id = SVF I, 9
Quanto a Zenone, è evidentissimo, ed è ripetuto concordemente da
molti, che fu la Apologia di Socrate a condurlo dalla Fenicia al
Portico dipinto75.
QUINTILIANO, Institutio Oratoria, XII, 7, 9 = SVF I, 14
Mentre a Socrate si portava solo di che vivere, Zenone, Cleante,
Crisippo accettarono una vera e propria ricompensa dai loro
discepoli.
PLUTARCO, De Stoicorum repugnantis, 4, 1034a = SVF I, 26
Zenone e Cleante non vollero diventare cittadini ateniesi, perché
non sembrasse ad alcuno che facevano torto alla loro patria; ma,
allora, se essi fecero bene a far così, sia concesso dire che fece
male Crisippo, a farsi invece iscrivere nelle liste dei cittadini.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 2, 1033b = SVF I, 27
Detto in breve, mentre esistono molti scritti di Zenone stesso, di
Cleante, di Crisippo sul regime della città, sul comandare ed
obbedire, sull’esercizio della giustizia e sull’oratoria politica,
nella loro vita, al contrario, non è possibile trovare né una
strategia, né un’attività legislativa, né la partecipazione a un
consiglio, né un discorso in assemblea giudiziaria, né una
partecipazione a spedizione in difesa della patria, né
un’ambasceria, né una contribuzione pubblica: essi passarono come
stranieri tutta la loro non breve, ma lunghissima vita, godendosi
l’ozio come un fiore di loto, fra discorsi libri e dispute di scuola
— sì che non sfugge ad alcuno come essi siano vissuti piuttosto in
coerenza ai detti e agli scritti altrui che non ai propri76.
DIONE CRISOSTOMO, Orat. XLVII, 2 = SVF I, 28
… come prima mi sono meravigliato a proposito di quei filosofi che
lasciarono la loro patria senza esservi costretti da alcuno, e
scelsero di andare a vivere presso altri, pur avendo in precedenza
affermato che si deve onorare la patria e tenerla nel più alto
luogo, e che prender parte alla vita pubblica attivamente è cosa che
risponde alla natura propria dell’uomo. Dico di Zenone, di Crisippo,
di Cleante, i quali tutti così parlavano, ma nessuno di essi rimase
nella sua patria.
SENECA, De tranquillitate animi, I, 10 = SVF I, 28
Pronto e ben disposto seguo Zenone, Cleante, Crisippo, nessuno dei
quali partecipò di persona alla vita politica, ma non vi fu nessuno
di loro che non vi indirizzasse qualcuno dei discepoli.
ARRIANO, Epicteti Dissertationes, III, 21, 19 = SVF I, 29
Per suo consiglio (la divinità) diede a Socrate la funzione del
confutare come a Diogene quella di rimproverare regalmente77, come a
Zenone quella di insegnare e formulare dottrine.
PLUTARCO, De profectis in virtute, 78e = SVF I, 280
Zenone, vedendo che Teofrasto era ammirato per il suo avere tanti
discepoli, disse: «il coro di costui è più numeroso, ma il mio
meglio armonizzato».
Gnomologiium Vaticanum, 295, p. 113 Sternbach2 = SVF I, 281
Il filosofo Zenone, poiché alcuni gli facevano notare che diceva
cose contro l’opinione, rispose: «ma non certo contro la ragione»78.
GALENO, De Hippocratis et Platonis placitis, III, 5, p. 288 Muller =
SVF I, 282
Zenone, a quanti gli facevano notare che portava in bocca tutto ciò
che essi cercavano, rispose: «però non tutto quanto viene
trangugiato».
MUSONIO, De victu, presso STOBEO, Eclog., III, 17, 42, p. 506 Hense
= SVF I, 287
Zenone di Cizio riteneva che neanche in caso di malattia si dovesse
accedere a un tipo di nutrimento più gradevole. Una volta che un
medico dal quale era in cura gli consigliava di mangiare dei
piccioncini, si ribellò e disse: «mi curi come se fossi il re
Manete!»79 Non credeva infatti che neanche a scopo di cura si
dovesse concedersi alcuna blandizia, e questo sia per sé, sia per
gli schiavi che per caso si ammalassero.
SENECA, Consolatio ad Helviam matrem, 12, 4 = SVF I, 15
Si sa che Omero aveva un servo, Platone ne aveva tre, ma Zenone, dal
quale prese inizio la rigida e virile saggezza stoica, non ne aveva
nessuno.
SENECA, De beneficiis, IV, 39, 1= SVF I, 16
E per quale ragione, disse, il vostro Zenone, una volta che aveva
promesso a un tale cinquecento denari in prestito, avendo scoperto
che quegli era scarsamente attendibile, agli amici che tentavano di
persuaderlo a non darglieli disse che bisognava concedere tutto ciò
che si era promesso, dal momento che lo si era promesso?
ELIANO, Varia Hist., IX, 26 = SVF I, 289
Il re Antigono condusse una volta Zenone di Cizio a vergogna e
preoccupazione. Un giorno, pieno di vino come un otre, venne a
banchetto da Zenone, e baciandolo e abbracciandolo, ubriaco com’era,
gli chiese di ordinargli qualcosa, giurando, e scherzando col
giuramento, che non gli avrebbe rifiutato niente. Quegli gli disse:
«vattene e vomita», solennemente e magnanimamente rinfacciandogli
l’ubriachezza, e nell’intento di risparmiargli di scoppiare per la
pienezza.
ATENEO, Deipnosophistae, XIII, 6o3d = SVF I, 23
Il citaredo Aristocle era l’amante del re Antigono; nella vita di
Zenone, Antigono di Carisio così scrive: «Il re Antigono andava a
festini insieme con Zenone. Infatti una volta, al finire del giorno,
venendo da un simposio, fermatosi presso Zenone lo convinse ad
accompagnarlo a un ritrovo presso il citaredo Aristocle, che il re
amava fortemente».
ATENEO, Deipnosoph., XIII, 5636 = SVF I, 247
…imitando con zelo quel vostro maestro di sapienza, Zenone il
Fenicio; il quale mai si unì con una donna, ma sempre le faceva coi
giovinetti, come racconta Antigono di Carisio nella vita che scrisse
di lui.
ATENEO, Deipnosoph., V, 186d = SVF I, 291
Zenone, una volta che uno dei ghiotti presenti al banchetto, non
appena il pesce fu presentato, subito ne raschiò per sé tutta la
parte di sopra, rovesciò il pesce e anche lui lo raschiò, dicendo:
«Ino ha lavorato dall’altra parte»80.
STOBEO, Eclog., III, 7, 44, p. 479 Hense = SVF I, 249.
Zenone, da alcuni che difendevano la propria dissolutezza e dicevano
che ciò che essi spendevano era tutto denaro di gran lunga
sovrabbondante, disse: «allora perdonerete anche a quei cuochi che
dicessero di aver fatto i cibi troppo salati perché avevano grande
abbondanza di sale?»
PLUTARCO, De virtute morali, 4, 4433 = SVF I, 299
E dicono che una volta Zenone, andando al teatro ad ascoltare il
citaredo Amebeo, così parlasse ai discepoli: «andiamo, per
apprendere come le sue interiora e le sue ossa e i suoi nervi si
siano imbevuti di ragione e numero, come abbia cura di un ordine
certo nell’emettere la voce»81.
STOBEO, Ecl., III, 36, 23 p. 696 Hense = SVF I, 304
Dei suoi discepoli Zenone diceva che alcuni erano filoioghi, altri
logofili82.
STOBEO, Ecl., III, 36, 23 p. 696 Hense = SVFI, 304
Uno dei giovinetti dell’Accademia discorreva avventatamente delle
varie occupazioni; Zenone gli disse: «se non metterai un po’ a bagno
la tua lingua nell’intelletto, dirai spropositi ancora più grossi».
PLUTARCO, Phocio, 5, 4 = SVF I, 404
Diceva Zenone che il filosofo deve emettere le sue sentenze dopo
averle immerse nell’intelletto83.
STOBEO, Ecl., IV, 51, 31, p. 392 Hense = SVF I, 312
Zenone, filosofo stoico, vedendo uno dei suoi intimi trascinato
dalla collera, gli disse: «o la annienterai, o quella annienterà
te».
PLUTARCO, De vitioso pudore, 13, 5313 = SVF I, 313
È questo un detto di Zenone: il quale, incontrando uno dei giovani
della sua cerchia che camminava senza far rumore lungo le mura, e
avendo appreso che fuggiva da un amico il quale gli aveva chiesto di
testimoniare il falso per lui, gli disse: «ma che fai, sciocco?
quello non ha avuto timore né vergogna di offenderti e farti torto,
e tu non osi affrontarlo in nome della giustizia?»
PLUTARCO, De capienda ex inim. util., 2, 8ya = SVF I, 277
Zenone, quando seppe del naufragio delle sue mercanzie, disse:
«salute, o sorte, tu fai bene a ridurmi al possesso del solo
mantello».
PLUTARCO, De tranquillitate animi, 6, 467C = SVF I, 277
A Zenone di Cizio restava una sola nave carica di mercanzie: saputo
che anche questa era andata sommersa con tutto il suo carico, disse:
«fai bene, o sorte, a ridurmi al mantello e al portico»84.
ATENEO, Deipnosoph., II, 55 = SVF I, 285
E perciò anche Zenone di Cizio, che era uomo duro e molto collerico
verso chi gli stava vicino, dopo aver sorbito una certa quantità di
vino diventava dolce e affabile; e a quelli che gli chiedevano come
mai cambiasse così di modi rispondeva che gli succedeva come ai
lupini: anche quelli sono molto amari prima di essere ammollati, ma
messi a bagno poi diventano dolci e piacevolissimi85.
ATENEO, Deipnosoph., VIII, 345C = SVF I, 290
Zenone di Cizio, il fondatore della Stoa, così si comportò nei
riguardi di un ghiottone col quale era vissuto insieme per qualche
tempo (come dice Antigono di Carisio nella Vita di Zenone); essendo
stato per caso posto in tavola un grande pesce, e non essendone
approntato alcun altro, Zenone afferratolo tutto così com’era dal
vassoio si mise a mangiarlo. E poiché l’altro lo guardava
stupefatto: «che cosa credi, gli disse, che debbano sopportare
quelli che convivono con te, se tu non sei capace di tenere a freno
la tua ingordigia neanche un giorno?»86.
ORIGENE, Contra Celsum, Vili, 35, p. 251 Kotschau = SVF I, 297
Zenone, a uno che gli diceva un giorno: «che possa morire se non mi
vendico di te» rispose: «possa io morire se non ti conquisterò come
amico».
Gnomol. Vaticanum, 297, p. 114 Sternbach2 = SVF I, 322
Lo stesso (Zenone) diceva che la vista prende la luce dall’aria,
l’anima dalla scienza.
STOBEO, Ecl., III, 36, 19, p. 695 Hense = SVF I, 310
Zenone, a un tale che intendeva parlare più che ascoltare, «ragazzo»
disse «la natura ci ha forniti di una lingua e di due orecchie, per
permetterci di ascoltare il doppio rispetto a quanto parliamo»87.
STOBEO, Ecl., II, 31, 81, p. 215 Wachsm. = SVF I, 319
Richiesto Zenone come potesse un giovane astenersi il più possibile
dall’errare, rispose: «purché abbia sempre davanti gli occhi persone
da poter onorare e rispettare al massimo grado».
STOBEO, Ecl., IV, 24, 68, p. 845 Hense = SVF I, 323
Disse Zenone che di nulla noi soffriamo la mancanza quanto del
tempo. Breve è la vita, ma lungà è l’arte, e soprattutto quella che
è capace di sanare i mali dell’anima88.
MASSIMO CONFESSORE, Sermones, XXVI, I, p. 450 Boissonnade = SVF
I, 326
Di Zenone: Vivi, uomo, non solo per mangiare e bere; vivi per
valerti della vita allo scopo di ben vivere89.
DA SINGOLE OPERE90
DEL RAGIONAMENTO
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 39 = SVF I, 45
Dicono che dividevano in tre la trattazione della
filosofia.91 Una parte era la fisica, una l’etica, l’altra la
logica. Questa divisione per primo la fece Zenone nel suo Del
ragionamento.
DELLA SOSTANZA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 134 = SVF I, 85
Essi ritengono che i principi del tutto siano due, il principio
attivo e quello passivo. Il principio passivo è la sostanza senza
qualità, la materia; il principio attivo è la ragione che risiede in
essa, la divinità. Questa, che è eterna, foggia tutte le cose con
arte scorrendo per la materia. Questa dottrina la espone Zenone di
Cizio, nel Della sostanza.92.
AEZIO, Placito, I, 3, 25, Dox. Gr., p. 289 = SVF I, 85
Zenone di Cizio figlio di Mnasea dice che sono principi del tutto la
divinità e la materia93, l’uno causa dell’agire, l’altra del subire;
e che gli elementi sono quattro.
DELL’UNIVERSO94
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 143 = SVF I, 97
Che c’è un solo mondo, lo dice Zenone nel Dell’universo.
AEZIO, Placita, II, 1, 2, Dox. Gr., p. 327 = SVF I, 97
Zenone dice che uno solo è il mondo.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 135-136 = SVF I, 102
Una sola è la sostanza divina, sia essa chiamata intelletto, o
destino, o Zeus, o con tutti gli appellativi che si vogliano.
All’inizio, questa sostanza divina, che sussisteva separata, fece
mutare la realtà dallo stato aeriforme a quello liquido; e come nel
seme è contenuto il germe, così essa, ch’è la ragione seminale
dell’universo, continuò a operare nell’elemento umido rendendo la
materia ben disposta alla generazione della realtà secondarie. Per
prime fra queste produsse i quattro elementi, fuoco, acqua, aria,
terra. Così dice Zenone nel Dell’universo.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 142 = SVF I, 102
La nascita del cosmo si ebbe poi quando la sostanza, da fuoco che
era, trapassò in aria e poi successivamente in acqua; e quindi la
parte più solida si condensò e divenne terra, mentre la parte più
leggera evaporava e, diventando sempre più rarefatta, rigenerava il
fuoco. Dal processo di mescolanza di tutti questi elementi nacquero
le piante, gli animali e tutte le altre specie. Così dice, circa la
genesi e la distruzione del cosmo, Zenone nel Dell’universo.
STOBEO, Ecl., I, 17, 3, p. 152 Wachsmuth = SVF I, 102
Così dissertava Zenone: tale dovrà essere la formazione ciclica del
tutto a partire dalla sostanza primigenia: quando dal fuoco avverrà
il mutamento in acqua, attraverso il passaggio per lo stadio
aeriforme, una parte poi si rapprenderà e formerà la terra, e del
rimanente parte resterà acqua, parte evaporerà facendosi aria,
dell’aria parte si accenderà in fuoco; e avverrà una mescolanza
reciproca degli elementi che si muteranno l’uno nell’altro, ogni
corpo trapassando in altro corpo95.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 153-154 = SVF I, 117
Il lampo è, come dice Zenone nel suo Dell’universo, un’accensione di
nubi che si urtano fra di loro oppure sono rotte dal vento96; il
tuono è il rumore che queste producono nell’aria o per la collisione
o per la lacerazione; il fulmine è l’eccesso dell’accensione che con
violenza ricade sulla terra dalle nubi venute a collisione o
lacerate.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 145 sgg. = SVF I, 119
Nel suo Dell’universo, Zenone dimostra che l’eclissi di sole si
verifica quando la luna si pone dinanzi a questo, della parte che è
rivolta verso di noi. La si può vedere, infatti, mentre procede
verso il sole e lo nasconde e poi di nuovo se ne allontana. Si può
capire meglio tutto questo servendosi di una bacinella che contiene
dell’acqua. Quanto alla luna, la sua eclissi dipende dal fatto che
essa viene a cadere nell’ombra della terra. Tale eclissi perciò si
verifica solo quando essa è nel plenilunio, benché ogni mese essa
venga a trovarsi in posizione quasi diametralmente opposta al sole:
muovendosi infatti essa obliquamente verso il sole, avviene che,
quando alla latitudine, non coincida con esso, giacché si trova
sempre o al di sotto o al di sopra. Solo quando la sua latitudine
coincide con l’orbita del sole e con lo zodiaco97 e insieme essa si
trovi in posizione diametralmente opposta al sole, allora si
verifica l’eclissi.
DELLA NATURA
AEZIO, Placita, I, 27, 5, Dox. Gr., p. 322 = SVF I, 176
Zenone stoico, nel Della natura, dice che il destino è una forza che
muove la materia sempre allo stesso modo costantemente, e che non fa
nessuna differenza chiamarla anche provvidenza o semplicemente
natura98.
DELLA NATURA DELL’UOMO
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 87 = SVF I, 179
Per primo quindi Zenone, nel Della natura dell’uomo, disse che il
fine è «vivere in coerenza con la natura», vale a dire vivere
secondo virtù, giacché la natura ci porta verso questa.
STOBEO, Ecl., II, 7, 6a, p. 75 Wachsmuth = SVF I, 179
Così definì Zenone il fine: «vivere coerentemente», cioè vivere
secondo una ragione costante e armonica; riteneva infelici coloro
che vivono in lotta con sé stessi99.
DELLE PASSIONI
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 110, = SVF, I, 211
I generi sommi delle passioni (come dice… Zenone nel Delle passioni)
sono quattro, il dolore, la paura, il desiderio, il piacere.
STOBEO, Ecl. II, 7, 10, p. 88 Wachsmuth = SVF I, 211
Primi per genere vengono questi quattro, il desiderio, la paura, il
dolore, il piacere.100
DEL DOVERE
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 107-108 = SVF I, 230
E inoltre dicono che il dovere è quell’atto che è suscettibile di
una giustificazione razionale, quale, ad esempio, la coerenza nella
vita, che si estende anche alle piante e agli animali: anche per
questi sono contemplati doveri. In questo modo fu chiamato per primo
da Zenone, che traeva questa denominazione dal fatto che esso
riguarda alcuni esseri (ϰατά τινας ἤϰειν). Esso è un atto (ἐνέργημα)
apparentato con le disposizioni secondo natura101.
STOBEO, Ecl., II, 7, 8, p. 85 Wachsm. = SVF I, 230
Così si definisce il dovere: la coerenza nella vita, l’atto
suscettibile di una giustificazione razionale. Ciò che è contro il
dovere ha la definizione opposta. Esso si estende anche agli animali
irragionevoli, poiché anch’essi operano in coerenza con la propria
natura; per gli animali dotati di ragione si esprime con la formula:
la coerenza nel vivere.
DIATRIBE
SSESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypotyposeis, III, 245 = SVF I, 250
Il vostro caposetta Zenone dice nelle sue Diatribe altre cose simili
circa l’educazione dei fanciulli, e fra l’altro questa: «non bisogna
dividere i giovinetti da quelli che non lo sono né le fanciulle dai
maschi: non ci sono cose convenienti per giovinetti e altre per non
giovinetti, le une per femmine e le altre per maschi: per tutti sono
convenienti e decenti le stesse cose»102.
REPUBBLICA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 33, = SVF I, 222
Inoltre nella Repubblica afferma che solo i buoni sono concittadini,
amici, parenti, liberi.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 129 = SVF I, 248
E il sapiente potrà innamorarsi dei giovinetti che dimostrino dal
loro aspetto la loro buona disposizione naturale alla virtù, come
dice Zenone nella Repubblica.
PLUTARCO, Quaestiones convivales, III, 6, 653e = SVF I, 252
Per il cane, non vorrei ordinare il simposio con le partizioni
ideate da Zenone in quello scritto certo più faceto che serio, la
Repubblica.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 32 = SVF I, 259
Alcuni poi rimproverano Zenone in più cose, anzitutto perché
all’inizio della Repubblica sembra affermare che la cultura generale
è priva di utilità103.
PLUTARCO, De stoic. rep., 8, 1034f = SVF I, 260
…Scrisse la sua Repubblica in polemica con quella di Platone104.
PLUTARCO, Lycurgus, 31, = SVF I, 261
Questo tipo di costituzione [di Sparta] lo tenne presente come suo
presupposto Platone, e così Diogene e Zenone, e tutti quelli che
sono lodati per i loro tentativi di costruire un modello di stato;
ma in realtà essi hanno lasciato solo scritti e discorsi105.
PLUTARCO, De Alexandri virtute aut fortuna, 1, 6, 329a = SVF I,
262
Quella molto ammirata costituzione di Zenone, iniziatore della setta
stoica, si riduce a un sol punto: che non si deve vivere divisi per
città e villaggi, ciascuno sotto le sue particolari leggi, ma che
tutti gli uomini devono essere compatrioti e concittadini; uno per
tutti dev’essere il modo di vita e l’ordinamento, come lo è di una
schiera ordinata, alimentata di una sola legge comune. Questo
scrisse Zenone, come foggiando una immagine o un modello di buona
legislazione e costituzione filosofica106.
ATENEO, Deipnosoph., XIII, 561c = SVF I, 263
Zenone di Cizio… intese fare di Eros il dio dell’amicizia e della
libertà, propiziatore di nient’altro che di concordia. Perciò nella
Repubblica scrisse che Eros «è un dio che coopera alla salvezza
della città».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 6, 1034b = SVF I, 264
È una dottrina di Zenone questa, che non si devono costruire templi
degli dèi: un tempio non è cosa di grande valore, né sacra: non può
essere di gran valore ciò ch’è opera di artigiani107.
STOBEO, Ecl., IV, 1, 88, pp. 27 Hense = SVF, 266
Zenone disse che si devono ornare le città non con offerte, ma con
le virtù degli abitanti.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 33 = SVF I, 267
E per duecento righe disserta sul tema che non bisogna costruire
nelle città né templi, né tribunali, né palestre.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, V, n, 76, p. 377 Stahlin = SVF
I, 264
Anche Zenone, il fondatore della setta stoica, nella sua Repubblica,
dice che non si devono costruire né templi né immagini; nessuna
raffigurazione infatti può esistere che sia degna degli dèi. Egli
non esitò a scrivere (e queste sono proprio le sue parole): «non
bisogna credere che un tempio sia cosa venerabile e sacra; non è
venerabile né sacro ciò che non è altro che costruzione di
artigiani».
TEODORETO DI CIRRO, Graecarum affectionum curatio, III, 74, p.
192 Canivet = SVF I, 264
Ciò vedendo, anche Zenone di Cizio nel libro della Republica fa
divieto di costruire templi e fabbricare immagini: nessuna di queste
cose, dice, è opera degna degli dèi.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 131 = SVF I, 268
Crica la moneta così scrive «non si devono coniare monete, né per
necessità di scambio, né di viaggio».
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 131 = SVF I, 269
Zenone nella Repubblica ritene che fra i saggi le donne debbano
essere comuni, sì che ciascuno possa unirsi liberamente con quella
in cui si imbatta.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 33 = SVF I, 269
Come Platone, asseriva nella Repubblica che le donne devono essere
comuni.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 121 = SVF I, 270
Il sapiente prenderà moglie, dice Zenone nella Repubblica, e avrà
figli.
SENECA, De otio, 3, 2 = SVF I, 271
dice Zenone: «il sapiente prenderà parte alla vita politica, a meno
che non vi sia qualcosa a impedirglielo».
FILODEMO, De Stoicis (pap. herc. 339), col. XV, p. 100 Dorandi
…la Repubblica di Zenone …ma essa contiene qualche errore, per il
fatto di essere stata scritta da un uomo ancor (gio)vane e non del
tutto padrone del suo (senn)o, ragion per cui bisogna concederle
qualche indulgenza108…
ANEDDOTI
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 91 = SVF I, 272
Zenone di Cizio, negli Aneddoti, dice che egli (Cratete) non esitò
ad adattare al suo mantello una pelle di pecora.
MEMORABILI DI CRATETE
STOBEO, Ecl., IV, 32, 21, p. 786 Hense (= Telete, p. 46, 6-14
Hense2) = SVF I, 273
Zenone racconta che Cratete, seduto nella bottega di un calzolaio,
leggeva il Protreptico di Aristotele, Popera che questi aveva
scritta per Temisone, il re di Cipro, dicendogli che nessuno più di
lui aveva buone possibilità di attendere alla filosofia, in quanto
aveva grandi ricchezze da poter dispensare a questo scopo, e inoltre
un nome illustre. A questo punto della lettura il calzolaio gli fece
osservare che lui stava ad ascoltarlo mentre in pari tempo
continuava a cucire. E Cratete gli rispose: «a me sembra, o Filisco,
che il Protreptico sia stato scritto piuttosto per te: mi sembra che
tu abbia migliori possibilità di attendere alla filosofia che non
coloro ai quali si rivolgeva Aristotele»109.
PROBLEMI OMERICI
DIONE DI PRUSA, Oratio LIII, 4, 5 = SVF I, 274
Anche il filosofo Zenone scrisse sull’Iliade e sull’Odissea, e anche
sul Margite (anche questo poema sembra essere di Omero, ma del tempo
della sua giovinezza, quando ancora egli sperimentava le sue
capacità di fare opere poetiche). Nulla Zenone biasima dei detti di
Omero; in pari tempo, tuttavia, spiega e insegna che egli scrisse
alcune cose secondo opinione, altre secondo verità, perchè non
sembri che egli sia in contraddizione «con se stesso in alcuni
discorsi che appaiono di significato antitetico. Tale discorso era
già stato fatto, prima, da Antistene110; il quale aveva già detto
che il poeta scrisse alcune opere secondo opinione, altre secondo
verità; ma Antistene non sviluppò poi questo suo discorso, mentre
invece Zenone lo chiari nelle sue singole parti.
STRABONE, Geographica, I, 41 = SVF I, 275
Molte cose si dicono degli Erembi, ma sono più credibili fra tutti
quelli che dicono che si tratta di Arabi. Scrive così anche il
nostro Zenone: «andiamo presso gli Etiopi, e i Sidonii, e gli
Arabi»111; e non è necessario cambiare questo modo di scrivere, che
è antico.
SULLA TEOGONIA DI ESIODO
CICERONE, De natura deorum, I, 14, 36 = SVF I, 167
Interpretando la Teogonia di Esiodo, abolisce tutte le cognizioni
usitate e comunemente recepite circa gli dèi: non considera da porsi
fra gli dèi né Giove, né Giunone, né Vesta, né alcuno degli altri
che così in genere è chiamato, ma spiega invece che questi nomi sono
stati attribuiti per una particolare simbologia a cose inanimate e
mute.
Scholia in Hesiodi Theogoniam, v. 134, p. 30 Di Gregorio = SVF I,
100
Zenone dice che i Titani si identificano in generale con gli
elementi del cosmo. Geo è per lui la qualità, considerando che,
secondo le regole dell’eolico, la π di π di ποῖος sia stata cambiata
in κ (Κοος). Crio è per lui l’egemonico, l’elemento dominante,
Iperione deriva da «andare al di sopra» (ὑπεράνω ἰέναι) e quindi
significa il movimento verso l’alto. Poiché gli elementi leggeri
hanno una natura che li porta, una volta lanciati, a ricadere verso
l’alto, chiamò quelli di questa specie Iapeto (da πίπτειν).
VALERIO PROBO, In Virg. Eclogas, VI, 31, p. 21 Keil = SVF I,
103
Alcuni hanno assegnato ai singoli elementi la denominazione di
princìpi… Talete di Mileto, il maestro di costui (Anassimene), (pose
in primo piano) l’acqua. E si ritiene che questa opinione di Talete
derivasse da Esiodo, il quale dice: «sia che dapprima l’abbia
generato il chaos, sia che sia nato ulteriormente». Zenone di Cizio
intese il «chaos» come «acqua», dal verbo χέεσθαι, «scorrere». Ma in
fondo questa stessa opinione la possiamo ricavare anche da Omero,
quando egli dice «l’Oceano è l’origine degli dèi, Teti ne è la
madre».
Scholia in Apollonii Rhodii Argonautica, I, v. 498, p. 44 Wendel =
SVF I, 104
Zenone interpreta il detto di Esiodo sul chaos nel senso che questo
si identifica con l’acqua; rapprendendosi questa si generò il fango,
e questo poi consolidatosi generò la terra. Sempre secondo Esiodo,
Eros nacque come terzo elemento, paragonabile com’è al fuoco: è
infatti una passione infiammata112.
Scholia in Hesiodi Teogoniam, v. 117, p. 25 Di Gregorio = SVF I, 105
Zenone stoico dice che la terra solida si generò dall’acqua; perciò
il verso che viene dopo è da lui considerato spurio113.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VIII, 48 = SVF I, 276
E si dice che egli (Pitagora) per primo chiamasse il cielo così, e
affermasse che la terra è una sfera: cosa che Teofrasto attribuì a
Parmenide, e Zenone ad Esiodo114.
Scholia in Hesiod. Theogoniam, v. 139, p. 33 Di Gregorio = SVF I,
118
Zenone dice che si designano così in maniera più coerente a natura i
moti circolari: perciò sono stati posti ad essi i nomi di Bronte,
per indicare il tuono, e Sterope, per indicare la folgore; e anche
Arge, perché con esso esprimiamo il carattere fulgido (ργος) del
fulmine. Dice che sono figli del cielo nel senso che tutti questi
eventi si verificano per l’appunto nel cielo.
TESTIMONIANZE
CICERONE, De finibus, IV, 4 = SVF I, 45
(Gli Accademici) avevano diviso la filosofia sistematicamente in tre
parti: vediamo che questa suddivisione fu accettata da Zenone.
LOGICA
CICERONE, De finibus, IV, 3, 9 = SVF I, 47
Di questi argomenti, anche se Crisippo ne ha dissertato ampiamente,
certo Zenone trattò assai meno dei filosofi precedenti. Da costoro
(gli Stoici) alcuni soggetti furono trattati non meglio di quanto
avessero già fatto gli antichi; altri furono del tutto trascurati.
ARRIANO, Epicteti dissertationes, I, 17, 10-11 = SVF I, 48
La logica è quella che critica ed esamina tutti gli oggetti della
conoscenza, e per così dire li misura e li soppesa. Ma chi dice
questo? Lo dicono forse solo Crisippo, e Zenone, e Cleante? Non lo
dice forse anche Antistene?115
STOBEO, Eclogae, II, 2, 12, p. 22 Wachsmuth = SVF I, 49
Zenone paragonava le arti dialettiche a quelle giuste misure che non
servono a misurare il grano o altre cose di effettivo valore, ma lo
strame e i rifiuti.116
PLUTARCO, De Stoicorum repugnantiis, 8, 1034f = SVF I, 50
Per suo conto egli (Zenone) si diede a risolvere sofismi, e comandò
ai discepoli di apprendere la dialettica, in quanto arte capace di
raggiungere tale risultato.
GALENO, De Hippocr. et Plt. plac, II, 3, p. 178 Müller = SVF
II, 234
E in ciò differisce la premessa scientifica della dimostrazione da
quella retorica, o esercitatoria, o sofistica; sulle quali nessun
metodo né alcun esercizio ci hanno veramente insegnato Zenone o
Crisippo coi loro seguaci. Nei loro libri infatti sono mischiati
alla rinfusa insieme tutte le premesse. E spesso introduce il
discorso, se così si può dire, un ragionamento retorico, a questo ne
segue uno esercitatorio e dialettico, poi di seguito viene uno
scientifico, e, se capita, uno sofistico: giacché essi non si
rendono conto che le premesse scientifiche vertono intorno
all’essenza dell’oggetto ricercato.
ARRIANO, Epict. dissert., IV, 8, 12 = SVF I, 51
Sono principi teorici del filosofo … quelli che Zenone dice:
conoscere gli elementi del discorso, quale sia ciascuno di essi e
come essi reciprocamente si accordino e quali cose ad essi
conseguano.
CICERONE, Acad. pr., 20, 66 = SVF I, 52
In accordo con Zenone, Arcesilao riteneva che massima capacità di
chi è sapiente sia quella di star bene attento a non essere colto in
fallo e a guardar bene di non cadere in errore117.
CICERONE, Acad. post., n, 42 = SVF I, 53
Egli (Zenone) considerava in contrasto con la sapienza e con la
virtù l’errore, la maniera incauta di procedere, l’opinione, la pura
congettura, e, per dirla con una sola parola, tutto ciò che è alieno
dall’assenso fermo e costante.
CICERONE, Pro Murena, 61 = SVF I, 54
Riteneva che il sapiente non debba nulla puramente opinare, di nulla
pentirsi, mai mutare il suo parere118.
STOBEO, Ecl., II, 7, 11, p. 112 Waschm. = SVF I, 54
Il sapiente non deve supporre niente con scarsa fermezza, ma
soltanto con solidità e sicurezza; non deve quindi mai avere pure
opinioni119…
ibid., p. 113, 5 segg. Wachsm. = SVF I, 54.
Chi ha senno, essi dicono, non deve mai pentirsi … non deve mai in
alcun modo passare ad altra opinione, né mutar posizione, né
trovarsi in errore.
CICERONE, Acad. post., 11, 40 = SVF I, 55
Egli portò innovazioni numerose anche in questa terza parte della
filosofia. Disse qualcosa di nuovo a proposito della stessa
sensazione: i sensi, egli diceva, sono collegati fra loro in base a
una determinata sorta di impulso che in certo modo proviene
dall’esterno: è quella che gli stoici chiamano φαντασα, noi la
diciamo rappresentazione (visum).
NUMENIO presso EUSEBIO, Praep. evangelica, XIV, 6, 13 = SVF1,
56
Zenone fu il primo a introdurre questa teoria; e l’altro (Arcesilao)
vedendo che essa aveva acquistato gran fama in Atene, si ingegnò in
tutti i modi a confutarla120.
SESTO EMPIRICO, Adv. logicos, I, 326 = I, 58
Bisogna ascoltare Zenone, quando dice che la rappresentazione è
qualcosa che si imprime nell’anima121.
CICERONE, Acad. pr., 24, 77 = SVF I, 59
Forse Arcesilao avrà chiesto a Zenone che cosa sarebbe accaduto
ammettendo che il sapiente non possa percepire nulla: infatti non è
proprio del sapiente l’avere opinioni. Zenone gli avrà risposto che
proprio per questo il sapiente non opina, perché ha la possibilità
di percepire. E quale può essere questa possibilità? Ritengo, dirà
Zenone, che essa stia nella rappresentazione. E che cosa esattamente
è la rappresentazione? Zenone deve aver dato allora la sua
definizione della rappresentazione: ciò che è impresso, segnato e
foggiato da ciò che è, così come è. L’altro dovette allora
chiedergli, se questa è la rappresentazione vera, quale è quella
falsa. E a questo punto Zenone non può non aver capito, col suo
acume, che non vi è nessuna rappresentazione che possa essere
percepita veramente, se può essere uguale una percezione che si
riceve da ciò che è, così com’è, rispetto a una che si riceve da ciò
che non è.
SESTO EMPIRICO, Adv. logicos, I, 248 = SVF I, 59
La rappresentazione comprensiva è quella che proviene da ciò che
sussiste realmente, e che è modellata e impressa quasi come un
sigillo secondo la forma di ciò che sussiste, né potrebbe essere
tale se provenisse da qualcosa che in realtà non sussiste122.
CICERONE, Acad. post., 11, 41-42 = SVF I, 60
Non a tutti i tipi di rappresentazione accordava credibilità Zenone,
ma solo a quelle rappresentazioni che in certo modo forniscono una
attestazione di veridicità dell’oggetto rappresentato. L’oggetto
della visione, essendo percepito di per sé, lo definiva un
«comprensibile» (vi sembra tollerabile questa traduzione? … in quale
altro modo si potrebbe tradurre ϰαταληπτόν);) quando la conoscenza
dell’oggetto era stata provata e accettata, la chiamava
comprensione, simile all’atto di afferrare qualcosa con le mani; da
questa similitudine infatti aveva tratto il nome, giacché nessuno
prima di lui aveva usato in questo senso tale parola; e in realtà
egli, per esporre teorie nuove, si serviva di moltissime parole
nuove. Ciò che era percepito dai sensi, lo chiamava sensazione; se
fosse stato percepito in maniera tale da non poter essere confutato
dal ragionamento, lo chiamava scienza, e non-scienza nel caso
contrario; in questo rientra l’opinione, che è una forma di
conoscenza debole, mista di falsità e di ignoranza… Fra la scienza e
la non-scienza poneva la pura e semplice comprensione, quella di cui
ho parlato, e non l’annoverava né fra le cose buone né fra le
cattive; diceva però che ad essa sola bisogna prestar fede. Quanto
al dare fiducia ai sensi, traeva questa convinzione dal fatto che,
come ho detto sopra, la comprensione ha appunto per base la
conoscenza sensibile; e gli sembrava che essa fosse verace e degna
di fede non perché comprendesse tutte le cose che sono nella realtà
oggettiva, ma perché non trascurava nulla di quanto possa cadere
sotto la sua azione, e perché la natura aveva dato al sapere quasi
una norma e un principio fondato sulla natura stessa, sulla base del
quale poi successivamente si potessero imprimere nell’anima le
nozioni delle singole cose; sì che da essi si ricavano non solo
principi, ma anche procedimenti più ampi per raggiungere una regola
metodica.123
CICERONE, Acad. post., n, 40 = SVF I, 61
(Zenone) aggiunge a ciò che cade sotto la rappresentazione dei sensi
ed è da essi accolto l’assenso della mente: e intende che questo sia
posto nella nostra libera volontà.
SESTO EMPIRICO, Adv. logicos, I, 355 = SVF I, 63
Mentre Epicuro riteneva che ciò ch’è conosciuto dai sensi fosse
sempre una conoscenza sicura, Zenone stoico faceva uso di qualche
distinzione.
CICERONE, De natura deorum, I, 11, 70 = SVF I, 63
Arcesilao polemizzava con Zenone, perché secondo lui erano false
tutte le conoscenze dei sensi; invece Zenone diceva che alcune
rappresentazioni sono false, non tutte124.
STOBEO, Eclog., I, 12, 3, p. 136 Wachsm. = SVF I, 65
Di Zenone. Essi dicono che le concezioni del pensiero (ἐvνοήματα)
non sono né realtà (τί) né qualità, ma sono rappresentazioni
dell’anima determinate in certo modo e aventi una certa qualità. Dai
filosofi più antichi esse erano chiamate idee125. Le idee
concernono infatti tutte quelle realtà che ricadono nel novero di
quelle concepibili dal pensiero: per esempio le idee degli uomini,
dei cavalli, per dirla in generale di tutti gli animali e di tutte
le altre cose di cui si dice che esista appunto un’idea. I filosofi
stoici dicono che esse non sussistono di per sé, ma che siamo noi ad
avere in noi tali concezioni; esse hanno poi molti casi, che vengono
da loro chiamati denominazioni126.
AEZIO, Placita,, I, 10, 5, Dox Gr., p. 309
Gli Stoici, che discendono da Zenone, dicono che le idee non sono
che nostre forme mentali.
CICERONE, Acad. pr., 47, 144 = SVF I, 66
Zenone nega che voi … sappiate alcunché. E come? dirai; noi
sosteniamo che anche perfino lo stolto può avere rappresentazioni
comprensive! Sì, ma in pari tempo negate che alcuno possa saper
alcunché fuorché il sapiente. Zenone questa stessa cosa la
rappresentava con gesti. Mostrando all’interlocutore in faccia la
mano aperta con le dita tese, diceva: «la rappresentazione è così».
Poi, contraendo un poco le dita: «l’assenso è così». Stretta poi la
mano a pugno, diceva: «questa è la comprensione»: e proprio da
questo paragone fu indotto a dare a questa un nome che prima non
esisteva, ϰατάληψις. Accostata poi alla destra la sinistra, e con
questa afferrato fortemente e compresso ad arte il pugno chiuso,
diceva che quella era la scienza, e che era cosa tale che nessuno,
fuorché il sapiente, poteva rendersene padrone127.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 151 = SVF I, 69
Diceva che l’opinione è un assenso debole ed erroneo… Ci sono la
scienza e l’opinione, e c’è la comprensione che è al posto
intermedio fra queste.
CICERONE, Acad. post., 11, 41 = SVF I, 68
Se la comprensione si verifica in maniera tale che non sia più
possibile farla mutare con ragionamenti, si ha la scienza;
altrimenti, nel caso contrario, la non-scienza128; da questa, egli
diceva, deriva l’opinione, che è debole e affine a ciò che è falso e
che si ignora.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5e, p. 73 Wachsm. = SVF I, 68
La scienza è una comprensione sicura e tale che non può esser
rovesciata da argomentazione di sorta.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11m, p. 111 in Wachsm. = SVF I, 68
L’ignoranza è un assenso soggetto a cambiamento e debole129.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 151 = SVF I, 68
Scienza è la comprensione solida, sicura, non rovesciabile con
argomentazione di sorta.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 47 = SVF I, 68
Dicono che la scienza può definirsi o comprensione sicura, oppure
una disposizione costante nell’accogliere le rappresentazioni tale
da non lasciarsi rovesciare dal ragionamento.
CALVISIO TAURO presso ERONE, Geom., p. 275 Hultsch = SVF I, 70
Vi è un compendio di Tauro Sidonio circa la Repubblica di Platone
ove si dice che … Zenone definiva (la geometria) una disposizione
relativa alla dimostrazione (δεῖξις) delle rappresentazioni tale da
non poter esser rovesciata da argomentazioni130.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 23 = SVF I, 71
Egli diceva che nulla più della vana credenza (οἴησις)131 è estraneo
a quel tipo di comprensione che è propria della scienza.
Scholia in Dionysium Thracem, p. 118, 15-16 Hilgard = SVF I, 72
…come dimostra Zenone quando dice: «l’arte è una disposizione a
procedere con metodo»: cioè che compie una certa cosa con regole e
metodo preciso.
OLIMPIODORO, In Platonis Gorgiam, p. 63, 11 segg. Norvin = SVF I, 73
Zenone dice che l’arte è un complesso organico di conoscenze
comprensive che si esercitano insieme in vista di un fine utile fra
quelli che riguardano la vita.
SESTO EMPIRICO, Adv. mathematicos, II, 10 = SVF I, 73
Ogni arte è quindi un complesso organico di conoscenze che si
esercitano insieme e che hanno il loro riferimento a un fine utile
alla vita.
Scholia in Dionysium Thracem, p. 108, 31-33 Hilgard = SVF I, 73
Così gli Stoici definiscono l’arte: essa è un complesso organico di
conoscenze comprensive, esercitantisi in vista di un fineutile fra
quelli che riguardano la vita, che si verifica nell’anima132.
CICERONE, Acad. pr., 7, 22 = SVF I, 73
Quale può essere l’arte, se non quella che consta non di una o due
conoscenze percettive dell’anima, ma di molte?
CICERONE, De finibus, III, 5, 18 = SVF I, 73
…in quanto le arti constano di conoscenze, e contengono in sé un
elemento basato su ordine e metodo133.
CICERONE, De nat. deor., II, 59, 148 = SVF I, 73
E dalle percezioni raccolte e paragonate fra di loro deriviamo le
arti, particolarmente necessarie alla vita usuale.
RETORICA
EUSTAZIO, In Iliad., XVIII, v. 506, p. 1158, 37-38 Bekker = SVF I,
74
Quando Omero parlava in quel luogo di «araldi le cui voci risuonano
per l’aria», precorreva la definizione che poi Zenone diede alla
voce: «voce è aria percossa»134.
SESTO EMPIRICO, Adv. math., II, 7 = SVF I, 75
E quindi Zenone di Cizio, essendogli stato chiesto in che cosa la
dialettica differisca dalla retorica, chiudendo la mano e poi subito
riaprendola disse: «in questo», volendo significare con la chiusura
della mano il carattere serrato e conciso della dialettica, con la
apertura delle dita la capacità di ampiezza propria dell’oratoria.
CICERONE, De finibus, II, 6, 17 = SVF I, 75
Questa, vi dico, è teoria propria di Zenone stoico: come già prima
Aristotele, egli riteneva che l’arte del parlare fosse distribuita
in due parti, dialettica e retorica; e diceva che la dialettica è
simile al pugno chiuso, la retorica al palmo aperto, perché più
diffusamente parlano i retori e più concisamente i dialettici135.
DIONISIO DI ALICARNASSO, De Demosthenis dictione, 48, pp. 232-233
Usener-Radermacher = fr. 537 Hulser
Le prime parti del discorso, che alcuni chiamano elementi … siano
esse quattro, come sembra a Zenone stoico e alla sua scuola136,
siano esse di più…
PLUTARCO, De Stoic. rep., 8, 10340 = SVF I, 78
A chi dice «non rendere giustizia finché non avrai ascoltato il
racconto di entrambe le parti» Zenone contrapponeva il seguente
discorso: il primo dei due che ha parlato, è riuscito a dimostrare,
e in questo caso è inutile stare a sentire il secondo; si è già
raggiunto quello che si cercava; oppure non ha dimostrato, e
similmente se, chiamato in tribunale, non si è presentato, o,
presentatosi, ha detto ciance: in ogni caso o ha dimostrato o non ha
dimostrato: non c’è quindi necessità di sentire il secondo137.
Anonymi ars rhetorica, Rhet. Gr. I, p. 434, 23 sgg. Spenge = SVF I,
83
Cosi dice Zenone: lo svolgimento del discorso è l’esposizione dei
fatti preannunciati nell’argomento, che avviene al cospetto di colui
che parla.
Anonymi ars rhetorica, Rhet. Gr. I, p. 447, 11 Spengel = SVF I, 84
Come dice Zenone: l’esempio è il far menzione (απομνημνευση) di cosa
avvenuta a somiglianza di ciò che si ricerca presentemente138.
FISICA
AEZIO, Placita, I, 3, 25, Dox. Gr., p. 289 = SVF I, 85
Zenone di Mnasea, di Cizio, dice che principi del tutto sono la
divinità e la materia: di essi il primo è la causa attiva, l’altro
quella passiva; gli elementi poi sono quattro.
ACHILLE, Isagoge, 3, p. 31, 1 segg. Maass = SVF I, 85
Zenone di Cizio dice che principi del tutto sono la divinità e la
materia, e che la divinità è l’agente, la materia il prodotto139: da
essi derivano i quattro elementi.
VALERIO PROBO, In Vergila Eclogas, VI, 31, p. 10 Keil = SVF I, 102 e
496
Egli riferisce che tutto questo nostro mondo naturale all’origine
era sparso in una gran quantità di materia tenue e piena di vuoti,
ma che poi si condensò nei quattro elementi e da questi
successivamente ebbero forma tutte le cose. Questa è la dottrina
degli stoici Zenone di Cizio e (Crisippo) di Soli e Cleante (di
Asso)140.
CALCIDIO, In Platonis Timaeum, 290, p. 294, 6 segg. Waszink = SVF I,
86
Parecchi fanno la materia diversa dalla sostanza, come Zenone e
Crisippo. Dicono che «materia» è ciò che sottostà a tutte quelle
realtà che hanno una certa qualità, e che la materia è l’essenza
prima di tutte le cose o il loro fondamento primitivo, per sua
natura senza volto e informe: per esempio il bronzo, l’oro, il ferro
e le altre realtà di questo tipo sono materia delle cose che da essi
sono foggiate; non ne sono tuttavia la sostanza. «Sostanza» è ciò
che tanto a quelle cose quanto ad altre è causa di essere141.
STOBEO, Eclog. I, 11, 5a, p. 132, Wachsm. = SVF I, 87
Di Zenone. Sostanza è la materia prima di tutte le cose, e questa è
tutta nel suo insieme eterna, e non cresce né diminuisce; sono solo
le sue parti che non rimangono sempre le stesse, ma si dividono e si
rifondono. Attraverso essa scorre la ragione universale, che alcuni
chiamano fato; così come lo sperma scorre nell’atto della
generazione142.
CALCIDIO, In Platonis Timaeum, 294, p. 297, 1 segg. Waszink = SVF 1,
87
Gli Stoici ovviamente ritengono che la divinità sia la stessa cosa
che la materia, oppure che la divinità sia come una proprietà
inseparabile dalla materia; e che la divinità permei la materia
tutta, così come per gli organi genitali scorre il seme.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 150 = SVF I, 87
Dicono che sostanza di tutte le cose sia la materia prima … così
Zenone; ma c’è una differenziazione di nomi: sostanza si chiama
riguardo al tutto, materia rispetto alle realtà particolari. La
sostanza del tutto non subisce diminuzione né accrescimento, quella
delle parti li subisce.
CALCIDIO, In Platonis Timaeum, 292, pp. 294-95 Waszink = SVF I, 88
Quindi Zenone dice che questa sostanza è finita ed è comune a tutte
le cose che sono, divisibile e sempre mutevole: e le sue parti si
cambiano, ma non periscono, sì che nessuna delle realtà esistenti si
può ridurre al nulla. Così come avviene di innumerevoli figure
diverse impresse nella cera, così egli ritiene, non c’è nessuna
forma né figura né qualità che sia propria di quella materia che è
il fondamento di tutte le cose, ma che tuttavia essa è sempre
congiunta e inseparabilmente connessa con una certa qualità. E
poiché è priva di nascita e di morte, giacché non proviene dal nulla
né può tornare a ridursi nel nulla, non può mancarle spirito vitale
in eterno; e questo la muove dall’interno razionalmente sia tutta
nel suo insieme sia talvolta per singole parti; ciò è causa del
mutarsi così frequente e così vivace di tutta la natura. Quello
spirito motore non è semplicemente natura, ma è anima, e anima
razionale, che vivificando il mondo sensibile, lo adorna di quella
bellezza di cui lo vediamo risplendere. Per questa ragione chiamiamo
il mondo essere animato e felice.
STOBEO, Eclog., I, 13, 1c, p. 138 Wachsm. = SVF I, 89
Zenone dice che la causa è ciò per cui; quello di cui è causa, è
l’accidente143. Ciò che è causa è una realtà corporea; ciò che è
causato è un predicato. E impossibile che vi sia una causa e non
esista ciò che è causato. Quanto si è detto ha in pratica questo
significato: causa è ciò per cui una determinata cosa avviene, per
esempio, per via dell’intelligenza esiste l’atto del pensare, e per
via dell’anima quello del vivere, e per via della temperanza l’agire
in conseguenza; né è possibile che si possa essere temperanti in
alcun caso senza che ci sia la temperanza, o vivere senza che ci sia
l’anima, o pensare senza che ci sia l’intelligenza144.
CICERONE, Acad. post., I, 11, 39 = SVF I, 90
(Zenone) si differenziava da questi (Accademici e Peripatetici)
perché pensava che nulla possa esser prodotto da una realtà priva di
corpo …né che possa essere incorporeo o ciò ch’è causa, o ciò ch’è
causato.
AEZIO, Placita, I, 15, 6, Dox. Gr. p. 313 = SVF I, 91
Zenone stoico ritenne che i colori fossero forme primitive della
materia145.
Ps. GALENO, In Hippocratis de humorihus, 1, XVI, p. 32 Kühn = SVF I,
92
Zenone di Cizio riteneva che, così come si mescolano le qualità per
l’universo, si mescolassero fra loro anche le sostanze.
GALENO, De naturalibus facultatibus, I, 2, p. 5 Kühn = SVF I, 92
…se occorre credere veramente che qualità e sostanze si mescolino
reciprocamente per l’universo, come poi affermò Zenone di Cizio.
STOBEO, Eclog., I, 8, 4oe, p. 104 Wachsm. = SVF I, 93
Zenone diceva che il tempo è un intervallo del movimento, e che è
anche criterio e misura della velocità e della lentezza che
(ciascuna cosa)146 possiede. Secondo il tempo avvengono tutte le
cose che sono in divenire e trascorrono, ed esistono tutte le cose
che sono.
SIMPLICIO, In Arist. Categorias, p. 350, 15 segg. Kalbfleisch = SVF
I, 93
Tra gli Stoici, Zenone affermò che il tempo è intervallo di ogni
tipo di movimento in assoluto.
TEMISTIO, In Arist. Phys., II, p. 284, 10 segg. Spengel = SVF I, 94
Il vuoto sarebbe limitato e raccolto in se stesso e disposto intorno
al cielo, come credettero alcuni degli antichi, e poi in seguito
anche Zenone di Cizio e i suoi seguaci.
AEZIO, Placita, I, 18, 5-20, 1, Dox. Gr. pp. 316-317 = SVF I, 95
Zenone e i suoi seguaci ritenevano che air interno del mondo non vi
fosse alcun vuoto, ma che all’infuori di esso vi fosse il vuoto
infinito. Dicevano che sono differenti fra loro il vuoto, il luogo,
lo spazio: il vuoto è là dove non esiste alcun corpo, il luogo è
connesso a un corpo, (χρα) è connesso a una realtà particolare, per
esempio quando si parli di una giara di vino147.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 140 = SVF I, 95
Fuori del mondo si diffonde l’infinito vuoto, ed esso è incorporeo.
E incorporeo in quanto è capace di essere occupato da corpi senza a
sua volta stare in altro. Ma all’interno del mondo non vi è vuoto di
sorta.
GIOVANNI FILOPONO, In Arist. Phys., p. 613, 23 segg. Vitelli = SVF
I, 96
Il vuoto non è disperso per i vari corpi, ma è continuo; è fuori del
cielo che esiste il vuoto di per se stesso, come del resto è per lo
più la rappresentazione comune, che ipotizza un vuoto infinito al di
là del cielo. Dicono che questa era l’opinione di Zenone di Cizio e
dei suoi seguaci.
ARISTOCLE presso EUSEBIO, Praep. Evang., XV, 14, 1-2 = SVF I, 98
Tutti (Zenone, Cleante, Crisippo) dicono che principio dell’essere è
il fuoco, come già Eraclito; e che di questo sono princìpi la
materia e la divinità, e in ciò concordano con Platone. Ma costui
(Zenone) dice che entrambi sono realtà corporee, e che sono l’uno il
principio attivo, l’altro il principio passivo, mentre invece
(Platone) diceva che il primo principio attivo è incorporeo. Dice
anche che, in tempi prestabiliti, tutto l’universo si risolverà in
fuoco, e poi nuovamente si riformerà da questo, con un certo ordine.
Il primo fuoco è in qualche modo come un seme, e contiene in sé le
ragioni di tutte le cose e le cause delle cose generate e di quelle
che si generano e di quelle che saranno in futuro: l’intrecciarsi
reciproco e la concatenazione di queste si identifica con il
destino, la scienza, la verità e la legge di tutto ciò che è, ed è
inflessibile e inesorabile. In questa forma tutte le realtà
dell’universo sono governate nella maniera più egregia, come in una
città retta da ottime leggi148.
STOBEO, Eclog. I, 19, 4, p. 166 Wachsm. = SVF I, 99
Di Zenone. Le parti di tutte quelle realtà dell’universo che
esistono per disposizione propria hanno un movimento che le porta
verso il centro dell’universo, che coincide col centro del mondo
ordinato; si può dire perciò ragionevolmente che tutte le parti del
mondo hanno un movimento diretto verso il centro, e in particolare
quelle realtà che hanno un peso. Questo fatto spiega perché il mondo
permanga immobile nell’infinito vuoto, e similmente perché la terra
rimanga al centro del mondo: perché essa giace al centro di questo
in base a un equilibrio delle forze149. Che ogni corpo ha un peso
non lo si può affermare in generale: corpi come l’aria e il fuoco,
per esempio, non hanno peso. Anche corpi come questi tendono verso
il centro della sfera del tutto, ma formano una parte consistente
dalla periferia di questa, giacché, per lo stesso fatto che son
privi di peso, tendono piuttosto ad andar verso l’alto. Similmente a
questi anche il mondo, essi dicono, non ha peso, per la sua
composizione che consta di elementi che hanno peso ed elementi che
non lo hanno; la terra tuttavia di per sé essi ritengono che abbia
peso per la sua posizione, dato che occupa lo spazio centrale del
cosmo, e inoltre, giacché i corpi di questo tipo hanno il loro
movimento verso il centro, essa rimane sempre nello stesso luogo.
AEZIO, Placita, I, 14, 6, Dox. Gr., p. 313 = SVF I, 101
Zenone diceva che il fuoco si muove in linea retta.
AEZIO, Placita, I, 12, 4, Dox. Gr., p. 311b = SVF I, 101
Il fuoco che si trova sulla terra si muove in linea retta; quello
etereo circolarmente150.
FILONE ALESSANDRINO, De aeternitate mundi, 23-24, 117 segg., VI, p.
108 segg. Cohn-Reiter = SVF I, 106151
Teofrasto dice che coloro che affermano che il cosmo è generato e
corruttibile sono ingannati soprattutto da quattro fondamentali
motivi: il carattere irregolare della superficie terrestre, il
flusso e riflusso del mare, il venir meno delle singole parti della
realtà, il perire delle stirpi degli animali da cui la terra è
abitata. Il loro primo argomento è questo: «Se la terra non avesse
mai avuto una origine, non si vedrebbe nessuna parte più elevata in
essa ma tutti i monti sarebbero ormai spianati e tutti i rialzi
sarebbero livellati alla pianura; dal momento che tali e tante
piogge si riversano ogni anno dal cielo, sarebbe naturale che dei
luoghi più elevati alcuni venissero giù in torrenti, altri si
abbassassero ritirandosi, tutti tendessero a spianarsi
completamente; invece vediamo continue irregolarità del terreno, e
le forme ardite dei moltissimi monti. protesi verso l’alto
dell’etere ci ammoniscono che la terra non è eterna. In un tempo
così grande e infinito, come già ho detto, per via delle piogge, da
un confine all’altro della terra si sarebbe formata una sola strada
spianata. E naturalmente proprio dell’acqua, soprattutto quando essa
scende giù da un luogo elevato, da un lato il respinger via le cose
con forza, dall’altro lo scavare incidendo a poco a poco con la
continuità delle piogge minute e lavorare il suolo duro e pietroso
così come potrebbero farlo uomini muniti di zappa».
«Anche il mare» essi dicono «ha subito una diminuzione. Ne sono
testimoni le famosissime isole di Rodi e Delo: in antico esse erano
sparite sommerse dal mare, ma nel corso del tempo, essendosi il mare
abbassato di livello, sono riemerse e divenute visibili, come
raccontano le storie scritte intorno ad esse. Delo fu infatti
chiamata anche Anafe152, e tutti e due questi nomi attestano il
fatto di cui si è detto, giacché apparendo essa divenne visibile,
mentre in passato era celata e invisibile … Ma se il mare subisce
diminuzione, ne subisce anche la terra, e in lungo volgersi di anni
finirà col venir meno in ogni singolo elemento, e si consumerà
l’aria riducendosi sempre di quantità, e infine tutto si risolverà
in una sola sostanza, quella del fuoco».
Come terzo argomento usano questo: «Si vanifica interamente quello
che è composto di parti periture; ma tutte le parti del cosmo sono
periture; quindi anche il cosmo nel suo insieme lo è». Questo
argomento, cui ci riserviamo di rispondere più oltre, va ora
esaminato. «Qual è quella parte della terra, per prendere inizio da
questa, grande o piccola che sia, che non venga meno col tempo? Non
si disfanno e imputridiscono forse anche i più solidi macigni, per
la debolezza della loro interna coesione — la tensione dello spirito
che li tiene insieme è un legame non indissolubile, soltanto
difficile a dissolversi — e non si spezzano forse anch’essi e si
risolvono infine in lieve polvere, fino a dissolversi del tutto?153.
L’acqua, se non è agitata dai venti, lasciata immobile non finisce
forse col morire per la sua stessa inattività? Essa muta qualità e
si corrompe, come il corpo di un animale privato dell’anima. E
chiaro a chiunque che può venir meno anche l’aria: rientra nella sua
natura l’ammalarsi e il putrefarsi e in certo modo morire. Potrebbe
chi ami non cercare la bellezza delle parole, ma la loro verità,
definire la peste altrimenti che come la morte dell’aria, che
diffonde in giro il suo proprio male a distruzione di tutte le
realtà cui è stata data in sorte un’anima? Quanto al fuoco, che
bisogno c’è di dilungarsi in discorsi? Quando gli manchi nutrimento,
si spegne subito, diventando di per sé zoppo, come dicono i
poeti154. Se riceve un supporto, si erge dritto fino a che non resta
materia accesa, ma quando questa è venuta meno scompare. Si dice che
i serpenti dell’India subiscano lo stesso fenomeno: essi si
arrampicano sui più grandi degli animali, gli elefanti, e si
attorcono intorno al loro dorso e al loro ventre; li mordono in una
vena dove capiti, e bevono il loro sangue, succhiandolo con
esalazione violenta e con continuo stridore. Per un certo tempo
quelli, pur così consumati, resistono, dando balzi in preda alla
disperazione e battendosi i fianchi con la proboscide per cercar di
colpire i serpenti; poi, mano a mano che si svuotano dello spirito
vitale, non sono più capaci di dar balzi, ma stanno in piedi
immobili come soggiogati; infine, divenute le loro zampe troppo
deboli, precipitano a terra e spirano dissanguati. Nella loro
caduta, tuttavia, trascinano con sé nella morte anche quelli che ne
sono gli autori, e ciò avviene in questo modo: i serpenti, non
trovando più nutrimento, cercano di sciogliere quel legame che hanno
intrecciato, desiderando ormai di separarsi da loro, ma restano
schiacciati sotto il peso degli elefanti, in particolare quando la
terra sotto di loro è dura e sassosa: contorcendosi e facendo di
tutto per liberarsi, oppressi dalla forza del corpo che li comprime,
si indeboliscono sempre più affannandosi in vani e disperati
esercizi e, come chi sia lapidato o chi sia oppresso da improvvisa
caduta di un muro, non riuscendo più nemmeno a emergere con la
testa, muoiono per soffocamento155. Ora, se tutte le singole parti
del corpo subiscono processo di dissoluzione, il cosmo che è di esse
composto non può essere indistruttibile.
Quanto all’ultimo e quarto argomento156, bisogna formularlo
precisamente; così essi dicono: «se il mondo fosse eterno lo
sarebbero anche le specie animali e soprattutto il genere umano, in
quanto superiore alle altre specie. Ma proprio questo appare
chiaramente esser nato più tardi delle altre specie a coloro che
intendono studiare la realtà della natura: ed è naturale, ancor di
più, necessario, che la nascita delle arti coincida con quella
dell’uomo e abbia la stessa età, non solo perché l’agire
metodicamente è proprio di una natura razionale, ma anche perché
senza le arti è impossibile vivere. Guardiamo un po’ quale sia il
tempo in cui esse di volta in volta sono nate, lasciando da parte i
miti che le tragedie raccontano circa gli dèi…157. Ma se non è
eterno l’uomo, certo non lo è nessun altro essere animato, e tanto
meno lo sono le ragioni che accolgono in sé tali esseri, la terra,
l’acqua, l’aria. E da tutto ciò è chiaro che il mondo è perituro».
STOBEO, Eclog., I, 20, le, p. 171 Wachsm. = SVF I, 107
Zenone, Cleante, Crisippo ritengono che la realtà tutta si trasmuti
quasi in un fuoco seminale, e che poi da questo di nuovo risorga il
mondo ordinato così come era prima.
TAZIANO, Adv. Graecos, 5, p. 6 Whittaker = SVF I, 108
Zenone dichiara che dopo la conflagrazione risorgeranno gli stessi
uomini per compiere le stesse azioni, per esempio Anito e Meleto per
accusare, Busiride per uccidere gli ospiti, Eracle per far azioni
eroiche158.
NEMESIO, De natura hominis, 148, P.G. XL, col. 760 = SVF I, 109
Vi sarà un altro Socrate, e un altro Platone, e vivranno nuovamente
gli stessi uomini uno per uno, con gli stessi amici e concittadini
di prima; crederanno nelle stesse cose, subiranno le stesse vicende,
tratteranno le stesse questioni; ogni città, ogni villaggio, ogni
campo si ristabilirà nella stessa forma di prima.
SESTO EMPIRICO, Adv. physicos, I, 107 = SVF I, 110
In effetti egli (Platone) faceva lo stesso discorso che poi fece
Zenone. Questi dice infatti che l’universo è opera bellissima
compiuta secondo natura e secondo ragione verosimile159, essere
animato, dotato di pensiero e di ragione.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 104 = SVF I, 111
E di nuovo Zenone dice: «se ciò ch’è razionale è superiore a ciò che
non lo è, ma in pari tempo non vi è nulla che sia superiore
all’universo nel suo insieme, è evidente che l’universo è dotato di
ragione e di anima»160.
CICERONE, De nat. deor., II, 8, 22 = SVF I, 1121
Lo stesso Zenone concludeva questo ragionamento con una
similitudine, com’era suo costume abituale, in questo modo: «se
tibie che suonano armoniosamente nascessero da un albero di olivo,
potresti dubitare che nell’olivo ci sia la scienza del flautista? E
se i platani producessero strumenti a corde che suonano con
determinati ritmi, penseresti certo che nei platani vi sia scienza
musicale. Ma allora, come si può giudicare il mondo privo di anima e
di sapienza, se dal suo seno produce esseri dotati di anima e di
sapienza»
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 110 = SVF I, 113
Zenone di Cizio, traendo spunto da Senofonte161, argomenta in questa
maniera: «il seme emesso da un essere dotato di ragione è razionale;
ma l’universo emette seme razionale; l’universo è quindi dotato di
ragione». A questo viene ricondotta la sua stessa sussistenza.
CICERONE, De nat. deor., II, 6, 22 = SVF I, 113
Nulla che sia privo di anima e di ragione può generare alcunché che
ne sia dotato. Ma l’universo genera esseri animati e razionali; e
quindi il mondo non può non essere animato e razionale.
CICERONE, De nat. deor., II, 8, 22 = SVF I, 114
Lo stesso Zenone così dice: «Di chi è privo di sensazione, non può
non esservi nessuna parte che sia senziente. Ma dell’universo vi
sono parti senzienti; non può quindi il mondo esser privo di
sensazione».
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 85 = SVF I, 114
Quella realtà che comprende in sé nature razionali, deve essere
razionale, perché non è possibile che il tutto sia inferiore a una
sua parte»162.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 133 = SVF I, 152
Zenone argomentava anche in tal forma: «È ragionevole che gli dèi
siano venerati. Però nessuno troverebbe ragionevole che si
venerassero essere non esistenti; il che vuol dire che gli dèi
esistono».
IPPOLITO, Refutationes, 21, 1, Dox. Gr., p. 571 = SVF I, 153
Crisippo e Zenone, i quali anch’essi supposero che la divinità sia
principio di tutte le cose: essendo essa corpo purissimo, la sua
provvidenza scorre per il tutto.
CICERONE, De nat. deor., I, 14, 36 = SVF I, 154
Questo stesso (Zenone) in un altro luogo dice che la divinità si
identifica con l’etere.
CICERONE, Acad. pr., 126 = SVF I, 154
A Zenone e a tutti gli altri stoici sembra che l’etere sia la
divinità suprema, dotata di ragione, in virtù della quale tutto
l’universo è governato.
TERTULLIANO, Adversus Marcionem, I, 13, 3, p. 24 Moreschini = SVF I,
154
Alcuni … come Zenone, chiamarono Dio l’aria e l’etere163.
TERTULLIANO, Ad nationes, II, 4, 9, p. 44 Borleffs = SVF I, 155
Ecco che anche Zenone poi ritiene che la materia del mondo sia
differente dalla divinità, e afferma che quest’ultima passa
attraverso quella come il miele scorre per i favi164.
AEZIO, Placita, I, 7, Dox. Gr., p. 303 = SVF I, 156
Zenone stoico affermò che la divinità è l’intelletto igneo del
mondo.
AGOSTINO, Adversus Academicos, III, 17, 38 = SVF I, 157
Egli (Zenone) credeva infatti che il fuoco stesso sia dio.
TEMISTIO, In Aristotelis de anima, p. 35, 32-33 Heinze = SVF I, 158
E sembra che anche i seguaci di Zenone abbiano un’opinione concorde,
in quanto affermano che la divinità abita per tutta la materia, e in
un luogo è intelletto, in un altro anima, in un altro ancora natura
e altrove disposizione165.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrepticus, 5, 66, 3, p. 50 Stáhlin = SVF
I, 159
Né passerò sotto silenzio gli Stoici, i quali dicono che la divinità
scorre per tutte le parti della materia, anche le più spregevoli, e
così dicendo fanno maldestramente oltraggio alla filosofia.
TAZIANO, Adv. Graecos, 3, p. 6 Whittaker = SVF I, 159
I malvagi sono, in realtà, molto più numerosi dei buoni. Ma egli fa
Dio stesso autore delle cose cattive, dal momento che lo avvilisce
fino al livello delle fogne, e dei vermi, e di altre realtà
innominabili166.
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypotyp., III, 218 = SVF I, 159
Dicono gli Stoici che la divinità è un soffio che scorre anche per
le parti più abominevoli della realtà.
CICERONE, De nat. deor., I, 14, 36 = SVF I, 161-162
Zenone ritiene che la legge della natura sia divina, e che tale
legge abbia la sua esplicazione nel comandare ciò ch’è giusto,
proibire il contrario …In altri suoi libri afferma che vi è una
razionalità dotata di efficacia divina che pervade tutta la natura.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 88 = SVF I, 162
…la legge comune, che si identifica con la retta ragione che
percorre l’universo, e coincide con lo stesso Zeus, questo capo
supremo del governo dell’universo.
LATTANZIO, Div. inst., IV, 9, pp. 300-301 Brandt = SVF I, 160
Zenone dichiara il logos ordinatore della natura e artefice
dell’universo: e lo chiama fato, necessità, divinità e anima di
Zeus167.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 188 = SVF I, 163
Essenza di Dio è per Zenone l’intero universo e il cielo.
LATTANZIO, De ira dei, n, 14-15, p. 97 Brandt = SVF I, 164
Antistene … disse che uno solo è Dio secondo natura, benché tutti i
popoli e le città ne abbiano di propri nazionali168. Cose simili
dice anche Zenone con i suoi Stoici.
CICERONE, De nat. deor., I, 14, 36 = SVF I, 1651
Lo stesso Zenone attribuisce la medesima cosa (efficacia divina)
agli astri, e poi ai cicli degli anni, agli anni stessi e ai
mesi169.
CICERONE, De nat. deor., II, 24, 63 = SVF I, 166
Per un altro motivo, e basato su ragioni fisiche, ecco fluire una
gran moltitudine di dèi, i quali, rivestendo forma umana, offrirono
ampia materia di favole ai poeti e riempirono la vita umana di ogni
specie di superstizione. Questo punto è stato trattato da Zenone, e
poi da Cleante e Crisippo illustrato con ampi discorsi.
MINUCIO FELICE, Octavius, 19, 10 = SVF I, 169
Lo stesso Zenone, quando interpreta Giunone come l’aria, Giove come
il cielo, Nettuno come il mare, Vulcano come il fuoco, e dimostra
che gli dèi del volgo non sono altro che elementi, condanna
severamente e denuncia un errore comune170.
FILODEMO, De pietate, col. 8, p. 74 Gomperz, Dox. Gr., p. 542 = SVF
I, 168, 170
…la forza capace di co(lle)gare propriamente le parti del tutto
l’un(a all’a)ltra e il sorgere e il muoversi in giro periodico del
sole … e i Dioscuri retti (ragiona)menti e buone disposizioni…171.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 156 = SVF I, 171
La natura (secondo Zenone) è un fuoco artefice, che procede con
metodo alla produzione delle cose.
CICERONE, De nat. deor., II, 22, 57-58 = SVF I, 171
Dunque Zenone definisce la natura così: dice che essa è un fuoco
dotato di capacità di produrre artigianalmente, che procede alla
produzione con metodo. E proprio dell’arte, egli ritiene, il
generare e produrre; e ciò che la mano compie nelle opere delle
nostre arti, con arte molto maggiore sa compierlo la natura; la
quale è, come ho detto, un fuoco dotato di capacità artigianale,
maestra a tutte le arti172. Secondo questa argomentazione, tutta
quanta la natura è dotata di tale capacità, perché ha in sé un
metodo e una via tracciata da seguire. E non solo essa è dotata di
capacità artigianale, ma è direttamente artefice dell’universo
stesso, che contiene e abbraccia tutte quante le cose; e ciò ancora
secondo la definizione di Zenone, che la dichiara dotata di
consiglio e preveggente procuratrice di ogni tipo di utilità e
opportunità. Così come tutte le altre nature nascono e crescono in
base a certi semi, ciascuna i suoi specifici, e sono già in essi
virtualmente contenute, così analogamente la natura del mondo intero
ha i suoi moti volontari, i suoi conati e le sue appetizioni, quelle
che i Greci chiamano προνια, ed esplica azioni in coerenza con
questi moti così come facciamo noi pure, noi che ci muoviamo in
virtù dell’anima e dei sensi. Tale dunque essendo la mente del
mondo, e potendosi per questa ragione chiamare prudenza o
provvidenza (il che in greco si dice πρνοια), a questo soprattutto
provvede e attende, che in primo luogo che il mondo sia costituito
nel modo più adatto a conservare la sua esistenza, in secondo luogo
che non presenti alcun difetto, poi infine che in esso sia bellezza
straordinaria e ogni ornamento173.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 149 = SVF I, 174
Dicono anche che, dal momento che esiste una provvidenza, è valido
qualsiasi tipo di divinazione, e dimostrano, in base a certi
risultati, che essa è un’arte.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 149 = SVF I, 175
Che tutto avvenga in base a destino lo dicono Crisippo … e Posidonio
… e Zenone … Destino è la concatenazione causale di ciò che avviene,
oppure è la norma razionale da cui è diretto il cosmo.
TEODORETO, Graecarum affectionum curatio, VI, 14, p. 258 Canivet =
SVF I, 176
Zenone di Cizio chiamava il destino forza che muove la materia, e lo
dichiarava identico alla provvidenza e alla natura.
EPIFANIO, Adversus haereses, III, 2, 9, Dox. Gr., p. 592 = SVF I,
177
Zenone di Cizio … diceva che il divino scorre dovunque; e che le
cause delle cose sono in certa misura in nostro potere e in certa
misura no; vale a dire che delle cose alcune dipendono da noi e
altre no174.
COSMOLOGIA, PSICOLOGIA
ACHILLE, Isagoge, 5, p. 36, 19 segg. Maass = SVF I, 1151
Zenone di Cizio così lo definiva: «il cielo è l’ultima parte
dell’etere: per esso e in esso tutte le cose appaiono. Esso infatti
contiene tutte le cose, fuorché se stesso; non contiene se stesso,
ma è recipiente di altro».
AEZIO, Placita, II, 11, 4, Dox. Gr., p. 340 = SVF I, 115
Zenone diceva che il cielo è fatto di fuoco.
STOBEO, Eclog., I, 25, 3, p. 213 Wachsmuth = SVF I, 120
Zenone dice che il sole, la luna e tutti gli astri sono dotati di
intelletto e mente, e sono ignei, di un fuoco capace di foggiare con
arte. Infatti ci sono due tipi di fuoco, quello incapace di foggiare
con arte e che consuma in sé stesso il suo nutrimento, l’altro
artigiano, che si accresce e conserva sempre, quale è quello che si
trova nelle piante e negli animali, fuoco che è natura e anima: è di
un fuoco siffatto che è composta la sostanza degli astri. Dice che
il sole e la luna si muovono di due movimenti, l’uno al di sotto del
mondo, da un sorgere a un altro sorgere, l’altro contrario al mondo,
che li fa dislocare di costellazione in costellazione. Le loro
eclissi avvengono per ragioni differenti: quelle del sole nella fase
delle congiunzioni, quelle della luna nella fase dei pleniluni; e
per l’uno e per l’altra vi sono eclissi maggiori e minori.
STOBEO, Eclog., I, 26, 1, p. 219, 12 segg. Wachsmuth = SVF I, 120
Zenone diceva che la luna è un astro dotato di intelletto e mente, e
che è fatta di quel fuoco che ha capacità di foggiare con arte.
Etymologium Gudianum, s.v. λιος[6] = SVF I, 121
Il sole (hélios) è detto dai poeti anche heélios e hàlìos, a causa
del sale: infatti, secondo Zenone stoico, esso è una accensione
intelligente, che viene dall’(esalazione) del mare175.
SENECA, Nat. Quaest., VII, 19, 1 = SVF I, 122
Il nostro Zenone è di questo parere: ritiene che le stelle si
incontrino nella congiunzione dei loro raggi, e che da tale
congiungersi delle luci derivi l’immagine di una stella più lontana.
ARRONE, De re rustica, II, 1, 3 = SVF I, 123
…sia che vi sia stata una prima generazione degli animali, come
hanno ritenuto Talete di Mileto e Zenone di Cizio, sia che non vi
sia stata, come hanno creduto Pitagora di Samo e Aristotele di
Stagira176.
CENSORINO, De die natali, IV, 10 = SVF I, 124
Zenone di Cizio, i fondatore della setta stoica, ritenne che vi sia
stato un inizio della specie umana al rinnovarsi del mondo; e che
gli uomini siano stati generati col solo strumento del fuoco divino,
vale a dire per divina provvidenza.
GALENO, Adv. Iulianum, 5, XVIII A, p. 269 Kühn = SVF I, 125
C’è discordanza sul problema se la nostra sostanza sia fatta di
aria, fuoco, acqua, terra oppure di umido, secco, caldo, freddo
insieme commisti in debite proporzioni, non tanta però quanta ve n’è
a proposito delle «caratteristiche comuni» care a Tessalo177, dal
momento che Platone e Zenone, Aristotele e Teofrasto, Eudemo e
Cleante e Crisippo, insieme con molti altri che chiamano sé stessi
stoici, peripatetici, platonici accettano di fatto entrambe le
teorie178.
VARRONE, De lingua latina, V, 59, p. 19 Goetz-Scholl = SVF, I, 126
… o che il seme genitale degli esseri sia, come vuole Zenone di
Cizio, fuoco, e fuoco animato e pensante.
RUFO EFESIO, De nominibus partium corporis humani, 228, p. 166, 9
segg. Daremberg-Ruelle = SVF I, 127
Zenone dice che spirito e calore sono la stessa cosa.
EUSEBIO, Praeparatio evang., XV, 20, 1 = SVF I, 1281
Zenone dice che il seme genitale che l’uomo eiacula è soffio vitale
misto a umore, è parte ed emanazione dell’anima, è mescolanza del
seme degli antenati e commistione coagulata insieme delle parti
dell’anima. Esso, avendo in sé ragioni analoghe a quelle del tutto,
quando giunge all’utero, raccolto insieme da altro soffio vitale,
quello ch’è parte dell’anima della donna, e divenuto compatto,
nascostamente germina, da quello mosso e attizzato, acquistando
sempre maggiore umidità e per via di questa crescendo179.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 158 = SVF I, 128
Il seme dell’uomo, quello che esso eiacula con umore, è intimamente
connesso, essi dicono, con le parti dell’anima e commisto delle
proprietà razionali dei proavi.
AEZIO, Placita, V, 5, 2, Dox Gr., p. 418 = SVF I, 129
Zenone dice che le donne emettono materia umida, simile a quel
sudore che si emette facendo ginnastica, ma non vero e proprio seme
generatore180
CICERONE, De divinatione, II, 58, 119, = SVF I, 130
Zenone pensava che l’anima subisca una contrazione e quasi cada e
precipiti; questa sarebbe la natura del sonno181.
GALENO, Adv. Iulian., 4, XVIII A, p. 257 Kuhn = SVF I, 132
Queste sono quindi le parole di questo illustre sofista, il quale
dice che la medicina metodica segue Zenone, Aristotele, Platone. Ma
noi gli ricorderemo di nuovo, come ciascuno di questi filosofi,
insieme con molti dei suoi seguaci, ritenga che la salute sia la
retta mescolanza di caldo e freddo e umido e secco; che le malattie
si verifichino nel corso della vita quotidiana quando uno di questi
elementi prepondera oppure scarseggia rispetto agli altri; che nel
corpo vi siano umori, gli uni umidi oppure secchi per quanto è
possibile, gli altri caldi o freddi, congetturando ciò in base alle
malattie. Così sosteneva Platone con tutta la sua scuola, così
Aristotele insieme col Peripato, così opinarono Zenone e Crisippo
con gli altri Stoici182.
CICERONE, Acad. post., I, 11, 39 = SVF I, 134
Zenone diceva che è fuoco quella stessa natura che genera ogni cosa,
anche la mente e la capacità di sentire.
CICERONE, De finibus, IV 5, 12 = SVF I, 134
Poiché si discuteva di una questione straordinariamente difficile,
quale quella se vi sia una quinta natura da cui nascono la ragione e
l’intelligenza, e si poneva il problema di quale sia la sostanza
dell’anima, Zenone disse che essa è il fuoco.183
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 157 = SVF I, 135
Diceva Zenone di Cizio… che l’anima è soffio ardente; da questo noi
siamo pervasi vitalmente, da questo mossi.
Ps. G ALENO, Philos. Hist., 24, Dox. Gr., p. 613 = SVF I, 136
La sostanza dell’anima gli uni la definirono incorporea, come
Platone e i suoi discepoli, ma Zenone e i suoi dicevano che essa
muove realtà corporee, e supposero che perciò fosse soffio vitale.
TERTULLIANO, De anima, 5, 3, p. 6 Waszink = SVF I, 137
Infine Zenone, definendo l’anima «spirito che si genera
internamente» insegna che «ciò che, al suo uscire, determina la
morte dell’essere animato, non può essere altro che una realtà
corporea; ma ciò avviene quando lo spirito interno esce; quindi lo
spirito interno è corporeo. E tuttavia questo stesso spirito interno
è anche anima: vale a dire che l’anima è corporea»184.
CALCIDIO, In Platonis Timaeum, 220, p. 232, 12 segg. Waszink =
SVF I, 138
Ma gli Stoici ritengono che il cuore sia la sede della parte
direttiva dell’anima, e non tanto il sangue, perché questo nasce
insieme col corpo. A proposito dello spirito Zenone così argomenta,
per dimostrare che esso si identifica con l’anima: «ciò che, quando
se ne va dal corpo, ne causa la morte, ne è certamente l’anima; ma
quando lo spirito vitale naturale se ne va dal corpo, l’essere
vivente muore; quindi lo spirito vitale naturale ne è l’anima».
LONGINO presso EUSEBIO, Praeparatio evang., XV, 21, 3 = SVF
Giustamente si potrebbe rimproverare a Zenone e a Cleante di aver
parlato dell’anima con impudenza e di aver detto che essa equivale a
una esalazione del corpo solido185.
GALENO, De placitis Hippocratis et Platonis, II, 8, p. 248 Muller =
SVF I, 140
…se egli186 seguisse Cleante e Crisippo e Zenone nel dire che
l’anima si nutre di sangue, e che lo spirito vitale è la sua
sostanza…
EUSEBIO, Praep. evang., XV, 20, 2 = SVF I, 141
Parlando dell’anima, Cleante, esponendo l’opinione di Zenone nel
confronto con quelle degli altri fisici, afferma che Zenone dice
essere l’anima una esalazione dotata di sensi, come già aveva detto
Eraclito. Questi infatti, volendo dimostrare come di volta in volta…
le anime intellettive nascano per esalazione, dice: «agli stessi
fiumi sopravvengono sempre nuove acque, e sempre nuove ne scorrono
via», e le anime si esalano dall’umidità187. Ora, Zenone dimostra
allo stesso modo di Eraclito che l’anima è un’esalazione; e la dice
dotata di facoltà sensoria in quanto la sua parte direttiva subisce
impressioni da parte delle cose esistenti e sussistenti, per mezzo
degli organi sensori, ed è capace di accogliere in sé tali
impressioni188. Queste sono le proprietà dell’anima.
GIAMBLICO presso STOBEO, Eclog., I, 49, 33, p. 367, Wachsm. = SVF I,
142
Ma infatti Crisippo e Zenone con i loro seguaci, e tutti quelli che
ritengono l’anima esser di natura corporea, collocano insieme le
facoltà come qualità nel sostrato, e pongono l’anima come sostanza
che serve di fondamento alle facoltà; dalle une e dall’altra
ottengono una natura composta di elementi dissimili.
NEMESIO, De nat. hom., 96, P. G. XL, col. 669 = SVF I, 143
Zenone stoico dice che l’anima si compone di otto parti: la
suddivide in parte direttiva, cinque sensi, la capacità vocale,
quella generativa.
GIAMBLICO presso STOBEO, Eclog., I. 49, 34, p. 369 Wachsm. = SVF I,
143
I seguaci di Zenone ritengono che l’anima sia divisibile in otto
parti per il fatto che numerose sono le sue facoltà189: per esempio
nella parte direttiva si trovano le rappresentazioni, l’assenso,
l’impulso, il ragionamento.
TERTULLIANO, De anima, 14, 2, p. 17 Waszink = SVF I, 144
Essa (l’anima) è divisa ora in due come da Platone, ora in tre come
da Zenone190
TEMISTIO, In Arist. De an., pp. 16, 34-17, 6 Heinze = SVF I, 145
Certo quelli che ritengono l’anima spirito vitale e le attribuiscono
movimento locale non potrebbero convenire che, così come essa esce
dal corpo, sia anche capace di rientrarvi di nuovo… Ma se esce dal
corpo come un altro corpo, perché anche non potrebbe entrarvi di
nuovo?… Tuttavia si potrebbe concedere a Zenone di difendersi in
qualche modo dicendo che l’anima è mista per tutta la sua sostanza
con tutta la sostanza corporea, e che il suo uscire dal corpo non
può avvenire se non a patto della distruzione del composto.
EPIFANIO, Adv. haeres., III, 2, 9, Dox. Gr., p. 592 = SVF I, 146
Zenone di Cizio, stoico, diceva che non si devono costruire templi
agli dèi, ma avere nella mente il senso del divino, o meglio ancora
pensare che la mente stessa sia cosa divina, in quanto è
immortale191.
EPIFANIO, Adv. haeres., III, 2, 9, Dox. Gr., p. 592 = SVF I, 146
Egli (Zenone) chiamava l’anima «spirito che ha lunga durata»; non
diceva infatti che essa sia in assoluto immortale. Dopo molto tempo,
secondo il suo detto, essa si consuma fino a vanificarsi.
AGOSTINO, Contra Academicos, III, 17, 38 = SVF I, 146
Perciò Zenone si dilettava della sua opinione circa il mondo e
soprattutto l’anima — della quale, al contrario, quella filosofica
che è veramente tale tratta con cautela — dicendo che essa è
mortale, e che nulla vi è al di là di questo mondo sensibile, e che
nulla si compie in esso se non per mezzo di realtà corporee;
riteneva infatti che la stessa divinità non fosse altro che fuoco.
LATTANZIO, Div. inst., VII, 7, 13, p. 608 Brandt = SVF I, 147
Zenone Stoico insegnava che vi sono gli inferi e che le sedi dei pii
sono separate da quelle degli empi: gli uni abitano regioni
tranquille e amene, gli altri pagano il fio delle loro azioni in
luoghi di tenebra e in orrende voragini di fango.
GALENO, De Hippocr. et Pl. plac., II, 5, p. 201 Müller = SVF I, 148
Quel discorso di Zenone, molto esaltato dagli Stoici, dice così: «La
voce passa attraverso la gola. Ma se venisse direttamente dal
cervello, non avrebbe bisogno di passare per la gola. Inoltre, la
voce viene da dove viene anche il discorso192. E il discorso deriva
dal pensiero. Perciò se ne deve dedurre che il pensiero non ha la
sua sede nel cervello».
Schol. in Plat. Alc., 121a, p. 99 Greene = SVF I, 149
(a quattordici anni) si rivela in noi il ragionamento del tutto
perfezionato, secondo quanto dicono Aristotele, Zenone, Alcmeone
pitagorico.193
GIAMBLICO, presso STOBEO, Eclog., I, 48, 8, p. 317, Wachsm. = SVF I,
149
Poi nuovamente circa l’intelletto e tutte le facoltà superiori
dell’anima gli Stoici dicono che il ragionamento non nasce subito,
ma si raccoglie in seguito, sulla base delle sensazioni e delle
rappresentazioni, intorno ai quattordici anni.
AEZIO, Plac., IV, 11, 4, Dox. Gr. p. 400 = SVF I, 149
Quel ragionamento per cui siamo detti esseri ragionevoli si compie
sulla base delle anticipazioni194 in noi verso il primo settennio di
vita.
AEZIO, Plac., IV, 21, 4, Dox. Gr. p. 411 = SVF I, 150
Quello che da Zenone è detto il «vocale», o che si può chiamare
genericamente la voce, è spirito che si protende dalla parte
direttiva fino alla gola e alla lingua e agli organi propri della
funzione.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., II, 5, p. 208 Mùller = SVF I,
151
Zenone, Crisippo e tutto il loro seguito sostengono che, perché si
produca la sensazione nell’essere vivente, il movimento che si
verifica in una parte dell’anima per il sopravvenire di un elemento
dall’esterno deve propagarsi fino al principio stesso dell’anima.
ETICA
STOBEO, Eclog., II, 7, 6a, p. 75 Wachsm. = SVF I, 179
Così Zenone definiva il fine: «vivere coerentemente»; cioè vivere
secondo un principio razionale e armonico: sono infelici quelli che
vivono in stato di dissidio195.
CICERONE, De finibus, IV, 6, 14 = SVF I, 179
Dicono che questo stesso è il fine secondo Zenone, e che in esso è
compreso ciò che hai detto tu, il vivere in accordo con la natura.
CICERONE, De finibus, III, 6, 21 = SVF I, 179
Poiché il sommo bene è posto in ciò che gli Stoici chiamano ομολογα
e che noi traduciamo con «coerenza» (convenientia).
FILONE ALESSANDRINO, Quod omnis prob. lib., 22, 160, VI, p. 45
Cohn-Reiter = SVF I, 179
Quanto al fine, felicemente arriveranno a quella definizione che non
è più zenoniana di quanto non sia ispirata dall’oracolo: il vivere
in coerenza con la natura.
LATTANZIO, Div. Inst., III, 7-8, pp. 191, 195 Brandt = SVF I, 179
Il sommo bene di Zenone è il vivere in coerenza con la natura…
Ascoltiamo Zenone; talvolta egli ha qualche intuizione della virtù
come in sogno. Il sommo bene, egli dice, consiste nel vivere in
coerenza con la natura.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., II, 129, 21, p. 183 Stàhlin = SVF I,
180
E ancora, lo stoico Zenone ritiene che il fine consista nel vivere
secondo virtù.
CICERONE, Acad. pr., 42, 131 = SVF I, 181
Il vivere virtuosamente – che deriva dall’apparentamento
(conciliatio) con la natura – era il fine ultimo dei beni stabilito
da Zenone, iniziatore e capo della setta stoica.
PLUTARCO, De comm. notit., 23, 10691 = SVF I, 183
Non seguiva forse costoro196 Zenone, nel supporre che elementi della
felicità siano la natura e ciò che è secondo natura?
STOBEO, Eclog., II, 7, 6e, p. 77 Wachsmuth = SVF I, 184
Zenone definiva la felicità in questo modo: la felicità è il buono
scorrere della vita.
SESTO EMPIRICO, Adv. Eth., 30 = SVF I, 184
La felicità è — come dicono Zenone, Cleante, Crisippo e la loro
scuola — il buono scorrere della vita197.
CICERONE, Tusc. Disp., II, 12, 29 = SVF I, 185
Non c’è niente che sia male, dice Zenone, se non ciò ch’è vergognoso
e malvagio… Non ha nessuna rilevanza il soffrire o meno al fine di
raggiungere la vita beata, che è riposta nella sola virtù; tuttavia
la sofferenza è da respingersi. E perché? E pur sempre aspra, contro
natura, difficile a sopportarsi, triste, dura198.
CICERONE, De fin., V, 27, 79 = SVF I, 187
Questo detto è pronunziato splendidamente da Zenone, e suona come un
oracolo: «la virtù rispetto al bene vivere, è pienamente sufficiente
a se stessa»199.
CICERONE, Acad. post., 10, 35 = SVF I, 188
Dunque Zenone non era di quelli che, come Teofrasto, in certo modo
tagliano i nervi alla virtù200: al contrario, egli riponeva nella
virtù tutto ciò che ha rapporto con la vita felice, e non annoverava
fra i beni alcuna altra realtà, e solo questo chiamava onesto, ciò
che è puramente e semplicemente ed esclusivamente il bene.
CICERONE, Acad. post., 2, 7 = SVF I, 188
Sia che tu segua Zenone, è cosa di non poco conto il far comprendere
che cosa sia quel suo bene vero e assoluto, che non può separarsi
dalla virtù.
CICERONE, De fin., IV, 17, 47-48 = SVF I, 189
… errava Zenone, dicendo che l’inclinazione dell’anima al
conseguimento del sommo bene non ha alcuna importanza se non verte
intorno alla virtù e al suo contrario, ma tuttavia, anche se tutte
le altre cose201 non hanno alcun peso in vista della felicità,
tuttavia vi sono in esse certe differenze202 rispetto
all’inclinazione che si può avere per esse. Come se questa
inclinazione non vertesse intorno al raggiungimento del sommo bene!
Che cosa è meno coerente a ciò del loro affermare che, una volta
conosciuto il sommo bene, bisogna tornare alla natura, per attingere
a questa il principio dell’agire, cioè del dovere?
CICERONE, De fin., IV, 21, 60 = SVF I, 189
Zenone chiama bene ciò che ha in sé esclusivamente la propria
ragione per essere desiderato; e vita felice solamente quella che si
conduce virtuosamente.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 127 = SVF I, 187
Ed essa (la virtù) è autosufficiente in ordine alla vita felice,
come dice Zenone.
AGOSTINO, Contro Acad., III, 7, 16 = SVF I, 186
Grida Zenone, e gli fa eco tumultuando tutto quel suo Portico, che
l’uomo non è nato se non alla virtù, e che essa, con il solo suo
splendore, attrae a sé gli animi, senza che vi sia alcun motivo
d’interesse posto in cose esteriori, che miri tendenziosamente a un
premio; e dice che quel tale piacere di Epicuro è propria solo alle
bestie nei loro rapporti reciproci; e che respingere l’uomo e il
sapiente in una simile società è cosa abominevole203.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5a, p. 57 Wachsm. = SVF I, 190
Queste Zenone dice esser le cose che hanno realtà. E delle cose che
sono alcune sono beni, altre sono mali, altre ancora sono
indifferenti. Beni sono cose come queste: la saggezza, la
temperanza, la giustizia, la fortezza204, e tutto ciò che è virtù, o
che partecipa della virtù. Mali sono cose come queste: la stoltezza,
la sfrenatezza, l’ingiustizia, la viltà, e tutto quello che è vizio
o di questo partecipa. Indifferenti sono cose di questo tipo: la
vita, la morte, la fama o l’oscurità, la sofferenza o il piacere, la
ricchezza o la povertà, la malattia o la salute, e tutte le cose a
queste simili.
CICERONE, Acad. post., I, 10, 36 = SVF I, 191
Tutte le altre cose, pur non essendo esse né beni né mali, diceva
tuttavia che alcune sono secondo natura, altre contro natura. E ne
annoverava ancora di altre interposte in mezzo fra queste. Quelle
che sono secondo natura, diceva che sono da accogliersi e da tenersi
in una qualche considerazione, per quelle contro natura vale il
discorso opposto; quelle da lui poste in mezzo, le giudicava
assolutamente neutre, e tali che non hanno la benché minima
rilevanza.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7g, p. 84 Wachsm. = SVF I, 192
Tra le cose che hanno un valore, ve ne sono di quelle che ne hanno
molto, altre che ne hanno poco. E ugualmente fra quelle spregevoli
ve ne sono alcune moderatamente e altre assolutamente tali. Quelle
che hanno molto valore, essi le chiamano «preferibili»205, e quelle
che sono assolutamente spregevoli, le chiamano «da respingersi»: il
primo che ha dato delle cose queste definizioni è Zenone. Essi
dicono preferibile quella data cosa che, pur essendo un
indifferente, è tale che la scegliamo in base a un ragionamento
preferenziale; lo stesso discorso, all’opposto, vale per ciò che è
da respingersi, e si possono fare esempi secondo lo stesso rapporto
analogico. Dei beni, nessuno si può definire un preferibile, perché
essi hanno il massimo valore, Il preferibile, che tiene un posto
subordinato e ha un valore di secondo grado, si avvicina in qualche
modo alla natura del bene: se pensiamo a una corte, non è il re che
si può paragonare al preferibile, ma quelli che vengono subito dopo
di lui per grado. Queste cose si dicono preferibili non perché
abbiano un particolare rapporto con la felicità o possano
coadiuvarla, ma perché noi siamo necessariamente condotti a
sceglierle contro i loro opposti, che sono da respingersi206.
CICERONE, Acad. post., 10, 37 = SVF I, 193
Fra le cose che dobbiamo in qualche modo scegliere, riteneva che
alcune fossero da valutarsi più e altre meno. E chiamava le cose di
maggior valore preferibili (praeposita), e quelle di minor valore da
respingersi (reiecta)207.
CICERONE, De finibus, III, 16, 52 = SVF I, 194
Ma non è fuori luogo, perché si comprenda meglio il significato
della parola, esporre il ragionamento che Zenone compiva per
spiegarla. Così come, egli dice, in una reggia non si dice che il re
stesso sia stato elevato a posizione onorevole (questo più o meno è
il senso di προηγμνον), ma lo si dice di quelli che sono pur sempre
tenuti in una qualche posizione di questo tipo, si che il loro grado
si avvicina al secondo luogo dopo il re, ugualmente, nella vita, si
dà il nome di προηγμνα va non a quelle cose che sono al culmine ma a
quelle che sono di secondo grado, cioè sono «elevate» (producta)208.
GELLIO, Noct. Att., IX, 5, 5 = SVF I, 195
Zenone pensava che il piacere fosse un indifferente, cioè di nessun
valore, né bene né male, il che — per dire l’espressione greca —
egli chiamava διφορον209.
SENECA, Epist. ad Luc., 82, 7 = SVF I, 196
Il nostro Zenone si vale di questo sillogismo: «nessun male può
essere tale da recar gloria; ma la morte può recar gloria; dunque,
la morte non è un male».
PORFIRIO, De abstin., III, 19 = SVF I, 197
Di ogni parentela e di ogni estraneità a sé è principio il sentire.
I seguaci di Zenone pongono la parentela con sé stessi (κειωσις)
come principio della giustizia210.
CICERONE, De finibus, IV, 16, 45 = SVF I, 198
Mi sarebbe sembrato più giusto che Zenone, nella sua disputa con
Polemone (dal quale aveva accolto la teoria della realtà «primo
secondo natura»), giacché era partito da principi comuni con quello,
si rendesse conto su che cosa avrebbe dovuto basarsi
fondamentalmente e donde derivasse la ragione del contendere; e non
che, mettendosi dalla parte di quelli che negano perfino che ciò
ritengono sommo bene abbia il suo fondamento nella natura, finisse
col valersi degli stessi argomenti e delle stesse opinioni di
costoro211.
CICERONE, Acad. post., 110, 38 = SVF I, 199
Per quanto i filosofi precedenti avessero detto che non tutta la
virtù sta nella ragione, ma che alcune delle virtù si attuano in
base a natura o a costume, Zenone invece poneva tutte le virtù nella
sola ragione. E mentre quelli ritenevano che quei tipi di virtù che
ho detto sopra potessero esistere separate dalle altre, questi
diceva che ciò non può avvenire in alcun modo; e riteneva che fosse
cosa ottima non anche semplicemente l’esercizio della virtù, come
quelli avevano affermato, ma l’abito intrinseco; e che non può esser
virtuoso se non chi esercita la virtù in ogni caso.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 7, 10340 = SVF I, 200
Zenone ammette una pluralità di virtù differenziate, come Platone,
quali saggezza, temperanza, giustizia, valore: le pone come
inseparabili reciprocamente, tuttavia altre e diverse fra loro.
Nell’atto poi di definirle una per una, disse che il valore è
saggezza (nel sopportare, la temperanza saggezza nello scegliere,
quella che propriamente si chiama saggezza è saggezza) nel compiere
le azioni212, la giustizia è saggezza nel distribuire: si tratta di
una sola virtù, la quale però appare di volta in volta come
differente nelle disposizioni relative alle cose e in ordine alle
sue realizzazioni.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 161 = SVF I, 200
Ma (Aristone) non volle fissare una serie di virtù, come aveva fatto
invece Zenone213.
PLUTARCO, De virt. mot., 2, 44ia = SVF I, 201
Apportò a ciò qualche soluzione anche Zenone di Cizio, definendo la
saggezza nel distribuire giustizia, quella nello scegliere
temperanza, quella nel sopportare valore. Gli Stoici, nel difendere
Zenone, affermano che in queste definizioni egli ha chiamato
saggezza quella che in realtà è scienza.
PLUTARCO, De virt mort. 3, 441C = SVF I, 202
Tutti costoro214 comunemente affermano che la virtù è una
disposizione della parte direttiva dell’anima e una capacità che
deriva dalla ragione; o meglio ancora ritengono che la stessa virtù
sia un ragionamento coerente a se stesso, solido e non rovesciabile.
Ritengono che la parte affettiva e irrazionale non si differenzi
dalla parte razionale in base a natura, ma che quella stessa parte
dell’anima che essi chiamano pensiero e parte direttiva, muovendosi
in ogni direzione e trasformandosi in affetti e in forme diverse
relative alla disposizione e all’abito, sia suscettibile di dar
luogo a virtù o vizio senza che per questo debba ipotizzarsi in essa
alcuna parte irrazionale. Quando si denuncia la presenza
dell’irrazionale, in realtà ciò avviene perché la parte
sovrabbondante dell’impulso ha preso il sopravvento e trascina la
ragione, nell’atto della sua scelta, a qualche esito assurdo. Una
affezione non è altro che la ragione divenuta malvagia e priva di
freni, che trae la sua forza violenta da un giudizio distorto ed
errato.
STOBEO, Eclog., II, 7, 1, p. 38 Wachsm. = SVF I, 203
Zenone e la sua scuola esprimono ciò per metafora: dicono che il
costume è la fonte della vita e che da questa fonte scorrono le
azioni particolari.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 173 = SVF I, 204
Secondo Zenone, è possibile comprendere il costume morale di un uomo
dal suo aspetto.
AEZIO, Plac., IV, 9, 17, Dox. Gr., p. 398 = SVF I, 204
Affermano gli Stoici che il sapiente si comprende dal suo stesso
aspetto con la semplice sensazione in maniera probante.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., Vili, no = SVF I, 205
Passione è, secondo Zenone, il movimento dell’anima irrazionale e
contro natura, o l’impulso sovrabbondante.
CICERONE, Tusc. Disp., IV, 6, 11 = SVF I, 205
La definizione di Zenone in merito è che la perturbazione — che egli
chiama πθος s— una commozione dell’anima contraria alla retta
ragione. Qualcuno può dire più brevemente che la perturbazione è un
impulso eccessivamente violento215.
STOBEO, Eclog., II, 7, 2, p. 44, 4 Wachsm. = SVF I, 205
Ogni passione è impulso che passa la misura.
STOBEO, Eclog., II, 7, 10, p. 88, 8 segg. Wachsm. = SVF I, 205
Dicono che la passione è impulso che passa la misura e non obbedisce
alla ragione nell’atto della scelta, o movimento dell’anima contro
natura216.
STOBEO, Eclog., II, 7, 1, p. 39, 5 segg. Wachsm. = SVF I, 206
Così come definiva lo stoico Zenone: «La passione è un impulso che
eccede la misura». Non diceva che sia tale per natura, ma
semplicemente che lo è di fatto; o in altri termini che non lo è in
potenza ma in atto217. Dette anche quest’altra definizione: «la
passione è sconvolgimento (πτοια) dell’anima», paragonando la
mobilità della parte affettiva al movimento delle ali (πτερ).
STOBEO, Eclog., II, 7, 10, p. 88, n Wachsm. = SVF I, 206
Perciò diceva che ogni passione è sconvolgimento, ogni
sconvolgimento passione.
CICERONE, Acad. post., 10, 38 = SVF I, 207
E mentre i filosofi precedenti non vollero sopprimere del tutto
dalla natura umana le commozioni dell’anima… ma semplicemente
contrarne lo spazio e ridurne la portata, questi (Zenone) volle che
il sapiente ne fosse del tutto privo, come se si trattasse di
malattie218. Così, mentre gli antichi dicevano che tali passioni
erano naturali e di natura diversa dalla ragione, e ponevano in una
determinata parte dell’anima gli appetiti, in un’altra la ragione
stessa, egli discordava da questa soluzione, giacché riteneva che le
passioni siano volontarie e che si dia spazio ad esse in base a un
giudizio dell’opinione, e che madre di esse tutte quante sono sia
una sorta di smodata intemperanza.
TEMISTIO, In Arist. de an., p. 107, 17 segg. Heinze = SVF I, 208
Non male dicono i seguaci di Zenone, ritenendo le passioni
dell’anima umana altrettanti atti di distorsione della ragione219 e
di giudizio errato.
GALENO, De Hippocr. et Pl. plac., V, 1, p. 405 Miiller = SVF I, 209
Zenone riteneva che le passioni non si identificassero con i giudizi
stessi, ma piuttosto con le contrazioni e dilatazioni, con gli
innalzamenti e abbassamenti dell’anima che ad essi conseguono220.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 3, p. 348 Müller = SVF I,
209
Su questo egli è in contrasto con Zenone e con molti altri fra gli
Stoici, che ritengono le passioni dell’anima essere non gli stessi
giudizi, ma le irrazionali contrazioni, impicciolimenti,
consumazioni, sollevamenti, dilatazioni che conseguono ad essi.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., III, 5, p. 299 Müller = SVF I,
210
Né c’è bisogno che ricerchiamo ancora altre prove del fatto che gli
spaventi, i dolori e tutti gli altri affetti consimili hanno la loro
sede nel cuore. Questo lo troviamo ammesso concordemente da tutti
gli Stoici: non solo Crisippo, ma anche Cleante e Zenone
manifestamente lo sostengono221.
STOBEO, Eclog., II, 7, 10, p. 88 Wachsm. = SVF I, 211
Generi sommi sono questi quattro: il desiderio, la paura, il dolore,
il piacere.
CICERONE, Tusc. Disp., III, 31, 74-75 = SVF I, 212
Mi sembra che si sia spiegato a sufficienza come l’afflizione
consista nell’opinione di essere afflitti da un qualche male
presente, opinione nella quale è compreso anche questo, che cioè
bisogna affliggersene. A tale definizione Zenone giustamente
aggiunge la precisazione che questa opinione di un male presente
deve anche essere in pieno vigore222.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 7, p. 391 Muller = SVF I,
212
«Questa definizione quindi» egli (Posidonio) dice «data
dell’afflizione da Zenone, come diverse altre sulle passioni, che
sono state poi messe per iscritto da Crisippo, chiaramente confutano
l’opinione di costui223. (Zenone) dice che l’afflizione è una
opinione recente di avere attualmente un male; abbreviando la
definizione alcuni tavolta la formulano così “l’afflizione è
l’opinione recente della presenza di un male”.»
LATTANZIO, Div. Inst., III, 23, 8, p. 253 Brandt = SVF I, 213
(Zenone) pone la misericordia fra i vizi e le malattie (dell’anima).
LATTANZIO, Div. Inst. Epitome, 33, 6, p. 709 Brandt = SVF I, 213
Zenone, il capo della Stoa, che loda la virtù, giudica però la
misericordia … una malattia dell’anima.
CICERONE, Pro Murena, 61 = SVF I, 214
Mai il sapiente è mosso da benevolenza, mai perdona ad alcun
delitto; non può esser misericorde se non chi sia stolto e leggero;
non è da uomo lasciarsi muovere e placare con preghiere.
SENECA, De ira, I, 16, 7 = SVF I, 215
Infatti, come dice Zenone, anche nell’anima del sapiente, anche
quando una ferita è guarita, rimane la cicatrice. Perciò egli, pur
essendo privo di passioni, ne sentirà pur sempre tracce e ombre.
STOBEO, Eclog., II, 7, ng p. 99 Wachsm. = SVF I, 216
Zenone e i filosofi della Stoa suoi seguaci ritengono che vi siano
due tipi di uomini, i saggi e gli stolti. I saggi esercitano le
virtù per tutto il tempo della loro vita, gli stolti sono sempre nel
vizio: perciò gli uni si comportano sempre resamente, gli altri
errano sempre. Il saggio, esercitandosi nelle comuni esperienze del
vivere, fa bene tutto ciò che fa, poiché agisce con saggezza e
misura e in base a tutte le altre virtù; al contrario, lo stolto fa
male tutto ciò che fa. Il saggio è grande, ben sviluppato, alto,
forte: è grande perché può arrivare a tutte le cose che si offrono e
propongono alla sua scelta, ben sviluppato perché riceve
accrescimento da ogni parte, alto perché partecipa di quell’altezza
che compete a un uomo nobile e sapiente, forte perché sa conservarsi
quella forza che gli è propria, rendendosi invincibile e
inespugnabile. Perciò non subisce costrizione da parte di altri né
esercita a sua volta coscrizione, non fa impedimento ad alcuno né
subisce impedimento, non esercita dominio né si lascia dominare, non
reca danno ad alcuno né ne riceve, non entra in rapporto con i
malvagi (né pone altri in tale rapporto)224, non cade in inganno né
inganna altri, non mentisce, non ignora nulla, nulla gli sfugge, non
è in alcun caso suscettibile di menzogna; soprattutto, è fortunato e
felice, ricco, pio e amico della divinità, e inoltre è degno di
essere re, stratego, uomo politico, capo della casa, possessore di
grandi ricchezze. Gli stolti hanno tutte le caratteristiche
contrarie a queste.
CICERONE, De fin., V, 28, 84 = SVF I, 220
Se la povertà fosse un male, nessun mendico, pur essendo sapiente,
potrebbe essere felice. Ma Zenone ha osato dire che un uomo in tale
condizione non solo è felice, ma è anche ricco.
CICERONE, Pro Murena, 61 = SVF I, 220-221
Diceva che solo i sapienti, se in estrema mendicità, son pur sempre
ricchi; se in estrema deformità, belli.
FILONE ALESSANDRINO, Quod omnis probus lib., 14, 97, VI, p. 28
Cohn-Reiter = SVF I, 218
Vale la pena di ricordare quel detto di Zenone, secondo cui sarebbe
più facile immergere un otre pieno di vento che costringere un
saggio qualsiasi a compiere contro la sua volontà una sola cosa
sconsigliata: è inflessibile e invincibile quell’anima che un retto
ragionamento ha fortificato con principi saldi.
PLUTARCO, De audiendis poètis, 12, = SVF I, 219
E Zenone, correggendo il detto di Sofocle «chi frequenta il tiranno
/ diventa servo di questi, anche se sia giunto a lui libero»225,
scrive invece: «non diventa suo servo, se sia giunto a lui libero»,
poiché all’idea di libero egli collega in maniera strettissima
quelle di intrepido, magnanimo, incapace di viltà.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., V, 14, 95, 1 p. 388 Stàhlin=SVF I,
223
Zenone stoico, attingendo a Platone, e questo a sua volta alla
filosofia barbarica226, dice che i buoni sono tutti quanti amici gli
uni degli altri.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 120 = SVF I, 224
Ritengono che tutti i peccati siano uguali…secondo quanto dice
Zenone.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 422 = SVF I, 224
Traendo spunto di qui, Zenone e i suoi insegnavano che tutte le
colpe sono uguali227.
CICERONE, Pro Murena, 61 = SVF I, 225
Tutti i misfatti, diceva, sono crimini nefandi allo stesso modo; né
è meno colpevole chi abbia ucciso un pollo senza necessità di chi
abbia strangolato il proprio padre.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 32 = SVF I, 226
Ed egli dice pure che tutti coloro che non sono saggi sono nemici,
servi ed estranei gli uni nei riguardi degli altri: anche se si
tratta di genitori e figli, fratelli, parenti228.
CICERONE, Pro Murena, 61 = SVF I, 227
Quanto a noi, che non siamo sapienti a quanto essi dicono, siamo
tutti fuggiaschi, esuli, nemici, addirittura pazzi.
FILONE ALESSANDRINO, Quod omnis prob. lib., 7, 53-54, VI, p. 15
Cohn-Reiter = SVF I, 228
Zenone, che si elevò alla virtù più di qualunque altro, spiega in
maniera elementare come gli stolti non abbiano diritto di parlare
nei confronti dei saggi. Dice infatti: «non farà querimonie 10
stolto se contraddica al saggio? Non vi può essere quindi uguale
diritto di parola per lo stolto nei confronti del saggio»229.
SENECA, Epist. ad Luc., 83, 9 = SVF I, 229
Zenone, uomo autorevolissimo, fondatore di questa fortissima e
santissima setta, vuole distoglierci dall’ubriachezza; ascolta come
deduce che l’uomo buono non sarà mai ebbro. «A un ebbro» dice
«nessuno affida mai un segreto; ma lo affida a un uomo saggio;
quindi l’uomo saggio non potrà mai essere ebbro»230.
CICERONE, De fin., III, 17, 58 = SVF I, 230
Dovere è ciò che si compie in modo tale da potersi rendere di esso
una ragione tale da approvarsi.
CICERONE, Acad. post., 10, 37 = SVF I, 231
E poiché egli aveva apportato a tali questioni231 mutamenti non
sostanziali, ma essenzialmente verbali, allo stesso modo tra il
retto agire e l’agire colpevole, tra il dovere e ciò che oppone a
questo, poneva alcune cose intermedie, indicando l’agire rettamente
nelle buone azioni, l’agire malvagio, cioè la colpa, nelle azioni
viziose, mentre considerava cosa intermedia l’osservanza o la
negligenza dei doveri.
CICERONE, De fin., IV, 20, 56 = SVF I, 232
Ma poi quel tuo piccolo Fenicio (sai infatti che quelli di Cizio,
tuoi clienti, sono venuti dalla Fenicia), uomo certamente d’ingegno,
non riuscendo a vincere la sua causa perché la natura delle cose gli
era contro, si diede a giocare con il significato dei termini; e
dapprima ammise che quelle cose che noi diciamo buone sono per lo
meno apprezzabili e conformi a natura, e cominciò a riconoscere in
tal modo che al sapiente, cioè all’uomo sommamente felice, la vita
andrà pur sempre meglio se abbia anche queste (che, pur non osando
dichiarare beni, dice però conformi a natura); e così pure ammette
che Platone, pur non essendo in realtà un sapiente, non è però da
condannarsi alla stessa stregua del tiranno Dionisio, e che questo
andrebbe condannato a morte perché non si può sperare che divenga
sapiente, l’altro andrebbe serbato in vita perché si spera che possa
diventarlo. Così pure le colpe sono parte tollerabili e parte no,
perché alcune di esse sono andate contro a un numero maggiore di
regole del dovere, altre a un numero minore: perciò degli stolti
alcuni sono privi di possibilità di raggiungere la sapienza, altri
invece, se ci si mettono d’impegno, possono raggiungerla.
GALENO, De cogn. morb., 3, V, p. 13 Kuhn = SVF I, 233
Zenone riteneva che si debba agire con tanta sicurezza da potersi
difendere sempre dalle accuse dei pedagoghi: così chiamava la
maggior parte degli uomini, che è sempre pronta a rimproverare il
prossimo anche se non sia invitata a farlo.
PLUTARCO, De prof. in virt., 12, 82f = SVF I, 234
Guarda quale sia quel detto di Zenone. Egli riteneva che ciascuno di
noi abbia coscienza di aver fatto un progresso in base
all’osservazione dei sogni: se in questi non si sia trovato mai a
godere di qualcosa di turpe, o a perdere la sua compostezza, o a
compiere cose terribili o assurde, e se, al contrario, come nel
fondo trasparente di una mare in tranquilla bonaccia, pur
nell’allentarsi della parte visiva e affettiva dell’anima sia
limpida la ragione232.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 25-26 = SVF I, 235
E si dice che mutasse i versi di Esiodo233 alla maniera seguente:
«felicissimo colui che obbedisce a colui che ben parla; ma buono
anche colui che da sé capisca tutto». E voleva dire che è migliore
chi riesca ad ascoltare bene quanto si dice e far uso di ciò che non
chi comprenda tutto da solo: questo ha solo la facoltà di
comprendere, l’altro, che sa obbedire, fa seguire a ciò anche
l’azione234.
STOBEO, Eclog. III, 4, 106, p. 245 Hense = SVF I, 238
Zenone diceva che è ridicolo non prestare attenzione ai consigli
circa come si deve vivere, come gente che non sa, e invece lasciarsi
colpire di ammirazione per la lode di tutti, come se questa avesse
la forza di un giudizio.
ATENEO, Deipnosoph., VI, 233b-c = SVF I, 239
Zenone stoico sembra aver ritenuto indifferenti tutte le cose, salvo
il servirsi di cose del genere (l’oro e l’argento) in maniera
legittima e onesta: egli considera riprovevole sia il cercarli sia
il fuggirli, e prescrive di far uso primariamente di cose modeste e
non superflue: di modo che gli uomini, raggiunta una disposizione di
spirito priva di timore e di stupore nei confronti di tutto il
resto, di tutte quelle realtà cioè che non sono né beni né mali, si
attengano generalmente a tutte le cose che sono secondo natura e si
astengano dalle contrarie per ragionamento e non per timore, non
temendole in quanto non devono temere in assoluto di nulla.
STOBEO, Eclog., III, 6, 20, p. 285 Hense = SVF I, 240
Zenone rimproverava alla maggior parte degli uomini il non saper
trarre piacere dal dolore, il che pure è possibile, preferendo
invece trarlo da raffinatezze superflue.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., II, 20, 125 p. 180 Stahlin=SVF I, 241
Bene diceva Zenone parlando degli abitanti dell’India, che il vedere
uno di questi bruciato al fuoco era per lui preferibile che non
apprendere tutte le possibili dimostrazioni sul dolore235.
ATENEO, Deipnosoph., XIII, 565d = SVF I, 242
Quel saggio Zenone, come dice Antigono di Caristo236, quasi
indovinando per profezia i vostri argomenti, sembrerebbe quasi,
circa la vita e l’occupazione che si professa di avere, dire che
coloro che fraintendono i suoi discorsi e non li capiscono sono
gente vile e non degna di esser libera, così come gli aderenti alla
setta di Aristippo sono impudenti e arroganti237.
MUSONIO presso STOBEO, Eclog., III 6, 24, pp. 289-290 Hense = SVF I,
243
E dice che è giusto quel detto di Zenone secondo cui il tagliarsi i
capelli e non lasciarseli crescere è al fine di vivere secondo
natura, sì che nessuno, impacciato dalla chioma, sia per questo meno
adatto a una azione qualsiasi.
ORIGENE, Cantra Celsum, VII, 63, p. 213 Kòtschau = SVF I, 244
Quelli che seguono la filosofia di Zenone di Cizio respingono la
fornicazione… in vista del bene comune: è contro natura per un
animale ragionevole che una donna, legalmente sposata a un altro,
generi dei bastardi, e rovini la casa di un altro essere umano.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 22 = SVF I, 245
Diceva che i giovani devono essere composti nel camminare, nel
portamento, nell’abito; e citava quei versi di Euripide a proposito
di Capaneo: che tale era la vita di quell’uomo: «per nulla si
esaltava della ricchezza / né aveva pensieri più ambiziosi di quelli
di un uomo povero»238.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedagog., III, 11, 74, p. 277 Stàhlin = SVF
I, 246
Sembra che Zenone abbia tracciato, una volta, il ritratto di un
giovinetto, e ne abbia fatto quasi una statua in questa forma: «puro
il volto, il ciglio non abbassato, l’occhio non errante qua e là, né
languido, il collo non reclino, le membra del corpo non rilassate ma
ritte come corde tese; sveglia la mente al ragionamento, capacità di
comprendere rapidamente i buoni detti e di ritenerli, portamento e
movimenti tali da non offrire mai agli impudenti alcun appiglio.
Fioriscano in lui insieme verecondia e virilità; gli stiano lontano
la vacuità dei venditori di unguenti, degli spacciatori d’oro, dei
mercanti di lane, di tutti gli altri consimili bottegai, tra i quali
si passa la vita ornati come etère e quasi seduti in un lupanare».
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypot., III, 200 = SVF I, 249
E che c’è da meravigliarsi, da momento che i Cinici e i seguaci di
Zenone, Cleante e Crisippo dicono che questo (l’unione fra maschi) è
fra le cose indifferenti?
EPIFANIO, Adv. haeres., III, 36, Dox. Gr., p. 592 = SVF I, 253
Zenone di Cizio, lo stoico, diceva… che è meglio gettare agli
animali i morti, piuttosto che nel fuoco. E che si può liberamente
far l’amore coi giovinetti239.
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypot., III, 246 = SVF I, 256
A proposito della sacra reverenza verso i genitori, lo stesso Zenone
dice, riferendosi alla storia di Giocasta e di Edipo, che non è
affatto cosa esecrabile l’aver rapporti sessuali con la propria
madre. Se questa, dice, si fosse sentita male in una parte qualsiasi
del corpo, egli avrebbe dovuta rianimarla con un’operazione manuale,
né in questo si sarebbe visto niente di turpe. Che c’è di turpe nel
fatto che abbia alleviato la sua sofferenza operando diversamente su
altre parti del corpo e abbia generato dalla propria madre forti
figli?
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypot., III, 205-206 = SVF I, 256 e 255
Ma anche Zenone di Cizio dice che non è affatto assurdo il
comprimere col proprio sesso il sesso della propria madre, così come
nessuno direbbe che sia cosa spregevole il comprimere qualsiasi
altra parte del suo corpo… Zenone non biasima il compiere
turpitudini, cosa che in genere noi riteniamo esecrabile.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 33 = SVF I, 257
Egli prescrive a uomini e donne di vestire allo stesso modo, e di
non nascondere alcuna parte del corpo.
SENECA, Epist. ad Luc., 104, 21 = SVF I, 258
Se ti piace intrattenerti con i Greci, intrattieniti di preferenza
con Socrate e con Zenone: l’uno ti insegnerà a morire se è
necessario, l’altro prima ancora che sia necessario.
SENECA, De otto, 3, 2 = SVF I, 271
Dice Zenone: «il sapiente accederà alla vita politica, a meno che
qualcosa non glielo impedisca».
SENECA, De tranquill. an., I, 7 = SVF I, 271
Pronto e ben disposto seguo Zenone, Cleante, Crisippo: nessuno di
essi si accostò personalmente alla vita politica, ma non vi fu uno
di loro che non mandasse altri a farlo.
1. Timoteo di Atene, biografo di cronologia incerta; per la sua
opera sui filosofi, dei quali amava porre in rilievo le debolezze
fisiche, cfr. Diogene Laerzio anche altrove (II, y, IV, 4; V, 1); in
proposito U. v. WILAMOWITZ-MOELLENDORFF, Antigonos von Karystos
(Philol. Untersuchungen IV), Berlin 1881, f, 107, n. 9; R. LAQUEUR,
v. Timotheos in Real-Encycl VI A 2 (1937), coll. 1338-1339.
2. Stoico del I sec. a. C; cfr. STRABONE, Geographica, XVI, 24, 4;
l’opera è citata da Diogene Laerzio a più riprese (VII, 1; 2; 6; 24;
28). H.v. ARNIM, in Real-Encycl. II, 1 (1896), col. 146, dimostra
comunque incertezze circa l’attribuzione a lui dell’opera.
3. Cfr. v. Arnim, SVF III, p. 202, fr. 1 (nell’esposizione dei
frammenti di Crisippo relativi a opere certe). Per il riferimento,
TEOGNIDE, v. 1360; DEMETRIO, De elocut., 172.
4. DIOGENEL., I, 13-15, e VI, 105; cfr. infra.
5. Incertezze su questo Timocrate, che potrebbe essere, ma non è
certo, l’epicureo fedigrafo fratello di Metrodoro (rimando per le
notizie a EPICURO, Opere, Torino, 1974, 19832, pp. 515, 530);
cfr. WILAMOWITZ, Antig. v. Kar., p. in, n. 17; A. GRILLI, Zenone e
Antigono II, p. 299, n. 1.
6. Ecatone, stoico del I sec. a. C, discepolo di Panezio, di Rodi;
v. ARNIM, in Real-Encycl., VII, 2 (1912), col. 2797; cfr. fr. 26
Gomoll (H. GOMOLL, Der Stoische Philosoph Hekaton, Bonn, 1933).
7. Gioco di parole col promontorio Cinosura (= coda di cane).
8. Come tutti gli elenchi di titoli resici da Diogene Laerzio,
questo elenco suscita non pochi problemi. Cfr. in proposito v.
FRITZ, Zenon von Kition, cit. col. 90 segg.: la lista è in primo
luogo incompleta; vi mancano opere altrove citate dallo stesso
Diogene o note da altra fonte (le Diatribe, il Περὶ λόγου, il Περὶ
οὐσίας, il Περὶ ϕύσεως, gli scritti di commento alla Teogonia di
Esiodo, le Chrie). Incerto il significato di alcuni titoli: (I
segni) potrebbe alludere ai segni o indizi come concetto
logico-gnoseologico, o forse più probabilmente a quei «segni»
premonitori del futuro di cui si occupa la fisica. Il titolo
Καθολιϰά a sé stante desta qualche dubbio; potrebbe esser
considerato facente tutt’uno col successivo Περὶ λέξεων così come la
parola Ἠθιϰά costituire un titolo a sé, potrebbe doversi ricollegare
agli ’Aπομνημονεύματα Κράτητος di per sé lascia intendere se si
tratti di «arte retorica» o di altro tipo, forse «erotica».
9. Per altre versioni cfr. PLUTARCO, De capienda ex inimicis
utilitate, 87a; De tranquillitate animi, 467 C; SENECA, De
tranquillitate animi, 14, 2 (raccolti in SVF I, 277; infra, nota
84).
10. Fr. 198 Usener. La testimonianza di Epicuro sulla Stoa è
importante, proprio in quanto assai rara; Epicuro si confronta per
lo più con la filosofia precedente, assai meno con i contemporanei.
Per un’altra testimonianza analoga tratta pure da un’epistola cfr.
infra, nota 16.
11. Per l’opera di Eratostene di Cirene, il grande scienziato ed
erudito alessandrino, sulla commedia antica, cfr. ancora L.
STRECKER, De Lycophrone, Euphronio, Eratosthene comicorum
interpretibus, Diss. Greifswald, 1884, WILAMOWITZ, Antig. v. Kar.,
p. 338, con raccolta di frammenti; in generale per l’opera oggi R.
PFEIFFER, History of Classiceli Scholarship from the Beginning to
the End of the Hellenistic Age, Oxford, 1968, pp. 152-170, in part.
159 segg.
12. 260-265 a. C.
13. Status quaestionis sulle due lettere, che per lo più la critica
ha considerato inautentiche (in particolare W. CROENERT, Kolotes und
Menedemos, Leipzig 1906, p. 28, ha creduto di poter individuare il
falsario nel biografo alessandrino Ermippo Callimacheo, III-II sec.
a. C, per la cui vita di Crisippo cfr. Diogene Laerzio, VII, 184;
una sua vita di Zenone è ipotizzabile, non è tuttavia attestata), in
A. GRILLI, Zenone e Antigono II, «Riv. Filol. Istr. Class.», 1963,
in part. pp. 294-295. Per suo conto Grilli propende alla tesi
dell’autenticità, con argomenti linguistici che non mancano di
qualche peso (cfr. p. es., a p. 296 le osservazioni sul termine
διαστροϕή, importante nel vocabolario filosofico stoico). Cfr. oggi
tuttavia i dubbi ragionevolmente espressi da T. DORANDI, Estratti
biografici su Zenone di Cizio nell’opera filodemea «Gli Stoici»,
pop. herc. 155 e 339, in La regione sotterrata dal Vesuvio. Atti
Convegno Internazionale novembre 1979, Napoli 1982, pp. 443-454, in
part. p. 449 nota 21. Sulla questione è tornato GRILLI, AIAΣTPOΦH in
Persio, in Festschrift R. Muth, Innsbruck, 1983, in part. p. 145
segg. Sono ineliminabili i dubbi relativi alla fonte, probabilmente
il tendenzioso biografo Apollonio di Tiro, il cui atteggiamento e
costume letterario può rendere plausibile l’opinione di un falso;
l’affermazione dell’educazione di tutti i Macedoni insieme tramite
quella del βασιλεύς ricorda poi molto da vicino la VII Epistola
platonica, modello della successiva epistolografia politica (cfr.
Epist. VII, 328 c 2).
14. La cronologia indicata dalla lettera pone qualche problema,
considerata l’incertezza generale della cronologia zenoniana (cfr.
supra, nota biografica). Se le due lettere sono autentiche, esse
dovrebbero considerarsi scritte fra il 276, anno in cui si consolida
il potere di Antigono, e il 274/3, anno in cui la Grecia
settentrionale fu invasa da Pirro. Supporre che Zenone in quel
periodo avesse ottant’anni è negare credibilità alla testimonianza
di Persèo resaci nota da Diogene Laerzio (VII, 28). Per l’ipotesi
filologica avanzata da Grilli, e non del tutto respinta da K. v.
Fritz, della lettura è novantadue anziché settantadue nel
testo, il che porrebbe anche Diogene in accordo con se stesso, cfr.
supra, Introduzione, nota r.
15. Filonide è noto solo da questa notizia e da un’altra assai
povera dell’Index Stoicorum Herc.; cfr. H. J. METTE, Real-Encycl.
XX, 1, 1944, coll. 62-63. Ma forse a lui si riferisce il passo di
PROCLO, In Platonis Timaeum, II, p. 88 Diehl, a proposito della non
necessità di porre per i cieli un processo di nutrizione fisica, con
conseguente accrescimento o decrescimento, come per le realtà del
mondo elementare; una teoria constrastante con quella più
genericamente stoica, cfr. infra, parte VI note 324, 452.
16. Fr. 119 Us., 45 Arr.2; cfr. Epicuro2, p. 124.
17. Per il testo del decreto cfr. le osservazioni del WILAMOWITZ,
Antig. v. K., p. 340 segg. Il mese di memacterione è il quinto mese
attico (novembre-dicembre).
18. Su questo biografo (e scultore) del ni sec. a. C. attivo presso
la corte di Pergamo rimane fondamentale l’opera del Wilamowitz
citata supra, nota 1; si basa su questa C. ROBERT, Real-Encycl. I, 2
(1984), coll. 2421-2422. È assai importante come fonte di Diogene
Laerzio, qui e altrove; altri tratti della sua opera biografica ci
sono conservati da Ateneo nei Deipnosophistae.
19. SVF I, 589; cfr. infra.
20. Democare, oratore, nipote di Demostene, attivo in Atene sullo
scorcio del IV secolo, sostenitore del decreto di cacciata dei
filosofi promosso da Sofocle del Sunio nel 307-306; in proposito,
oltre WILAMOWITZ, Antigonos von Karyst., p. 270 segg., cfr. I.
DORING, Herodicus the Cratetean, Stockolm, 1941, p. 84 segg. La sua
avversione si appuntava sicuramente contro i filosofi del Liceo
sostenitori L del governo aristocratico di Demetrio del Falero, ma
(come si ha buona ragione di credere, col Düring, in base ai passi
del suo discorso conservatoci da ATENEO, Deipnosoph., XI,
508f segg.) anche contro gli accademici; non abbiamo attestazione di
sua ostilità contro gli Stoici, tutto però fa credere, in
quest’episodio, che si tratti di un atto di scherno nei riguardi di
Zenone.
21. Timone di Fliunte, 320-230 circa, scettico, allievo di Pirrone,
autore fra l’altro dei famosi Silli, opera poetica di scherno
rivolta contro tutte le altre sette filosofiche; cfr. W. NESTLE,
Real-Encycl. VI A 2 (1937), coll. 1301-1303; per i frammenti
dell’opera in questione cfr. H. DIELS, Poetarum philosophorum
Fragmenta, Berolini, 1901, p. 173 segg.; per questo passo in part.
fr. 38.
22. Cfr. Odyss. XI, vv. 281, 271; ma l’interpretazione del termine
ϰινδαψός è incerta.
23. Di Megara, discepolo di Diodoro Crono e di Stilpone; megarico
del IV-III secolo; v. FRITZ, Real-Encycl. XIX, 2 (1938) coli.
2533-2535; K. D ORING, Die Megariker. Kommentierte Sammlung der
Testimonien, Amsterdam 1972 (in part. fr. 124; II F 3 Giannantoni).
Più noto Diodoro Crono, megarico del IV secolo; ampia bibliografia
sulle sue teorie logiche in G. GIANNANTONI, Il Kyrieuon Logos di
Diodoro Crono, «Elenchos», II, 1981, pp. 239-272, in part. 240-244;
e Socr. rei., III, p. 59 segg.
24. TIMONE, Silli, fr. 39 Diels; per il testo la lezione tràdita,
accolta dal Long, ἀστῶν, «cittadini»; ma cfr. le congetture del
Wachsmuth (ἀνδρῶν), del Diels (μεταναστῶν, stranieri e vagabondi).
25. Ateniese, allievo di Zenone: promotore di una lega contro
Antigono Gonata (che pure era stato protettore della scuola stoica)
nel 268-67, il che fece sì che la guerra mossa da Atene al re
prendesse il nome di guerra cremonidea. A parte il più antico
KIRCHNER, Real-Encycl., III, 2 (1899), coli. 2446-2447, cfr. F.
SARTORI, Chremoniàe. Un dissidio fra politica e filosofia, in
«Miscellanea A. Ilostagni», Torino, 1963, pp. 117-151.
26. Cfr. anche ZONARA, Lexikon, s. v. ν. Σολοιϰίζειν, col. 1662 =
SVF II, 82; «fare solecismi (= improprietà linguistiche, come quelli
di Soli, cioè di provincia o colonia) era detto da Zenone nel senso
non solo di esprimersi malamente con la voce o con il discorso, ma
per il vestirsi goffamente o per il mangiare scompostamente o il
camminare con indecenza».
27. L’opera è altrimenti sconosciuta; cfr. Antisthenis Fragmenta,
ed. F. DECLEVA CAIZZI, Milano-Varese, 1966, p. 87; e fr. V A
137 Giannaitoni. Incerto il testo della frase precedente, che si dà
nella ricostruzione dell’Arnim.
28. Così (in base al testo ποσοῦ γὰρ 〈ἄν〉 ἠγάπας l’ARNIM, SVF
I, 306; seguito dal LONG (ediz. Oxford, 1964; per altre
proposte di lettura cfr. M. GIGANTE, Diogene Laerzio, Vita dei
filosofi, Bari 19752, p. 532 nota 41). Cfr. anche M. GIGANTE,
Polemonis Academici fragmenta, Napoli, 1977, fr. 87; per Polemone,
quarto scolarca dell’Accademia platonica antica, v. FRITZ,
Real-Encycl. XXX, 2 (1952) coli. 2524-2529; per i rapporti di
discepolanza di Zenone verso questi cfr. supra, Intr. nota 1.
29. Così v. ARNIM, SVF I, 327, in nota (χαῦνα anziché αδύνατα che
pure è difendibile).
30. Sulla base del testo εὗ λεγομένοις, che il v. ARNIM (SVF I,
308) supponeva corrotto, proponendo ἐλεγχομένοις esso sembra
tuttavia giustificarsi nel contesto.
31. Seguendo il testo del MENAGIUS, μεγάλα σοϕούς, cfr. v. ARNIM,
SVF I, 331 (contro il τὰ μὲν πολλὰ ἀσόϕους dei codd.); propone τὰ
μὲν πολλὰ σόϕως Gigante, D.L.2, n. 44 p. 532.
32. Narrato da ATENEO, Deipnosoph. XIV, 6293, a proposito del
flautista Ceisia.
33. Suppl., w. 861-63.
34. Cfr. anche Gnomolog. Vatic., 296, p. 113 Sternbach2 (SVF, I,
324).
35. Secondo la congettura σωϕροσύνης del Wilamowitz e già prima del
Cobet, contro la difficile lezione ϕωνῆς dei codd. ARNIM, SVF I,
330, propone ρώμης per la prima frase. La congettura σωϕροσύνης si
fonda sul confronto con DIOGENE LAERZIO, VII, 130 (ὤρα ἄνθος
ἀρετῆς).
36. Cfr. infra., parte III.
37. La aneddotica intorno ai filosofi è spesso ricca di risposte
fiere ai potenti; per Senocrate cfr. le risposte a Eudamida
spartano, PLUTARCO, Apophtegmata regum et imperatorum, Apophtegmata
Laconica, 220. (= ffr. 54-55 Isnardi Parente). Si allude a Tolomeo
II Filadelfo.
38. V B 38 Giannantoni. Per la derivazione dell’apoftegmatica
riguardante Cratete da Zenone cfr. lo stesso GIANNANTONI, Socr. rei,
III, pp. 507-508; per la polemica contro Stilpone p. 511. La notizia
qui dataci da Diogene Laerzio fa pensare che la discepolanza di
Zenone presso Stilpone sia stata immediatamente successiva a quella
presso Cratete; poi sarebbe forse seguita quella presso Polemone.
Cfr. supra, Intr., nota 1, e Nota biografica.
39. Ippoboto, probabilmente vissuto nella seconda metà del VI
secolo, dossografo, dal quale forse Diogene L. dipende non solo per
singole notizie, ma per lo stesso schematismo delle «sette» (cfr.
Prooem., 19) Cfr. v. ARNIM, Real-Encycl., VIII, 2, 1913, coll.
1722-1723.
40. Appartiene questa volta alla tradizione malevola di derivazione
accademica (dell’Accademia di Antioco di Ascalona, cfr. supra,
Introd., nota 1) che tendeva a presentare Zenone come un accademico
transfuga. Per il passo cfr. POLEMONE, fr. 88 Gigante.
41. ESIODO, Opera, vv. 293-295; ove peraltro il concetto si trova
disposto in ordine inverso.
42. ECATONE, fr. 24 Gomoll.
43. Per la lezione ἀνάριθμος che qui seguo cfr. GIGANTE, Diogene L2,
p. 533 n. 55; l’Arnim (SVF I, 5, p. 6) conserva l’ἐναρίθμος dei
codici; ἐναρεῖ μένος aveva congetturato il Cobet (così ancora Long).
44. Fr. 85 Kock (Comicorum Atticorum fragmenta, II, p. 502). Cfr.
CLEMENTE A., Strom., II, 20, 121, p. 179 Stàhlin.
45. Fr. 15 Kock (ivi, III, p. 340).
46. Per le notizie biografiche cfr. già supra, nota biografica e
nota 14. Per Persèo anche infra, parte III, p. 275. La notizia dei
98 anni di vita è, come la successiva circa lo scolarcato, di
Apollonio di Tiro.
47. Probabilmente tragedia di Timoteo, IV sec. a. C; cfr. A. NAUCK,
Tragicorum Graecorum Fragmenta, Lipsiae 18892, p.51.
48. Attivo a Sidone verso la metà del II sec. a. C, nato a Tiro;
cfr. CICERONE, De oratore. III, 50, 194. SCHWARTZ, Real-Encycl. I, 2
(1894) coll. 2513-2514. Per l’epigramma cfr. Anth. Planudea, III,
104.
49. Scarsissime notizie su questo stoico, di cronologia incerta;
forse II-I sec. a. C; cfr. K. NICKAU, Real-Encycl. X A 1 (1972) col.
49. Per l’epigramma cfr. Anth. Palatina, VII, 117.
50. Di cronologia incerta; Diogene Laerzio cita due volte questo suo
epigramma (per cui Anth. Pal. IX, 496) e uno su Epicuro, X, 12. Cfr.
REITZENSTEIN, Real-Encycl. II, 2, (1896), col. 2024. La Musa cui si
allude è Erato.
51. Anth. Pai. VII, 118. Il πμμετρον è una raccolta dei propri
epigrammi che stesso Diogene cita come composta da lui, I, 39; cfr.
SCHWARTZ, «Real-Encycl.» V, 1 (1913), coli. 738-763, in part. 738.
52. Biografo ed erudito del I sec. a. C, in contatto con ambienti
romani (cfr. Cicerone, Epist. ad Atticum, VIII, 11, 7; 12, 6;IX, 9,
2). L’opera qui citata con abbreviazione è il Dei poeti e scrittori
dello stesso nome; cfr. E. SCHWARTZ, Real-Encycl. IV, 2, 1901, coll.
2814-2817.
53. 280-277. La voce di Suida riporta in compendio le notizie
laerziane. Cfr. per altre voci interessanti la Stoa e Zenone
συγϰρωτίζεσθαι, Αἰγύπτια ϰληματίς, Στωιϰοί, Πεισανάϰτειος Στοά ecc.
54. Seguo, a parte la col. IV di cui si dirà più oltre, l’edizione
di A. TRAVERSA, Index Stoicorum Herculanensis, Genuae, 1952, che
ingloba e talvolta rivede letture e integrazioni dei precedenti
editori, fra cui da citarsi in particolare D. COMPARETTI, Papiro
Ercolanese inedito, «Riv. Filol. Istr. Class.», Ili, 1875, pp.
449-555; H. VON ARNIM, Bemerkungen zum Index Stoicorum
Herculanensis, «Sitzungsber. Akad. Wiss. Wien», CXLIII, 1901; W.
CROENERT, Kolotes und Menedemos, pp. 29-30, 177.
55. Traversa integra in aggiunta: «nella vita di Epicuro» ritenendo
che l’autore voglia riferirsi a frase analoga detta da Apollodoro
per il suo caposcuola; cfr. già in senso analogo, v. ARNIM, SVF I,
p. 30. Apollodoro detto il Κηποτύραννος (= signore del Giardino) è
filosofo epicureo della seconda metà del II secolo: per la biografia
di Epicuro da lui composta cfr. Diogene Laerzio, X, 2, 10, 13;
notizie in v. ARNIM, Real-Encycl. I, 2, 1894, col. 2894.
56. Si segue il testo Comparetti-Traversa, tralasciando le
integrazioni tentate dall’Arnim in Bemerkungen, p. 2 (il testo non è
da lui incluso in SVF I). Non è possibile ricostruire il contesto in
cui sono inseriti questi riferimenti relativi a giudizi dati di
tiranni e predoni famosi. Apollodoro Cassandreo, il tiranno che
conquistò il potere nel 279 a. C. per essere poi sconfitto da
Antigono Gonata, e Arpalo, il predone famoso ai tempi di Alessandro
il Macedone, sono citati insieme anche da CICERONE, De nat. deor.,
III, 33-34; è difficile identificare Filetero, nome che
difficilmente può indicare quello del condottiero al servizio di
Antigono, poi di Lisimaco e Seleuco, fondatore della dinastia
pergamena. Mentore è il satrapo che nel 342 vinse con l’inganno e
consegnò al Gran Re Ermia di Atarneo, il tiranno illuminato caro
all’Accademia platonica (KAHRSTEDT, Real-Encycl. XV, 1, col. 964, a
parte ovviamente la letteratura assai ricca sulle vicende della
scuola di Platone e della giovinezza di Aristotele).
57. Non seguo del tutto la traduzione data dal Traversa, né la sua
ipotesi che lo stoico di cui si parla all’inizio possa esser lo
stesso Persèo; perché questi (ma il nome, si badi, è frutto di
integrazione di ARNIM, Bemerkungen, p. 3, e CROENERT, Kol. u. Men.,
p. 177) compare, se pur così può dirsi, alla fine della colonna come
altro personaggio. Incerto il συμπεριϕοράς (deambulazioni, viaggi?)
in buona parte supplito dal Comparetti.
58. Per la lettura di questa colonna seguo la nuova autopsia del
papiro compiuta da T. DORANDI, Due note ercolanesi, 1, Le Politeiai
di Diogene cinico e di Zenone stoico nell’Index Stoicorum
Herculanensis (pap. herc. 1018 IV), «Zeitschrift f. Papyrologie u.
Epigraphik», XLV, 1982, pp. 47-52, distaccandomene solo in un punto
per ciò che si riferisce alla punteggiatura (il ϕασίν della 1. 7 mi
sembra offra un senso migliore se collegato con ciò che segue
anziché con ciò che precede).
59. La più esatta lettura odierna del papiro ha fatto cadere alla l.
10 il ϰαθάπερ οἴονται di Croenert-Traversa e ha reso possibile la
lettura di «Persèo», già del resto ipotizzato anche dal Croenert.
60. Manca in SVF I; né il testo è compiutamente comprensibile. Seguo
nelle integrazioni Croenert-Traversa (diversamente l’Arnim, Bemerk.
p. 4).
61. Proposte varie letture della parola mutila e corrotta alla linea
3: ἡλιασμούς («esposizioni al sole» cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 1);
εἰϰασμούς (nel senso di «punzecchiature cavillose»; v. ARNIM,
Bemerk, 5); χλευασμούς («scherni», proponeva Comparetti, sulla base
di DIOGENE LAERZIO, VII, 26). Sembra favorire con dubbio la prima
ipotesi il Traversa; in realtà la parola è irricostituibile e può
prestarsi a congetture del più vario tipo. Più interessante la
notizia dello ύμύος composto in lode di Zenone; cfr. per ipotesi
(l’autore sarebbe Apollonio di Tiro o Stratocle) WILAMOWITZ,
Antigonos v. Kar., p.119, n. 14. Per la tomba a spese pubbliche
avuta dagli Ateniesi cfr. Diogene Laerzio, VII, 11.
62. Cfr., per la questione disputata fra i critici se l’autore
dell’Index possa riferirsi a composizioni dello stesso Zenone (non
note per altra via), TRAVERSA, Index, p. 14; il quale si riallaccia
all’interpretazione favorevole data alla questione dall’Arnim
(l’autore si opporrebbe qui a un irrisore dei versi composti da
Zenone).
63. È un episodio relativo ai rapporti fra Zenone e Antigono Gonata.
Il discorso iniziale è probabilmente di un legato di Antigono (v.
Arnim-Traversa). νουθετεῖν ricostruito dall’Arnim e inteso nel senso
di «punire» (Bemerk., p. 7) in base a PLATONE, Leg. X, 879d. Di
incerta restituzione (cfr. TRAVERSA ad loc.) la parola
παραχ[αράϰτα]ς, «falsificatori», proposta dell’Arnim.
64. E molto probabile che si riferisca ancora ai rapporti fra Zenone
e Antigono Gonata (così ARNIM, Bemerkungen, p. 9) piuttosto che a
quelli fra Zenone e Arcesilao, come riteneva Comparetti. Lo ἐϰεῖνον
iniziale che il Traversa, seguendo l’Arnim, ritiene possa riferirsi
a Persèo, non mi sembra possa riferirsi ad altra persona se non
all’ἀνήρ di cui si parla poco oltre, e che è certamente Zenone.
65. Seguo per larga parte il testo dato da DORANDI, Filodemo: Gli
Stoici, «Cron. Erc.» 1982, cit., con un dubbio circa la plausibilità
della lettura περὶ ἀντιϕω〈νήσεως〉 al posto dell’«Antifonte»
ipotizzato dagli interpreti precedenti. La parola «novanta», pure di
chiara lettura, è disturbante, e ARNIM, in nota ad loc., proponeva
una lettura diversa integrando un ἐξήϰοντα, «sessanta», che
renderebbe il calcolo degli anni plausibile. Per i vari tentativi di
lettura e spiegazione ad opera del Rohde, del Gomperz, soprattutto
di A. MAYER, Die Chronologie des Zenon und Kleanthes, «Philologus»,
LXXXI, 1912, pp. 212-237, cfr. oggi DORANDI, cit., p. no. Il dato
biografico dei 101 anni è dato già come assurdo da Filodemo, ed è
inattendibile; cfr. in generale, per la cronologia di Zenone, supra,
Intr., n. 1, e Nota biografica. L’attribuzione della notizia a
Demetrio di Scepsi (ancora accettata da K. v. FRITZ, Zenon v.
Kition, coli. 83-84) è oggi rifiutata da Dorandi.
66. Eraclide Lembo, altra fonte importante di Diogene L.; attivo
sotto Tolomeo IV nella prima metà del n sec. a. C, autore di una
epitome dell’opera di SOZIONE, Διαδοχὴ ϕιλοσόϕων; cfr. DAEBRITZ,
Real-Encycl., VII, I, 1912, coll. 488-491.
67. Cfr. DIOGENE L., VII, 25 e 38 per Zenone di Sidone,
condiscepolo di Zenone di Cizio presso Diodoro Megarico e poi
passato alla sua scuola: cfr. K. v. FRITZ, Real-Encycl., X A 1,
1972, coli. 121-122. In generale per una raccolta più ampia dei
passi relativi alle discepolanze di Zenone rispetto a quella
dell’Arnim cfr. HèLSER, FDS, frr. 104-109.
68. Fr. i35b Decleva Caizzi, V A 22 Giannantoni.
69. Analogamente De fin. bon. et mal., IV, 2, 3 («sì che Zenone non
avrebbe avuto alcuna ragione, una volta ascoltato Polemone, di
staccarsi da lui e dai suoi predecessori»). Per l’alta
considerazione in cui Antioco di Ascalona, dalla cui cerchia
provengono queste valutazioni, teneva Polemone cfr. G. LUCK, Der
Akademiker Antiochos, Bern-Stuttgart, 1953, p. 21 segg.
70. Cfr. più tardi Galeno, con la critica al linguaggio
«barbarizzante» di Zenone, inventore di parole assai più che di
teorie sostanzialmente nuove, De optima doctr. 1, I, p. 14 Kùhn; per
Crisippo analogamente De differenza puh. io, VIII, p. 631 Kuhn = SVF
II, 24.
71. Iliad., IV, vv. 447-449. Il Cefisodoro citato poco più oltre è
il discepolo di Isocrate autore di una difesa di quest’ultimo contro
Aristotele (ATENEO, Deipnosoph., III, 122b), un Aristotele peraltro
considerato come platonico ortodosso e attaccato per la presunta
adesione alla dottrina delle idee. Il brano di Numenio (fr. 2p Des
Places) proviene dall’opera Della defezione dell’Accademia da
Platone, tesi che l’autore sosteneva; è interessante la notizia
secondo cui Zenone attaccava in particolare Platone nella sua
polemica contro Arcesilao, certo quel modello di Platone aporético
al quale l’Accademico intendeva richiamarsi. Cfr. oggi A. M.
IOPPOLO, Opinione e scienza, Napoli 1986, pp. 43-44 e altrove
passim. Da notarsi ancora che, contrariamente a Diogene Laerzio,
Numenio considera la discepolanza presso Cratete posteriore a quella
presso Polemone.
72. Conservo il μἡ degli editori più antichi (Arnim, Thedinga)
contro il μἡv del Des Places.
73. Iliad., X, v. 8.
74. Citazione non letterale da PINDARO, Ithsm. 2, 6. Per il tiranno
siracusano Agatocle e la sua astuzia bellica cfr. DIODORO, Biblioth.
hist., XX, 3.
75. Temistio parla qui di Platone, inserendo il discorso su Zenone
in un più ampio discorso sull’influenza esercitata dai dialoghi
platonici; dei Memorabili di Senofonte parla invece, come già si è
visto, Diogene Laerzio, VII, 2. Sul socratismo di Zenone cfr. v.
FRITZ, Zenon v. Kition, coll. 92-93 (un socratismo filtrato
attraverso i suoi maestri cinici). Per l’influenza di Senofonte in
età ellenistica cfr. K. MENSCHER, Xenophon in der
griechisch-römischen Litteratur, «Philologus», Supp. XIII, 2,
Leipzig, 1920.
76. L’opera di Plutarco di Cheronea volta a rilevare le infinite
contraddizioni della dottrina stoica si inizia con un attacco
polemico al loro stesso modo di vivere, dichiarato contraddittorio
in opposizione al principio del «vivere coerentemente»,
ὁμολογουμένως, per cui cfr. ampiamente infra. Per il «loto» cfr.
Odyss. IX, 94-95
77. Probabile riferimento ad atteggiamenti di Diogene di Sinope,
cinico, iv sec. a. C, quale quello tenuto nei riguardi di Alessandro
(DIOGENE LAERZIO, VI, 32; 38; 60; PLUTARCO, Alex., 14; De Alex,
virt., 10, 331f; CICERONE, Tusc. Disp. V, 32, 92; ecc. = V B 31-49
Giannantoni); ma cfr. in genere la Vita in Diogene Laerzio, VI,
19-81, e la ricca aneddotica in essa contenuta.
78. La lezione παράνομα («contro la legge») del Florilegium
Monacense, sulla base di un codice, non è accettata nell’edizione di
L. Sternbach («Wiener Studien» 1887-1889, cfr. oggi Gnomologium
Vaticanum, Berolini 1963). Cfr. analogamente per Cleante SVF I, 619
(infra, parte II, p. 223).
79. Mitico iniziatore della stirpe regale dei Lidi-Frigi, Cfr.
ERODOTO, Hist., I, 94; PLUTARCO, De Iside et Osir., 24, 360b (col
doppio nome Manes o Masdes).
80. Euripide, Bacchides, v. 1 129.
81. Per Amebeo citaredo cfr. anche Ateneo, Deipnosoph., XVI, 623 d;
Eliano,Varia Historia, III, 30; e lo stesso Plutarco altrove,
Aratus, 17, 2. Cfr. C RUSIUS,«Real-Encycl., I, 2 (1894), coll.
1872-1873. La notizia è probabilmente attendibile sotto l’aspetto
storico.
82. Potrebbe essere una polemica contro Aristone di Chio, cfr. D
IOGENE LAERZIO, VII, 18; in proposito I OPPOLO, Aristone di Chio, p.
34.
83. Un’eco di questo in S UIDA, Lexikon, s. v. ’Aριστοτέλης (3930),
I, p. 358 Adler.
84. Oltre ai due passi plutarchei, e a DIOGENE LAERZIO, VII, 5, vedi
ancora SENECA, De tranq. animi, 14, 2 e (non citato dall’Arnim; ma
cfr. in proposito E. ORTH,Corollarium, «Philol. Wochenschr.», LXV,
1936, col. 222) BASILIO, Epist. IV, P. G. XXXII, col. 237. Cfr.
anche Gnomol. Vatic.. 298, p. 114 Sternbach2.
85. Per questo detto ancora GALENO, De mor. animi, 3, IV, p. 777
Kuhn; EUSTAZIO, In Homeri Odyss., XXI, v. 293, p. 1910, 42 segg.
(II, p. 261 Bekker); a parte Diogene Laerzio nella Vita, VII, 26.
86. WILAMOWITZ, Ant. v. Kar., pp. 119-120 (per la raccolta cfr.
infra, nota 236). Anche qui esiste un parallelo preciso con la Vita
laerziana, VII, 19.
87. Cfr. anche DIOGENE LAERZIO, VII, 23 e altre testimonianze
plutarchee.
88. Poiché nella massima è già contenuto almeno implicitamente quel
motivo importante dell’etica stoica che si riassume nella formula di
τχνη περ τον βιον ο «arte del vivere», è forse già possibile
rivendicare tale formula a Zenone: per il motivo più in generale
cfr. infra, parte VI, nota 639.
89. Non sembra opportuno inserire qui nelle raccolta degli apoftegmi
zenonia-ni i presunti nuovi frammenti dall’armeno e dall’arabo, di
cui, rispettivamente, parlano L. HATQUICHIAN,Un traité philosophique
attribuable à Zénon le Stoicien, «Vestnik Matenadara» (Eriwan), II,
1950, pp. 81-98, e F. ALTHEIM-R. STIEHL, Neue Fragmente Zenons
von Kition aus dem Arabischen, «Forschungen und Fortschritte» XXXVI,
1962, pp. 12-14. I successivi scritti di E. G. SCHMIDT, Die
altarmenische «Zenon» Schrift und die spätantike
Philosophie-Einleitungen «Abhandlungen Deutscher Akademie d. Wiss.»,
1960, 2, Berlin 1961 (cfr. anche WESTE-RINK, «Mnemosyne» IV, XVI,
1963, pp. 195-197) e Neue Fragmente Zenons von Kition aus dem
Arabischen und Armenischen?, «Forschungen und Fortschritte», XXXVI,
1962, pp. 372-375, hanno avanzato argomenti di non indifferente peso
contro l’attribuibilità a Zenone di Cizio: il «Zenone il vecchio»
indicato da Shahrastani potrebbe anche indicare una confusione con
Zenone di Elea; i passi presentano carattere fortemente
eclettizzante e coloritura tardo-antica se non in qualche caso
addirittura medievale.
90. N. FESTA, I frammenti degli Stoici antichi, I, Bari, 1932, ha
tentato di raggruppare sotto i nomi delle singole opere di Zenone
una serie di frammenti a ciascuna di esse di volta in volta
riferibili. Il tentativo è spesso seducente, ma la ricostruzione
risulta spesso arbitraria: non tutte le opere di Zenone sono a noi
note, data l’incompletezza usuale dei cataloghi laerziani: alcuni
frammenti potrebbero facilmente essere attribuiti a più opere fra
quelle note come zenoniane. Per tutte queste ragioni si preferisce
qui seguire una impostazione più tradizionale e più cauta,
limitandoci a dar notizia di volta in volta delle ipotesi del Festa.
91. Cfr. per la tripartizione supra, Intr., nota 6.
92. N. FESTA, Lo scritto di Zenone Περὶ τοῦ ὅλου ἢ περὶ τῆς οὐσίας,
«Giorn. Crit. Filos. Ital.», IX, 1928, pp. 20-34, e poi Framm. St.
ant., I, pp. 77-94, ha ricostruito unitariamente le due opere περὶ
τοῦ ὅλου e περὶ τῆς οὐσίας; il che può costituire ipotesi
accettabile, anche se inverificabile.
93. Per altre testimonianze che parlano del binomio ὕλη – θεός -
0eó(;, cfr. ad esempio ACHILLE (il commentatore dei Fenomeni di
Arato di Soli, a torto per lungo tempo confuso con Achiille Tazio),
Isagoge, 3, 1, p. 31 Maass; FILONE ALESSANDRINO, De providentia, I,
22; TEODORETO, Graec. affect. CUT., IV, 2. La genericità di queste
testimonianze le rende di valore assai relativo; HAHM, Origins St.
Cosmol., p. 51, nota 23, rileva come il binomio ὕλη – θεός sia dai
dossografi attribuito allo stesso Platone.
94. FESTA, art. cit., p. 20 segg. e Framm. St. ant., I, p. 77 segg.,
ha tentato una ricostruzione dell’opera secondo la seguente
struttura: teoria generale dei principi: definizione di essenza,
sostanza, qualità; teoria dei colori (SVF I, 91); il mondo come
organismo vivente; cielo, etere, fenomeni celesti; il fuoco come
elemento cosmico; le prove contro l’eternità dell’ordine cosmico; la
conflagrazione universale e l’eterno ritorno periodico. Egli si è
valso per questo di numerosi frammenti attribuiti dall’Arnim a
Crisippo o scuola crisippea (II, 552-524, 531, 300, 316, 526, 528,
650) insieme con altri attribuiti a Zenone senza precisazione
dell’opera da cui deriverebbero.
95. Diels legge μῖξιν ϰαὶ ϰρᾶσιν, mentre l’Arnim espunge μῖξιν per
la distinzione termologico-concettuale fra questi due processi cfr.
infra, SVF II, 473, p. 852. Fonte delle notizie è l’epitome di Ario
Didimo; cfr. H. DIELS, Doxographi Graeci, Prolegomena, Berolini,
1877, rist. anast. 1965, p. 69 segg., e per i frammenti p. 447
segg., in part. 469-70.
96. Teoria meteorologica generica e non specificamente stoica. Cfr.
E PICURO, Epist. ad Pyth., 101-102, poi Lucrezio, De rer. nat., VI,
96 e segg., per teorie analoghe nell’epicureismo; forse alla Stoa si
ricollega Lucano, Phars., I, 151 segg. (Pearson, The Fragments of Z.
and C, p. 129). Più interessante da notarsi la duplicità della
spiegazione; sembra di poter intravvedere anche in Zenone un metodo
affine a quello delle spiegazioni multiple adottato da Epicuro per i
fenomeni meteorologici.
97. CICERONE, De nat. deor. II, 40, 103; PEASE, Cicero De natura
deorum, II, pp. 799-800. Il riferimento che subito più oltre Diogene
Laerzio fa a Posidonio non sembra riguardare tutta la teoria ma un
punto particolare, relativo alla posizione astronomica della luna.
Anche questa teoria è d’altronde abbastanza generica e non contiene
elementi specificamente stoici.
98. Per i dubbi circa l’esistenza di un’opera a sé stante di questo
nome cfr. FESTA, Framm. St. ant., I, p. 78; cfr. oggi v. FRITZ,
Zenon v. Kition, col. 91, in favore della possiblità che si tratti
del περὶ τοῦ ὅλου stesso o di una parte di quest’opera. Per la
formula identificante natura e fato cfr. anche TEODORETO, Gr.
affect. cur., VI, 14; e SVF II, 975.
99. Secondo la formula più ristretta delle ὁμολογουμένως per tutta
la questione cfr. Intr., nota 31.
100. Cfr. STOBEO, Ecl., II, 7, 10, p. 88, 14 segg. W. (ma sulla
testimonianza di Stobeo in tutta la sua ampiezza cfr. infra, parte
VI, p. 1173). per la teoria quadripartita dei πάθη in Zenone, che ne
è certamente l’iniziatore cfr. supra, Intr., p. 24 (essa risponde
alla quadripartizione delle virtù, di derivazione platonica); e per
gli sviluppi infra, parte VI, p. 1170, e segg.
101. Cfr. Introduzione, nota 43. La parte più discussa di questa
testimonianza è quella relativa al valore da darsi a εὔλογος qui da
noi tradotto, seguendo in parte GIGANTE, Diogene L., 2a ed., p. 280
(«fatto che è possibile giustificare razionalmente») con «razionale»
anziché con «probabile» o «verosimile». La definizione concerne un
atto «fondato su buone ragioni»; cfr. NEBEL, Begriff d. Kathekon, p.
449, con posizione conciliatoria; e lo status quaestonis in
TSEKOURAKIS, St. in Terminol. St. Ethics, p. 26 segg. Si è data qui
la definizione completa, insieme con la parte finale che negli SVF
compare solo in III, 493, non ritenendo PArnim poterla attribuire a
Zenone; per la presenza in essa del termine οἰϰεῖος cfr. supra,
Intr. nota 41.
102. Motivo presente in ANTISTENE, fr. 72 Decleva Caizzi = V A 134
Giannantoni. È motivo socratico: cfr. PLATONE, Resp. V, 4540-455,
circa la comune capacità di maschi e femmine nell’esercizio della
vita filosofico-politica. Per una espressione quasi identica del
detto zenoniano SESTO EMPIRICO, Adv. ethicos, 190 = SVF I, 251.
103. Altro atteggiamento di marca socratico-cinizzante, cfr.
ANTISTENE, fr. 66 D. C. = V A 161 G., il quale va più oltre, giacché
in lui lo stesso apprendimento dello scrivere è considerato una
forma di διαστροϕή dal fine ultimo, che non lo esige: in base a
questa testimonianza si potrebbe pensare all’origine cinica del
termine διαστροϕή poi così largamente usato dagli Stoici (in
proposito cfr. A. GRILLI ΔΙΑΣΤΡΟΦΗ «Acme» XVI, 1963, pp. 87-101). La
posizione zenoniana sarà peraltro temperata nel processo ulteriore
della dottrina stoica e probabilmente della stessa dottrina
zenoniana, di cui rifletterebbe un momento.
104. Anche a questo proposito FESTA, Framm. St. ant., I, pp. 9-25,
ha tentato una ricostruzione della Politela zenoniana, con il
supporto di numerosi frammenti di dubbia attribuzione a tale opera
(tutti quelli, ad esempio, sulla divisione radicale fra saggi e
stolti, più alcuni dall’Arnim considerati crisippei: cfr. Ili, 567,
613, 615, 618-622, 623, 611, 729). Particolarmente discutibile
l’attribuzione a Zenone di DIOGENE L., VII, 131 = SVF III, 700, cioè
della teoria della costituzione mista, probabilmente propria della
Stoa paneziana; quanto all’attribuzione di PLUTARCO, De Alex, viri.,
329c-d, cfr. note segg.
105. Negativo particolarmente circa la possibilità di attribuire a
Zenone l’ammirazione per Sparta BALDRY, Zeno’s Ideal State, p. 8
(cfr. già Introduzione, nota 47); ma è da notarsi che Politeiai di
Sparta sono scritte da più discepoli di Zenone, come Persèo e Sfero;
per quest’ultimo in particolare cfr. infra, parte III, nota 19. Il
mito di Sparta aveva quindi un suo spazio negli ideali politici
stoici, e basterebbe a testimoniarlo l’esaltazione da Sfero fatta
della figura di Licurgo, esaltazione che ebbe certamente influenza
sull’azione politica di Cleomene III.
106. Plutarco compie qui un accostamento assai arbitrario e
fuorviante sotto l’aspetto storico: rimando per questo a La politica
della Stoa antica, pp. 90 segg.; cfr. Intr., p. 41. Non sembra di
poter seguire il Festa nella sua attribuzione dell’intero passo
329c-d a Zenone (anche se egli considera Plutarco autore di una
sorta di identificazione di Alessandro con l’Eros zenoniano fautore
di concordia fra i popoli); Plutarco è chiaramente debitore qui non
a Zenone ma ad Eratostene della sua interpretazione di Alessandro
conciliatore fra greci e barbari. Per la citazione di Eratostene,
cfr. del resto Plutarco stesso poco oltre, De Alex. viri., 33oa. Per
il biasimo d: Eratostene ad Ariostotele in proposito della sua
rigida distinzione fra Greci e barbari cfr. anche STRABONE, Geogr.
1, 4, 9 (= JACOBY, Fragm. Griech. Hist., 241 T 10).
107. Cfr. L. RAMAROSON, Contre les temples faits de mains d’homme,
«Rev. de Philol. Litt. Hist. anciennes», XLIII, 1969, pp. 217-238,
in part. 230 e segg., con collocazione e confronto dei frammenti.
Zenone ha probabilmente subito l’influenza di Platone (Legg. XII,
955 e segg.); ma non forse fino al punto che il Ramaroson ritiene,
sulla base di Epifanio, De fide, 2, 9 (P. G. XLII, col. 796),
giacché il é il ἀλλ᾿ ἔχειν τò θεῖον ἐν μόνῳ τῷ νῷ, μᾶλλον δὲ θεòν
ἠγεῖσθαι τòν νοῦν di Epifanio suona un po’ troppo strettamente
platonico per non far pensare a una eclettica combinazione
dell’autore patristico. Il frammento è reso tronco al suo inizio
dall’Arnim. Cfr. ancora, ma per una citazione di Zenone assai
rapida, ORIGENE, Contro, Celsum, I, 5.
108. Testo del CROENERT, Kolotes u. Menedemos, pp. 29-30, riveduto
da Dorandi, Filodemo, Gli Stoici, p. 100: per il commento cfr. p.
114, Dorandi ritiene questo passo dell’opera filodemea attestazione
supplementare de. carattere giovanile della Politeia zenoniana,
indicazione cronologica che ci è offerta anche da Diogene Laerzio.
109. Cfr. V H 42 Giannantoni, e note ad loc.; per Filisco K. v.
FRITZ, «Real-Enycl.» XIX, 2, 1938, col. 2382-83. L’opera di Zenone,
che aveva probabilmente l’ambizione di ripetere i Memorabili di
Socrate di Senofonte da lui ammirati (cfr.Diogene Laerzio, VII,
2-3), ci riporta in questo caso anche un significativo frammento del
Protreptico di Aristotele, 50 Rose2, 1 Walzer-Ross; per il commento
ad esso I. Doring, Aristotle’s Protrepticus: an Attempi at
Reconstruction, Goteborg, 1961, pp. 173-175, che mette bene in
rilievo il carattere polemico dell’interprets» zione ci Cratete e
Zenone. Per altri possibili frammenti da aggiungersi per la
ricostruzione dei Memorabili di Cratete (nei quali peraltro il nome
di Zenone non è citato) cfr. FESTA, Framm. St. ant., I, pp. 3-7, con
riferimento a DIELS, Poèta-rum Pbilosophorum Fragmenta, Berolini,
1901, frr. 17-28, 382-385. f è
110. Fr. 58 Decleva Caizzi = V A 194 Giannantoni. Per un commento
DECLEVA CAIZZI, Antisth. Fragmenta, pp. 108-109: non c’è qui traccia
di vera e propria interpretazione allegorica (cfr. però infra per la
più chiaramente allegorizzante interpretazione di Esiodo). Iniziata
presso Teagene di Reggio e Metrodoro Lamp-saceno (F. BUFFIERE, Les
mythes d’Homère et la pensée grecque, Paris, 1956, p. 136),
l’interpretazione allegorizzante di Omero ha anche riscontri
nell’Accademia antica: Senocrate (fr. 55 Heinze, da Sebo Ha in
Iliadem, V, p. 381 Dindorf) vedeva nello scudo di Achille la
raffigurazione del cosmo. in. Odyss. IV, 84; per gli Erembi, popolo
di difficile identificazione.
111. ZINGER in Real-Encycl. VI, 1, 1909, coll. 413-417. Commento al
passo di Strabone in F. LASSERRE, Strabon, Geographica, I, Paris (B.
L.) 1969, p. 200: la proposta di Zenone è stata ripresa da
Posidonio, dal quale Strabone dipende.
112. Cfr. anche CORNUTO, Grecae Theologiae Compendium, 17. Per i
riferimenti cfr. ESIODO, Theog., v. 116; OMERO, Iliad., XIV, vv. 201
e 302; ma la generazione prima dall’acqua e la posteriorità del
fuoco non è coerente alla dottrina stoica.
113. ESIODO, Theog., vv. 116-117, e v. 120. I vv. 118-119, che già
Zenone rifiutava, ancora oggi sono espunti in più edizioni.
114. Per Parmenide cfr. 28 A 44 Diels-Kranz; e anche DIOGENE
LAERZIO, IX, 22 (Teofrasto, fr. 42 Wimmer).
115. Fr. 38 Decleva Caizzi (commento pp. 99-100); V A 160
Giannantoni (ma l’accenno agli Stoici è qui alquanto accidentale, il
discorso vertendo sull’insegnamento di Socrate).
116. Tratto di polemica antimegarica, di eredità cinica. Cfr. Intr.,
p. n segg.
117. ARCESILAO, fr. 8 Mette («Lustrum», XXVI, 1984, pp.
69-69).
118. Analogamente sul non opinare del saggio Acad. pr., 35, 113; con
maggior carica polemica LATTANZIO, Div. Inst., III, 4; AGOSTINO,
Contra Acad., II, i quali entrambi dipendono da Cicerone.
119. Cfr. infra, per la teoria del sapiente, l’esposizione
dossografica di Diogene Laerzio; per il motivo μὴ δοξάζειν VII, 121.
La radice di questa posizione si trova nello stesso ὁμολογουμένως
ζῆν.
120. La formazione della teoria di Arcesilao (la ἐποχή, tipica
dell’Accademia di mezzo) sulla base della teoria zenoniana
dell’assenso è stata particolarmente studiata da P. COUISSIN,
L’origine et revolution de l’ἐποχή, «Rev. Etudes Grecques», XLII,
1929, pp. 373-397. La ἐποχή o «sospensione dell’assenso» presuppone
strettamente una gnoseologia che fondi la sua pretesa di veridicità
sulla legittimità dell’assenso. Non esclude oggi del tutto la
possibilità di ἐποχή già già in Pirrone METTE, «Lustrum» 1984, p.
90: ma limitato al piano dell’etica e non esteso alla teoria del
conoscere. Le testimonianze sicure del termine riguardano tuttavia
solo l’Accademia di Mezzo e più tardi il neo-pirronismo (cfr. in
proposito F. DECLEVA CAIZZI, in Pirrone: Testimonianze, Napoli,
1981, pp. 135-136, 155, 231).
121. Per la teoria della τὑπωσις e la sua esegesi in Cleante cfr.
Introduzione, nota 56.
122. Rimando, per la discussione del significato di ὑπάρχον in
questa sede, a quanto citato supra, Intr., nota 25. Il termine
sarà poi parafrasato ampiamente da Cicerone.
123. Ci sono corrispondenze precise fra Cicerone e Diogene Laerzio,
che dipendono forse dalla stessa fonte dossografica; per dipendenze
di questo tipo cfr. largamente M. GIUSTA,I dossografi di etica,
Torino, 1964. Deriva con ogni verosimiglianza da dipendenza comune,
ad es., la corrispondenza perfetta fra DIOGENE LAERZIO, VII, 52, e
il ciceroniano «quod erat sensu comprehensum ipsum sensum
appellabat». Sulle traduzioni ciceroniane di parole come
συνϰατάθεσις («adsensio»), ϰατάληψις («comprehensio»),
(«comprehensio»), ecc. cfr. M. O. Liscu, Etude sur la langue de la
Philosophie morale chez Cicéron, Paris, 1930, p. in segg.; H. J.
Hortung, Ciceros Methode Bei Der Uebersetzung Griechischer
Philosophischer Termini, Hamburg, 1970, p. 26 segg.
124. ARCESILAO, fr. 13a Mette. Ancora per la polemica con Zenone,
Lattanzio. Div. inst., VI,7 (fr. 14b Mette).
125. Per la polemica contro le idee platoniche, di provenienza
soprattutto cinica, ma anche megarica, cfr. INTR., nota 7. AMMONIO,
In Porph. Isag., p. 40, 6 segg., usa l’espressione ἐπὶνοιαι in
riferimento alle idee (γένη ϰαι εἰδη); mentre Zenone sembrerebbe
aver prediletto quella di ἐννοήματα (in DIOGENE L., VII, 61, cfr.
infra, parte VI, nota 75, troviamo l’espressione più complessa
άνατυπώματα, «formazioni secondarie» della mente sulla base della
τύπωσις espressione probabilmente già attribuibile a Zenone). Per
ἐννοήματα cfr. anche SIMPLICIO, IN ARIST. CATEG., p. 209, 11 segg.
Kalbfleisch. Per le difficoltà di piegare il termine ἐννόημα a
quello di puro «fantasma della mente» cfr. GRAESER, Zenon v.
k., p. 70. Mase la polemica è diretta contro Platone si
potrebbe pensare che qui Zenone, e forse già alla prima Antistene,
abbiano voluto avvicinarsi ricalcandola approssimativamente,
all’espressione stessa di Platone nel PARMENIDE, la dove egli
difende la sua concezione delle idee come entità oggettive da quello
che vorrebbe far di esse un νόημα ἐν ϕυχαῖς (Parm., ij, 2b 3-5).
126. Passo molto tormentato (lo dichiara corrotto e incomprensibile
l’Arnim, nota Ad loc.). Zeller, philos. d. gr.; III, 1, pp. 80-81,
nota 4, lo emenda, da τυγχάνειν, in τυγχάνοντα, e legge: «i pensieri
sono in noi, mentre i casi… sono nella realtà stessa». PEARSON
Fragments, ad loc., suppliva dopo τυγχάνειν un τὰ ὑπάρχοντα il
significato è lo stesso: «dei casi si trovano a partecipare le cose
esistenti», in opposizione agli ἐννοήματα, dei quali partecipa solo
la nostra mente. Il testo tràdito non è accettato nemmeno da
GRAESER, ZENON V. K., pp. 76-77, per la ragione che esso sembra
identificare πτῶσις con προσηγορία; mentre πτῶσις è è invece un nome
pronunciato e scritto, quindi una denominazione avente una sua
consistenza fisica e corporeità - il testo sarebbe quindi da
leggersi come oc ἅ προρηγορίας ϰαλοῦσιν («i pensieri sono in noi,
mentre i significati si riferiscono a quelle entità che essi
chiamano sostantivi»). Nuova proposta da parte di MANSFELD, «Mnem.»,
1978, p. 155; «gli Stoici dicono che queste (le idee) non esistono
altro che in noi, e che quelle entità che essi chiamano sostantivi
sono soggette a flessione»; non tuttavia pienamente convincente,
come non lo è l’emendamento di Graeser, che non pare strettamente
necessario per intendere il passo nel senso voluto, giacché ἃς può
essere una sorta di attrazione da parte del successivo προσηγορίας,
e può valere AD SENSUM per a. Forse la spiegazione può venire da
Ammonio, SVF II, 164 (cfr. INFRA, p. 736), il quale ci fa capire che
gli Stoici davano un’interpretazione assai letterale, fisicistica e
realistica, dei «casi», il caso retto come un cadere a perpendicolo
del nome dal νόημα che sta nella nostra mente, il caso obliquo come
un cadere di sbieco, istituendo così un rapporto diretto e immediato
fra formazioni mentali e nomi, rapportoregolato dalla πτῶσις. Il
passo riferito da Stobeo potrebbe signficare che «i concetti
(νοήματα) stanno in noi così come le loro cadute o i loro “casi”
(πτώσεις) stanno nei nomi», determinandone la forma.
127. Cfr. in proposito J. P. DUMONT,L’àme et la main: signification
du geste de Zénon, «Rev. Etudes Philos.», XIX, 1967-68, pp. 1-8.
128. Letteralmente la non scienza, «inscientia»; ma con ciò Cicerone
traduce di fatto ἂγνοια (cfr. però subito dopo il legame istituito
con «opinio»).
129. Ancora oscillazione, in questi riferimenti, fra due concetti
diversi come quello di opinione e quello di ignoranza. Da
CICERONE, Acad. post, 41, e Tusc. disp., IV, 15,
l’opinione è detta «imbecilla adsensio», il che qui nel passo
dosso-grafico resoci da Stobeo è attribuito direttamente
all’ignoranza.
130. Per la prima attenzione portata a questo passo cfr. C.
WACHSMUTH, Commentario de Zenone et Cleante Assio, Gòttingen,
1874, p. 12. Ma soprattutto cfr., di recente, J. MANSFELD,
Intuìtionism and Formalism. Zeno’s Definition of Geometry in a
Fragment of L. Calvenus Taurus, «Phron.», XXVIII, 1983, pp.59-74:
contro Pearson e Arnim, quest’ultimo soprattutto, che aveva negato
valore alla testimonianza (SVF I, 70, nota AD LOC.), Mansfeld
ritiene che essa possa costituire una definizione non solo
accettabile ma illuminante sulla geometria, purché – accettando la
necessaria emendazione della parola finale ὑποδίϰον del testo
tràdito in ὑπό λόγου già proposta dal Wachsmuth – non si sforzi il
πρòς δεῖξιν della tradizione manoscritta ad adeguarsi a Diogene
Laerzio, VII, 47, ove compare la formula ἐν προσδέξει Accettare il
πρòς δεῖξιν ϕαντασιῶν del testo significa attribuire a Zenone una
certa concezione costruttiva della geometria (δεῖξις è termine
stoico indicante procedimenti anaforici e di inferenza, cfr. FREDE,
ST. LOGIK, p. 53 segg.) che si contrappone alla concezione
accademica di tipo eminentemente teoretico-deduttivistico. Si segue
in questa traduzione il testo proposto dal Mansfeld. «Tauro Sidonio»
è certamente il filosofo Calvisio, o Calveno, Tauro, medioplatonico
del II sec. d. C, nativo non di Sidone ma forse, secondo alcune
fonti, di Tiro, o secondo altre di Berito, Beirut (cfr. PRAECHTER,
REAL-ENCYCL. V A 1, 1934, coll. 58-68, in part. 58).
131. La οἴησις è è la falsa e vana credenza che genera boria, quella
che Epicuro paragona all’epilessia o morbo sacro, cfr. fr. 224 Us.
(cfr. tuttavia i dubbi per l’appartenenza a Epicuro stesso in
USENER, Glossarium Epicureum, ed. GIGANTE-SCHMID, Roma, 1978, s. v).
Il concetto è apparentato per il suo contenuto a quello di τφος
«boria», che appartiene alla serie dei bersagli polemici contro cui
si appuntava la predicazione cinica; esso giunge a Zenone attraverso
Cratete (cfr. per questi STENZEL, S. V., Real-Encycl. XI, 2,
1922, coll. 1625-1631, per questo motivo in part. 1628).
132. Omesse da alcuni codici, le ultime parole sono espunte dallo
Hilgard. Per una analisi della definizione dell’arte in Zenone cfr.
F. E. SPARSHOTT, Zeno on art: anatomy of a definition in the stoics,
pp. 273-290.
133. Cicerone dà una definizione mista: arte come procedimento
metodico, arte come complesso di nozioni. Egli ha in mente insieme
le due definizioni zeno-niana o cleantea (ma attribuita anche a
Zenone dallo scoliaste a Dionisio Trace), che non si escludono in
realtà a vicenda dal punto di vista teorico (SPARSHOTT Zeno on art;
p. 281). Per la ulteriore differenziazione apportata alla
definizione da Crisippo cfr. INFRA, parte IV, nota 329.
134. Cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 55; e INFRA, parteV, nota 11.
135. Cfr. SUPRA per un tutto diverso giudizio dato sui «dialettici»,
che là peraltro (nota 116) sono gli avversari megarici, mentre qui
siamo di fronte al ricupero della dialettica operato da Zenone
stesso.
136. Importanza ricorrente del numero 4, il numero degli στοιχεῖα
fisici come degli στοιχεῖα, oltre che delle virtù e delle passioni
fondamentali; cfr. INTR. nota 40.
137. Per il verso cfr. BERGK, Poetae Lyrici Gr., II, 4, p. 93. Anche
qui Zenone dipende dalla tradizione cinica e da Antistene, cfr. per
questo fr. 36 Decleva Caizzi, V A 148 Giannantoni (da Diogene
Laerzio, III, 35).
138. Stessa definizione attribuita a Zenone da Massimo Planude, cfr.
WALZ, Rhet. Gr., V, p. 396. Non è chiaro se essa copra tutto il
campo semantico dell’espressione παρδειγμα e se Zenone facesse, come
Aristotele (cfr. Rhet., 11, 1393 a 24 segg. e altrove) ulteriori
distinzioni.
139. Troviamo qui το ποιομενον anziché il più usuale το πσχον; il
che implica un notevole scivolamento concettuale e non sembra
coerente alla concezione stoica della materia.
140. Lo «Speusippus» del testo è ovviamente da emendarsi in
«Chrysippus», come pure «Thasius» in «Assius». La continuazione del
discorso di Probo («i quali ebbero come fonte per questa dottrina
Empedocle di Agrigento, che scrisse sugli elementi ecc.») è apparso
significativo a J. MANSFELD, Providence and the destruction, p.
171, nota 131, ad attestazione della dipendenza di Zenone e Cleante
dall’opera di Empedocle; Mansfeld ritiene che siano da riferirsi a
Zenone (almeno come tramite) le allegorie fisiche relative al divino
che seguono nel testo, e che si richiamano ad Empedocle, cfr. 31 B
6 Diels-Kranz.
141. L’interpretazione che qui dà Calcidio di essentia (ουσα) come
«prima Silva» (πρτη Ολη) è confortata dal passo di Stobeo qui dato
successivamente. MANSFELD, «Mnem.», 1978, p. 173, ha puntualizzato
la distinzione che Calcidio fa di essentia, substantia,
silva; per studi recenti cfr. I. C. M. VAN DE WINDEN,
Calcidius on matter. A chapter in the history of platonism, Leiden,
1959; per le fonti di Calcidio, WASZINK, Studien Zum
Timaioskommentar Des Calcidius, I, Leiden, 1964.
142. La teoria che associa lo πνεμα con la «virtù seminale» e con la
generazione è di chiara origine aristotelica; cfr. ARISTOTELE, De
generatione animalium, 733 a segg., 735D, 7393, e altrove. Cfr. per
questo in particolare HAHM, Stole CosmoL, p. 69 segg.
143. È qui la prima formulazione (zenoniana) della teoria stoica
della causalità, cui seguirà quella assai più articolata della Stoa
crisippea. Sulla distinzione fra la causa, ατιον σμαeffetto come
συμβεβηκς (accidente) e κατηγρημα (predicato) cfr. INTR., pp. 12-13;
Per la teoria crisippea delle cause INFRA, p. 800 segg.
144. Zenone usa la parola φρνησις; in significato assai ampio (più
ampio che non quello di ETH. NICOM., VI, 1141 a segg., giacché nella
φρνησις zenoniana è inglobata largamente anche una valenza teorica
che manca nel concetto aristotelico). Discussioni sull’ampiezza
dell’estensione di φρνησις zenoniana è e suoi contenuti da parte di
BREHIER, CHRYSIPPE, p. 235 segg.; LONG, PROBLEMS IN STOICISM, p. 98
segg.; KERFERD, THE STOICS, p. 113 segg.
145. Cfr. anche Ps. GALENO, HISTORIA PHILóSOPHOS, 27, DOX. GR. p.
612, 2: ove è attribuita a Zenone la definizione del colore come
πχρωσις της υλης, «superficie colorata della materia». La relazione
istituita fra colore e superficie da un lato, colore e figura (σχμα)
dall’altro è antica; risale ai Pitagorici (cfr. Aristotele, DE SENSU
439 a 31, METAPH. XIV, 1091 a 13 segg.) e a Platone (MENO, 75c 4,
76d 4-5). Zenone, con la teoria dei colori come πρτοι σχηματισμο, si
riallaccia probabilmente a questa tradizione, lasciando cadere
invece l’elemento geometrico caro a Platone (la teoria della
συμμετρα, per cui cfr. K. GAISER, Platons farbenlehre, in synusia.
festgabe schadewaldt, Tübingen, 1965, pp. 173-222).
146. Integr. Wachsmuth. La definizione zenoniana è di chiara origine
accademica, come attestano soprattutto i due concetti di κνησις e di
μτρον. Per il concetto di κνησις cfr. PLATONE, FIRN. 37d-38b (il
tempo come «movimento che procede secondo numero»). Per quello di
misura piuttosto ARISTOTELE, PHYS. IV, 2i9a-b; conciliatoria la
definizione di Senocrate, secondo cui il tempo è insieme misura e
movimento (AEZIO,Piaci, 22, 2 = fr. 40 HEINZE, 159 I. P.), mentre la
definizione di Speusippo (PLUTARCO, PLAT. QUAEST., 8, ioo7a-b = fr.
53 Lang, 93 I. P.) si avvicina piuttosto a quella che Aristotele dà
del tempo in CATEG. 4b 25, 5a 6-7, come «quantità continua». Figura
nella definizione zenoniana anche l’espressione, anch’essa di
origine pitagorico-platonica, διστημα, «intervallo», che avrà poi
una particolare applicazione alla realtà cosmica in Crisippo; cfr.
INFRA, parte IV, nota 366, parte VI, nota 308.
147. Si traduce con «spazio» l’ambiguo termine quale è nota
l’importanza nel Timeo platonico, 48b segg. ove esso designa il
contenente amorfo dei corpi e dell’ordine cosmico. Qui il termine ha
subito una precisazione per il determinarsi del concetto di vuoto
assoluto, assente in Platone, (per il quale il vuoto esiste solo
allo stato potenziale): mentre qui κενν è il vuoto extracosmico,
senza corpi, χρα è il vuoto-spazio interno ai corpi. Ma si tratta
pur sempre di uno sviluppo dell’uso platonico.
148. E la prima forma della teoria dei λγοι σπερματικο, per cui cfr.
Intr., note 19-20; in proposito HAHM, Origins St. Cosmol., pp.
61-62, 136 segg. (l’origine del cosmo visto come un atto di
riproduzione biologica). Il richiamo a Eraclito è probabilmente
desunto allo stesso testo zenoniano; cfr. in proposito A. A. LONG,
«Philosophia», V-VI, 1975-76, p. 133-156.
149. σοκρατς è termine usato tardivamente in questo senso; nella
prosa del V secolo compare in significato politico (cfr. E RODOTO,
Historiae,V, 95). Platone usa per piuttosto, per un concetto
analogo, il termine ισρροπος ο ισορροπα (Phaedo, 1090) mentre
σοκρατς compare nello pseudo-platonico Timeo Locro(95C).
150. Incluso dall’Arnim fra i testi zenoniani per analogia coi
precedenti, anche se il nome di Zenone non vi compare espressamente.
Per i rapporti intercorrenti fra la concezione aristotelica della
«quinta essentia» e il concetto stoico di etere cfr. M ORAUX, Quinta
Essentia», col. 1234, e più in generale Intr., nota 95; infra, nota
162.
151. Per tutta la questione relativa a questi passi, in cui Zeller
per primo individuò polemica teofrastea contro Zenone, Introduzione,
nota 24.
152. ναφς, «intattile», «inafferrabile»; segue nel testo un fr. di
Pindaro (87 Bowra). Probabilmente ciò si pensa avvenire perché la
terra appare oscura agli dèi come a noi il cielo notturno e Delo è
in essa quasi un astro (cfr. l’altro nome di Delo, Asteria).
153. Per φσις come legame che tiene compatti i corpi inorganici cfr.
infra, p. 000; se le argomentazioni in questione sono veramente da
riportarsi a Zenone, ciò testimonierebbe a favore del carattere
zenoniano, prima ancora che crisippeo, della teoria.
154. Zoppo è Efesto, dio del fuoco; IL XVIII, 397. Interpretazione
allegorica di Omero sembra esser dunque quella qui riportata, e
secondo Schol. ad Iliad, I, 590 sembra risalire originariamente ad
Eraclito. Cfr. PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 922a; CORNUTO,
Comp. Theol., 19. Il nome di Efesto è stato integrato nel testo dal
Cumont (‘Ηφαιστος… ξ ατο Δις σκηριπτμενος) con congettura peraltro
poco probabile.
155. Cfr. E LIANO, De nat. anim., VI, 21; PLINIO, Nat. Hist., Vili,
32 segg., XXXIII, 116. La storia può risalire alla (perduta)
letteratura del viaggio di Alessandro Magno, che per prima ha
fornito notizie sulla fauna indiana, in particolare sull’elefante;
dell’opera di Onesicrito, Megastene, Nearco non possediamo che echi
tardo-antichi, ma essa doveva esser assai importante nell’età di
Teofrasto. Cfr. M. W ELLMANN, Real-Encycl., V, 2, 1904, coli.
2249-2257, s. v. Elefant.
156. Quest’ultimo argomento pone il problema dell’influenza del περ
φιλοσοφας aristotelico sulla Stoa, ove era trattata la questione del
rinascere periodico (ma non dopo distruzione totale) del genere
umano col rifiorire progressivo della arti; cfr. fr. 8 Walzer-Ross =
1 Untersteiner, da Giovanni Filopono, In Nicom. Isag., 1, 1; M. U
NTERSTEINER, Aristotele. Della filosofia, Roma, 1963, p. 122 segg.
Sulla varietà di influenze che possono essersi esercitate, per la
formazione del concetto di conflagrazione periodica, sul pensiero di
Zenone, cfr. M ANSFELD, Providence and the Destruction, p. 169. In
ogni caso, l’essenziale del discorso stoico, in contrapposizione a
quello platonico-peripatetico, sembra essere lo svolgimento più
pieno e coerente del concetto di universo / essere vivente: Platone
d’Aristotele non avrebbero sviluppato appieno il loro assunto
iniziale, ponendo il cosmo come eterno a parte ante o almeno a parte
post, o sottraendo la parte più elevata del cosmo, in virtù della
sua materia privilegiata, alle vicissitudini comuni dei viventi. Per
questa polemica cfr. già alcune argomentazioni ancor valide di H. v.
ARNIM, Ueber die pseudophilonische Schrift πφθ. κσμου, in
Quellenstudten zu Philo von Alexandreia, p. 41 segg.
157. Seguono paragoni tratti da Senofonte, Isocrate, Prodico, tutti
di marca socratico-sofistica.
158. Per Busiride, mitico uccisore degli ospiti, cfr. H ILLER V.
GAERTRINGEN,Real-Encycl. Ili, 1, 1897, coli. 74-77. La figura era
stata nel iv secolo resa più interessante dall’orazione omonima
isocratea, tendente comunque alla revisione del mito.
159. È frammento in realtà dubbio; lo «se ciò ch’è si riferisce a
Zenone o a Platone? non pertinente a Zenone lo considera oggi M
aNSFELD, «Hermes», CVIII, 1980, p. 255 segg.; l’espressione κατ τον
εικτα λγον è in effetti platonica (Tim. 300 7, 553 5, 5Ób 4 ecc.).
In ogni caso c’è una analogia fra Platone e Zenone che può provenire
dall’Accademia eclettica fra nei secolo a. C, e ciò rende la
testimonianza interessante.
160. Va espunto, per concorde ammissione dei recensori, l’iniziale
sì, con il quale si è inteso forzare il sillogismo di Zenone (contro
altre più sicure testimonianze) alla forma ipotetica del sillogismo
crisippeo. Cfr. Intr., note 28-30.
161. SENOFONTE, Mem., I, 4, 2 il dialogo di Socrate con
Aristodemo circa gli dèi, cui Sesto fa riferimento sopra, Adv.
phys., I, 92. Per l’importanza di Senofonte per Zenone cfr. DIOGENE
LAERZIO, VII, 2. Per l’ulteriore socratismo, filtrato anch’esso
almeno in parte attraverso la testimonianza senofontea, di Cleante
cfr. infra K parte II, nota 37.
162. E lo stesso ragionamento, pur senza esplicita attribuzione a
Zenone, in forma non sillogistica.
163. Per la questione dell’etere nella Stoa cfr. Intr., pp. 14 e 54;
e già supra, nota 150. Da notarsi che mentre la nozione di etere
nella Stoa, rifiutando l’elemento incorruttibile di Aristotele e del
Peripato, è associata con quella di fuoco (= etere come fuoco
artigiano, superiore al fuoco comune, sdoppiamento dell’elemento
fuoco), in uno di questi passi esso sembra associato con quello di
aria, il che è abnorme (una posizione simile, invece, in Platone,
Phaedc, ina, ma senza comportare la posizione di un vero e proprio
quinto elemento). Il riferitore, Tertulliano, è probabilmente caduto
in un fraintendimento, cfr. in proposito già Pearson, Fragments, p.
91.
164. Cfr. anche Adv. Hermog., 44. La metafora concreta risale
probabilmente a Zenone (per il tema della fluidità della materia
cfr. infra, parte IV e parte VI).
165. Di incerta paternità zenoniana, giacché sembra alludere alla
teoria crisip-pea delle πνεμα πς εχον(Pohlenz, Zenon und Chrysipp,
p. 181 segg.; supra, intr., nota 106). La testimonianza di Temistio
è d’altronde ambigua (oí π Ζνωνος). Tuttavia qui non abbiamo
l’espressione πνεμα e possiamo considerare presenti solo le
premesse, nel senso che Zenone già parlava di una fluidità e di una
diversa forma di volta in volta manifestantesi del divino; cfr.
infra, parte VI, pp. 1008-1009.
166. WHITTAKER(Tatiani orario ad Graecos, Oxford, 1982) restituisce
nel testo lo μραις della tradizione; mentre l’editore precedente, E.
S cHWARTZ, ipotizzava ρχνοας, «ragni», per analogia con σκληξι,
«vermi».
167. Cfr. anche T ERTULLIANO, Apol. 21 (con la variante
«factitatorem, qui cuncta in dispositionem formaverit») denotante
una probabile comune fonte dossografica; e analogamente M INUCIO
FELICE, Octavius, 19, 10.
168. ANTISTENE, fr. 39 E Decleva Caizzi = V A 180 Giannantoni.
169. Per altri riferimenti circa la divinità degli astri nella Stoa
(cfr. già supra, SVF I, 120, infra, SVF II, 1109) cfr. PEASE,
Cicero, De natura deor., I, p. 254. Testo incerto: O. Plasberg
proponeva l’emendazione «annuis», R. Reitzenstein «temporumque». La
continuazione del discorso di Cicerone circa Zenone riguarda l’opera
di questi relativo alla Teogonia esiodea, cfr. supra, p. 143 (SVF I,
167).
170. Ripresa, in chiave cristiana, del ciceroniano «rebus inanimis
atque mutis per quandam significationem haec docet tributa nomina».
171. Dal Diels, Dox. Gr., loc. cit., è stata fatta l’attribuzione a
Zenone mediante il paragone con CICERONE, Nat. deor., I, 14, 36. Se
si tratta di una identificazione dì divinità tradizionali con forze
naturali, come sembrerebbe dall’esempio dei Dioscuri, potrebbe avere
qualche probabilità la congettura dell’Arnim (φρο)δειτην(al posto
del δει τηνletto nel papiro dal Diels). Cfr. analogamente Diels per
συνα(π)τικν.
172. Cfr. l’altra espressione di Nat. deor. III, 77 («naturae
artificiose ambulantis, ut ait Zeno»), e Acad. post., 10, 39.
Dipende probabilmente da questi passi TERTULLIANO, Adv. nationes,
II, 2.
173. Motivi comuni a tutta la Stoa, e probabilmente di origine
zenoniana, nella larga trattazione provvidenzialistica e finalistica
di Cicerone per cui cfr. infra, parte lì, nota 68, e parte VI, note
427-433; di discussa attribuzione cleantea o posidoniana.
174. Premesse zenoniane di quella teoria del «libero arbitrio» che
sarà poi argomentata più ampiamente da Crisippo (parte IV, nota 403
e Intr., p. 55 segg.). La distinzione è peraltro abbastanza
generica; riscontrabile in forma analoga in EPICURO, Epist. ad Men.,
133.
175. È zenoniana la teoria del sole come ναμμα, che sarà poi ripresa
da Cleante; più incerto se già zenoniana sia la teoria del sole come
ναθυμιασις, giacché questa sembra presupporre la convinzione che il
sole sia l’anima dell’universo, teoria Cleantea (per l’anima come
ναθυμασις cfr. SVF I, 141). Tuttavia è anche da notarsi che
ναθυμιματος è frutto di integrazione dell’Arnim (cfr. il seguente
Etymol. Magnutn, s.v. λιος, ove sono assenti le parole ναθυμιαμα e
ναθυμασις); il testo non dà altro che εκ της θαλττης.
176. «Pitagora di Samo» è una di quelle testimonianze tardo-antiche
su Pitagora che sono estremamente generiche e indicano per lo più i
pitagorici post platonici, di età ellenistica, o addirittura il
neopitagorismo. Assente dai Vorsokratiker di Diels e Kranz e dai
Pitagorici di M. Timpanaro Cardini.
177. Tessalo è il capo riconosciuto della medicina metodica in età
neroniana; lo scritto di Galeno si rivolge contro il suo seguace
Giuliano; cfr. H. D ILLER, s.v. Thessalos, Real-Encycl. VI A 1,
1936, coli. 168-182, per la teoria delle κοιντητες, o «proprietà
comuni», in particolare col. 173. Galeno accusava sopra Tessalo di
essere un calunniatore di Ippocrate.
178. Il passo di Galeno non è stato per lo più preso in
considerazione nelle raccolte dei peripatetici; manca in W IMMER,
Theophrasti Opera III, Fragmenta, Lipisiae, 1862, così come in Die
Schule des Aristoteles VIII, Eudemos v. Rhodos, Basel-Stuttgart,
19692.
179. Da vedersi a confronto anche PLUTARCO, De cohib. ira, 15, 462
TEODORETO,Graec. afjectionum curatio, V, 25; AEZIO, Plac. V, 4, 1,
Dox Gr., p. 417. La teoria non si accorda dei tutto con quella
attestata da altri autori, cfr. fr. seg.
180. Cfr. anche pseudo GALENO, Hist. philos., 109, Dox. Gr. p. 640;
e DIOGENE LAERZIO, VII, 159, che parla di σπρμα αγονον (per tutta la
trattazione di Diogene Laerzio, relativa alla Stoa in genere e non
in particolare a Zenone, infra, parte VI). Una teoria non dissimile
è già nell’embriologia aristotelica: cfr. De gen. anim. 1
segg., 7243 8 segg., 728a 31 segg., ove Aristotele rifiuta l’ipotesi
della eiaculazioxie di vero e proprio seme da parte della femmina;
la femmina offre col catamenio uno sperma impuro che ha una funzione
di pura e semplice materia della generazione e non una funzione
attiva; cfr. ancora ivi, 73oa 18 segg., per la funzione di materia e
ricettacolo che la femmina rappresenta nella generazione. Per
riferimenti alla tradizione anteriore cfr. POHLENZ, Stoa, II, pp.
50-51.
181. Da ricordarsi il carattere fisico dell’anima e la sua
collocazione nel centro del composto corporeo, il cuore; cfr. più
ampiamente infra, parte IV, note 161 e segg. La teoria zenoniana
sarà perfezionata con l’introduzione del concetto di τνος, cfr. SVF
I, 563 (Cleante) e avrà continuazione in Crisippo e scuola, SVF III,
473; più in generale SVF II, 766-768 (infra, parte VI, nota 505).
182. Cfr. anche GALENO, Method. med. II, 5, X, p. 111 Kuhn. La
teoria dellasalute come ευκρασα è assai antica, anche se il termine
di cui ci si vale in ambito pitagorico e pitagorizzante (Alcmeone,
ad esempio, cfr. 24 B 4 Diels-Kranz) è piuttosto quello di κρασις,
«mescolanza». Alcmeoniana nella sua origine è anche la teoria dello
squilibrio che vi verifica per la επικρτεια di un umore sull’altro,
che fa perdere al corpo la sua συμμετρα.
183. Similmente in Tusc. Disp. I, 10, 19.
184. Cfr. anche MACROBIO, In somm. Scipion., I, 14, 19; mentre
NEMESIO, De nat. hom., 2,33, riferisce la stessa argomentazione a
Crisippo. La forma del sillogismo (cfr. il passo di Calcidio) sembra
tuttavia zenoniana e non crisippea.
185. Cfr. anche TEODORETO, Graec. affect. curatio, V, 27, a
proposito di «ambedue», Zenone e Cleante. Per l’anima come
ναθυμιασις cfr. infra, nota 187.
186. Diogene di Babilonia (infra, parte V, nota 16). La teoria che
apparenta l’anima e il pensiero al sangue risale ad Empedocle, 31 B
105 Diels-Kranz (sangue come περικρδιον νημα, «elemento senziente
che circonda il cuore»).
187. Plausibile la formula αισθητικ ναθυμιασις anche se frutto di
emendazione (il testo dà αισθησιν αναθυμασιν). L’equazione tra
ναθυμασις e αρχ e ψυχ è indicata per primo, in riferimento a
Eraclito, da Aristotele (De anima, I, 405a 24 segg. = 22 A 15
Diels-Kranz, 66 Marcovich). Il passo qui riportato in cui abbiamo
una teoria zenoniana attraverso l’interpretazione eraclitizzante di
Cleante, proviene dalla raccolta dossografica di Ario Didimo, cfr.
Dox. Gr., p. 471 = Eraclito, 22B 12 Diels-Kranz, 40 Marcovich. Per
le derivazioni aristoteliche cfr. SOLMSEN, Cleanthes or PosidoniusP,
in Kl. Schr., I, p. 452 segg., e Aristotle’s System of the physical
World, Ithaca (N.Y.), 1961, p. 407.
188. Per la teoria zenoniana della τυπωσις, e la sua interpretazione
da parte di Cleante cfr. ancora Intr., nota 56.
189. Testo incerto. Arnim, ad loc., propone περ (δ τινα μρη) τς
δυνμεις… πλεονας(«in certe parti vi sono più facoltà»),
190. La testimonianza, come spesso in Tertulliano, è inesatta. Per i
vari tentativi di spiegazione avanzati dalla critica moderna cfr.
Waznick, Tertulliani de anima, p. 210.
191. Per il carattere dubbio di questo passo, che dovrebbe riferirsi
alla Repubblica ma ha colorito decisamente platonico, cfr. supra,
nota 104. Lo θνατον del testo sta di contro alla testimonianza più
precisa dello stesso Epifanio data subito di seguito dall’Arnim, e
di contro alla più decisa ancora espressione di AGOSTINO, Contra
Acad., III, 17, 38 («Zenone … il quale dice che l’anima è mortale»).
192. Λγος è qui insieme discorso e ragionamento; si traduce con
«pensiero» il successivo termine δινοια. Per la polemica di Galeno
contro il cardiocentrismo psichico stoico cfr. ampiamente infra,
parte IV, note 153 e segg. La teoria sarà sostenuta con dovizia di
argomenti consimili da Crisippo, ma l’attribuzione di questo
specifico argomento a Zenone ci fa vedere come anche qui la teoria
abbia radici nel pensiero di questi (per la successiva forse diversa
posizione di Cleante cfr. infra, parte VI, nota 537). Cfr. POHLENZ,
Sto a, II, p. 52.
193. Ctr. 24 A 15 Diels-Kranz; lo scoliasta unisce insieme del tutto
superficialmente le posizioni di autori dalla diversissima
antropologia; il dato dei «quattordici anni» contrasta poi con altre
testimonianze (il numero deriva dall’aggiunta di δς a επτ, non del
tutto attendibile).
194. Incerto se y sia parola già usata da Zenone. Negativo in
proposito BONHOEFFER, Epikt. u. die Stoa, p. 223 segg., il quale
ritiene più caratterizzante per la dottrina zenoniana il concetto di
ορθς λγος Il Bonhoeffer, sulla scorta di Epitteto, ha proposto una
identificazione fra προλψεις e κοινα εννοιαι poi negata dalla
critica ulteriore: cfr. SANDBACH, «Class. Quart.» 1930, p. 44 segg.,
e la sua analisi circa i diversi tipi di πρληφις, non tutte
necessariamente a priori e almeno virtualmente innate; POHLENZ,
Stoa, I, p. 56, e II, p. 83. Analisi della distinzione fra ννοια e
πρληψις da parte di Cicerone in HARTUNG, Cic. Ueber-setz., p. 83
segg. Anche in questo stesso passo di Aezio sembrerebbe di veder
identificate le «anticipazioni» non tanto con le κοινα εννοιαι
virtualmente innate quanto con l’accumulo di esperienze, che
arrivano a costituire la vera premessa della conoscenza solo quando
lo sviluppo naturale della ragione ha raggiunto una certa fase.
195. Per la questione della formula ομολογουμνως ζην e della sua
attribuzione a Zenone (contro l’attribuzione più ampia, che aggiunge
φσει), cfr. Intr. nota 32. Le oscillazioni della tradizione sono ben
documentate dal confronto fra questa definizione e quelle dei
frammenti seguenti; particolarmente eclettica quella ciceroniana di
Acad. pr., 131: desunta probabilmente da una fonte che vede nella
massima zenoniana implicita la conseguenza crisippea.
196. Senocrate, Polemone, l’Accademia in genere; per questa
dipendenza cfr. Intr., nota 2.
197. Cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 88 (per Cleante infra, parte II,
nota 103); e anche MARCO AURELIO, Ad semetipsum, II, 5; V, 9; X, 6.
198. Ancora Tusc. Disp., II, 6, 15; V, 9, 27.
199. Il «se ipsa contenta est» traduce αυτρκης, cfr. Diogene L.,
VII, 127 = SVF I, 187. Per l’origine cinica di queste teorie cfr.
JAGU, Zenon de Citium, p. 23 segg., il quale puntualizza
notevolmente il socratismo della teoria etica zenoniana.
200. È spunto della polemica famosa contro laμετριοπαθια
peripatetica; parla qui l’interlocutore stoico del dialogo
ciceroniano, Catone.
201. Seguendo «cetera», secondo Bremius e Schiche; altre lezioni
«eas res», «ceterae res». Si tratta, in ogni caso, dei «beni
esterni» accettati da Accademici e Peripatetici.
202. La traduzione di «momentum» con «differenza» supponendo la
parola greca παραλλαγ (sulla base di SESTO, Adv. eth., 64-67), è
proposta da HèRTUNG,Ciceros Methode Ueberstez., p. 173, nota 1; cfr.
anche IOPPOLO, Arist. d. C, p. 152; ma il contesto non sembra
confortare l’interpretazione della Ioppolo, che nega a Zenone la
teoria dei πρτα κατ φσιν. Cicerone sembra affermare che Zenone è
stato incoerente al suo principio basilare, secondo cui
l’inclinazione naturale tende fondamentalmente alla virtù come al
solo bene, dando poi ad essa anche oggetti secondari, cosa cui lo
portava di necessità l’aver accettato la priorità naturale di alcune
realtà rispetto ad altre, dottrina quest’ultima di origine
polemo-nea. Cfr. infra, nota 211.
203. Cfr. EPICURO, fr. 397 (USENER, Epicurea, p. 273). Ma è
incerto se sia riferimento specifico a polemica di Zenone contro
l’epicureismo, perché l’attribuzione è a Zenone con l’intera Stoa;
l’equiparazione del piacere di Epicuro a quello degli animali
irragionevoli può esser motivo generico di scuola; esso ritornerà
abbondantemente anche nel platonico Plutarco (Non posse suaviter
vivi, 1089d, Adv. Col., 1124e = frr. 431, 512 Us.).
204. Cfr. Intr., nota 40.
205. Anche qui la fonte è Ario Didimo; anche se l’attribuzione a
Zenone appare assai precisa, cfr. p. es. per il termine διφορον
parte III, nota 75; e già, ìntr., nota 36. Anche per la singolarità
dei termini usati, soprattutto quello, di singolare conio,
ποπροηγμνον, cfr. Intr., nota 38. Esso ha astratto l’attenzione di
più studiosi (HIRZEL, Untersuchungen, II, 45, nota 1; DYROFF, Ethik
d. Stoa, p. 100, nota 1; BREHIER, Chrysippe, pp. 231-232;
soprattutto KILB, Ethische Gmndbegr., p. 64 segg., il quale ha
tentato una curiosa spiegazione in termini etnici (il termine
sarebbe di formazione extragreca, «barbarica», e attesterebbe
l’influenza delle lingue semitiche sul linguaggio filosofico di
Zenone; Kilb si vale a questo proposito di esempi tratti dal
linguaggio biblico). Ma cfr. di contro v. FRITZ, Zenon v.K., col.
115, con esempi tratti dall’epos omerico; e HARTUNG, Ciceros Methode
Ueberstezung, pp. 169-171.
206. Analogamente anche Stoic. rep., 30, 1047c Per lo statuto
ontologico e assiologico dei «preferibili» nel pensiero stoico (con
sviluppi nella Stoa ulteriore) cfr. M. E. REESOR, The Indifferents
in the Old and Middle Stoa, «Trans. Amer. Philol. Ass.», LXXXII,
1941, pp. 102-110.
207. Che «praepositum», come in questo caso, sia la traduzione
prediletta di Cicerone per προηγμνον è affermato da KILB, Ethische
Grundbegr., p. 78 segg.; il quale tuttavia si rende conto della
maggiore aderenza alla forma greca dell’altra parallela,
«productum». Per «reiectum» Kilb invoca la terminologia corrente
dell’uso giuridico. HORTUNG,Ciceros Methode Vebersetz., p. 173
segg., sottolinea l’insoddisfazione che Cicerone prova per
l’imperfezione delle sue traduzioni; nelle quali (cfr., per
«praepositum», De fin. IV, 73) si insinua spesso un significato
etico che manca nel termine greco corrispondente. Per la spiegazione
di àta e arcadia non semplicemente come valore e disvalore
(POHLENZ, Stoa, II, p. 68) ma come qualcosa che possiede un
peso oggettivo, collegato con l’idea della bilancia, cfr. ancora
HARTUNG, p. 149 segg., con la denuncia della approssimatività del
ciceroniano «aestimatio».
208. Qui «producta», che rende effettivamente meglio il valore sotto
l’aspetto letterale.
209. L’informazione di Gellio è certamente filtrata attraverso fonti
intermedie e tardive, forse il suo stesso maestro, il medioplatonico
Calvisio Tauro, per cui cfr. supra, nota 130. Tuttavia la
testimonianza attribuirebbe il termine di διφορον già a Zenone. Per
la questione cfr. ancora parte III, nota 75.
210. Intr., nota 33.
211. Anche qui cfr. già Intr., nota 35, contro l’interpretazione e
traduzione di A. M. IOPPOLO,Arisi, d. Cbio, pp. 149-150, tendente a
negare a Zenone la teoria dei πρτα κατ. L’accusa di
contraddittorietà rivolta qui a Zenone implica che questi avesse
inizialmente accettato (dando ad «acceperat» tutto il suo pieno
significato) la teoria polemonea, per cui cfr. POLEMONE, fr. 128
Gigante.
212. Lacuna nel testo; cfr. già in proposito POHLENZ, Plutarchs
Schriften gegen die Stoiker, «Hermes», LXXIV, 1939, pp. 1-33, in
part. p. 8, nota 2: seguo qui tuttavia l’integrazione proposta da
CHERNISS, Plutarchs Moralia XIII, 2 ad loc., il quale per νεργητα,
richiama a SVF I, 374-375; III, 262. L’espressione di πεονας κατ
διαφορς usata da Zenone per le virtù è già anticipatrice della
polemica condotta poi da Crisippo contro Aristone, volta a
dimostrare che le virtù sono qualitativamente differenziate, cfr.
infra parte IV, p. 430 segg.
213. Anche per questo infra, parte III, nota 42.
214. Plutarco si riferisce qui insieme a Menedemo, Aristone, Zenone,
Crisip-po; e con molta genericità, estendendo anche a Zenone
l’attribuzione dell’unitarismo psichico in chiave razionalistica;
per tutta la questione cfr. Intr., p. 60 e segg.
215. Per le formule che Cicerone usa per rendere il concetto stoico
di cfr. KILB, Ethische Grundbegr., p. 17; e per «motio» come
neologismo ciceroniano cfr. HARTUNG, Ciceros Méthode Uebersetz., pp.
74-75, con distinzione dal più comune «motus», che indica durata e
non rende l’immediatezza della perturbazione.
216. Integrato dal Wachsmuth, non appare però strettamente
necessario: αλογον e παρ φσιν sembrano, da Diogene Laerzio,
costituire piuttosto due possibili forme alternative.
217. Ario Didimo, anche qui fonte di Stobeo, desume da polemica
peripatetica contro Zenone, con impiego quindi di terminologia
aristotelica.
218. Analogia passione-malattia, di origine socratico-platonica;
basti pensare a Tim., 8v6b segg. (le «malattie dell’anima»),
219. E applicato qui a Zenone, con qualche forzatura, il concetto di
passione come διαστροφ, il che si addice forse meglio al più
accentuato razionalismo crisippeo. Per διαστροφ cfr. supra, nota
103.
220. POHLENZ, Zenon und Chrysipp, p. 194, ritiene che questa sia
giustificazione conciliatoria dovuta a Crisippo, il quale avrebbe
così voluto accordare in qualche modo il suo razionalismo assoluto
con la teoria zenoniana della passione come ópiXTj rcXeovàÌouaa
(cfr. già del resto ZELLER, Philos. d. Gr., Ili, p. 228, nota 2;
BONHòFFER,Epiktet und die Stoa, p. 265 segg.). Molto diversamente
oggi GRAESER, Zenon v. Kition, p. 158 segg.; cfr. Intr., nota 106.
221. Non del tutto attendibile il riferimento a Cleante, al quale
potrebbe esser riferita una diversa testimonianza dossografica; cfr.
già supra, nota 192 ma soprattutto infra, parte VI, nota 537.
222. «Recens», che traduce πρσφατος, non ha in realtà il significato
di «formatosi da poco», ma quello di «vigor eggiante, fresco», che
ha in sé «vis», «viridi-tas»; cfr. ancora KILB, Eth. Grundbegr., p.
17. GRAESER, Zenon v.K. p. 172, fa il confronto con ARISTOTELE, De
pari. anìm., (πρσφατος τροφ = cibo non ancora digerito).
223. POSIDONIO, fr. 165 Edelstein-Kidd, 410 Theiler. Più ampiamente
in SVF III, 481 (infra, parte IV, p. 452 segg.).
224. Integrazione del Meineke, accettata dal Wachsmuth. Con
attribuzione a Zenone insieme con gli Stoici seguenti, riporta una
teoria che sembra in realtà essere stata sostenuta da tutta la Stoa
antica. Il termine qui usato costantemente dalla fonte di Stobeo per
designare i buoni è σπουδαος; termine che sembra equi valere a
quello di per tutti gli Stoici con l’eccezione (irrilevante) di
Nemesio, SVF II, 416 (cfr. TSEKOURAKIS, Studies Terminol. Stoic.
Ethics, p. 129).
225. Fr. 253 Nauck2.
226. La «filosofia barbarica» è considerata dagli autori cristiani
anteriore alla filosofia greca, che avrebbe attinto la sua pretesa
sapienza a fonti più antiche (polemica, questa, contro la condanna
della filosofia cristiana come «barbarica» da parte degli autori
pagani di età imperiale). La posizione opposta è significativamente
rappresentata da DIOGENE LAERZIO, Prooem.,3 (affermazione della
prioritàfilosofica greca).
227. Cfr. Intr., p. 26.
228. Annoverato dal FESTA (Framm. St. ant., I, p. 19) fra i
frammenti della Politeia; per queste attribuzioni cfr. supra, nota
104.
229. Ισηγορα è parola del linguaggio politico qui volta ad uso
traslato; per παρρησα in senso analogo usato nel Kèpos di Epicuro
cfr. GIGANTE, Actes VIII Congrès Budé, p. 196-217, poi in Questioni
filodemee, Napoli, 1967, p. 41-61.
230. Cfr. anche FILONE, De plant. Noe, II, p. 176 Wendland. In
proposito H. v. ARNIM, Quellenstudien zu Philo v. Alexandreia (III,
Das stoische Ζτημα ει μεθυσθσεται σοφς bei Philo de Plantatione Noe,
pp. 101-140).
231. Cfr. anche Intr., nota 44. «Officium» risponde certo
inadeguatamente alla parola greca, come notò già KILB, Ethische
Grundbegr., p. 60 seg.; ma i tentativi moderni di esplicitazione
sono spesso viziati da categorie estranee, cfr. TSE-KOURAKIS,
Studies Terminol., p. 7 segg., a proposito delle distinzioni
zelleriane (Philos. d. Gr., III, 1, p. 274) sulla falsariga di
quello fra moralità e legalità, e dell’inadeguatezza del termine
«Pflicht» usato dallo HIRZEL, Unters., II, pp. 416417. Altre
osservazioni (con la traduzione di καθκον per mezzo di «sich
Gehò-rendes») in NEBZL, Begriff des καθκον, p. 449 segg.
232. La testimonianza plutarchea permette di attribuire a Zenone il
concetto; cfr. Intr., p. 27.
233. Opera, v. 291.
234. Cfr. anche PS. PLUTARCO, In Hesiod. Op. v. 291, VILI, p.
60, 15 segg; Bernardakis. Così pure TEMISTIO, Oratio VII, 1o8c.
235. Probabile notizia di fonte cinica, derivata dalla letteratura
relativa alla spedizione di Alessandro; in particolare cfr.
ONESICRITO, Fr. Gr. Hist. 134F 17 (= STRABONE,Geogr., XV, 1, 63-65).
Per l’interesse di Zenone per cose indiane cfr. già supra, nota 155.
PEARSON, Fragm. Zeno CI., p. 215, ha supposto un riferimento a
tragedie antisteniche, l’Eracle Maggiore, il Ciro, il che resta
tuttavia ipotetico.
236. Da ricordare che Antigono di Caristo (supra, note 1 e 18) è
fonte assai importante per la biografia laerziana di Zenone.
Ricostruzione dell’opera Su Zenone in WILAMOWITZ, Ant. v. Kar., pp.
116-122; e per una valutazione dei frammenti dell’opera, da Diogene
e da Ateneo, p. 113 segg. Risale anche a quest’opera un passo
relativo alle edizioni delle opere di Platone in età alessandrina,
DIOGENE LAERZIO, III, 66, del quale è impossibile precisare la
relazione con notizie relative a Zenone stesso; cfr. WILAMOWITZ, op.
cit., p. 122.
237. IV A 161 Giannantoni.
238. Supplices, vv. 861 segg.
239. Secondo la supposizione del FESTA (Framm. St. aut., I, p.
19) da attribuirsi con probabilità alla Politeia zenoniana.
NOTA BIOGRAFICA
La cronologia di Cleante è soggetta alle stesse incertezze di quella
di Zenone, proprio perché è modellata su quella. Nato, forse nel
331/330 a. O, ad Asso nella Troade, raggiunse Atene in un periodo
imprecisato. Di povera famiglia, totalmente privo di mezzi, fu
costretto a duro lavoro per potersi permettere la frequenza di una
scuola filosofica. Nonostante una notizia di Snida, non è credibile
che abbia frequentato altra scuola se non quella di Zenone, nel
quale trovò, oltre che un maestro, un protettore e un aiuto. La
tradizione lo fa discepolo di Zenone per 19 anni; ciò non significa
peraltro che egli sia entrato a far parte della Stoa nei soli ultimi
diciannove anni dello scolarcato di questi; dobbiamo pensare che
egli sia stato in primo tempo, per un ventennio circa, discepolo di
Zenone, poi abbia insegnato indipendentemente, il che era ampiamente
permesso dalia non rigida struttura della scuola stoica. Diede
inizio già probabilmente prima dell’assunzione dello scolarcato a
quella vivace polemica con il condiscepolo eterodosso Aristone che
doveva poi continuare per tutto il resto della sua carriera
filosofica. Assunse lo scolarcato alla morte di Zenone, nel 261
circa; tale scolarcato doveva essere trentennale, essendo Cleante
morto nel 232/231 (secondo una tradizione, peraltro non sicura, a
novantanove anni di età).
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO, Philos. Vitae, VII, 168-176 = SVF I, 463, 474, 481
Cleante figlio di Fania, di Asso. Costui in un primo tempo faceva il
pugile, come dice Antistene nelle Successioni1. Ma giunto ad Atene
con quaranta dracme come dicono alcuni, e imbattutosi in Zenone, si
mise a esercitare la filosofia in maniera eccellente, e rimase
fedele ai principi di questi. Amò vivere sempre in condizioni dure e
aspre, ed essendo molto povero dovette prestar servizio a pagamento;
e così la notte attingeva acqua dai pozzi, il giorno si esercitava
nelle diatribe filosofiche, tanto che gli fu messo nome «il
pozzaiolo» (Freanthles). Dicono anche che fu trascinato in giudizio,
dal momento che, essendo sano di costituzione, doveva render conto
di dove traesse i mezzi per vivere: e che potè dimostrare tutto
citando a testimoni il giardiniere nel cui giardino attingeva
l’acqua dal pozzo e la panettiera presso la quale impastava la
farina2.
Gli Areopagiti, come riconoscimento del suo valore, decretarono che
gli fossero date dieci mine; ma Zenone gli impedì di accettarle.
Dicono anche che Antigono gli desse una volta tremila dracme3. Una
volta che guidava una schiera di efebi a uno spettacolo, fu
spogliato da una raffica di vento, e si vide che era privo di
tunica: per questo fu salutato con un applauso dagli Ateniesi; così
racconta Demetrio di Magnesia negli Omonimi4. Fu ammirato quindi
anche per questo. Dicono anche che Antigono una volta, mentre lo
ascoltava, gli chiese perché attingesse dai pozzi; e Cleante gli
disse: «Attingo soltanto? Non zappo anche? Non irrigo gli orti, e
faccio anche altre cose, per amore della filosofia?» Zenone lo
coadiuvava in questo suo lavoro, e gli prescrisse di portargli un
obolo di ricompensa5. E una volta, raccolto un mucchio di monete, lo
condusse nel bel mezzo dei suoi seguaci e disse: «Cleante, se
volesse, potrebbe mantenere un altro Cleante; mentre quelli che pur
avrebbero i mezzi per mantenersi da sé cercano di farsi mantenere
dagli altri, né si può dire che per questo si diano con ardore alla
filosofia!» E perciò Cleante fu chiamato un secondo Eracle.
Era diligente ma poco dotato per natura ed eccessivamente lento;
ragion per cui Timone scrisse di lui: «chi è costui che si aggira
fra le schiere degli uomini come un montone, quel caro Assio
smidollatore di parole, rullo irresistibile?»6. Irriso dai
condiscepoli, tutto sopportò, e chiamato asino non rifiutò
l’epiteto, dicendo che in realtà lui solo era abbastanza forte da
sostenere il carico di Zenone7. E una volta che lo ingiuriavano
dicendogli vile, rispose: «è per questo che sbaglio di rado».
Giudicava la sua vita superiore a quella dei ricchi, perché, mentre
quelli giocavano a palla, lui lavorava scavando la terra dura e
ingrata. Spesso usava rimproverare anche se stesso; e una volta che
Aristone, sentendo ciò, gli chiese: «ma chi stai rimproverando?»
rispose ridendo: «un vecchio, che ha tanti capelli bianchi, ma non
ha cervello». E una volta che uno gli diceva che Arcesilao non
compiva il suo dovere, gli rispose: «smettila, non biasimarlo: anche
se abolisce il dovere a parole, lo riconferma compiendolo».
Arcesilao gli disse: «non mi lascio adulare»e Cleante: «io però ti
adulo, dicendo che tu dici certe cose ma ne compi certe altre»8.
A chi gli chiedeva che monito dare al proprio figlio, rispose con
quel verso dell’Elettra9: «’taci, taci, lieve sia l’orma’». E a uno
spartano che affermava che la fatica è un bene, rispose con
effusione: «Sei di buon sangue, figlio mio»10. Ecatone, nelle
Sentenze11, narra che a un bel giovane il quale diceva: «chi si
batte il ventre esercita l’arte del ventre e chi le cosce quella
delle cosce» rispose: «tu, ragazzo, tieniti i tuoi esercizi di
cosce; parola di ugual suono non sempre significano le stesse cose».
Discorrendo con un altro giovinetto, gli chiese se: comprendesse;
quello gli rispose: «sì» e Cleante: «perché dunque io non comprendo
che tu comprendi?».
Una volta che era presente in teatro, il poeta Sositeo12 gli rivolse
le parole: «quelli che la stoltezza di Cleante conduce come mandria
di buoi». Egli non mutò espressione; ciò destò l’ammirazione degli
spettatori, i quali lo applaudirono ed espulsero Sositeo. Ma poi,
quando Sositeo venne a lui pentito dell’insulto, lo accolse dicendo
che sarebbe stato assurdo serbar rancore per un insulto occasionale
mentre Dioniso ed Eracle non si adirano per essere ridicolizzati dai
poeti.
Diceva che a quelli del Peripato succede qualcosa di simile alle
lire, le quali suonano così bene che non sentono se stesse. Poiché
soleva dire, seguendo Zenone, che il costume morale si conosce
dall’aspetto, si dice che una volta alcuni giovani schernitori gli
condussero un cinedo indurito dal lavoro nei campi, e gli chiesero
di pronunciarsi sui suoi costumi; egli, trovandosi in difficoltà,
comandò dapprima di mandarlo via, ma poiché quello, nell’atto di
andarsene, fece uno starnuto, Cleante disse: «ho capito l’individuo:
è un rammollito»13. A un uomo solitario, che parlava con se stesso,
disse: «tu non parli con un uomocattivo». A chi lo insultava per la
sua vecchiaia, rispose: «anch’io vorrei andarmene; però, quando mi
vedo in buona salute da ogni parte, e rifletto che posso ancora
leggere e scrivere, sento di poter rimanere ancora». Si dice che
scrivesse tutto ciò che ascoltava da Zenone su cocci e su scapole di
buoi perché non aveva sufficiente denaro per comprarsi della carta.
Tale essendo, benché vi fossero molti altri discepoli di Zenone
degni di nota, riuscì proprio lui a ottenere la successione nella
scuola.
Lasciò bellissimi libri: e sono questi:
Del tempo; Della scienza della natura in Zenone, libri II;
Spiegazioni di Eraclito, IV; Della sensazione, Dell’arte, Contro
Democrito; Contro Aristarco; Contro Eri Ilo; Dell’impulso, II;
Antichità; Sugli dèi; Sui giganti; Delle nozze; Del poeta; Sul
dovere, III; Del buon consiglio; Della gratitudine; Protreptico;
Delle virtù; Della buona stirpe; Su Gorgippo; Dell’invidia;
Dell’amore; Della libertà; Arte di amare; Dell’onore; Dell’opinione;
Politico; Del consiglio; Delle leggi; Del rendere giustizia;
Dell’educazione; Del discorso, III; Del fine; Delle cose onorevoli;
Delle azioni; Della scienza; Del regno; Dell’amicizia; Del simposio;
Dell’essere uguale la virtù dell’uomo e della donna; Che il sapiente
usa sofismi; Delle necessità pratiche; Diatribe, II; Del piacere;
Delle proprietà; Delle questioni incerte; Della dialettica; Dei
modi; Dei predicati.
Questi sono i libri che scrisse14.
Morì nel modo seguente. Gli si erano infiammate le gengive, e per
due giorni, seguendo il divieto dei medici, si astenne dal cibo. Ma
quando si fu ristabilito e i medici gli permisero di tornare alla
solita nutrizione, non volle più, e, dicendo che ormai aveva
percorso una lunga strada, continuò anche i giorni seguenti ad
asternersi dal cibo. Così morì, secondo alcuni, allastessa età di
Zenone, e dopo esser stato allievo di questi per diciannove anni15.
Anche noi abbiamo fatto per lui una composizione poetica, che suona:
Lodo Cleante, ma ancor più Ade.
Non sopportò più di vederlo si vecchio,
Ma volle che almeno fra i morti avesse pace
colui che aveva attinto acqua per tanto tempo nella sua vita16.
SUIDA, Lexikon, s. v. Κλεώνθης, 1171, III, p. 126 Adler.
Cleante di Asso, amante del denaro17; figlio di Fania e discepolo
prima di Cratete, poi di Zenone, del quale divenne successore;
maestro di Crisippo di Soli e del re Antigono18. Costui prima era
pugile, ma, venuto ad Atene, si innamorò della filosofia, e fu così
amante della fatica da esser chiamato un secondo Eracle. Non avendo
mezzi di fortuna per vivere, di notte attingeva acqua dietro
compenso e di giorno passava il suo tempo fra i libri e gli studi; e
perciò fu chiamato anche «il poz-zaiolo». Lasciò moltissimi scritti.
STRABONE, Geogr., XIII, 57, 4 = SVF III, 479
Di là (Asso) era lo stoico Cleante, che ricevette lo scolarcato da
Zenone di Cizio e lo lasciò a Crisippo di Soli.
Index Stoicorum Herc., col. X, pp. 17-18 Traversa = SVF I, 39
(furono suoi discepoli) Cleante di Fania, di Asso, che ebbe in
eredità la scuola; e Dionisio figlio di Teofanto, come scrisse
Antigono, di Eraclea, detto anche «il transfuga»; Aristone figlio di
Milziade, di Chio, che pur se affermava esser fine supremo
rindifferenza, in tutte le altre cose sembra aver seguito il
maestro19.
Index Stole. Herc., coli. XIX-XXIX, pp. 32-44 Traversa = SVF I, 468,
471, 473, 476, 477
… «non mi hai portato, disse, ciò che era pattuito»; e ugualmente
parlò il giorno dopo, fino a che quello non portò la mercede
pattuita; allora, resogli il tutto, gli ordinò di mandarlo ai suoi
genitori20. Per questo motivo qualcuno lo rimproverava di essere
amante del denaro, non essendo egli ricco…
e ricordare (?) simili parole; anche Zenone aveva detto e scritto
intorno a soggetti analoghi, ma Zenone aveva parlato urbanamente dei
precedenti filosofi21.
…Così argomentando e offrendosi alla considerazione della
moltitudine, si corresse (?)22.
…si dice che gli (chiedesse?) di poter essere riammesso; e che
quegli (Cleante) si rivolgesse ad Arcesilao e gli dicesse che la
maggior parte della felice riuscita sta in una sola cosa, che si
facciano quelle cose che ci sono proprie; e poiché Arcesilao
acconsentiva gli spiegò la propria opinione23. Nessuno dei due tenne
alcun conto di Sositeo…
… che un tale affermasse: «ecco com’è Cleante: uno che per un po’
tenta di venire a patti con gli altri, ma poi non vuole spiegare più
ampiamente il suo discorso, oppure non ci riesce». E come vide che
era presente, cominciando a parlare sulla prima tesi proposta…24.
…Poiché era suscettibile di conversione, lo convertì alla sua
scuola. Ma altri pensano che egli, essendo austero e avendo un
portamento solenne…
…Poco prima della morte gli era venuta una pustula sul labbro, che i
medici giudicarono maligna. Ed egli disse a Dionisio25 che la sua
vita era compiuta; e, (chiamati?) i compagni e discepoli…
…(raccomandò?) di non scegliersi mai (a scolarca?) un uomo che non
fosse degno di lui, che amasse troppo il vivere26, o che fosse da
poco. Detto ciò, mantenendo tutta la sua serenità…
dopo aver non poco sofferto, se ne andò dalla vita, sotto
l’arcontato di Giasone27.
PLUTARCO, De recta ratione audiendi, 18, 47e = SVF I, 464
Come Cleante e Senocrate, i quali, pur essendo manifestamente di
ingegno meno vivace rispetto ad altri condiscepoli, non rifuggirono
dall’apprendere e non si stancarono, ma superando gli altri
scherzarono anche su se stessi, paragonandosi a vasi dalla bocca
stretta o a tavole di bronzo, che accolgono con fatica i discorsi ma
poi una volta accoltili li serbano sicuramente e saldamente28.
PLUTARCO, De vitando aere alieno, 7, 83od = SVF I, 465
…quanto fosse il senno di quell’uomo che, con la mano usa al mulino
e alla madia, a cucinare e a macinare, scriveva poi anche sugli dèi,
sulla luna, sugli astri, sul sole.
SENECA, Epist. ad Lue, 6, 6 = SVF I, 466
Cleante non avrebbe foggiato se stesso secondo il modello di Zenone,
se lo avesse solo ascoltato: in realtà prese parte alla sua vita, ne
scrutò Pintimità, lo osservò bene per vedere se vivesse davvero
secondo i suoi precetti.
QUINTILIANO, Inst. orat., XII, 7, 9 = SVF I, 467
Anche a Socrate si portava di che vivere, ma Zenone, Cleante,
Crisippo accettarono un compenso vero e proprio dai loro discepoli.
CICERONE, Tusc. Disp., II, 25, 60 = SVF I, 607
Tra quei filosofi vi era un uomo di scarso carattere, Dionisio di
Eraclea, il quale, pur avendo appreso da Zenone di che po, ter
essere forte, fu sviato dalla sofferenza. Poiché soffriva di reni,
gemendo gridava che erano false tutte quelle cose che un tempo aveva
affermato circa il dolore; Cleante allora, suo condiscepolo, gli
chiese qual motivo lo avesse distolto dalla precedente opinione ed
egli rispose: «se, avendo passato tanti anni nell’esercizio della
filosofia, tuttavia non riesco a sopportare il dolore, ciò prova a
sufficienza che il dolore è un male. Ma in realtà ho passato tanti
anni nell’esercizio della filosofia e non riesco a sopportare il
dolore: è quindi vero che il dolore è un male». Sentito ciò,
Cleante, percotendo la terra col piede, dicono recitasse un verso
degli Epigoni29: «Odi tu ciò, Amfiarao, nascosto sotto terra?»; e si
riferiva a Zenone, dolendosi che costui ne fosse un discepolo
degenere.
STOBEO, Eclog., II, 31, 63, p. 212 Wachsm. = SVF I, 612
A un amico che era in procinto di partire, e che voleva sapere come
avrebbe potuto mantenersi senza errore, Cleante rispose: «lo potrai,
se ogni volta che ti accingerai a compiere un’azione farai come se
io fossi presente»30.
PLUTARCO, Alcibiades, 6 = SVF I, 614
Cleante diceva che colui che era amato da lui era dominato per mezzo
delle orecchie, mentre ai rivali egli offriva molti appigli intatti,
intendendo il ventre, e il sesso, e la gola.
STOBEO, Eclog., IV, 33, 8, p. 679 Hense = SVF I, 614
Una volta che Cleante taceva, uno della cerchia disse: «perché taci?
è dolce parlare con gli amici»; ed egli: «sì, è dolce, ma per quanto
sia dolce, lo è tanto di più ritrarsi in sé di fronte agli amici».
STOBEO, Eclog., IV, 31, 124, p. 778 Hense = SVF I, 617
Cleante, a chi gli chiedeva chi è veramente ricco, rispose: «chi è
povero di desideri».
ARRIANO, Epict. diss., IV, 1, 173 = SVF I, 619
I filosofi dicono forse cose contro l’opinione, come diceva Cleante,
mai contro la ragione.
DA SINGOLE OPERE
ESEGESI ERACLITEE
EUSEBIO, Praep. evang., XV, 20, 2 = SVF I, 519
Parlando dell’anima, Cleante, nell’atto di esporre i principi di
Zenone in confronto con quelli degli altri filosofi della natura,
dice che Zenone considerò l’anima una esalazione dotata di
sensazione, così come aveva detto Eraclito31.
SUGLI ATOMI32
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 134 = SVF I, 493
Ritengono che vi siano due principi dell’universo, il principio
attivo e quello passivo. Il principio passivo è la sostanza senza
qualità, la materia, e il principio attivo è la ragione che si trova
in essa, che è anche la divinità; questa, essendo eterna, per tutta
la materia dà forma con arte alle singole cose. Questo principio lo
pone fra gli altri …Cleante nell’opera Sugli atomi.
SUL PIACERE
CICERONE, De nat. deor., I, 14, 37 = SVF I, 530
Cleante, che ascoltò Zenone insieme con quello che ho nominato
poc’anzi33, ora dice che tutto il mondo nel suo insieme si
identifica con la divinità, ora attribuisce questo epiteto
all’intelletto e all’anima del mondo, ora asserisce che è dio
quell’ardore estremo e supremo e circonfuso dovunque e tutto
circondante e abbracciante che si chiama etere; e quasi delirando,
in quei libri che scrisse Contro il piacere34, ora si immagina una
certa forma e figura degli dèi, ora attribuisce tutta la divinità
agli astri, ora ritiene che nulla sia più divino della ragione35.
STOBEO, Eclog., II, 7, 6a, p. 76, 3 sgg. Wachsm. = SVF I, 552
Cleante … così definiva: il fine è il vivere secondo natura.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 87 = SVF I, 552
Zenone … diceva che fine è vivere coerentemente alla natura…36 e
similmente Cleante nel suo Del piacere.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., II, 22, 131, 3, p. 185 Stàhlin = SVF
I, 558
Perciò anche Cleante, nel libro II del suo Del piacere, dice che
Socrate insegnava nei particolari come l’uomo giusto e felice sia
tutt’uno, e malediceva colui che per primo ha separato il giusto
dall’utile come chi abbia compiuto un atto empio; empi, in realtà,
sono coloro che separano l’utile dal giusto secondo la legge37.
DELLA TRASLAZIONE
ATENEO, Deipnosoph., XI, 467CI = SVF I, 591
Il filosofo Cleante, nell’opera Della traslazione38, dice che il
calice tericleo e la calzatura diniade hanno preso il nome per
traslazione da quello dei loro inventori.
ATENEO, Deipnosoph., XI, 47Ib = SVF I, 591
Cleante, nello scritto Della traslazione, dice: «restano ancora da
esaminare queste invenzioni ed altre del genere, come quelle che
chiamiamo ter idee, diniadi, ificratidi; nomi che all’inizio erano
posti a ricordo degli inventori, e ciò traspare tuttora; e se non
producono immediatamente l’effetto di richiamarli alla memoria, è
perché il nome ha subito qualche variazione. Ma, come si è detto,
non si può credere che il nome sia casuale»
DEL MODO DI VESTIRE
FILODEMO, De Stoicis, pap. herc. 339, p. 102 Dorandi = SVF I, 590
E Cleante nell’opera Del modo di vestire39 ricorda quella Repubblica
che è propria di Diogene; e loda in generale ciò che vi è contenuto
… e ne fa esposizione nei particolari…
DELLA MONETADI BRONZO
DIOGENE LAERZIO, Philos. Vitae, VII, 14 = SVF I, 589
Talvolta (Zenone) a quelli che gli si accalcavano d’intorno chiedeva
anche una moneta di bronzo, così che quelli, temendo di dover
sborsare qualcosa, evitavano di stringerglisi troppo attorno, come
racconta Cleante nell’opera Della moneta di bronzo40.
CONTRO ARISTARCO
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 6, 923a = SVF I, 500
Cleante affermava che Aristarco di Samo avrebbe dovuto esser
trascinato in giudizio di empietà dai Greci, poiché aveva rimosso
dal suo posto il focolare dell’universo, e lui, uomo, aveva cercato
di giustificare i fenomeni41 con l’ipotesi che il cielo rimanga
immobile e che la terra si muova obliquamente in circolo, ruotando
in pari tempo intorno al proprio asse.
PROTREPTICO
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 127 = SVF I, 567
Che la virtù sia insegnabile lo dicono Crisippo nel I libro del suo
Del fine e Cleante e Posidonio nei loro Protreptici.
COMMENTARI FISICI42
PLUTARCO, De Stoic. rep., 7, 1034d = SVF I, 563
Cleante nei Commentari fisici, dopo aver detto: «la tensione vitale
è un colpo di fuoco» e «quando questo nell’anima si verifica in
misura sufficiente a compiere le cose occorrenti, si chiama forza e
potere»43 aggiunge verbalmente: «questa forza e questo potere,
quando si verifichi in relazione al perseverare, si chiama costanza;
quando in relazione al resistere, valore; quando in relazione al
dovere, giustizia; quando in relazione allo scegliere o al fuggire,
temperanza».
STOBEO, Eclog., II, 7, b, p. 62, 24 segg. Wachsm. = SVF I, 563
E similmente, come la forza del corpo è tensione vitale nei nervi in
misura sufficiente, così la forza dell’anima è tensione che si
esercita in misura sufficiente nel giudicare e nell’agire, o nel
contrario.
DEL POETA44
APOLLONIO, Lex. Homer., p. 114 Bekker = SVF I, 526
s.v. μὠʎà45: il filosofo Cleante dice che occorre spiegarla
allegoricamente, come ciò per cui si snervano gli impulsi e le
passioni.
PLUTARCO, De audiendis poètis, 11, 31C1 = SVF I, 535
Non bisogna ascoltare i nomi con negligenza, ma bisogna anche
evitare i giochi interpretativi di Cleante. E un vero e proprio
gioco di parole quando, facendo mostra di spiegare i versi «Padre
Zeus che sorvegli dall’Ida» e «Zeus signore di Dodona»46, prescrive
di leggerli come facenti una cosa sola, in quanto l’aria che esala
dalla terra, per la sua stessa esalazione ἀνάδοσις diventa
«anadodoneo»47.
EUSTAZIO, In Hom. Od., I, v. 52, p. 1389, 55 = SVF I, 549
Atlante … alcuni lo intendono allegoricamente nel senso della
provvidenza infaticabile e instancabile, causa di tutte le cose, e
ritengono che il dire di lui che è ὁλοόϕρων voglia dire che si
prende cura di tutto (τῶν ὅλων). Per questo Cleante, dicono, leggeva
la iniziale come avente lo spirito aspro48.
Certam. Hom. et Hesiod., p. 4, 18 Nietzsch = SVF I, 592
Ellanico e Cleante dicono che padre di Omero era Meone49.
TESTIMONIANZE
LOGICA
ARRIANO, Epict. Dissert., I, 17, 11 = SVF I, 483
È sufficiente dire questo, che la logica è giudicatrice ed
esaminatrice di tutte le altre cose; e che in certo senso le pesa e
le misura. Ma chi dice questo? Non forse, oltre a Crisippo, Zenone e
Cleante, anche Antistene?
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 228 = SVF I, 484
La rappresentazione è per essi un’impressione nell’anima. Tuttavia
su questo si differenziarono subito: Cleante infatti intendeva una
impressione reale, per entrata e uscita, come quella che avviene
nella cera sotto la pressione delle dita50.
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypot., II, 70 = SVF I, 484
Ma se è vero che l’anima e la parte direttiva dell’anima stessa non
sono altro che spirito vitale o un corpo particolarmente leggero,
come essi dicono, non è possibile pensare che avvenga in questo una
impressione per entrata e uscita, simile a quella convessa e concava
che vediamo nei sigilli; e neanche quella tanto decantata
alterazione51.
SENECA, Epist. ad Lue, 108, 10 = SVF I, 487
Infatti, così come Cleante diceva che il nostro respiro rende un
suono più chiaro quando la tromba lo diffonde dopo averlo fatto
passare per un angusto canale dilatandolo all’uscita finale,
analogamente la stretta regola costrittiva del componimento poetico
rende le nostre immagini più perspicue.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., VII, 9, 26, 4, p. 96 Stahlin = SVF I,
488
Cleante e Archedemo chiamano i predicati ’enunciati’ (ʎεƭά)52.
ARRIANO, Epict. Diss., II, 19, 1-4 = SVF I, 489
Il «discorso dominatore» sembra procedere in base a simili punti
d’appoggio: dal momento che non possono esser sostenuti insieme
senza contraddizione i tre seguenti enunciati: «ogni cosa che fu
vera nel passato è necessaria», «al possibile non può conseguire
l’impossibile», «il possibile è ciò che non è vero né potrà
esserlo»53. Diodoro, rendendosi conto della contraddizione, dette
credibilità ai primi due enunciati aggiungendovi il terzo in questa
forma: «nulla è possibile di ciò che non sia vero né possa esserlo».
Ma si potrebbero mantenere i primi due, enunciando i tre assiomi in
questa forma: «vi è qualcosa di possibile che non è vero né lo
sarà»; «al possibile non può conseguire l’impossibile»; «non tutto
ciò che fu vero nel passato è necessario», come sembrano aver
sostenuto Cleante e la sua scuola, ai quali nella sostanza si
accordò poi Antipatro. Gli altri [Crisippo e la sua scuola] si
attennero invece agli altri due, enunciando i tre assiomi così: «il
possibile è ciò che non è vero né lo sarà», «ogni cosa che è stata
vera nel passato è necessaria», «al possibile può conseguire
l’impossibile».
CICERONE, De fato, 7, 14 = SVF I, 489
Tutte le cose vere relative al passato sono necessarie, come vuole
Crisippo, in disaccordo col maestro Cleante: perché le realtà
passate sono immutabili e non possono volgersi da vero in falso.
OLIMPIODORO, In Fiat. Gorgiam, p. 63, 3-4 Norvin = SVF I, 490
Dice Cleante che l’arte è una disposizione che procede in tutte le
cose con metodo54.
QUINTILIANO, Inst. orat., II, 17, 41 = SVF I, 490
…se proprio, come Cleante affermava, l’arte è la facoltà capace di
creare un metodo, quindi un ordine.
QUINTILIANO, Inst. orat., II, 15, 34-35 = SVF I, 491
A questa sua realtà si addice al massimo grado la definizione «la
retorica è la scienza del parlar bene»; l’orazione infatti comprende
insieme tutte le virtù e perfino i costumi dell’oratore, poiché non
può ben parlare se non chi è buono. Lo stesso valore ha quella
definizione di Crisippo, tratta da Cleante: «la scienza del parlare
rettamente»55.
SIRIANO, In Arisi. Metaph., p. 105, 28-29 Kroll = SVF I, 494
Le idee, da questi uomini divini, non erano riportate al livello di
nomi di uso comune …né erano pure forme mentali, come disse poi
Cleante56.
FISICA, COSMOLOGIA
FILONE Alessandrino, De providentia, II, 74, p. 94 Aucher = SVF I,
548
La moltitudine dei pianeti giova all’universo; ma è proprio degli
uomini che hanno tempo da dedicare allo studio l’enumerare che cosa
via via sia utile nelle singole realtà. Queste realtà sono
conosciute non solo dalla ragione, ma anche dai sensi, giacché la
provvidenza dispone tutto in maniera tale che, come dicono Crisippo
e Cleante, essa non ha trascurato nulla di quanto sia pertinente ad
una distribuzione più sicura e più utile. Se fosse stato meglio
usare una diversa distribuzione delle realtà del mondo, essa avrebbe
adottato un ordine d’insieme tale che nessuno avrebbe potuto
impedire la sua azione divina.
CALCIDIO, In Tim., 144, p. 183, 10 segg. Waszink = SVF I, 551
Da ciò avviene che quello che è per fato è anche per provvidenza, e
ugualmente ciò che è per provvidenza è anche per fato: questa è
l’opinione di Crisippo. Altri però pensano che ciò che avviene per
decisione della provvidenza, avviene anche per fato; non però tutto
ciò che avviene per fato è anche opera di provvidenza; così
Cleante57.
STOBEO, Eclog., I, 17, 3, p. 153 Wachsmuth = SVF I, 497
Cleante dice a un dipresso così: dopo che tutto si è mutato in
fuoco, la prima a raccogliersi compatta insieme è la parte mediana,
poi a poco a poco tutto il resto si spegne da ogni parte. Quando
tutto l’universo è passato in acqua, l’estremo58del fuoco, per la
resistenza che gli oppone la parte intermedia, si volge indietro e
così volgendosi cresce verso l’alto e ricomincia a formare
ordinatamente l’universo; e compiendo ogni volta lo stesso ciclo con
lo stesso ordine fa sì che la tensione eh’è diffusa nel tutto non
venga meno. Come le parti di un singolo organismo si generano tutte
dai semi nei tempi convenienti, così si generano nei tempi
convenienti anche le parti dell’universo, tra le quali sono gli
animali e le piante. E come alcune ragioni della realtà, per il
concorso dei semi, si mischiano e si suddividono dando luogo a parti
distinte, così dall’unità tutte le realtà si generano e da tutte le
realtà se ne raccoglie nuovamente una; e sempre questo ciclo procede
con ordine ed armonia59.
ERMIA, Irrisio geni, philos., 14, Dox Gr., p. 654 = SVF I, 495
Ma Cleante, sollevando la testa dal suo pozzo, irride la tua
dottrina; per suo conto egli ritiene che principi veri siano la
divinità e la materia. E afferma che la terra si cambia in acqua,
l’acqua in aria, e l’aria (in fuoco; il fuoco va verso l’alto)60e si
muove intorno alla terra; l’anima scorre per tutto l’universo, e noi
che di esso siamo parte, in quanto esso è tale, a nostra volta siamo
esseri animati.
AEZIO, Piatita, I, 14, 5, Dox. Gr., p. 312b = SVF I, 498
Il solo Cleante, fra gli Stoici, dice che il fuoco è di forma
conica61.
EUSEBIO, Praep. Evang., XV, 15, 7, Dox. Gr,. p. 465 = SVF I, 499
Cleante riteneva che parte direttiva62 dell’universo sia il sole,
per il fatto che esso è il supremo fra gli astri e più che ogni
altro opera in vista del governo del tutto, producendo il giorno,
l’anno, le stagioni.
AEZIO, Piatita, II, 20, 4, Dox. Gr., p. 349!^ = SVF I, 501
Cleante afferma che il sole è una esalazione infuocata che sale dal
mare, dotata di intelletto63.
CICERONE, De nat. deor., III, 14, 37 = SVF I, 501
E che? non siete voi stessi a dire che ogni fuoco ha necessità di
essere alimentato, né può in alcun modo permanere se ciò non
avviene, e che il sole, la luna e gli altri corpi celesti sono
alimentati dalle acque, dolci o marine? Tale ragione adduce Cleante,
a spiegazione del fatto che il sole ritorni su se stesso e non
proceda più oltre nel suo giro dei solstizi e delPinverno: non può
allontanarsi da quello che è il suo alimento64.
MACROBIO, Saturnalia, I, 23, 2 = SVF I, 501
E perciò, come affermano Posidonio e Cleante, i giri del sole non si
allontanano dalla regione detta torrida: perché sotto di questa
corre l’oceano, che circonda e divide la terra.
AEZIO, Piatita, II, 23, 5 Dox. Gr., p. 353a = SVF I, 501
Gli Stoici dicono che il sole, nel suo procedere, è regolato dalla
distanza in cui si trova rispetto al cibo che ha sotto di sé: dalla
terra o dall’oceano infatti questo gli giunge per evaporazione.
CLEMENTE Alessandrino, Strom., V, 8, 48, p. 358 Stàhlin = SVFI, 502
Non ignorano costoro la dottrina del filosofo Cleante, il quale
chiama il sole «il plettro che ci sta di contro»: al suosorgere
infatti, scagliando dritti su di noi i suoi raggi, come colpendo il
cosmo lo conduce a muoversi secondo armonia65.
PLUTARCO, De Pythiae orac., 16, 402a = SVF I, 502
E poi offrirono al dio un plettro d’oro, avendo in mente, sembra,
Scitino, che dice della lira: «quella che fa suonare armonicamente
il bell’Apollo figlio di Zeus, congiungendo principio e fine del
tutto: egli ha infatti come suo splendido plettro la luce del
sole66.
CORNUTO, Gr. Theol. Comp., 32, pp. 67-68 Lang = SVF I, 503
Egli (il Sole-Apollo) è rappresentato nell’atto di percuotere
armonicamente ogni parte del cosmo rendendolo ben accordato in ogni
sua parte, senza lasciar cadere alcunché in disordine degli esseri
che vi sono racchiusi, ma conservando al massimo l’ordine simmetrico
dei tempi nei loro rapporti reciproci come in altrettanti ritmi, e
le voci degli esseri viventi così come il suono di tutti gli altri
corpi; i quali, per il loro essere opportunamente prosciugati sotto
l’aria67, vengono ad essere ridotd mirabilmente in armonia nel loro
rapporto con colui che produce i suoni.
CICERONE, De nat. deor., II, 15, 40 = SVF I, 504
Cleante dice che due sensi, il tatto e la vista, confermano che tali
astri sono del tutto composti di fuoco. Infatti lo splendore del
sole è più intenso che quello di qualsiasi altro fuoco, sì che esso
risplende diffusamente per tutto l’immenso universo; e il suo tocco
è tale che non soltanto riscalda, ma spesso addirittura brucia. Non
potrebbe fare nessuna delle due cose, se non fosse di fuoco.
«Quindi» egli dice «dal momento che il sole è di fuoco, ed è
alimentato dall’umidità dell’oceano, giacché nessun fuoco può
mantenersi se non è alimentato in qualche modo, necessariamente esso
deve essere simile o a quel fuoco di cui ci serviamo per gli usi
comuni della vita, o a quello che è contenuto nel corpo degli
animali. Ora questo nostro fuoco, necessario a noi per l’uso della
vita comune, è al tempo stesso consumatore e distruttore di tutto e
dovunque irrompe travolge e distrugge ciò che incontra; ma
quell’altro fuoco vitale e salutare che si trova all’interno del
nostro corpo conserva, alimenta, fa crescere e sostiene tutto il
resto, e tutto fornisce di sensi». Ne deduce di conseguenza che non
ci possono esser dubbi circa il tipo di fuoco di cui è formato il
sole, visto che questi fa sì che tutte le realtà fioriscano e
giungano a maturazione, ciascuna nel suo genere. Ma se è vero che il
fuoco di cui è fatto il sole è simile a quello che sta nei corpi
degli esseri viventi, è necessario ammettere che anche il sole è un
essere vivente, e così pure gli altri astri che si generano in
quell’ardore celeste detto etere o cielo68.
GEMINO, Elem. astron., p. 172, 13 segg. Manitius = SVF I, 505
Alcuni degli antichi, fra i quali il filosofo stoico Cleante, hanno
affermato che l’oceano si stende al di sotto della zona torrida, in
mezzo ai tropici.
STOBEO, Eclog., I, 26, p. 219 Wachsmuth (ARIO DIDIMO, Epit. Phys.y
Box Gr., p. 467) = SVF I, 506
Cleante dice che la luna è fatta di fuoco, ma è di forma compressa
per spessore.
AEZIO, Piatita, II, 16, 1, Box. Gr., p. 34^ = SVF I, 506
Anassagora, Democrito, Cleante dicono che il moto di tutti gli astri
va dal sorgere al tramontare.
Ps. GALENO, Hist. Philos., 58, Box. Gr., p. 625 = SVF I, 507
Anassagora, Democrito, Cleante dicono che gli astri si muovono da
oriente a occidente69.
AEZIO, Piatita, II, 14, 2, Box. Gr., p. 343 = SVF I, 508
Mentre gli altri stoici dicono che gli astri sono sferici, Cleante
afferma che hanno forma conica70.
PLUTARCO, Be comm. not., 31, 1075 = SVF I, 510
Ancora polemizzando Cleante afferma che all’atto della
conflagrazione la luna e tutti gli altri corpi celesti si renderanno
simili al sole e si trasformeranno nella sostanza di questo.
Diceanche che gli astri, che sono di natura divina, collaborano col
sole alla propria distruzione, in quanto collaborano con lui alla
conflagrazione.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 18, VI, pp. 1OO-1O1
Cohn-Reiter = SVFI, 511
Alla conflagrazione il cosmo dovrà necessariamente mutare la sua
sostanza in fiamma o in luce: in fiamma, riteneva Cleante; in luce,
Crisippo.
STOBEO, Eclog., I, 20, ie, p. 171 Wachsm. (Ario Didimo, Dox. Gr., p.
469) = SVF I, 512
Zenone, Cleante, Crisippo, ritengono che il fuoco muti la realtà
dell’universo come in un nuovo seme, dal quale debba rinascere e
compiersi nuovamente l’ordinamento precedente.
CICERONE, De nat. deor., II, 9, 24 = SVF I, 513
Con gli stessi argomenti Cleante insegna quale sia la forza del
calore insita in ogni corpo: dice che non vi è ad esempio alcun
cibo, per pesante che sia, che non possa esser digerito fra il
giorno e la notte grazie al calore; perfino in ciò che la natura
espelle dal corpo continua a sussistere il calore.
CORNUTO, Gr. Theol. Comp., 31, p. 62 segg. Lang = SVF I, 514
Eracle si identifica con la tensione vitale che è in tutte le cose,
e in virtù della quale la natura è forte e possente, invincibile e
indomabile, e distributrice di forza e vigore anche alle singole
parti … Forse la pelle di leone e la clava che gli appartengono
secondo l’antica teologia sono da intendersi in questo senso … l’una
e l’altro sono simbolo di forza e grandezza d’animo: il leone è il
più coraggioso fra gli animali, la clava la più forte fra le armi. E
forse poi il dio è rappresentato come arciere per il fatto che
penetra dovunque e, in virtù della tensione, possiede la capacità di
moto delle frecce … Né è fuori luogo attribuire al dio anche le
dodici fatiche, come fece Cleante71.

Statuetta romana raffigurante un tipo di filosofo antico (Cleante
(Roma, Musei Vaticani).
PLUTARCO, De sollertia anìm., n, 9676 = SVFI, 515
Cleante, pur non ammettendo che gli animali siano partecipi di
ragione, diceva peraltro che gli era accaduto di fare questa
osservazione: che le formiche vanno al formicaio portando una loro
compagna morta, e altre risalendo dal formicaio vanno loro incontro
e poi di nuovo vi tornano, e così fanno per due o tre volte: al fine
evidente di portare alcune di esse offerte per il morto, altre
piangerlo, per poi tornarsene dopo aver abbandonato il cadavere72.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., VII, 6, 33, 3, p. 25 Stàhlin = SVF I,
516
E perciò Cleante dice che ad essi (i maiali) le anime tengono luogo
di sale, al solo scopo che le loro carni non imputridiscano73.
STOBEO, Eclog., III, 4, 89, p. 240 Hense = SVF I, 517
Cleante diceva che l’uomo incolto differisce dagli animali solo per
l’aspetto.
PSICOLOGIA, TEOLOGIA
TERTULLIANO, De anima, 5, p. 6 Waszink = SVF I, 518
Afferma Cleante che non solo per i tratti fisici, ma anche per le
caratteristiche dell’anima risponde ai genitori, quasi co me
l’immagine in uno specchio, la somiglianza dei figli: somiglianza di
costumi, indole, sentimenti. Essi prendono infatti la somiglianza
fisica oppure la dissomiglianza; allo stesso modo l’anima, come il
corpo, è soggetta a somiglianza e a dissomiglianza. E mentre è
impossibile che le affezioni dei corpi e delle realtà incorporee
abbiano un rapporto diretto fra di loro, l’anima invece subisce le
stesse affezioni del corpo, sì che, se questo è offeso, quella si
duole al tempo stesso dei colpi che l’altro riceve, delle sue
ferite, delle sue piaghe; e quando l’anima è afflitta da pena,
angoscia, passione amorosa, il corpo si rattrista insieme con lei
per il danno arrecato da ciò a quella tensione vitale che insieme li
unisce, e lo attestano il suo pallore e il suo rossore, segni di
spavento e di vergogna. Perciò, se l’anima partecipa in tal modo
delle passioni corporee, essa deve essere di natura corporea74.
EUSEBIO, Praep. evang., XV, 20, 2 = SVF I, 519
Cleante, intendendo fare un confronto fra la dottrina di Zenone
sull’anima e quella degli altri fisici, dice che Zenone chiama
l’anima una «esalazione capace di sentire», come Eraclito. Volendo
infatti mostrare che le anime, nel loro esalarsi, si rinnovano di
continuo75, le paragonava ai fiumi dicendo: «agli stessi fiumi
accade di avere acque che scorrono sempre nuove» e «le anime esalano
dalle regioni umide». E tuttavia, Zenone, pur definendo l’anima una
esalazione, a somiglianza di Eraclito, aggiunge che essa è capace di
sentire.
EUSEBIO, Praep. evang., XV, 21, 3 = SVF I, 520
Si potrebbe giustamente rimproverare Zenone e Cleante per il loro
trattare così impudentemente dell’anima: tutti e due dicono che
l’anima non è altro che l’esalazione di un corpo solido76.
GALENO, De Hippocr. et Plat. placitis, II, 8, p. 248 MüUer = SVF I,
521
…se egli (Diogene di Babilonia) avesse seguito Cleante, e Crisippo,
e Zenone, nell’asserire che l’anima è alimentata dal sangue e che la
sostanza che la compone è lo spirito vitale…
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 157 = SVF I, 523
Cleante dice che le anime continuano tutte a sussistere
individualmente fino alla conflagrazione, Crisippo invece solo
quelle dei sapienti.
AEZIO, Plac., IV, 5, 11, Dox. Gr.y p. 392b = SVF I, 523
Pitagora, Anassagora, Platone, Senocrate, Cleante dicono che
l’intelletto sopravviene dall’esterno77.
Schol. ad Nicol Ther., 447, p. 36, 13 Keil = SVF I, 524
Quei denti che ci spuntano per ultimi si chiamano in genere i denti
della forza, perché spuntano quando siamo entrati nella forza
dell’età giovanile. Ma Cleante li chiama denti del giudizio. Denti,
è ovvio. Del giudizio, perché spuntano quando noi entriamo in
possesso della piena facoltà di giudizio dell’intelletto.
SENECA, Epist. ad Lue, 113, 18 = SVF I, 525
Cleante e il suo discepolo Crisippo non sono d’accordo circa ciò che
sia il camminare: Cleante ritiene che dalla parte direttiva discenda
spirito vitale fino ai piedi; Crisippo ritiene che sia diffusa
dovunque la parte direttiva78.
EPITTETO, Man., 23 = SVF I, 527
«conducimi, o Zeus, e tu, o destino
là dove avete stabilito per
me;
vi seguirò senza esitare; se resistessi,
dovrò seguirvi, da
vile, pur sempre»79.
SENECA, Epist. ad Lue, 107, 10 = SVF I, 527
Parliamo dunque a Giove, per il cui governo si regge questa gran
mole del mondo, così come il nostro Cleante diceva in versi
eloquentissimi, versi che mi sarà concesso di tradurre nella nostra
lingua, seguendo l’esempio di quell’uomo eloquentissi-mo che fu
Cicerone (se ti piaceranno, ti saranno buona guida; se non ti
piaceranno, penserai pur sempre che ho seguito l’esempio di
Cicerone): «conducimi, o padre ed eccelso signore del cielo dove tu
vuoi: ti obbedirò senza indugio. Vengo alacre. Se resistessi, ti
seguirò gemendo e da vile subirò ciò che avrei potuto subire da
forte. Il fato conduce chi lo asseconda, trascina chi gli
resiste»80.
CICERONE, De nat deor., II, 5, 13-15 = SVF I, 52881
Il nostro Cleante diceva che quattro sono le cause per le quali,
nel!’anima degli uomini, è impressa la nozione del divino. Per prima
causa poneva quella di cui si è detto poc’anzi, la previsione del
futuro; come seconda, la riflessione sulla grande quantità dei
vantaggi che ci derivano dal clima temperato dei cieli, dalla
’fecondità della terra, da altri beni utili di ogni genere. Terza
causa diceva essere lo spavento dell’animo davanti a fulmini,
tempeste, nembi, nevi, grandini, devastazione, pestilenza, terremoti
e sconvolgimenti frequenti, piogge di pietra o addirittura di sangue
a gocce, frane e spalancarsi improvviso della terra, portenti
straordinari nelle specie umana e animale, comparsa di faci celesti
o di quelle stelle che dai Greci sono dette «caudate» (ᴏɥήƭαν)82, da
noi arricciate (cincinnatae) … o addirittura visioni di un doppio
sole, cose tutte dalle quali gli uomini atterriti sono giunti
all’idea di una sostanza superiore e divina. Ma la quarta causa, più
importante delle altre, era per lui la riflessione sull’uguaglianza
dei moti e dei circuiti del cielo, del sole, della luna, la
diversità, varietà e bellezza dei vari astri, il loro ordine, cose
tutte in cui il solo aspetto indica non poter tutto ciò essere
dovuto a puro caso.
SESTO EMPIRICO, Adv. Phys., I, 88 = SVF I, 529
Così Cleante argomentava: se vi è una natura che sia superiore ad
un’altra, ve ne deve essere anche una che sia superiore in assoluto;
se vi è un’anima migliore di un’altra anima, vi deve essere anche
un’anima ottima fra tutte; se vi è un animale che sia superiore a un
altro animale, vi deve essere anche un animale superiore a tutti. In
questo genere di cose non si può procedere all’infinito. Come dunque
né una natura né un’anima può essere pensata in maniera da
proiettare all’infinito per accrescimento la sua superiorità
rispetto ad altre, così non lo si può nemmeno per un essere vivente
rispetto agli altri. Ora, noi vediamo che vi è in effetti una
gradazione di valore tra gli animali: certo un cavallo è superiore a
una tartaruga, un toro lo è ad un asino, un leone ad un toro; e alla
sommità di questa scala vi è l’uomo, che supera e domina tutti gli
altri animali che sono sulla terra per proprietà fisiche e
psichiche, ed è certo il più valido e il migliore fra gli esseri
viventi. Tuttavia neanche l’uomo può essere ritenuto l’essere
vivente ottimo in assoluto: vediamo che egli trascorre nella
cattiveria, se non tutto il suo tempo, per lo meno la più parte di
esso (infatti, ammesso che riesca a raggiungere la virtù, la
raggiunge tardi e quasi al tramonto della vita) ed è misero, debole,
bisognoso di ogni genere di aiuto, di nutrimento, di vesti, di tutto
ciò che occorre al corpo, il quale è come un acerbo tiranno, e
richiede a noi giorno per giorno il suo tributo, e ci minaccia di
malattie e di morte se non gli forniamo lavaggio e unguenti e
copertura e cibo. Perciò neanche l’uomo è l’animale perfetto: anzi è
imperfetto e ben lontano dalla perfezione. L’animale perfetto e
ottimo è superiore all’uomo, è ricolmo di tutte le virtù, è libero
da qualsiasi male. Ma ciò equivale a dire che esso è dio; è, quindi,
dio.
AEZIO, Piatita, I, 7, 17, Dox. Gr., p. 302 = SVF I, 532
Diogene, Cleante, Enopide83 ritengono che dio sia l’anima del mondo.
MINUCIO FELICE, Octavius, 19, 10 = SVF I, 532
Teofrasto, Zenone, Crisippo, Cleante, sono ambigui nelle loro
teorie, ma in definitiva tutti poi si rifanno alla provvidenza,
conciliandosi così fra loro. Cleante afferma esser dio ora
l’intelletto, ora l’anima, ora l’etere, per lo più la ragione.
TERTULLIANO, Apol., 21, 10, p. 64 Waltzing = SVF I, 533
Tutte queste cose Cleante le pone nello spirito vitale, che afferma
esser ciò che permea l’universo.
LATTANZIO, Div. Inst., I, 5, 19, p. 16 Brandt = SVF I, 534
Cleante e Anassimene84 dicono che il dio supremo è l’etere.
PLUTARCO, De comm. not. 31, io66a = SVF I, 536
Ma Crisippo e Cleante, dopo aver coinvolto per così dire, nel loro
stesso argomentare, intorno agli dei, il cielo, la terra, l’aria, il
mare, non concedono tuttavia l’immortalità e Findistruttibilità a
nessuna di queste realtà, tranne al solo Zeus, nel quale tutte le
altre cose vanno a consumarsi … Tutto questo non è in stretta
coerenza con i loro principi … tuttavia essi, a gran voce e a più
riprese, nei loro scritti sugli dèi e sulla provvidenza, sul destino
e sulla natura, dicono che tutti gli altri dèi sono nati e destinati
a distruggersi nel fuoco, il che vale a dire che per loro tali dèi
sono solubili come cera o stagno.
STOBEO, Eclog., I, 1, 12, p. 25 Wachsmuth = SVF I, 537
Di Cleante.
O il più illustre fra gli immortali, dai molti nomi, sempre
regnante, Zeus, signore della natura, che reggi ogni cosa con la tua
legge, salve: è giusto che a te inneggino tutti i mortali.
Siamo85 della tua stirpe, noi che abbiamo in sorte, imitandoti, la
parola, noi soli, fra tutti gli esseri mortali che vivono e si
muovono sulla terra.
A te perciò io leverò il mio inno, e sempre canterò il tuo potere.
A te questo universo, che si volge intorno alla terra, obbedisce,
dovunque tu lo diriga, e da te si lascia dominare poiché tu hai a
tuo strumento, nelle invincibili tue mani86, forcuto, fiammeggiante
e sempre vivo il fulmine; sotto il suo colpo (si compiono) tutte le
opere della natura87 e con esso tu guidi per la retta via la ragione
universale, che il tutto abita, commista al lume più grande88 e ai
lumi minori; per esso facendoti89signore supremo del tutto.
Senza di te, o divino, nulla si compie sulla terra, né nel cielo
divino ove regna l’etere, né per il mare, se non quelle cose che i
cattivi tramano nella loro stolta follia; ma tu sai ricondurre a
misura tutti gli eccessi, e ordinare ciò eh’è in disordine; e anche
ciò che non è caro a te lo è90, sì che, armonizzandosi insieme il
bene e il male, una diventi la ragione del tutto che vive in eterno.
Coloro che da essa rifuggono, i cattivi fra i mortali, sono infelici
e invano desiderano di possedere il bene; non riescono a comprendere
la legge universale di dio, né ascoltano colui al quale obbedendo
conseguirebbero una vita allietata da saggezza.
E quindi essi errano folli91 di male in male, gli uni, per amor di
fama, cadendo in cure travagliose, gli altri, per amor di guadagno,
affannandosi con incompostezza, altri ancora dandosi all’ozio e ai
dolci piaceri della carne.
(Cadono così nei mali)92, e sono trascinati qua e là, correndo
dietro a cose contrarie alla ragione.
Ma tu, o Zeus, che tutto doni, adunatore dei nembi, dalla folgore
splendente93, libera gli uomini, che son tuoi94, da questa loro
triste stoltezza, e rimuovendola dalla nostra anima fa’ sì, o padre,
che attingiamo la saggezza su cui tu ti reggi nel governare il tutto
con giustizia; sì che, così da te onorati, con onore ti ricambiamo
di continuo inneggiando alle tue opere, come si conviene a chi è
mortale, poiché non c’è premio più grande ai mortali né agli dèi, se
non l’inneggiare nella giustizia alla legge universale.
EPIFANIO, Adv. haeres., Ili, 2, 9, Dox. Gr., p. 592 = SVF I, 538
Cleante dice che il bello e il buono sono veramente i piaceri95, e
chiama «uomo» solamente l’anima. Diceva anche che gli dèi sono
figure mistiche e sacri epiteti; e che il sole è un portatore di
fiaccola e tutto l’universo una cerimonia misterica, e coloro che
possiedono il divino sono come officianti di misteri.
FILODEMO, De pie tate, 13, 23 segg., p. 80 Gomperz = SVF I, 539
(Crisippo…) così come Cleante, (considerando) le tra(diz)ioni circa
Orfeo, Museo, e ciò che si trova in Omero ed Euripide ed altri
poeti, cere(a di assimilar la propria alla loro opinione…96.
MACROBIO, Saturn., I, 17, 8 = SVF I, 540
Cleante dice il nome Apollo deriva dal fatto che egli sorge di volta
in volta secondo diverse plaghe (π’ λλων και λλων τώπων).
MACROBIO, Saturn., I, 17, 36 = SVF I, 541
Cleante scrive che Apollo è stato chiamato Licio perché, come i lupi
(λώκοι) rapiscono il bestiame, egli con i suoi raggi porta via gli
umori.
MACROBIO, Saturn., I, 17, 31 = SVF I, 542
Prende il nome di Λοξώας secondo Enopide, perché viaggia muovendosi
lungo un circuito obliquo (Xo•ós) dal suo sorgere al suo tramontare:
o perché, come dice Cleante, si muove per un percorso a spirali
elicoidali che sono oblique (λоȨèĺ)97.
Fozio, Biblioth., s.v. λώσχαι = SVF I, 543
Cleante dice che si dedicano ad Apollo portici che sono simili a
esedre, ragion per cui da alcuni egli è detto «colui che presiede
alle riunioni» (λώσχαι)98.
MACROBIO, Saturn., I, 18, 14 = SVF I, 546
Cleante dice che Dioniso fu detto così dal suo διανώσαι, cioè
percorrere; perché con il suo impulso quotidiano dall’oriente
all’occidente, producendo la notte e il giorno, compie tutto il giro
del cielo99.
PLUTARCO, De Iside et Osiride, 66, 3770! = SVF I, 547
Cleante dice che Persefone è lo spirito che si produce e si
distrugge nei frutti della terra.
ETICA
STOBEO, Eclog., II, 7, 6a, p. 76 Wachsmuth = SVF I, 552
Cleante … così definì il fine: vivere in coerenza con la natura100.
CLEMENTE ALESSANDRINO, S troni., II, 21, 129, p. 183 Stahlin = SVF
I, 551
Cleante ritiene che il fine sia il vivere in coerenza con la
natura101.
CICERONE, De fin., II, 21, 69= SVF I, 553
Proverai un senso di vergogna di fronte a quel quadro che Cleante
soleva dipingere ampiamente a parole. Egli invitava i suoi
ascoltatori a immaginarsi un quadro in cui fosse dipinto il Piacere,
con vesti bellissime e ornamenti regali, seduto in trono; accanto a
lui, le Virtù come modeste ancelle, non ad altro dedite né altra
funzione credendo loro propria se non quella di servire il Piacere,
limitandosi ad ammonirlo — ammesso che ciò possa esser rappresentato
in un quadro — col sussurrargli all’orecchio di esser prudente e
nulla fare che potesse offendere l’animo degli uomini o che potesse
successivamente dar luogo a dolore102. «Noi Virtù siamo nate a
servirti: non abbiamo alcun altro compito».
AGOSTINO, De civitate Dei, V, 20 = SVFI, 553
Quei filosofi che ripongono il fine di ogni bene per gli uomini
nella virtù, per muovere a vergogna certi altri filosofi che, pur
approvando le virtù, le commisurano al fine del piacere fisico, e
ritengono che questo sia da ricercarsi di per se stesso, e le virtù
in ordine ad esso, son soliti dipingere quasi un quadro a parole, in
cui il Piacere sieda in un trono regale, come un raffinato signore,
le Virtù gli stiano intorno sottomesse come ancelle, attente al suo
gesto, per compiere ciò ch’egli comandi; ed egli comanda alla
prudenza di vigilare attentamente al dominio e alla salvezza del
Piacere; alla giustizia, di distribuire quei benefici che servano a
procurarsi amicizie necessarie ai beni del corpo; e di non fare ad
alcuno torto, per pericolo che, una volta lese le leggi, il Piacere
non possa più vivere in sicurezza; alla fortezza, che, se
sopravverrà al corpo un qualche dolore, non tale tuttavia da
provocare la morte, essa trattenga il suo signore, il Piacere,
saldamente ancorato al pensiero, sì da mitigare le trafitte del
dolore presente con il ricordo delle antiche delizie; alla
temperanza, che prenda cibo solo con moderazione e per puro gusto,
badando bene che per smoderatezza non sopravvenga qualche disturbo a
danneggiare la salute, recando così detrimento a quel piacere che
anche gli Epicurei pongono in stretto rapporto con la salute fisica.
Così le Virtù, con tutta la gloria della loro dignità, servono il
piacere come un padrone arbitrario e indecoroso. Essi dicono che
nulla è più vergognoso e turpe di questo quadro, e più lontano da
ciò che possa tollerare l’apparenza del bene: e dicono il vero.
SESTO EMPIRICO, Adv. ethicos, 30 = SVF I, 554
La felicità, è, dicono Cleante e i suoi, buono scorrere della
vita103.
STOBEO, Eclog., II, 7, 6e, p. 77 Wachsmuth = SVF I, 554
La felicità è il buono scorrere della vita. Anche Cleante si vale di
tale definizione nei suoi scritti, e così Crisippo, e così tutti i
loro seguaci: i quali dicono che la felicità non si distingue dalla
vita felice, e che il fine è raggiungere la felicità, il che
equivale a dire essere felici.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 89 = SVF I, 555
Crisippo afferma che la natura in coerenza alla quale si deve vivere
è in generale quella universale, in particolare quella umana; mentre
Cleante accetta solo la natura universale come quella cui si deve
vivere in coerenza, non facendo ancora parola di quella particolare.
IEROCLE STOICO, Elemento, ethices, papyr. 9780, col. Vili, 10 segg.,
p. 37 Arnim-Schubart
Due uomini della nostra setta, Crisippo e Cleante, si dànno a
rappresentazioni diverse circa il verificarsi di ciò…104.
STOBEO, Eclog., Ili, 6, 66, p. 304 Hense = SVF I, 556
Cleante diceva che, se il fine fosse il piacere, l’intelligenza
sarebbe stata data agli uomini per il loro male.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrept., 6, 72, 1, p. 54 Stàhlin = SVF I,
557
Cleante di Asso il filosofo stoico, che non ci ha lasciato una
teogonia poetica, ma una teologia vera e propria, non nascondeva il
suo pensiero a proposito di Dio:
«Chiedi che sia il bene? Orsù, ascolta.
E l’ordine, il giusto, il santo, il pio,
il dominio di sé, l’utile, il conveniente, il doveroso,
l’austerità, la lealtà, ciò che sempre giova,
l’esser privo di timore e dolore, il vantaggio, ciò che non causa
pene,
il giovevole, il piacevole, il sicuro, l’amico,
l’onorevole, (il gradito), ciò che riceve consenso,
la buona fama, l’assenza d’orgoglio, l’accuratezza, la mitezza,
l’alacrità,
ciò eh’è opportuno, ciò ch’è irreprensibile, ciò che è sempre
costante»105.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., V, 3, 17, 6, p. 337 Stáhlin = SVF I,
559
E similmente, in certo senso, si trova scritto nell’ode poetica del
filosofo stoico Cleante:
«non guardare all’opinione106, credendo di poter diven:ar saggio di
colpo, né temere il vano rumore, senza giudizio né pudore del volgo;
la moltitudine non ha giudizio intelligente né giusto, né decoroso:
puoi trovar ciò solo presso pochi fra gli uomini».
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., V, 14, ni, 1, p. 401 Stáhlin = SVF I,
560
Lo stesso Cleante, implicitamente condannando l’idolatria del volgo,
dice: «non è libero chi guarda all’opinione come se da essa potesse
derivargli qualche bene»107.
Mantiss. Proverbìorum cent. I, 85, Paroem.
Graec. II, p. 757 = SVF I, 561
Di Cleante: «meglio aver cattiva fama che diffamare»108.
PLUTARCO, Deaud. poèt., 12, 33C = SVF I, 562
Cleante, a proposito della ricchezza, cambia in questo modo il verso
«poter far doni agli amici, e, se il tuo corpo è caduto in un
malanno, salvarlo con spesa»:
«far doni alle prostitute, e, se il tuo corpo è caduto in un
malanno, rovinarlo con spesa»109.
CICERONE, De legibus, I, 8, 25 = SVF I, 564
In realtà la virtù è una e la stessa nell’uomo e nella divinità, a
parte qualsiasi altro tratto caratterizzante.
TEMISTIO, Orat. II, 27C = SVF I, 564
Chi dicesse che si fa un atto di adulazione paragonando un re con
Apollo Pizio, non avrebbe l’approvazione di Crisippo né di Cleante,
i quali — e con loro tutta la moltitudine dei filosofi del Portico —
sostenevano che la virtù dell’uomo e della divinità è una e la
stessa110.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 92 = SVF I, 565
Cleante, Crisippo, Antipatro e le loro scuole dicono che le virtù
sono più di quattro111.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5b, 8, p. 65 Wachsmuth = SVF I, 566
Non c’è niente di intermedio fra la virtù e il vizio. Tutti gli
uomini hanno nella loro natura appigli per conseguire la virtù e,
secondo Cleante, hanno quasi la stessa ragione dei versi semigiambi:
se sono incompiuti sono da poco, se sono perfetti sono saggi.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 127 = SVF I, 568
Quanto alla virtù, Crisippo dice che la si può perdere, Cleante che
non è possibile perderla. Secondo il primo la si può perdere per
ebbrezza o pazzia; ma secondo l’altro non la si può perdere perché
gli atti di comprensione di chi la possiede sono ben saldi.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 128 = SVF I, 569
Ritengono che in ogni caso ci assista la virtù, come dicono Cleante
e i suoi. La virtù infatti non è possibile perderla, e in ogni caso
il saggio ha di per sé un’anima che è perfetta.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., V, 6, p. 456 Müller = SVF I, 570
L’opinione di Cleante intorno alla parte passionale dell’anima
appare chiaramente da questi suoi versi:
«Ragione: che vuoi tu, o passione? Dimmelo
Passione: Che tu, o ragione, faccia tutto ciò ch’io voglio112.
Ragione: ti esprimi come un sovrano! ripetilo ancora.
Passione: Che avvenga tutto ciò che io desidero».
È Posidonio113 che ci dice questi versi amebèi essere di Cleante:
essi indicano chiaramente l’opinione di questi intorno alla parte
passionale dell’anima, espressa con l’introdurre passione e ragione
in dialogo reciproco.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac, IX, i, p. 653 Mùller = SVF
Posidonio … nella trattazione Sulle passioni114 dimostra che noi
siamo governati da tre facoltà, la appetitiva, la impulsiva, la
razionale; e attribuisce a Cleante la sua stessa opinione.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac, III, 5, p. 299 Mùller = SVF I)
572
(che il timore, il dolore ecc. siano collocati intorno al cuore) lo
affermano non solo Crisippo ma anche Cleante e Zenone espressamente.
STOBEO, Eelog.y III, 6, 3, p. 281 Hense = SVF I, 573
Di Cleante:
Chi spinto da cupidigia aspira al male
lo compirà, se opportunità gli si offra.
SESTO EMPIRICO, Adv. Eth., 74 = SVF I, 574
Ma Cleante diceva che il piacere non è secondo natura, né ha alcun
valore nella vita, così come non è secondo natura un diadema.
STOBEO, Eclog., IV, 44, 59, p. 972 Hense = SVF I, 575
Cleante definiva il dolore una paralisi dell’anima115.
CICERONE, Tusc. Disp., III, 31, 76-77 = SVF I, 576-577
Vi sono alcuni che credono che il compito di chi consola si limiti a
dire: «questo non è un male», come usava fare Cleante. … E ciò
perché Cleante consola il sapiente, il quale in realtà non ha alcun
bisogno di consolazione. Infatti il cercare di persuadere chi piange
che nulla è male se non è cosa turpe, è lottare contro la sua
stoltezza, non contro il suo dolore: in realtà non è questo il
momento di insegnare. E mi sembra che Cleante non sia riuscito a
capire che talvolta causa dell’afflizione può essere anche ciò che
egli stesso ammetterebbe essere il male supremo.
SENECA, De bene]., VI, 12, 2 = SVF I, 577116
Chi non pensa ad altro che a se stesso, e rende un beneficio a noi
perché è l’unico modo di recare vantaggio a sé, lo considero alla
stregua …di chi nutre bene i suoi prigionieri per poterli più
facilmente vendere come schiavi …Il patteggiare, diceva Cleante, è
ben lontano dal beneficare.
SENECA, De bene]., VI, 10, 2 = SVF I, 579
La semplice volontà non produce di per sé il beneficio; ma come non
vi sarebbe beneficio, se le circostanze non avessero assecondato la
volontà anche schiettissima e purissima, così non vi può essere
beneficio, se non ci sia stata la volontà di farlo prima ancora
delle circostanze. Non devi infatti giovare a me perché io ti sia
obbligato, ma perché tu hai deciso spontaneamente ci giovarmi.
L’esempio di cui si vale in proposito Cleante è questo: «Ho mandato
due servi a chiamare Platone dall’Accademia117. Il primo di essi ha
cercato diligentemente per tutta la scuola, ha percorso tutti i
luoghi in cui sperava di trovarlo, ed è tornato a casa stanco e a
mani vuote; l’altro invece si è messo a sedere accanto al venditore
ambulante più vicino, e mentre, sbadatamente errando, si intrattiene
con gli schiavi e gioca con essi, ecco si imbatte in Platone che
passa di là, senza peraltro averlo cercato. Noi dovremo premiare il
servo che fece, per quanto stava in lui, tutto ciò che gli era stato
ordinato di fare; e castigheremo invece quello che, senza
minimamente essersi dato da fare, fu favorito dalla sorte».
SENECA, Debenef., V, 14, 1 = SVF I, 580
Cleante tratta la questione con maggiore energia. «Ammesso» dice
«che quello che si riceve non sia un vero beneficio, si è tuttavia
ingrati a non renderlo; è evidente che chi si comporta così non lo
avrebbe reso neanche se avesse ricevuto un beneficio vero e proprio.
Si è predoni anche prima di contaminare la propria mano quando si è
armati per uccidere e si ha intento di depredare e sopprimere. La
nequizia non comincia con l’esecuzione, in questa semplicemente si
attua e si rivela. I sacrileghi sono puniti anche se le loro mani
non riescono certo a raggiungere gli dèi».
STOBEO, Eclog., III, 28, 17, p. 621 Hense = SVF I, 581
Diceva Cleante che chi giura già nel momento in cui giura lo fa
rettamente o spergiura: lo fa rettamente se giura nell’intenzione di
compiere ciò che ha giurato, è spergiuro se lo fa col proposito
contrario.
SENECA, Epist. ad Lue, 94, 4 = SVF I, 582
Cleante giudica utile anche questa parte della filosofia (la
precettistica) ma la considera debole se non poggi su una regola
universale e se non presupponga la conoscenza di principi
fondamentali e primari della filosofia stessa.
FILODEMO, De musica, IV, col. XXVIII, 1 segg., p. 97 Kemke = SVF I,
486
…a meno che non vogliano dire cose uguali a quele dette da Cleante,
il quale sostiene che gli esempi m(usica)li e poetici sono superiori
allo stesso discorso filosofico, che può sì enunciare in maniera
sufficiente realtà di ordine um(ano) e divino, ma, nella sua
sobrietà, non ha espressioni proprie per le grandezze divine; mentre
i versi e i ritmi arrivano il più possibile vicino alla
contemplazione delle realtà divine118.
STOBEO, Eclog., III, 6, 4, p. 281 Hense = SVF I, 583
«Da che cosa nasce la stirpe degli uomini lascivi?
Dall’uomo che ingordamente si impinza di gioie carnali»119.
TEOFILO, Ad Autolycum, III, 5, p. 196 Otto = SVF I, 254, 584
Che te ne sembra di quei detti di Zenone e Diogene e Cleante che si
trovano diffusi nei loro libri, che insegnano l’antropofagia,
dicendo che è possibile ammettere che i padri mangino e si nutrano
dei propri figli e che, se qualcuno non ne abbia la forza e getti
via un pezzo dell’orribile pasto, chi ha fame possa a sua volta
mangiarlo?
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypotyp., III, 199-200 = SVF I, 585
Presso di noi è cosa disdicevole e quasi contro le leggi l’amore fra
maschi, mentre fra i Germani ad esempio, si dice, non lo è affatto …
E c’è forse da meravigliarsi che Zenone, Cleante, Crisippo e la loro
scuola affermino che si tratta di un indifferente?
STOBEO, Eclog., III, 42, 2, p. 760 Hense = SVF I, 586
Di Cleante.
«Nulla vi è di più malvagio della calunnia.
Subdolamente ingannando chi si lascia persuadere
genera odio contro l’innocente».
STOBEO, Eclog., II, 7, in, p. 103 Wachsmuth = SVF I, 587
Esaurientemente Cleante argomentava nel senso che la città è un
valore positivo. «Se la città è quell’ambiente atto ad esser sede di
abitazione, e tale che ad esso si può ricorrere per dare e ricevere
giustizia, non è forse la città una cosa buona? Ma la città è un
simile ambiente; e quindi è cosa buona»120.
1. Da identificarsi probabilmente con Antistene peripatetico, di
Rodi, n secolo a. C; cfr. E. SCHWARTZ, Real-Encycl., I, 2, 1893,
coli. 2537-2538.
2. Cfr. più oltre la testimonianza di Seneca, Epist. 44, 3 = SVF I,
466. Il nome «Freantle» è un giuoco di parole fra Cleante e φρώαρ =
pozzo.
3. La notizia è probabilmente dovuta a un’iperbole; ma esiste per
numerosi filosofi una analoga tradizione riguardante donativi da
parte di re, che non è da considerarsi dei tutto spuria; tutt’al più
deformata ed enfatizzata, talvolta resa paradigmatica. Cfr.
l’analoga tradizione formatasi per Alessandro Magno e Seno-crate (da
Plutarco, Cicerone, Valerio Massimo; cfr. SENOCRATE, frr. 24-30
Isnardi Parente).
4. Supra, parte I, nota 52.
5. Secondo la lettura àrcocpopàs, cfr. GIGANTE, Diogene Laerzio2, p.
540, nota 198.
6. TIMONE, fr. 41 Diels (Poèt. Philos. Fragm.).
7. L’epiteto di νος, «asino», fu usato anche per Senocrate, in
questo caso nei confronti di Aristotele (DIOGENE LAERZIO, IV, 6;
cfr. in proposito I. DURING,Aristotle in the Ancient hiographical
Tradition, Goteborg, 1957, p. 256 segg., 384 segg., e M. ISNARDI
PARENTE, in SENOCRATE ERMODORO, Frammenti, p. 273). Cleante e
Senocrate sono infatti citati insieme per analogia da Plutarco, De
audiendo, 47 e (infra, nota 29).
8. Per i rapporti, non personalmente cattivi nonostante la polemica
filosofica (a quanto si direbbe da consimili testimonianze) di
Cleante con Arcesilao, cfr. METTE, «Lustrum» XXVI, 1984, p. 83.
9. Ma EURIPIDE, Oreste, v. 140 (son parole pronunciate dal coro).
10. Odyss., IV, v. 611.
11. Fr. 25 Gomoll.
12. Cfr. anche Index Stoicorum, infra; NAUCK, Trag. Gr. Fragni.2,
823. Su Sositeo cfr. Diels, Real-Encycl.. Ili A 1, 1927, coli.
1175-1176.
13. Per Crisippo analogamente DIONE CRISOSTOMO, Orat. XXXIII, 53 =
SVF II, 10a.
14. Su questo catalogo laerziano osservazioni in CROENERT, Kolotes.
Mene-dems, p. 81, nota 398 (i due titoli περί ευφυώας, περί
Γοργιππου sono probabilmente da leggersi περί ευφυώας προς Γώργιππον
e più ampiamente v. ARNIM, Real-Encycl., XI, 1, 1921; col. 561. Come
sempre, è un catalogo incompleto: ne rimangono fuori opere come il
περί μεταλώψεως (SVF I, 591); il περί χαλκο xa °u (ivi, 589); la
τώχνη ρητορικ attestata da CICERONE, De fin., IV, 7. Altre opere
conosciute sotto diverso titolo potrebbero identificarsi con alcune
comprese nell’elenco: per esempio il 7uepì àxófxcov (SVF I, 493) è
forse identico al προς Δημώκριτον qui citato, e gli υπομνώματα φυσικ
(SVF I, 563) potrebbero identificarsi con il περί Ζώνωνος
φυσιολογώας Il περί χαλκο potrebbe essere un secondo titolo del περί
τον σοφών σοφιστεώειν. Per il περί στολώς (Dal modo di vestire) cfr.
infra, nota 39.
15. Per la cronologia di Cleante cfr. v. ARNIM, Real-Encycl., XI, I,
col. 558-559: nato sotto l’arcontato di Aristofane (olimpiade 112, 2
= 331/330 a. C.) sarebbe morto a 99 anni sotto l’arcontato di Iason,
olimpiade 137, 102 = 232/1 o 231/30 a. C. L’Arnim considera
interpolato il tU’ (= ottanta) dei codici in Diogene Laerzio, VII,
176; il numero, prima di ταώτα, sarebbe in realtà superfluo. Si
presta a qualche perplessità secondo lo stesso Arnim anche il
discepolato di diciannove anni; Cleante successe a Zenone in una
data da collocarsi fra il 264 e il 261; se si trattasse degli ultimi
19 anni della vita di Zenone, ciò vuol dire che sarebbe divenuto
assai tardi suo discepolo. Ciò non è però necessario; dopo aver
seguito Zenone Cleante potrebbe anche aver insegnato
indipendentemente e parallelamente. Di opinione contraria POHLENZ,
Stoa, II, p. 16; anche la durata della vita di Cleante, secondo il
Pohlenz, sarebbe esemplata sui 98 anni ch’egli ritiene falsamente
attribuiti a Zenone.
16. Anth. Pian., V, 36.
17. Il nome di Cleante è frutto di emendazione. Per la notizia cfr.
Index, col. XIX, e infra, nota 20; o forse perché si guadagnava la
vita? cfr. in questo caso DIOGENE LAERZIO, VII, 168.
18. Probabile confusione con Persèo, cfr. parte III, nota 2. La
notizia della discepolanza presso Cratete è errata; è del tutto
improbabile cronologicamente, tanto più che Cratete morì a Tebe
(DIOGENE L., VI, 98).
19. Per dati specifici cfr. Intr., p. 37 segg., e le Notizie
biografiche. Per possibili integrazioni iniziali cfr. TRAVERSA,
Index Stoic, p. 18.
20. Per quanto il frammento sia inizialmente mutilo si tratta
certamente di Cleante; ciò è assicurato dalla successione seguita
dall’autore dell’Index. La parola γονεώσι è integrata dal CRòNERT,
Mem. Herc., p. 137; l’integrazione è accettata da v. ARNIM (SVF, I,
468) e da TRAVERSA, Index, p. 32. Qualche divergenza
nell’interpretazione: Traversa non segue l’Arnim nella supposizione
che Cleante avesse restituito al discepolo ciò che gli sembrava
superiore al dovuto, ma ritiene che si abbia qui solo
un’attestazione del fatto che Cleante voleva tutta la merce
anticipata. Ciò sarebbe più in coerenza, in realtà, con il seguito
del discorso, che è sembrato al Traversa scarsamente comprensibile:
Cleante può essere stato accusato di avidità di denaro per questo
suo costume e per la puntigliosità con cui lo perseguiva.
21. Sembra trattarsi di una contrapposizione con Zenone non
favorevole a Cleante. Seguo il testo del Traversa; diversamente in
qualche punto 1èARNIM, Bemerkungen, p. 10.
22. Cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 168: è probabile che qui si parli del
giudizio cui fu sottoposto Cleante di fronte all’Areopago. E lettura
del Traversa πεώθυνεν, attivo probabilmente usato intransitivamente.
23. Le integrazioni iniziali dell’ARNIM, Bemerkungen, p. n e SVF I,
471; con qualche differenza CROENERT, Kol. u. Mened., pp. 48 e 233;
nell’insieme per il testo, a parte le più antiche interpretazioni di
CROENERT, op. cit., p. 48 e TRAVERSA, Index, p. 36, cfr. oggi I.
GALLO, Commedia e filosofia in età ellenistica. Baione, «Vichiana»,
n. s. V, 1976, pp. 206-242, in part. p. 210 segg. Negli SVF PArnim
aveva già abbandonato l’interpretazione della parola mutila come
γραφών, «lettera», «lettera», interpretazione sulla quale egli aveva
fondato un’interpretazione fantasiosa del testo; cfr. poi il più
corretto γνώμην del Croenert, che anche Gallo oggi accetta.
Sfrondando l’interpretazione del Croenert, che aveva individuato fra
l’altro una non convincente relazione con un frammento di Telete
cinico, Gallo ritiene che l’episodio non manchi di un corto
fondamento di veridicità storica e confermi la testimonianza
plutarchea, De adul. et am., 55C. Rapporti sostanzialmente non
cattivi su piano personale fra Arcesilao e Cleante sono attestati
anche da DIOGENE LAERZIO, VII, 171, cfr. supra, nota 8. In ogni caso
qui l’episodio intenderebbe non tanto porre l’accento su questi
quanto sottolineare la superiorità dello stoico sull’accademico.
Forse è da leggersi col Meerwaldt ouveixóvTt al posto di συνειπώντι
alla 1. 6 («avendo Arcesilao ceduto») il che sottolineerebbe ancor
più questa superiorità.
24. L’Arnim ha riconosciuto nelle parole riportate versi
probabilmente di un comico che satireggiano Cleante (Bemerkungen, p.
12). Ma è molto incerto che qui (cfr. SVF, ad loc.) si parli anche,
come Arnim vorrebbe, di Arcesilao. Che Cleante parli su tesi esposte
farebbe pensare comunque non ad una rappresentazione comica in
teatro, ma ad un episodio che abbia per sede la scuola.
25. Per questi due brani di colonna cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 171 e
176. Il Dionisio di cui si parla difficilmente può esser PEracleota;
o si deve supporre che questi sia stato solo più tardi «transfuga»
dalla scuola, cosa peraltro improbabile. Per il testo CROENERT, Mem.
bere, p. 26; ARNIM, SVF I, 476; TRAVERSA, Index, pp. 40-41. POHLENZ,
Stoa, II, p. 16, ritiene che l’autore dell’Index abbia voluto
istituire un paragone fra la morte di Cleante e quella di Socrate.
26. φιλώζωιον risulta dall’autopsia del papiro, ma è ritenuto una
menda per ϕιλόζωον già dal CROENERT, Mem. bere, p. 49; cfr.
TRAVERSA, Index, p. 42: il senso richiede «amico della vita» amico
della vita» ζώα e non degli animali o esseri viventi ζῷα. Incerto il
senso generale: ζητεῖν potrebbe far pensare alla ricerca di un
successore; PArnim ha però ipotizzato che esso possa supporre un
precedente δεδοικώναι δ’εφη το πιβιώναι («temeva che cercare ancora
di vivere fosse cosa da persona troppo attaccata alla vita» ecc.);
che Cleante cioè qui ancora una volta, come sappiamo da Diogene
Laerzio, sottoponga a critica se stesso. Non abbiamo in realtà altra
notizia relativa a questo aspetto, che Cleante cioè si sia dato cura
particolare della trasmissione dello scolarcato, e sarebbe uno dei
casi in cui l’Index è la sola fonte a offrirci notizie.
27. Di difficile integrazione le parole iniziali: si legge un δώδεϰα
per cui Bù-cheler pensava a un certo numero di anni di scolarcato;
ma il numero dodici non concorda con nessuna delle notizie date
altrove. Più probabile l’integrazione del TRAVERSA, Index, p. 43:
«alla dodicesima ora». Per l’arcontato di Iason cfr. supra, nota 13.
28. Cfr. anche supra, nota 7. La contrapposizione di determinati
discepoli tardi e costanti ad altri più abili e geniali è un τόπος
della scuola antica; sono contrapposti nell’Accademia Aristotele e
Senocrate (DIOGENE LAERZIO, IV, 6), e analogamente, nella scuola di
Aristotele, Teofrasto e Callistene (V, 39). Alla scuola di Isocrate
sappiamo di un analogo paragone fra Teopompo ed Eforo (CICERONE, De
orai., Ili, 9, 36; Brutus, 56, 204; QUINTILIANO, Inst. orai., Il, 8,
n). Il condiscepolo nei confronti del quale Cleante si rivela di
ingegno meno vivace è certamente Aristone di Chio (cfr. infra, parte
III).
29. Dagli Epigoni di Sofocle, ma attraverso la traduzione di Accio;
così sembra di poter dedurre dallo stesso CICERONE, De optimo genere
orat., 6, 18.
30. Cfr. analogamente per Epicuro, SENECA, Epist. 25, 5 = fr. 211
Usener, «fac omnia tamquam spectet Epicurus»; analogia già osservata
da R. MONDOLFO, Moralisti greci, Napoli, i960, pp. 150-151.
31. Per Feraclitismo accentuato di Cleante cfr. già supra Intr. nota
51. HAHM, Orig. St. Cosmol., p. 80 segg., ha particolarmente
insistito sull’origine eraclitea del concetto di τόνος come
«tensione fra opposti»; ma non va dimenticato il carattere musicale
del concetto (come dell’altro, apparentato, di τάσις del quale si
dirà più oltre), carattere che parla anche in favore di ascendenze
pitagoriche.
32. Lè ARNIM(Real-Encycl., XI, 1, col. 561) ha pensato ad una
possibile identificazione di quest’opera con il Contro Democrito;
tuttavia nulla vieta di pensare che essa fosse diretta contro, o
anche contro, teorie atomistiche di contemporanei, cioè quelle di
Epicuro o seguaci. Per altro possibile testimonianze di polemiche
contro Epicuro - in questo caso tuttavia contro l’edonismo epicureo
- cfr. infra, nota 102.
33. Cioè Aristone di Chio, per cui infra, parte III, p. 283. Per il
rimprovero qui mosso a Cleante (ambiguità nella concezione del
divino, ora il mondo nella sua totalità, ora il cielo, ora quel sole
che Cleante considera la parte più eccelsa dell’universo) cfr. le
varie testimonianze richiamate da PEASE, Cic. Nat. deor, I, pp.
257-260.
34. In Diogene Laerzio compare come περί ηδονής cfr. supra; ma la
forma ciceroniana «contra voluptatem» ha fatto supporre all’Arnim
che si tratti di polemica antiepicurea. Si ricordi che il piacere è
per gli Stoici una delle quattro perturbazioni fondamentali. Lo
stesso ARNIM (SVF I, 120) ritraduce l’espressione ciceroniana come
ϰατὰ ἡδονῆς; ma non è detto che si tratti della traduzione più
esatta per il titolo cleanteo.
35. Arnim aggiunge un frustulo papiraceo da Filodemo, De pie tate,
p. 75 Gomperz, SVF I, 351, di significato peraltro troppo incerto
per offrire un parallelo sicuro al passo ciceroniano.
36. Cfr. Intr., nota 31.
37. Anche qui l’opera di Cleante viene citata come un περὶ ἡδονῆς
(cfr. FESTA, St. aut., II, p. 167). L’affermazione di Cleante è
riportata con parole analoghe anche da CICERONE, De off., Ili, 3, n,
e De legibus, I, 12, 33; è un interessante esempio del perdurare
della validità del modello socratico in età ellenistica, modello
filtrato assai più attraverso Senofonte che attraverso Platone (cfr.
parte I, nota 161): Cleante si riferisce probabilmente a brani quali
Mem., IV, 4, 12 segg., o altri simili. Per la figura di Socrate
nell’opera dell’allievo di Cleante Sfero cfr. il significativo
titolo Di Socrate e Licurgo.
38. La parola μετάληψις è di non facile traduzione, e in questo caso
comunque non ha, come altrove significato logico, ma
grammaticale-retorico. Da Quintiliano è tradotta con «transsumptio»,
cfr. Inst. orai., Vili, 6, 37(FESTA, St. ant., II, p. 108-109). Per
Tericle, fabbricante della coppa detta «tericlea», cfr. anche il
comico Eubulo, fr. 31 e fr. 43 Kock; per Ificrate, da cui la
calzatura militare detta «ificratide», cfr. DIODORO, Bibl. Hist.,
XV, 44. Altre notizie da Ateneo nello stesso contesto di questo
brano.
39. Per il titolo cfr. già FESTA, St. ant., II, pp. 100, 154-155;
esso è confermato dalla lettura del DORANDI, cfr. ad. loc., e p. 120
nel commento. Cadono così le proposte dell’ARNIM Περὶ εἱμαρμένης,
smentita dal nessun carattere teoretico che il frammento rivela) e
dal GOMPERZ, Περί στώλης cioè Del monumento tombale-, di Zenone?) Il
Diogene di cui si parla è certamente il cinico Diogene di Sinope;
del quale sembrerebbe che Cleante lodasse la Politela, anche se la
posizione di Cleante nei confronti della città appare, da altri più
sicuri frammenti, assai diversa [infra, nota 119, e supra, Intr.,
nota 60).
40. Ipotesi plausibile dell’ARNIM, Real-Encycl., XI, i, col. 561,
che possa trattarsi della stessa opera indicata da Diogene Laerzio
come Che il saggio può insegnare dietro compenso (σοφιστεώειν).
41. Σώζειν τα φαινώμενα; «giustificare i fenomeni», riconducendo le
loro irregolarità a modello matematico, è espressione tecnica della
scienza greca che risale forse a Eudosso di Cnido; cfr. J.
MITTELSTRASS, Die Rettung der Phaenomene, Berlin, 1962, p. 132 segg.
Per la contrapposizione di Cleante ad Aristarco di Samo cfr. Intr.,
pp. 30-31: la divinizzazione del sole in Cleante è ben lungi
dall’essersi tradotta in eliocentrismo.
42. Il titolo plutarcheo potrebbe essere approssimativo, ed è
ipotesi dell’ARNIM, Real-Encycl., XI, i, col. 561, che possa
trattarsi del Sulla scienza della natura propria di Zenone.
43. Per la teoria del τόνος e il suo carattere specificamente
cleanteo cfr. Intr., nota 51.
44. Cioè «intorno ad Omero», il poeta per antonomasia; per la
posizione degli Stoici riguardo ad Omero cfr. parte I, nota 110.
45. Odyss., X, v. 305. Per l’erba moly, la famosa erba con cui Circe
incanta i compagni di Ulisse, cfr. J. STANNART, The plani called
moly, «Osiris», XIV, 1962, pp. 254-307. Per altre osservazioni
relative alla figura di Omero cfr. PEAR-SON, Fragments, p. 293:
questi era considerato dagli Stoici uno dei pochissimi esempi di
saggi realmente esistiti. Abbiamo qui, secondo il Pearson, il primo
uso del termine «allegoricamente» (λληγορικώς)nel senso specifico
poi conservato.
46. Itiad., III, v. 320; XVI, v. 233.
47. Cfr. anche Schol. in Homeri lliad., XVI, v. 233 (pp. 103-104
Din-dorf).
48. Cfr. anche Schol in Homeri Odyss., I, v. 52 (p. 21 Dindorf) e
CORNUTO, Gr. Theol. Comp., 26.
49. Per la figura mitica di Meone (Maion) padre di Omero cfr.
SCHERLING, Real-Encycl., XIV, 1, 1928, coli. 581-582. Tuttavia
sussiste qui qualche incertezza circa la lettura del nome di
Cleante: cfr. anche SVF I, 593, ove con ancor maggiore sicurezza si
legge il nome di Neante, cioè Neante di Cizico, erudito del in
secolo, autore di un’opera Degli uomini famosi dalla quale
facilmente potrebbero derivare le notizie sul padre di Omero, come
su Pitagora ecc. (per queste ultime cfr. DIOGENE LAERZIO, Vili, 55,
58, 72). Per Ellanico di Lesbo, storico-mitografo-erudito del v sec.
a. C, cfr. JACOBY, Real-Encycl., Vili, 1, 1913, coli. 104-153.
50. Cfr., Intr., nota 56.
51. Ancora Intr., p. 43.
52. Per Archedemo di Tarso infra, parte V, nota 210.
53. Un \ir\ (= non), che rende assurdo il senso, è stato espunto a
partire dagli editori più antichi. Per la questione cfr. già supra,
Intr., note 58-59, e per Crisippo infra, parte IV, nota 49. Crisippo
e Cleante (Archedemo sembra anche in questo caso aver preferito la
soluzione cleantea, cfr. infra, parte V, nota 211) intendevano
entrambi salvare il concetto di possibile, ma con mezzi diversi;
essenziale del discorso di Cleante sembra esser stata la negazione
della conversione della possibilità nel passato in necessità,
secondo un ragionamento di ordine fisicometafisico piuttosto che
logico, mentre Crisippo la accettava proprio sotto l’aspetto della
modalità logica (= l’irriversibilità dell’avvenuto si converte in
necessità).
54. E questa con ogni probabilità la definizione che Cleante
preferiva per l’arte, diversa da quella, più elaborata e complessa,
di Zenone; cfr. Intr., nota 27, e infra, parte IV (per Crisippo),
nota 329. Cleante si attiene alla definizione più generica, e
universalmente valida, di arte come «procedere metodico», tale da
abbracciare le più varie forme di attività ben al di là della
limitazione al piano artigianale. Per questo significato ampio da
Cleante dato al termine - da Cleante, si direbbe, particolarmente
nell’ambito della Stoa - rimando a M. ISNARDI PARENTE, Techne, p.
287 segg.
55. Cfr. anche CICERONE, De fin., IV, 3, 7 (SVF I, 492).
56. Da questo ribadimento della critica già mossa da Zenone alla
dottrina platonica delle idee da un punto di vista concettualistico,
non sembrano emergere elementi nuovi tipicamente cleantei; cfr.
Intr., pp. n-12.
57. Per questa distinzione, che denoterebbe una certa eterodossia
cleantea nella fisica-teodicea, cfr. Intr., nota 55.
58. L’interpretazione più corrente di εσχατον του πυρώς è «da parte
estrema del fuoco», cioè la periferia ignea dell’universo. Sulla
base di questa interpretazione è stata asserita l’eterodossia della
cosmologia di Cleante rispetto a quella zeno-niana, e poi crisippea:
Cleante non parlerebbe di conversione reciproca degli elementi, ma
per lui il fuoco, indistruttibile, si isolerebbe alla periferia del
cosmo per poi dar luogo alla rinascita dell’universo. Cfr. per
questa interpretazione v. ARNIM, Real Encycl., XI, 1, col. 564; poi
POHLENZ, Sto a, II, pp. 44-45. Già ZELLER, Philos. d. Gr., III, 1,
p. 150 n. 1, aveva cercato un’interpretazione diversa, dando a το
εσχατον του πυρώς il significato di «ultimo residuo del fuoco»; ed
era incorso nel rimprovero di erronea traduzione da parte di R.
HIRZEL, Untersuchungen über Ciceros Philosoph. Sehr., II, pp.
128-131. Una proposta di emendazione da parte di Meerwaldt,
Cleanthea, I, p. 43 segg., eliminerebbe, se accettata, il problema
della eterodossia cleantea su questo punto; Meerwaldt propone
infatti l’espunzione ci του πυρώς riferendo τ εσχατον direttamente
al precedente του δε παντώς ξυγρασθώντος. Si spiegherebbe, ritiene
Meerwaldt, in questo modo anche lo ντιτυπώσαντος della frase che
segue: la parte intermedia dell’acqua diviene terra, e la ντιτπώα,
«forza di resistenza», è propria dell’elemento solido. E forse però
ancor più accettabile la recente interpretazione di HAHM, Orig. St.
Cosm., App. III, pp. 240-248: nel testo di Stobeo, cioè nella
esposizione dossografica di Ario Didimo, esiste probabilmente un
fraintendimento del testo cleanteo: o almeno l’ambiguo termine
εσχατον riporta in maniera impropria la teoria di Cleante, che
doveva prevedere un cambiamento dell’ultimo residuo del fuoco e non
del fuoco etereo o periferico. Hahm ritiene che tuttavia due
differenze sussistano fra la cosmologia zenoniana e quella cleantea:
da un lato una maggior simmetriz-zazione del processo di conversione
reciproca degli elementi (cfr. anche Orig. St. Cosm., p. 79 segg.),
dall’altro la presenza della dottrina del τώνος e l’interpretazione
di questo come un processo di contrazione ed espansione, per cui il
processo di conversione reciproca verrebbe configurarsi come
contrazione (dal fuoco tramite aria e acqua alla terra) e di
successiva espansione (dalla terra tramite acqua e aria al fuoco).
Cfr. per tutto questo anche infra, parte IV, note 340 e segg.
59. La teoria dei λώγοι σπερματικο è anche cleantea; ma per le sue
origini in Zenone cfr. parte I, nota 148.
60. Il testo così com’è sembra insostenibile; il DIELS aggiungeva
(ανω), «l’aria si muove verso l’alto»; il PEARSON ipotizzava (ei$
7n3p), «in fuoco», che però non spiega il seguente φώρεσθαι; Γ
IèARNIM pensa sia da aggiungere di più, (εώς πυρ και το πυρ ανω)
ecc. («si cambia il fuoco, e il fuoco muove verso l’alto»). Per il
brano di VALERIO PROBO, In Verg. Eclog., VI, 31, p. 10 Keil, cfr.
supra, parte I, nota 140.
61. È teoria singolare, giacché notoriamente l’universo stoico non
ha struttura corpuscolare geometrica, come quello degli Accademici;
per un tentativo di interpretazione cfr. ISNARDI PARENTE, Il fuoco
conico di Cleante (Intr., nota 52). Potrebbe essere illuminante per
la comprensione della teoria cleantea il confronto con certe
posizioni del pitagorico Archita quale quella attestata da ps.
ARISTOTELE, Problemata physica, 16, 9, 915 a 25 segg. (= 47 A 23a
Diels-Kranz), che privilegia le figure a superficie circolare come
proprie della natura; naturalmente in Cleante ci troviamo di fronte
ad una analogia di tipo empirico, non certo ad una teoria di tipo
atomistico o anche semplicemente para-atomistico. Forse non è
casuale che, nello stesso contesto del brano di Stobeo, vengano
citati anche certi «pitagorici» non meglio identificati (Ecl., I,
15, 6a, p. 146, 14 Wachsmuth) e probabilmente alquanto tardivi, che
avrebbero ritenuto di forma conica solo il fuoco «superiore», το
νωτώτω πυρ; se per fuoco «superiore» si intende il fuoco-etere,
siamo di fronte a un complesso gioco di scambi fra dottrina
pitagorica e dottrina v stoica.
62. È la parola tipica per la parte senziente e pensante dell’anima;
per l’originalità cleantea di questa identificazione cfr. ancora
HAHM, Orig. St. cosm., p. 150.
63. Cfr. per Zenone già supra, SVF I, 121; ma in quel passo, come si
è già visto (parte I, nota 175), la parola ναθυμώαμα è integrazione
dell’Arnim; di Zenone è sicura solo la definizione dell’anima come
ναθυμώασις: Cleante può aver fatto un passo più oltre proprio in
virtù della sua identificazione del sole con lo ἡΎƐµoνιÓóv
dell’universo, quindi con la sua anima razionale (cfr. HAHM, Orig.
St. cosm., P- 151)
64. La teoria della τροφ cosmica, del nutrimento che gli astri
riceverebbero dalla terra, è teoria eraclitea (CHERNISS, The Aris
tot le’s Criticism of Presocratic Philosophy, Baltimore, 1936, p.
133, nota 541). Essa è rifiutata da Aristotele in Meteor., II 354b
33 segg.; a parte Eraclito, Aristotele poteva aver presente anche
Diogene di Apollonia (cfr. 64 A 17 Diels-Kranz), Aristotele,
distinguendo nettamente una sfera sopralunare costituente il
«quinto» o «primo corpo» da quella elementare, sembra essersi invece
pronunziato per una teoria del nutrimento «etereo» degli astri nel
giovanile De philosophia (cfr. in merito UNTERSTEINER, Arisi. Della
filosofia, p. 228), opera che anche sotto altri rispetti sembra aver
esercitato una certa influenza sul pensiero di Cleante, pur nelle
differenze fondamentali di impostazione generale. Per il nutrimento
degli astri cfr. anche infra, parte VI, nota 452.
65. Per il paragone sole-plettro cfr. BOYANCè, Songe de Scipion, pp.
87 segg., 96 segg., ma più specificamente UApollon solaire, in
Mélanges Carcopino, p. 166; cfr. già Intr., nota 50. Nuovamente,
l’identificazione del sole con Apollo e il ruolo accordato al sole
nell’armonia delle sfere ci riportano ai Pitagorici, la cui
influenza era del resto ancor sensibile sugli astronomi ellenistici
(cfr. TEONEDI SMIRNE, p. 138, 18 segg. Hiller). Per il resto seguo
PArnim, che espunge un inutile e ripetitivo το φως conservato invece
dallo Stàhlin.
66. Scitino di Teo; per il quale cfr. JACOBY, Real-Encycl., III, A
1, 1927, coli. 696-697. La sua cronologia oscilla fra l’età di
Eraclito e quella di Platone; è noto comunque per aver tradotto in
versi motivi filosofici eraclitei. Ciò non autorizza pertanto ad
attribuire ad Eraclito l’immagine - di ispirazione, piuttosto,
pitagorica - del sole come strumento musicale e produttore di
armonia.
67. Arnim emenda π’ in π’αώτου ma per rendere plausibile TòV àépoc
deve anche emendare precedentemente 01 hi in ιδώα. Seguo, per lo
più, il testo del Lang. Per l’influenza di Cleante su Cornuto cfr.
PERSIO, Sat., V, 63.
68. Per tutta la questione dell’ appartenenza della dottrina del De
natura deo-mm II a Cleante o a Posidonio, cfr. infra, parte VI, note
422, 433; è peraltro indubbio che in II, 40 Cicerone si riferisce
esplicitamente a Cleante, e che a questi risale la teoria del calore
vitale come fuoco costruttivo; cfr. SOLMSEN, Clean-thez or
Posidonius? The basis of Stoic Physics, «Mededelingen der Kon.
Nederl. Akad. v. Wetenschappen», 1961, p. 267 segg., oggi in KL
Schr. I, p, 436 segg., in part. p. 438 segg., per la
puntualizzazione della teoria e la rivendicazione a Cleante di più
ampia parte della testimonianza ciceroniana; p. 446 segg. per i
precedenti peripatetici della teoria cleantea del θερμών εμφυτον.
69. Galeno omette la parola πώντας, presente invece in Aezio; e in
realtà cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 144, per i movimenti diversi di
stelle fisse e pianeti; la teoria di Cleante risulterebbe ben
difficilmente spiegabile altrimenti. Πώντας τους ρτώρας è
probabilmente erronea formulazione della teoria da parte del
dossografo.
70. La teoria della forma conica degli astri è certamente non priva
di rapporti con quella del fuoco conico, per cui cfr. supra, nota
61. Ma ha forse anche una relazione con l’opinione eraclitea secondo
cui la forma degli astri sarebbe simile a quella di una nave
(ERACLITO, 22 A 12 Diels-Kranz; cfr. la stessa testimonianza anche
per altri presocratici, ALCMEONE, 24 A 4 e ANTIFONTE, 87 B 28
Diels-Kranz). In coerenza al carattere di cono da lui attribuito al
fuoco, Cleante avrebbe geometrizzato l’antica opinione, pur desunta
con ogni probabilità da Eraclito.
71. Non tutto il passo di Cornuto è attribuibile a Cleante,
nonostante la presenza degli aggettivi evcovo? e poi eutovo? che
potrebbero far pensare al filosofo, dal momento che il secondo si
trova inserito in un verso di Euripide (293 Nauck2, dal perduto
Bellerofonte).
72. Ampliato in ELIANO, De nat. anim., VI, 50. Per il diverso
atteggiamento di Crisippo cfr. Intr., p. 68.
73. Attribuito a Crisippo da CICERONE, Nat. deor., II, 160 e
PORFIRIO, De abst., II, 20; cfr. infra, parte IV, nota 430. Da altri
autori è reso senza attribuzione specifica; cfr. FESTA, St. ant.,
II, p. 91.
74. Altri brani affini in TERTULLIANO, De anima, 25, 9, p. 37
Waszink; NEMESIO, De nat. hom., 32, P. G. XL, col. 545.
75. Per Zenone cfr. già supra, parte I, nota 187. Da seguirsi la
correzione del MEERWALDT, Cleanthea, I, p. 53, di voepoci in
veocpoct; correzione alla quale si era già avvicinato il Diels,
ετεραι αε.
76. Cfr. anche TEODORETO, Graec. aff. CUY. V, 27, p. 234 Canivet; ma
il testo è incerto a causa del singolare στώρεου σώματος che già
STEIN, Psych. d. Stoa, I, p. 107, tentava di emendare in αώματος
«sangue» (cfr. il fr. seguente).
77. POHLENZ, Stoa, II, p. 50: si tratta di un fraintendimento sulla
base di testi quale SESTO EMPIRICO, Adv. Phys., I, 87.
78. Per la differenza fra questi due punti di vista (dovuta alla
nuova teoria crisippea dell’anima come γεμονικών πώς ’χον con
stretta e razionalistica unitarietà di concezione psicologica) cfr.
POHLENZ, «Nachr. Gòtt. Gel.», 1938, 196 segg: e infra, parte IV
nota, 384 (e Intr., nota 106).
79. Vi è una doppia versione dei versi cleantei: si è seguita qui
quella di Epitteto oουδών ττον ‘εψομαι, mentre abbiamo in VETTIO
VALENTE, Anthol. Astr., VI, 8, la forma αυτ τοώτο πεώσομαι, «dovrò
subir ciò ugualmente».POHLENZ, Stoa, II, pp. 60-61, con richiamo ad
un tentativo di correzione ν δε γε μ θώλω (ποιεών δ χρώζεις), αυτ
τοώτο πεώσομαι κακώς γενονώς, ουδών ττον ‘εψομαι giustificherebbe la
presenza dei due versi dando al tutto significato più compiuto. La
lezione di Vettio, che già sembra preferibile all’Usener, è oggi
nuovamente difesa dal MEERWALDT, Cleanthea, «Mnem.» 1951, I, p. 57:
occorre introdurre nei versi il senso di πώσχειν «subire», come è
provato anche dalla traduzione senechiana (cfr. nota seg.).
80. Per lo più i critici ritengono aggiunto da Seneca il quinto,
incisivo verso «ducunt volentem fata, nolentem trahunt». Per trovare
una decisa attribuzione del tutto a Cleante occorre risalire al
WENDLAND, Philosophische Schriften ùber die Vorsehung, Berlin, 1892,
p. 24, nota 4; cfr. lo status quaestionis dato da H. DAHLMANN,
Nochmals «ducunt volentem fata, nolentem trahunt», «Hermes», CV,
1977, pp. 342-351. Più originale la posizione del Dahlmann non nel
senso di un ritorno all’attribuzione a Cleante, ma nell’affermazione
che in realtà il quinto verso senechiane non è un’aggiunta ma una
ripresa di motivi tutti reperibili nei versi clean-tei, e che i
cinque versi di Seneca traducono compiutamente i quattro versi di
Cleante. Per l’immagine del cane legato al carro e costretto a
seguirlo cfr. POHLENZ, Stoa, I, p. 106, e II, p. 62; infra, parte
IV, nota 405 (a proposito di SVF II, 975)
81. è testimonianza che deriva dalla stessa fonte, probabilmente
dossografica, di quella di Sesto Empirico che segue immediatamente;
e cfr. la ripetizione delle argomentazioni attribuite a Cleante, in
forma più succinta e forse dipendente da fonte accademica, di Nat.
deor., III, 3, 16; cfr. PEASE, ad loc., II, p. 1003 segg.
82. «Cincinnatae», per le comete è usato solo qui da Cicerone e in
un altro luogo, Schol. in Juven., VI, v. 407; in genere tali stelle
sono dette dai latini «cri-nitae», chiomate. Cfr. PEASE, N.D., ad.
loc., II, pp. 584-585; e per gli argomenti cleantei nel loro
insieme, con riferimenti e raffronti, ivi, pp. 580-581.
83. Per la teoria astronomica di Enopide di Chio circa i moti
obliqui cfr. TH. HEATH, Arìstarchus of Samos, the ancìent Copemicus,
Oxford, 1913, 19592; p. 130 segg. La pitagoricità di Enopide è
dubbia: M. Timpanaro Cardini, Pitagorici, II, pp. 30-31, ritiene che
i rapporti di questo filosofo col pitagorismo fossero pit-tosto di
contrapposizione polemica che di adesione; diversamente però K. v.
FRITZ, Real-Encycl., XVII, 2, 1937, coli. 2258-2272, in part. 2259,
che lo considerava se non altro molto vicino ai Pitagorici e nella
loro orbita, e P. BOYANC è, Songe de Scipion, pp. 95-96, e La
Religion astrale, de Platon a Cicéron, «Rev. Etudes Gr.», LXV, 1952,
pp. 312-349, in part. 348. Diogene è certamente l’Apolloniate: cfr.
rispettivamente 41, 6 e 64 A 8 Diels-Kranz. La notizia dossografica,
imprecisa, sembra attribuire dottrina platonizzante a filosofi
presocratici e forzare l’espressione della dottrina cleantea.
84. Anche in questo caso la notizia, da tradizione dossografica, è
inattendibile soprattutto per ciò che si riferisce ad Anassimene, la
cui teoria dell’aria come αρχ è stata confusa con quella di etere;
ma anche nel sistema di Cleante la nozione di etere non sembra avere
un particolare rilievo. Cfr. per questo piuttosto parte I, note 150
e 163.
85. Il v. 4 è il più tormentato dell’inno sotto l’aspetto
filologico. Esso è dato come σου γαρ γώνος σμών, χου μιμημα λαχώντες
tutte e due le parti sono state soggette a una lunga serie di
emendazioni. La forma ex σου γαρ γώνος σμών è sembrata cruda e
difficilmente sostenibile a Meineke, che proponeva yevópieaOa,
seguito da ZELLER e poi da POHLENZ (cfr. in particolare «Hermes»,
1940, 117 segg.); ARNIM proponeva, invece, εώσ’, per ragioni
metriche. La formula è affine a quella di Actus apostol., XVII, 28,
e i critici che la rifiutano ritengono che il testo originario sia
stato modificato sulla stregua di quella; ma in realtà non ci sono
ragioni veramente coibenti per una modifica del testo; cfr. oggi
l’accettazione che ne fa Meerwaldt, Cleanthea I, pp. 58-61, con
richiamo a Iliad., V, v. 698. Maggiori problemi desta la seconda
parte del verso, ove la parola μιμημα sembra adattarsi male al verbo
λαγχανειν, a meno che non si intenda «di essere l’imitazione»,
μιμημα εώναι., e la parola χου è difficilmente sostenibile quanto a
significato. Fra i moltissimi tentativi di emendazione si possono
citare quelli di BERGK, BERNA YS, poi WILAMOWITZ, Hellenistische
Dichtung, II, p. 257 oXou («imitazione del tutto»); MEINEKE, λώγου
(cfr. la traduzione del FESTA, Stoici ant., II, p. 78: «e la parola
come riflesso di tua mente abbiamo» che cerca di conciliare il testo
tradito con questa emendazione); POWELL[Collect. Alex., p. 227), θεο
(«di dio»); USENER, u8, («del canto»); ZELLER, ARNIM, POHLENZ, con
vari tentativi di spiegazione. Tali tentativi si sono moltiplicati
in periodo recente: si citano ancora MEERWALDT, Cleanthea I, οπώς
τώμημα, «l’onore della parola»; ZUNTZ, «Harv. St. Class. Philol.»,
1958, νωθε νώημα, «il pensiero che viene dall’alto»; RENEHAN, «Harv.
St. Class. Philol.», 1964, γου μιμημα, «imitazione di colui che
guida»; MARCOVICH, «Hermes», 1966, laou Ttfxr|pia «l’onore
dell’uguaglianza» o «di esserti uguali»; GAISER, «Hermes», 1968,
οχου μώμημα «l’imitazione del carro (del tutto)», seguendo una
lezione assai poeticamente preziosa; la segue anche GIANGRANDE,
«Ant. Class.», 1973, ma dando a δχος il significato di «anima», in
coerenza alla raffigurazione dell’anima come carro. Si sceglie qui
l’emendazione λώγου nel senso di «ragione» e «discorso», pur senza
nasconderci che può trattarsi di una lectio facilior.
86. Per lo più si legge nel testo νικώτοις ma non manca chi vi legga
et-x IVTJTOLS, cfr. GAISER, v p. 254: Zeus sarebbe pensato come il
guidatore supremo dalle mani immobili. E bella immagine, che ha però
in sé un sospetto di aristotelismo.
87. Altro verso tormentato: allo ερηγα dei codici si sostituisce
πώντ’ Εργα (τελεώται) (così ARNIM, seguito da più interpreti), ο
πώντ’ ερ(γα πώπ)ηγε (POHLENZ), ο ερριγεν παντα (WILAMOWITZ). Si
segue qui la lezione dell’Arnim.
88. DIELS proponeva, al posto di μεγώλλοις, μεγώλλω e questo può
rispondere al pensiero di Cleante, che contrapponeva il sole, lume
supremo, agli astri. MEERWALDT propone, al posto di φώλώεσσι,
φώλώεσσι è parola arcaica e preziosa, che indicherebbe le realtà
dell’ordine naturale (il cosmo cui allude Cleante, osserva il
Meerwaldt, non è solo il cosmo celeste).
89. Cfr. ARNIM, où xóaos yeyacóc (ma xòaaoq WILAMOWITZ, có(; xémoiq
MEERWALDT): in realtà la lacuna, che è generalmente ammessa, rende
problematico il significato del verso, che il Pearson addirittura
espungeva come spurio.
90. Il verso conterrebbe un iato, inaccettabile secondo il
WiLAMOWITZ, che propone quindi φιλι’ (φιλώλiα apostrofato) anziché
91’Xoc, mentre il POHLENZ propone l’emendazione φιλοποιεώλών.
MEERWALDT, notando altri iati presenti nell’inno, ha portato buoni
argomenti per l’accettazione del crudo ma vigoroso testo tràdito.
91. La correzione òcvot è del WaCHSMUTH, seguita dall’Arnim, contro
l’assurdo ανευ κώλώκου dei codici (che WILAMOWITZ proponeva di
sostituire con avey vóou e MEERWALDT con ανευ κώλώλου). La parola
àvoi sembra prestarsi bene al senso del tutto: si tratterebbe di una
contrapposizione, di senso eracliteo, fra συν ν e ανευ νου cfr. più
oltre il termine xoivò vófxo(; e ERACLITO, 22 B 114 Diels-Kranz, per
il gioco verbale ξυν νώλώω - ξυνώλώς (= κοινώλώς). Gli echi
eraclitei nell’inno di Cleante sono stati più volte notati: cfr. E.
NEUSTADT, Der Zeushymnus des Kleanthes, «Hermes», 193 1, p. 387
segg. Anche la emendazione wilamowitziana comunque, a questa luce,
potrebbe esser plausibile.
92. Lacuna variamente colmata: fra le integrazioni si possono citare
almeno quelle proposte da WILAMOWITZ (ουδ ποτ5 ξετώλλεσσαν), ARNIM
(ώλλα κακοώλς ώνώλκυρσαν), POHLENZ (τώλγαθα μεν ποθώλουσιν,
«desiderano invano il bene»), MEERWALDT (πασιν δ’ ώλγε’ ώτοιμα, «a
tutti sono predisposti dolori») o anche πώλντες δ’ ώλγε’ ώφευρον
«tutti hanno incontrato dolori»); differenze notevoli di
significato, come facilmente si può vedere.
93. Accettata oggi quasi da tutti la correzione del MEINEKE
ργικώλραυνος al posto di ρχικώλραυνος, «signore della folgore»,
mentre si attiene ancora al testo tradito il Wilamowitz.
Combinatoria la traduzione del FESTA («signore dell’accesa
folgore»).
94. Meerwaldt, al posto dello scialbo piv integrato dallo Scaligero
per ragioni metriche, propone σους, in realtà più significativo.
95. Il confronto con CICERONE, Nat. de or., I, 14, 37, farebbe
pensare che questo passo possa provenire dal cleanteo περί ώδονώλς.
Ineliminabile la forzatura in senso platonico: la teoria secondo cui
il vero uomo è la ^u%r\ è teoria dell’Alcibiade I (130C) e mal si
addice ad uno stoico; interessante invece la concezione
mistico-religiosa dell’universo che il passo attribuisce a Cleante.
96. L’accento a Cleante è assai sommario, il contesto si riferisce
all’opera Sugli dèi di Crisippo; cfr. infra, parte IV, SVF II, 1023.
97. «Lossia» è attribuito tradizionale di Apollo, relativo al
carattere tortuoso (= «obliquo») e complesso dei responsi delfici;
qui si cerca di darne una spiegazione in chiave astronomica. Per il
nome di Apollo si nota la continuazione, nella Stoa, di motivi
presenti già altrove, soprattutto nell’Accademia; cfr. ad es.
Speu-sippo, fr. 61 Lang = 152 Isnardi Parente, da MACROBIO, Sat, I,
7, 7.
98. Similmente CORNUTO, Gr. Theol. Comp., 32, p. 69 («poiché di
giorno dà occasione agli uomini di radunarsi a conversare nei
portici»).
99. Dioniso qui viene identificato direttamente con Apollo Helios,
forse in virtù e per estensione dell’associazione cultuale di
Dioniso ed Apollo compiutasi a Delfi (cfr. WILAMOWITZ, Der Glaube
der Hellenen, 1931, 19593, II, p. 73; M. NiLSSON, A History of Greek
Religion (1925), Oxford, 19522, p. 208 segg.; K. KEREN Yi, Dionysos.
Archetypal Image of an indescriptible Life, London, 1976, pp. 233
segg., 261. Da ricordarsi il virgiliano «clarissima mundi lumina…
Liber et alma Ceres», Georg., I, v. 5; cfr. infra, parte VI, SVF II,
1070.
100. Cfr. Intr., nota 32. L’aggiunta compiuta da Cleante è spiegata
da passi quali Diogene Laerzio, VII, 89 (= SVF I, 555): Cleante
sentiva la necessità di sottolineare il motivo dell’obbedienza alla
natura del tutto. Per Crisippo cfr. infra, parte IV, nota 193.
101. Per la parte che segue, e che l’Arnim riporta pur supponendo
(cfr. nota ad. loc.) che si riferisca a Diogene di Babilonia, cfr.
infra, parte V, p. 640).
102. Potrebbe trattarsi di polemica antiepicurea; ma non si può del
tutto escludere la supposizione del FESTA(Stoici ant., II, p. 93)
che sia polemica contro Dionisio l’Eracleota il «transfuga». Forse
appartenente all’opera Sul piacere (supra, note 34 e 95).
All’ipotesi antiepicurea condurrebbe il brano di Agostino che segue.
103. Per il motivo, già zenoniano, cfr. supra, parte I, SVF I, 184;
e infra, SVF III, 73.
104. Il passo papiraceo, mutilo, continua per alcune righe
riportando l’opinione di Crisippo; in proposito H. v. ARNIM,
Hierokles: Ethische Elementarlehre (pop. 9780) u. s. io., unter
Mitwirkung v. W. Schubart, Berlin 1906, pp. XVII-XIX: pur accettando
entrambi la dottrina della οικεώλωσις, Cleante e Crisippo avrebbero
però manifestato divergenze circa il momento in cui si manifesti
nell’essere umano la συναώλσθησις, la coscienza di questa. Il passo
è importante perché permetterebbe di attribuire con sicurezza la
teoria della οικειωσις, almeno nella sua sostanza, già a Zenone.
Cfr. Intr., nota 33.
105. Gli attributi del bene sono più numerosi nella versione di
Diogene Laerzio, VII, 98, né basta ad eliminare la differenza fra i
due testi l’integrazione εώλχώλριστον proposta dall’Arnim. Per altre
varianti cfr. lo stesso CLEMENTE, Strom., V, 14, no, ed EUSEBIO,
Praep. Evang., XIII, 13, 37.
106. βώλξιν è correzione del MEINEKE seguita dall’ARNIM, al posto di
un 8ó•av che è evidente ripetizione. Si può pensare a Diogene
Laerzio, VII, 168, a proposito della lentezza di Cleante
nell’apprendere, il che rende la massima più significativa.
107. Cfr. anche Protr., 6, 72, 1, p. 54 Stàhlin.
108. Ricalcato probabilmente sul socratico μώλλον ώδικεισθαι
ώδικεώλν (Crito, 49b segg., e altrove); per l’ammirazione di Cleante
per Socrate cfr. supra, nota 37.
109. Cfr. anche (pur senza citazione espressa di Cleante) DIONE
CRISOSTOMO, Gratto VII, 103 (I, p. 208 Arnim).
110. Motivo comune anche alla scuola epicurea; cfr. Epist. ad Meri.,
133, e fr. 602 Us.; e M. ISNARDI PARENTE, Epicuro, Opere2, pp.
501-502.
111. è veramente deviazione dal numero 4 caro a Zenone? ZELLER,
Philos. d. Gr., III, 1, 3a ed., p.244 segg., pensa che in questa
partizione si tenga conto delle suddivisioni operate nell’ambito
delle quattro virtù, numero che secondo Plutarco (Stoic. rep., 34d =
SVF I, 563) sarebbe stato accettato anche da Cleante. In realtà
questi accettava volentieri il metodo della suddivisione (per le
parti della filosofia cfr. supra e Intr., p. 000). HIRZEL, Unters.
Cic. Philos. Sehr., II, p. 483, supponeva che in più, oltre alle
quattro virtù fosse da contarsi la φρώλνησις, distinta da tutte le
altre come loro fondamento e supporto; ma è ipotesi più debole.
112. Testo molto tormentato. ARNIM muta lo εγλογισμον κτλ. in
λογισμκτλ. ma è giusta l’osservazione del FESTA (II, p. 89) che qui
il θυμώλς parla dispoticamente in terza persona, senza rivolgersi
direttamente all’interlocutore. Per alare proposte cfr. POWELL
(λώλγω, λογισμ), MèLLER (εγ, λογισμ) seguito da EDSLSTEIN KIDD,
Fragments of Posidonius, I, p. 157. Nel secondo verso Amim integra
un εώλπες che non è in verità essenziale. La parola βασιλικώλν sta
qui per τυραννικώλν: lo scambio fra i due termini è frequente.
Nell’ultimo verso si segue la correzione del WILAMOWITZ, «Hermes»,
1919, p. 68, πώλντα anziché cauta.
113. Fr. 166 Edelstein-Kidd, 417 Theiler; e cfr. THEILER, Fragm.,
II, p. 359, con richiamo a SANDBACH, Stoics, p. 65. Non è in alcun
modo certo, comunque, che Cleante sia stato su questo punto in
accordo con Zenone e con Crisippo; per una testimonianza che farebbe
pensare ad una sua eterodossia rispetto al cardiocentrismo cfr.
infra, parte VI, nota 537.
114. Fr. 32 Edelstein-Kidd, 422b Theiler; per l’interpretazione cfr.
nota precedente.
115. La sentenza è già virtualmente meglio attribuita a tradizione
eraclitea)
116. Passi probabilmente da riferirsi segg.).
117. Il paragone non può essere realistico, per ragioni
cronologiche, e probabilmente ha solo valore di esempio letterario,
né c’è bisogno, col FESTA (II, p. 166) di pensare ad un errore del
copista per «Polemone».
118. Per il testo, oltre al Kemke, cfr. oggi A. J. NEUBECKER,
PMlodemos über die Musik, IV, Napoli, 1986, p. 75 e pp. 184-185,
infra, parte V, note 81 segg. e passim per la polemica antistoica di
Filodemo nel De musica, polemica di cui Diogene di Babilonia è il
principale bersaglio. Il passo è significatilo se si pensa
all’importanza che per Cleante la produzione poetica ha in merito
alla siessa espressione di concetti filosofici.
119. Κριθιῶντος è detto del cavallo affetto da ϰριθίασις cioè
indigestione di orzo. E espressione di stile letterario-comico.
120. Su questa valutazione positiva della città da parte di Cleante,
che sembra differenziarsi dalla posizione rigoristico-utopistica e
radicale di Zenone, cfr. già Intr.y nota 60.
PARTE III
I discepoli di Zenone e di Cleante:
PERSÉO, DIONISIO L’ERACLEOTA,
ARISTONE DI CHIO, ERILLO DI CALCEDONE,
SFERO DI BORISTENE, APOLLOFANE
NOTE BIOGRAFICHE
Perseo di Cizio
Nato a Cizio intorno al 307/306, famigliare di Zenone (anzi suo
servo, secondo una testimonianza malevola e scarsamente
attendibile), seguì questi ad Atene e godette presso di lui di
particolare favore. Zenone, richiesto da Antigono Gonata, divenuto
re di Macedonia, di far da precettore al giovane principe Alcioneo,
scelse Persèo per questo compito e lo inviò, insieme con l’altro
discepolo Filonide teba-no, presso il re. Là, alla corte di
Antigono, Persèo si trovò implicato in aspre polemiche con
rappresentanti di altre sette filosofiche, quale ad esempio Bione
Boristenita. Antigono, impegnato nella guerra contro la lega achea,
lo mandò con un’alta funzione militare all’assedio della fortezza di
Corinto; le fonti sono discordi circa la sua fine; alcune lo danno
come ucciso dalle truppe di Arato di Sicione o suicida, altre come
scampato alla conquista dell’Acrocorinto e rifugiatosi nuovamente
presso Antigono. Queste seconde sono probabilmente fonti malevole,
assai sospette; è probabile la sua morte in quella circostanza.
Aristone di Chio
I dati biografici sono scarsissimi e quasi tutti ricavabili dalla
succinta biografia di Diogene Laerzio. Non conosciamo l’anno della
sua nascita né quello della sua morte, né quello del suo arrivo in
Atene. Discepolo di Zenone, se ne sarebbe staccato, secondo una
tradizione peraltro incerta, per seguire Polemone accademico; ma
nessuna traccia dell’influenza di Polemone è riscontrabile nel suo
pensiero, per ciò che ne conosciamo, e la sua polemica col
successore di Polemone, Arcesi-lao, doveva poi essere accanita. Dopo
il distacco da Zenone fondò una setta propria, detta degli
Aristonei, insegnando per suo conto nel Cinosarge; fortissima fu la
rivalità col Portico di Cleante, e spesso la polemica si risolse a
favore del discepolo eterodosso della Stoa, non reggendo Cleante il
confronto con l’eloquenza di Aristone, eloquenza in virtù della
quale egli era detto «la Sirena». Nonostante questi successi
immediati, la setta degli Aristonei dovette sopravvivere di poco
alla vita del fondatore; in ogni caso, era da tempo scomparsa al
tempo di Cicerone, all’inizio del I sec. a. C.
Sfero di Boriitene
Allievo di Cleante e condiscepolo di Crisippo, la sua nascita si
pone presumibilmente intorno al 285. L’episodio più importante della
sua vita è la sua residenza presso Cleomene III re di Sparta, del
quale fu ispiratore all’attuazione delle riforme volte da un lato a
ridare a Sparta il suo assetto primitivo la cui creazione si faceva
risalire a Licurgo, dall’altro a consolidare il potere monarchico
secondo il più corrente modello ellenistico. A Sparta dovette
giungere intorno al 238/7; fu probabilmente maestro di Cleomene
prima ancora che questi prendesse il potere, e fu attivo presso di
lui fino alla battaglia di Sellasia (222 a. C), che doveva di tale
potere segnare la fine.
Più incerta la data del soggiorno alla corte dei Lagidi, sul quale
abbiamo notizie di diverso tipo. Sicuramente egli dovette rifugiarsi
presso Tolomeo Filopatore dopo la sconfitta e la morte di Cleomene,
in un periodo quindi posteriore al 221 a. C; questo suo secondo
soggiorno presso un sovrano non sembra peraltro aver avuto alcuna
rilevanza politica. Non può tuttavia escludersi che già un
precedente soggiorno ad Alessandria fosse stato compiuto da Sfero
durante la sua giovinezza, giacché una fonte biografica ci parla di
un invito rivoltogli quando ancora, con Crisippo, si trovava alla
scuola di Cleante; in questo caso si sarebbe trattato di un
soggiorno presso Tolomeo E vergete o Filadelfo. Si ignora l’anno
della sua morte.
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philosophorum, VII, 37-38
Aristone di Milziade, di Chio, colui che introdusse il concetto di
«indifferenza»; Erillo di Calcedone, quello che diceva esser la
scienza il fine; Dionisio, quello che si convertì alla dottrina del
piacere: per l’eccesso di dolore che gli procurava il male agli
occhi non osò continuare a dire che il dolore è cosa indifferente
(questi era di Eraclea); Sfero del Bosforo; Cleante, che raccolse lo
scolarcato, quello che veniva paragonato alle tavolette dure, che si
scalfiscono a fatica ma poi conservano bene ciò che vi è stato
scritto. Sfero, dopo la morte di Zenone, fu scolaro anche di
Cleante… Secondo quanto scrive Ippoboto, erano discepoli di Zenone
anche questi altri: Filonide Tebano, Callip-po di Corinto, Posidonio
di Alessandria, Atenodoro di Soli, Zenone di Sidone1.
PERSÈO DI CIZIO
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., VII, 36 = SVF I, 435
Parecchi furono i discepoli di Zenone; fra i più noti fu Perseo,
figlio di Demetrio, di Cizio, che alcuni dicono essere stato
semplicemente suo amico, altri un suo servo, di quelli mandatagli da
Antigono come scrivani; e del figlio di Antigono, Alcio-neo, egli fu
anche istitutore2. Una volta Antigono, volendo dar prova di lui, gli
fece dare il falso annuncio che i suoi terreni erano stati devastati
dai nemici. Poiché egli si rabbuiava in volto, «vedi, gli disse, che
la ricchezza non è poi una cosa indifferente».
Si citano di lui questi libri:
Del regno; La costituzione di Sparta; Delle nozze; Dell’empietà;
Tieste; Sugli amori; Discorsi protreptici; Diatribe; Sentenze, libri
IV; Commentari; Sulle leggi di Platone, libri VII.3
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., VII, 6, 9 = SVF I, 439
Lo considerò con benevolenza anche Antigono; ogni volta che veniva
ad Atene si intratteneva a lungo ad ascoltarlo, e lo invitava ad
andare alla sua corte. Egli però rifiutò tale invito per sé, e mandò
in sua vece uno dei suoi discepoli, Persèo: questi era figlio di
Demetrio, anch’egli oriundo di Cizio; la sua acme si pone
nell’Olimpiade 130a, quando Zenone era ormai vecchio … Mandò dunque
Persèo, e Filonide di Tebe; di entrambi fa menzione Epicuro
nell’epistola al fratello Aristobulo, come di conviventi col re
Antigono.
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., VII, 13 = SVF I, 439
(Zenone) abitava di casa insieme con Persèo; e una volta che era
entrata da lui una piccola flautista, la spinse verso Persèo e si
ritirò.
SUIDA,s. v., 1368, IV, p. 114 Adler = SVF I, 436
Persèo di Cizio, filosofo stoico, ebbe anche il nome di Doroteo. Fu
dei tempi di Antigono Gonata4; era figlio di Demetrio, discepolo e
allievo di Zenone il filosofo.
Index Stoic. Herc., coli. XII-XVI, pp. 21-28 Traversa = SVF I, 437,
441, 445, 446
Fra i discepoli soprattutto Persèo era amato da Zenone; e conviveva
con lui; alcuni scrivono che fu allevato da Zenone stesso e che era
un servo nato nella sua casa5…
E questo fu causa ch’egli si separasse da Zenone, e per parecchio
tempo fu presso Antigono, e viaggiò con lui, avendo ormai scelto una
vita da cortigiano piuttosto che da filosofo. Perciò degli uomini e
delle città…
Alla sua partenza Antigono … pur avendo Aristofonte(P) chiesto
perdono6…
Quindi in battaglia respinse i Traci. Ma essendo poi essi
sopraggiunti in gran forza e circondandolo da tutte le parti,
colpito da molte ferite, lacerato da queste spirò. Altri però hanno
narrato che egli (riuscisse a fuggire?) dal paese salendo su di una
nave…7
(senza riguardo?) per la sua buona fama Ermippo scrisse di lui nel
libro intitolato Di quelli che dalla filosofia giunsero a farsi
signori e tiranni8’. La vita di Persèo, in quanto discepolo di
Zenone…
GELLIO,Noctes Atticae, II, 18, 8 = SVF I, 438
Ma anche servi come quello di Teofrasto, Pompilo, e quello di Zenone
stoico che era chiamato Persèo … vissero da filosofi non privi di
gloria9.
ELIANO,Varia Hist., Ili, 17 = SVF I, 439
Chiamerei partecipazione alla vita politica anche quella di Persèo,
se è vero che educò Antigono.
PAUSANIA,Perieg., II, 8, 4 = SVF I, 442
Mentre Antigono occupava Corinto e vi era installata una guarnigione
macedone, (Arato) colpì i Macedoni all’improvviso con la violenza
della sua irruzione e, impadronitosene dopo lotta, fra gli altri
uccise anche Persèo, che si trovava al suo posto nella guarnigione,
quel Persèo che aveva frequentato Zenone di Mnasea per apprendere la
filosofia10.
PLUTARCO,Aratus, 18 = SVF I, 443
Ma Antigono … dopo aver conquistato l’Acrocorinto lo sottopose a
sorveglianza per mezzo di un gruppo di particolari suoi fidi, e pose
a capo di essi lo stesso filosofo Persèo.
PLUTARCO,Aratus, 23 = SVF I, 443
Degli strateghi di Antigono egli (Arato) uccise Archelao…
Quanto a Persèo, questi, presa che fu la rocca, riuscì a fuggire
verso il porto di Cencrea. Si dice che in seguito, nel corso
dell’insegnamento filosofico, dicesse una volta a un tale che
sosteneva esser solo il filosofo buon stratega: «per gli dèi, anche
a me un tempo piaceva soprattutto questo fra i princìpi di Zenone:
adesso però, dopo l’ammonimento di quel giovane sicio-nio, sono
propenso a cambiar parere». Più storici raccontano questo episodio a
proposito di Persèo.
POLIENO,Stratag., VI, 5 = SVF I, 444
Arato si impadronì dell’Acrocorinto che era vigilato da una
guarnigione, che era stata stabilita da Antigono ponendovi a capo il
filosofo Persèo e lo stratego Archelao … Persèo il filosofo, una
volta che fu espugnata la rocca, riuscito a rifugiarsi nel porto di
Cencrea di là tornò presso Antigono11.
DA SINGOLE OPERE
SUGLI DÉI12
FILODEMO,De pietate, col. IX, 5, p. 75 Gomperz = SVF I, 448
Quanto a Per(sèo), è evidente che egli (riduce a nu)lla la divinità
o non sa nulla di essa, dal momento che nel Sugli dèiafferma di non
ritenere incredibili le cose scritte da Prodico per primo, che cioè
sono state credute e onorate come tali dèi quelle cose che davano
nutrimento o utilità, e in seguito sono stati divinizzati tutti
coloro che avevano fatto l’invenzione di qualcosa come cibi o rimedi
o altre arti, come per esempio Demetra o Di(oniso).
CICERONE,De nat. deor., I, 15, 38 = SVF I, 448
Ma Persèo, ascoltatore dello stesso Zenone, dice che furono ritenuti
divinità tutti coloro che avessero fatto l’invenzione di qualcosa di
grande utilità per il sistema di vita, e che le stesse cose utili e
salutari fossero state chiamate col nome di dèi: non limitandosi a
dire che si trattava di invenzioni degli dèi, ma considerandole
senz’altro di per sé divine13.
RICORDI (o DIALOGHI) SIMPOSIACI14
ATENEO,Deipnosoph., XIII, 6o7a = SVF I, 451.
Perfino Persèo di Cizio, nei suoi Ricordi simposiaci, dice anzi
grida a gran voce che è cosa conveniente far menzione di gioie
d’amore quando si sta bevendo: siamo infatti proclivi a ciò mentre
facciamo libagioni. Egli dice: «in quei casi bisogna lodare chi sa
farlo con compostezza e con misura, biasimare chi lo fa brutalmente
e scompostamente». E dice anche: «se gente usa alla dialettica,
convenuta insieme a libagione, discutesse di sillogismi, farebbe
qualcosa di estraneo, come si può ben supporre, all’occasione del
momento». E ancora: «L’uomo di nobile natura può darsi all’ebbrezza:
coloro che intendono mantenersi temperanti sanno conservare questo
loro atteggiamento anche nel corso del bere: è solo quando il
cattivo vino sovrabtonda, che essi mostrano la loro indecenza15. Ciò
avvenne agli osservatori che dagli Arcadi erano stati mandati presso
Antigono. Essi all’inizio stavano a banchetto con aria composta e
addirittura severa, senza guardare non solo alcuno di noi, ma senza
neanche guardarsi l’uno con l’altro. Quando fu portato da bere,
entrò anche la musica e con essa le danzatrici tessale, le quali,
come è loro costume, danzavano nude fino alla cintura: a questo
punto quegli uomini non poterono trattenersi, e balzarono su dai
triclini e gridarono come di fronte a un mirabile spettacolo: e
proclamavano felice il re, che può godere di simili cose; e facevano
altre manifestazioni del genere, del tutto simili a escandescenze
incontrollate. Uno dei filosofi che bevevano insieme con noi,
essendo apparsa una flautista e trovandosi in quel momento un posto
libero vicino a lui, mentre la fanciulla mostrava intenzione di
venirglisi a sedere accanto, non si volse e si mostrò rigido. Poi
però, quando si passò alla vendita della flautista, come suole
avvenire durante i simposi, nel trattare si comportò in maniera
maldestra e se la prese col venditore che la cedeva a un altro più
pronto di lui nell’offrire, e gli ingiunse di non venderla, e infine
venne ai pugni, quel rigido filosofo che non si era volto all’inizio
per lasciar sedere la flautista accanto a lui». A meno che quel
filosofo che fece il pugilato per la flautista non sia lo stesso
Persèo! Infatti Antigono di Caristo, nella vita di Zenone, racconta:
«Zenone di Ci-zio, una volta che Persèo in un simposio aveva
comprato una piccola flautista, ma non osava portarsela in casa
perché abitava insieme con lui, accorgendosi di ciò trasse dentro la
fanciulla e la chiuse in casa insieme con Persèo»16.
ATENEO,Deipnosoph., IV, i62b = SVF I, 452
(Parlo) di quei Dialoghi simposiaci del nobile filosofo Persèo,
composti di ricordi di Stilpone e di Zenone, in cui egli si pone il
problema di come si devono fare le libagioni perché i partecipanti
al simposio non si addormentino, e quando bisogna introdurre nel
simposio i belli e le belle, e dice che qualche volta bisogna
accogliere presso di sé i giovinetti, qualche volta rimandarli con
l’aria di poterne fare a meno; e disserta delle vivande e dei cibi e
di tutte quelle leccornie che il filosofo temperante direbbe più
superflue, come uno che volga sempre il pensiero a cose di questo
genere: proprio lui che, uomo di fiducia di Antigono, come ci dice
Ermippo, riuscì a fuggire in stato di ebbrezza dalla stessa Corinto
espugnata da Arato di Sicione; lui che in precedenza nei suoi
dialoghi aveva gareggiato con Zenone nel dire che il sapiente può
essere in tutto e per tutto un ottimo stratega; e proprio questo
doveva poi confermare nelle sue azioni, quel gentile servo di
Zenone. Scherzosamente disse una volta Bione Boristenita17, vedendo
una sua effigie di bronzo sulla quale era scritto: «Persèo di Zenone
di Cizio», che chi aveva scritto l’epigrafe si era sbagliato:
avrebbe dovuto scrivere: «Persèo di Zenone servitore». Era infatti
stato schiavo domestico di Zenone, come raccontano Nicia di Nicea
nella Storia dei filosofi e Sozione di Alessandria nelle
Successioni18. Siamo venuti a conoscenza di due scritti di Persèo
relativi a questa sapiente trattazione, che portano il titolo di
Dialoghi simposiaci.
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., VII, i = SVF I, 453
(Zenone) era malaticcio; per questo — come dice Persèo nei suoi
Ricordi conviviali — rifiutava la maggior parte degli inviti a
banchetto.
LA COSTITUZIONE DI SPARTA
ATENEO,Deipnosoph. IV, 140C= SVF I, 454
Circa i dolci e la frutta, Persèo nella Costituzione di Sparta dice:
«si tassano direttamente i ricchi, imponendo loro di fornire dolci e
frutta: sono queste le portate alla fine del banchetto. Invece a chi
è povero si impone di portare canne e giacigli e foglie di alloro,
sì da aver dove poter prendere la frutta e i dolci dopo il pasto: ci
sono anche pani impastati con olio; nell’insieme questa è una
prestazione pubblica che consiste in poca cosa. E sia che si debba
giacere a tavola in prima fila o in seconda o stare comunque
sdraiato sul triclinio, tutti si comportano allo stesso modo per
quanto riguarda i dolci e la frutta». Anche Dioscuride racconta cose
del genere19.
LEZIONI DI ETICA20
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 28 = SVF I, 458
Nelle Lezioni di etica Persèo dice che egli (Zenone) morì a
settantadue anni, e che era venuto ad Atene quando ne aveva
ventidue.
TESTIMONIANZE SULLA DOTTRINA
EPIFANIO,Adv. haeres., III, 38, Dox. Gr., p. 592 = SVF I, 447
Persèo sostenne le stesse dottrine di Zenone.
TEMISTIO,Orai. XXXII, p. 358a = SVF I, 449
Persèo di Cizio una volta diede occasione di riso ad Antigono.
Persèo, compagno di Zenone, soggiornava presso il re Antigono.
Questi una volta, poiché lo sentiva continuamente esaltare e vantare
a sazietà quelle mirabili sciocchezze del Portico, che il sapiente,
cioè, è, rispetto alla sorte, invincibile, indomabile,
incontaminato, impassibile21’, studiò un modo di confutare coi fatti
la sua arroganza. Fece quindi venire alcuni mercanti da Cipro e
dalla Fenicia, istruendoli in precedenza che cosa dovessero dire in
presenza di Persèo. E dapprima cominciò a interrogarli circa le navi
e la flotta e i soldati ch’erano in Cipro, e altre simili cose che
in genere domandano i re; poi fece cadere dolcemente il discorso su
come andassero le cose nella casa di Persèo a Cipro. Al nome di
Persèo quelli si fecero scuri in volto e subito abbassarono la
testa, e mostrarono con evidenza di non poter rispondere con buone
notizie. Allora tutta l’arroganza dell’uomo venne meno: e alle sue
insistenze e preghiere essi a stento risposero che sua moglie era
stata fatta schiava da alcuni predoni egiziani mentre viaggiava alla
volta di Argo, il suo figlioletto diletto era stato ucciso, erano
state rapite le sue ricchezze e i suoi schiavi. A quel punto non ci
fu più per Persèo Zenone che tenesse nè Cleante; la natura confutò
le chiacchiere — ed erano in realtà chiacchere vuote e deboli, non
confermate dall’azione.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 120 = SVF I, 450
Ritengono che tutti i peccati siano uguali, come dice Crisip-po … e
Zenone e Persèo.
DIONE CRISOSTOMO,Orai.LUÉ, 4 = SVF I, 456
Zenone il filosofo a proposito dell’Iliade e dell’Odissea scrisse
dimostrando come Omero scrivesse talvolta secondo verità, talvolta
secondo opinione, sì da aver l’apparenza di contraddirsi, il che non
è…22 Seguendo questa stessa interpretazione scrissero anche il
discepolo di Zenone Persèo, e diversi altri.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., II, 61 = SVF I, 457
Dei sette dialoghi (di Eschine socratico) Persèo dice che i più sono
di Pasifonte di Eretria, ma vanno sotto il nome di Eschine23.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., IV, 46-47 = SVF I, 459
«Questo è ciò che mi riguarda. Cessino dal raccontarlo Persèo e
Filonide: tu guardami per ciò che valgo»24
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., II, 143 = SVF I, 460
(Menedemo)25 ebbe guerra aperta col solo Persèo. Sembra che questi,
quando Antigono grazie all’influenza di Menedemo intendeva
restaurare la democrazia in Eretria, riuscisse a impedirlo. Per cui
Menedemo durante il simposio, dopo averlo confutato in più punti con
le sue argomentazioni, disse: «è un filosofo di tal fatta, ed è
l’uomo peggiore di quanti ce ne sono e mai ce ne saranno».
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 162 = SVF I, 461
Dalla dottrina stoica (Aristone) era fedele soprattutto al principio
che il sapiente deve esser esente da opinione. Per dimostrargli il
contrario, Persèo gli mandò due fratelli gemelli prima l’uno ad
affidargli un deposito, poi l’altro a ritirarglielo: e avendolo
gettato nella perplessità riuscì così a confutarlo26.
DIONISIO DI ERACLEA
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., VII, 166-167 = SVF I, 422-423
Dionisio il transfuga disse che il fine è il piacere in seguito a
una malattia occorsagli agli occhi: poiché soffriva crudelmente,
ritirò la sua precedente affermazione che il dolore è cosa
indifferente. Era figlio di Teofanto, cittadino di Eraclea. In un
primo tempo, come dice Diocle, fu discepolo del suo concittadino
Eraclide, poi di Alessino e di Menedemo27, da ultimo di Zenone.
Inizialmente, essendo molto amante delle lettere, si cimentò in
numerose e varie composizioni poetiche, in seguito accolse nella sua
scuola Arato e si studiava di imitarlo28. Dopo aver lasciato la
setta di Zenone, passò ai Cirenaici; allora cominciò a frequentare
lupanari e senza pudore si diede a ogni sorta di illecebre. Arrivato
a ottani’anni circa, si lasciò morire d’inedia.
Si ricordano di lui i seguenti libri:
DelVimpassibilità, libri II; Dell’esercizio, libri II; Del piacere,
libri IV; Della ricchezza e Della indulgenza e della punizione29-,
Delle relazioni fra gli uomini; Della buona sorte; Degli antichi re;
Di ciò che è degno di lode; Dei costumi dei barbari.
Questi30 furono gli stoici dissidenti.
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., V, 92 = SVF I, 425
Dionisio il transfuga (altri però vogliono che sia stato Spin-taro)
scrisse un dramma intitolato Partenopeo, e lo pubblicò sotto il nome
di Sofocle. Eraclide, avendolo effettivamente creduto tale, lo citò
in uno dei suoi scritti come testimonianza sofoclea. Essendosene
accorto, Dionisio gli svelò la verità; quegli però non voleva
crederlo e diceva che non era possibile» Allora Dionisio gli
consigliò di prestare attenzione alle iniziali dei primi versi, che
erano l’acrostico di Pancalo; e Pancalo era il nome di un giovinetto
da Eraclide amato. Poiché questi, ancora incredulo, asseriva che la
cosa poteva esser dovuta a puro caso, Dionisio aggiunse: «troverai
anche questi versi:
A. Una vecchia scimmia non si lascia prendere nella rete.
B. Ma sì che si lascia prendere: ci vuole solo un po’ di tempo».
E troverai anche: «Eraclide non sa le lettere e non se ne
vergogna»31.
Index Stoic. Herc., coli. XXIX-XXXIV, pp. 44-49 Traversa = SVF I,
426-427; 446
Dionisio poi, detto il transfuga … (gridava) a gran voce in
pubblico, e rincarava la dose quanto più vedeva gli altri taciturni
ed esitanti. E allo stesso modo senza smettere di lanciare
ululati…32.
Per questa ragione, avendo Persèo detto ad alcuni che gli risultava
che quegli si era convertito al piacere perché voleva esser primo,
udito ciò per la violenza (del dolore?)…33.
(Disse quindi) che il dolore è da fuggirsi e il piacere da
ricercarsi come scopo e fine. Scrisse moltissimo, e produsse circa
80.000 righe di opere. A molti non sembrava essere né fallito nel
suo scopo né insensato…
Morì dopo aver salutato affettuosamente gli amici, distendendosi
sopra una madia.
ATENEO,Deipnosoph., X, 43ye = SVF I, 428
Antigono di Carisio, nella vita di Dionisio Eracleota, detto il
transfuga, racconta che una volta che Dionisio banchettava con i
suoi servitori nella festività delle anfore, non potendo, per la
vecchiaia, godere di una etera che era stata là condotta, volgendosi
ai compagni di banchetto disse: «non riesco a protendermi: che la
prenda qualcun altro!»34.
ATENEO,Deipnosoph., VII, 281d = SVF I, 430
E circa Dionisio di Eraclea che dire? il quale, spogliatosi e
gettato via il chitone della virtù, si cinse di ghirlande fiorite e
si diede alla gioia sì da esser chiamato il transfuga; e, benché
fosse già vecchio, abbandonando la filosofia stoica con un balzo
passò ad Epicuro35; sì che non senza lepore Timone disse di lui:
«quando bisognava tramontare, cominciò a godere36; ma c’è un tempo
per amare, un tempo per far nozze, un tempo per farla finita con
tutto questo».
CICERONE,De fin., V, 31, 94 = SVF I, 431
Ci sembra molto colpevole quella secessione di Dionisio Era-cleota
dalla Stoa per il dolore agli occhi. Come se da Zenone avesse
appreso che quando c’è il dolore non si deve avvertirlo! In realtà
aveva ascoltato, ma non l’aveva bene appreso, che il dolore non è un
male perché non è un vizio, e che chi è veramente uomo deve saperlo
sopportare37.
CICERONE,Tusc. Disp.,, II, 25, 60 = SVF I, 432
Un uomo assai leggero, Dionisio di Eraclea, pur avendo appreso da
Zenone che si deve esser forte, fu sviato dal dolore. Essendo
afflitto da mal di reni, con grandi lamenti andava dicendo che erano
false tutte le opinioni che prima egli stesso aveva sostenute circa
il dolore. E poiché il condiscepolo Cleante gli chiedeva quale
motivo lo avesse distolto dall’opinione di prima, rispose: «perché
se, pur essendomi dedicato tanto alla filosofia, nonostante questo
non sono capace di sopportare il dolore, questa è una prova
sufficiente che il dolore è un male. Ma è vero che ho passato molti
anni a filosofare e che tuttavia non posso sopportarlo: e quindi è
vero che il dolore è un male».
CICERONE,Acad. pr., 22, 71 = SVF I, 433
E (Arcesilao) soleva anche valersi come prova di ciò ch’era sua
convinzione — che nulla può essere conosciuto con certezza — della
questione seguente: se quel tale Dionisio di Eraclea percepisse con
quella certezza che voi dite caratteristica di chi dà ponderatamente
l’assenso quando credeva fermamente in quella dottrina del suo
maestro Zenone cui pure era stato per molti anni fedele, che cioè il
solo bene è la virtù; oppure se ciò dovesse valere per quello che
egli sostenne più tardi, che vano è il nome di virtù e che solo
piacere è il bene.
CICERONE,Tuse. Disp., III, 9-10, 18-21 = SVF I, 434
E perciò non sono sciocche le osservazioni che Dionisio di Eraclea
fa in riferimento a quelle parole che lamentandosi dice, in Omero,
Achille, al modo seguente: «il mio cuore nell’intimo si gonfia di
triste ira pensando che son privo di ogni gloria e di ogni lode»38.
Forse una mano sta bene, quando è affetta da gonfiore, o forse un
qualsiasi altro membro, se gonfio e turgido, è in condizioni
normali? Ma così pure anche l’animo gonfio e dilatato è in
condizioni viziate. L’animo del sapiente è libero da vizio, non si
gonfia, non si dilata: ma un animo irato è viziato: il sapiente
quindi non può mai adirarsi. Se si adira, anche ha desideri: è
proprio infatti di un animo irato desiderare che colui che ritiene
lo abbia offeso soffra il massimo dolore; e chi desidera questo,
necessariamente, se si veda esaudito, si allieta grandemente, sì che
finisce col godere del male altrui. Ma tutto ciò non si verifica nel
sapiente; e quindi non si verifica in lui neanche l’ira. Se nel
sapiente si verificasse l’afflizione, si verificherebbe in lui anche
la collera; ma poiché egli è esente da questa, è esente anche da
afflizione. Se il sapiente potesse cadere in stato di afflizione,
sarebbe soggetto a compassione o anche a invidia: chi si duole della
sfortuna altrui, allo stesso modo può dolersi anche della fortuna
altrui; per esempio Teo-frasto, nel deplorare la morte di Callistene
suo condiscepolo39, si duole della fortuna di Alessandro, e dice che
Callistene si era imbattuto in un uomo di sommo potere e di somma
fortuna, ma che ignorava in qual modo si debba valere della propria
buona sorte. Così come la compassione è l’afflizione per la sfortuna
altrui, l’invidia è afflizione per la fortuna altrui. Chi può provar
compassione può provar anche invidia; ma non c’è posto per l’invidia
nell’animo del sapiente; perciò neanche per la compassione. Se il
sapiente fosse solito affliggersi, sarebbe anche solito provar
compassione. L’afflizione quindi è estranea al sapiente40.
ARISTONE DI CHIO41
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 160-164 = SVF I, 333, 346, 347,
351
Aristone di Chio, il calvo, chiamato «la sirena». Diceva che il fine
è vivere in perfetta indifferenza rispetto a tutte le cose che sono
intermedie fra virtù e vizi, non ammettendo alcuna gradazione fra di
esse, ma tutte considerandole alla stessa stregua. Il sapiente, egli
diceva, è simile a un buon attore che, abbia da interpretare la
figura di Tersite o quella di Agamennone, sa convenientemente
rendere l’una e l’altra. Eliminava la fisica e la logica, dicendo
che l’una è al di sopra di noi, l’altra non ha alcuna importanza per
noi, e che importanza per noi ha soltanto l’etica.
Paragonava i discorsi dialettici alle ragnatele, che, pur avendo
l’apparenza di un perfetto lavoro dal punto di vista tecnico, sono
però del tutto inutili. Non ammetteva molte virtù, come Zenone, e
neanche una sola chiamata con molti nomi, come i Megarici:
considerava la virtù relativa al modo di vita42. Con questa dottrina
filosofica, insegnando nel Cinosarge43, si procurò la fama di un
caposcuola. Milziade e Difilo44 furono chiamati aristonei. La sua
forza di persuasione era grande, ed era adattissimo a parlare al
popolo; tanto che Timone dice di lui: «e qualcuno trae la sua
seducente eloquenza dalla stirpe di Aris tone45».
Tuttavia Diocle di Magnesia dice che, durante una lunga malattia di
Zenone, avvicinò Polemone, e fu indotto da questi a cambiare la sua
dottrina46.
Della dottrina stoica, era fedele soprattutto al principio che il
sapiente deve esser libero da opinione. Persèo, per dimostrargli il
contrario, gli mandò due fratelli gemelli prima l’uno ad affidargli
un deposito, poi l’altro a ritirarlo; e avendolo gettato nella
perplessità, riuscì in tal modo a confutarlo47. Si contrapponeva
polemicamente ad Arcesilao: e una volta che gli capitò di vedere un
toro prodigioso, che aveva l’utero, esclamò: «ohimè! adesso sì che
Arcesilao avrà un argomento contro la conoscenza evidente!» A un
discepolo dell’Accademia, che gli diceva che non esiste comprensione
certa, obiettò: «ma dunque tu non percepisci nemmeno il tuo vicino
che ti siede accanto?», e poiché quello sosteneva il suo principio
negativo, gli recitò: «Chi ti ha accecato? chi ti ha tolto il lume
dagli occhi?»48.
Gli si attribuiscono i seguenti libri: Protreptici, libri II; Sui
principi di Zenone; Dialoghi; Lezioni, libri VI; Diatribe sulla
sapienza, libri VII; Diatribe erotiche; Trattazioni sulla
vanagloria; Trattazioni, libri XXV; Commentarti, libri III;
Sentenze, libri XI; Contro i retori; In risposta alle accuse di
Alessino49; Contro i dialettici, libri III; Contro Cleante;
Epistole, libri IV.
Tuttavia Panezio e Sosicrate affermano che sue sono solo le
epistole, e che tutto il resto appartiene all’Aristone
peripatetico50.
C’è la tradizione che sia morto per la sua calvizie, a seguito di
insolazione. Perciò noi pure gli abbiamo dedicato questo carme
scherzoso, in coliambi:
Perché, vecchio e calvo, Aristone,
ti sei lasciato arrostire il capo dal sole?
Così, cercando il caldo più del necessario,
senza volerlo hai invece trovato il freddo dell’Ade51.
Vi fu un altro Aristone, di Iuli52, il peripatetico; un altro, di
Atene, esperto di musica; un quarto, poeta tragico; un quinto, di
Ale, autore di manuali di arte retorica; un sesto di Alessandria,
anch’egli peripatetico53.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 182 = SVF I, 339
Costui (Crisippo), rimproverato aspramente da un tale perché non era
stato a scuola da Aristone come molti altri, rispose: «se avessi
dato retta ai molti, non avrei fatto vera filosofia».
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 18 = SVF I, 340
Una volta che il suo discepolo Aristone discorreva di molti
argomenti in maniera non conveniente, e addirittura trattandone
alcuni con avventatezza e tracotanza, (Zenone) gli disse: «non
potresti parlare così, se tuo padre non ti avesse generato
nell’ebbrezza»; ed essendo egli conciso di parole, chiamava l’altro
chiaccherone54.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., IV, 33 = SVF I, 343
Tuttavia … (Arcesilao) teneva fermo alla dialettica e si atteneva al
metodo della scuola di Eretria55. E perciò Aristone diceva di lui:
«davanti è Platone, di dietro è Pirrone, in mezzo Diodoro»56.
SESTO EMPIRICO,Pyrrh. Hypotyp., I, 234 = SVF I, 344
Perciò Aristone diceva di lui: «davanti Platone, di dietro Pirrone,
in mezzo Diodoro» per il fatto che usava degli artifizi dialettici
propri di Diodoro, ma si presentava di fronte come un platonico.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., IV, 40-41 = SVF I, 345
Gli piacevano i giovinetti ed era lascivo, e per questo gli stoici
della cerchia di Aristone di Chio lo accusavano chiamandolo
corruttore di giovani, predicatore di lascivie e sfrontato. Si dice
che amò particolarmente Demetrio, quello che fece un viaggio per
mare a Cirene, e Cleocare di Mirlea; una volta che era con questo, i
compagni di baldoria bussarono alla porta e Arcesilao disse: «vorrei
aprirvi, ma me lo impedisce Cleocare». Questi era amato anche da
Democare figlio di Lachete e da Pitocle figlio di Bugelo: una volta
Arcesilao li sorprese insieme, ma disse che ci passava sopra per la
sua tolleranza. Per tutto questo i critici che abbiam detto lo
attaccavano duramente e lo schernivano come vanaglorioso e
bassamente amico del volgo57.
Index Stoicorum Herculanensis, col. X, 2 p. 18 Traversa = SVF I) 39
Aristone di Chio figlio di Milziade; il quale, pur avendo affermato
che il fine sta nell’indifferenza, per tutto il resto sembra aver
se(guito) il suo (mae)stro…58.
Index Stoic. Bere., coli. XXXIII-XXXVII, pp. 49-53 Traversa = SVF I,
335-336
Circa poi Aristone di Chio… della tragedia… una sola cosa può esser
detta forse da noi… egli spirava coi suoi discorsi una tale forza e
un tale ardore da poter esser paragonato a quello che il poeta dice
a proposito di Atena…59
TEMISTIO,Chat. XXI, 2 55b = SVF I, 334
Poiché nella filosofia appare e risplende il vero, tutti coloro che
partecipano di quest’opera possono godere senza farsi guerra a
sangue. Per questa ragione Aristone amava Cleante, ed aveva
discepoli in comune con lui.
ELIANO,Var. Hist., Ili, 33 = SVF I, 337
Il flautista Satiro ascoltò i discorsi di Aristone60, e incantato da
quanto quegli diceva recitò:
«Se io non ponessi questi dardi nel fuoco splendente»61intendendo
riferirsi per metafora ai flauti, e in certo modo disprezzando la
sua arte in confronto con la filosofia.
SSTRABONE,Geogr., I, 15 = SVF I, 338.
«Come non mai in quel periodo» egli (Eratostene) dice «fiorirono
insieme sotto le stesse mura e in una sola città i discepoli di
Aristone e di Arcesilao». Pone quindi Aristone e Arcesilao come
corifei di quelli che hanno avuto la loro acme nel suo tempo… Ma in
queste affermazioni rivela a sufficienza la debolezza della sua
opinione, in quanto, pur essendo stato discepolo di Zenone di Cizio
in Atene, non fa parola di alcuno di quelli che ne furono i seguaci,
mentre cita come coloro che ebbero Pacme in quel periodo proprio
quelli che polemizzarono con lui e non possono dirsi affatto averne
seguito l’eredità62.
ATENEO,Deipnosoph., VII, 281C = SVF I, 341
Anche alcuni fra gli Stoici si attaccarono a questo tipo di piacere:
infatti Eratostene di Cirene, che fu allievo di Aristone di Chio,
uno dei filosofi stoici, rappresenta il suo maestro nell’atto di
darsi, da ultimo, al piacere, così dicendo: «ho trascinato anche
costui, conducendolo a scavare la parete fra virtù e piacere e a
emergere dalla parte del piacere».
AATENEO,Deipnosoph., VI, 25ib = SVF I, 342
Timone di Fliunte, nel terzo libro dei Siili, dice che Aristone di
Chio, della cerchia di Zenone di Cizio, fu adulatore del filosofo
Persèo, che era amico del re Antigono63.
CICERONE,De nat. deor., Ili, 31, 77 = SVF I, 348
Se è vero ciò che soleva dire Aristone di Chio, che cioè i filosofi
a volte possono nuocere a quelli che interpretano male i detti di
per sé buoni: si può infatti uscire impudenti dalla scuola di
Aristone, aspri da quella di Zenone.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., II, 79 = SVF I, 348
(Aristippo) diceva che son simili ai Proci di Penelope coloro che
corrono dietro alla varia cultura e trascurano la filosofia…64 E
similmente diceva Aristone di Chio; che cioè Ulisse, sceso nell’Ade,
aveva visto quasi tutti i morti, ma non aveva potuto contemplare la
loro regina.
STOBEO,Eclog., III, 4, 109, p. 246 Hense = SVF I, 350
Aristone di Chio diceva che coloro che si danno da fare intorno alla
cultura generale e trascurano la filosofia sono come i proci di
Penelope, i quali, non potendo conquistare lei, ripiegano sulle sue
ancelle.
STOBEO,Eclog., 4, no, p. 246 Hense = SVF I, 350
E lo stesso Aristone paragonava la moltitudine a Laerte, il quale,
mentre si prendeva a cura tutto ciò ch’era nel suo campo, trascurava
se stesso: anche la gente comune, facendo gran caso dei propri
possessi, trascura la sua propria anima, lasciandola piena di
passioni selvagge.
DA SINGOLE OPERE
I PARAGONI65
STOBEO,Eclog., Ili, 13, 40, p. 462 Hense = SVF I, 383
Dai Paragoni di Aristone: togliere la libertà di espressione dal
discorso è simile a togliere l’amaro dall’assenzio.
STOBEO,Eclog., Ili, 13, 57, p. 465 Hense = SVF I, 384
Dai Paragoni di Aristone. A chi gli diceva: «mi schernisci troppo
crudamente», rispose: «a chi ha male alla milza nuocciono i cibi
dolci, fanno bene i cibi crudi e amari»
PLUTARCO,De recta rat aud., 8, 42b = SVF I, 385
Aristone dice che non ha alcuna utilità un bagno né un discorso che
non lavi.
SSTOBEO,Eclog., IV, 25, 44, p. 628 Hense = SVF I, 386
Dai Paragoni di Aristone: i giovani appena usciti dalle scuole di
filosofia, che criticano tutto a cominciare dai loro genitori,
somigliano a quei cagnolini che abbaiano non solo agli estranei ma
anche a quelli di casa.
STOBEO,Eclog., II, 31, 83, p. 215 Wachsmuth = SVF I, 387
Dai Paragoni di Aristone: «Dicono che il cumino si deve seminare
bestemmiando perché possa nascere bene: così allo stesso modo
bisogna educare i giovani schernendoli, perché possano diventare
buoni a qualcosa».
SENECA,Epist. ad Lue, 36, 3 = SVF I, 388
Aristone affermava di preferire un giovane triste a uno allegro e
che fa divertire il volgo. Diviene buon vino quello che, quando è
nuovo, è aspro e sgradevole, mentre il vino già buono fin dalla
botte non sopporta il tempo.
PPLUTARCO,De tuenda san. praec., 20, 1330 = SVF I, 389
…se ne vadano a parlare agli atleti nel ginnasio e nelle palestre; a
quegli atleti che, facendo a meno di libri, abituati a passare la
loro vita fra lazzi e insulsaggini, fanno in maniera simile, come
dice l’arguto Aristone, a quelle colonne che sono appunto nei
portici delle palestre, tutte ben lucide e levigate, ma di pietra.
Ps. PLUTARCO,Amatorius, 21, 776f = SVF I, 390
Un carattere puro e modesto si rivela nella bellezza e nella grazia
delle forme, così come la giusta calzatura mette in rilievo la bella
proporzione del piede, dice Aristone66.
STOBEO,Eclog., II, 2, 22, p. 24 Wachsmuth = SVF I, 391
Aristone paragonò i discorsi dei dialettici alle tele di ragno, a
nulla utili e in pari tempo oltremodo ingegnose.
STOBEO,Eclog., II, 2, 14, p. 22 Wachsmuth = SVF I, 392
Dai Paragoni di Aristone: quelli che si sprofondano nella dialettica
assomigliano a mangiatori di granchi, che si danno da fare intorno a
tante coccie per poca polpa.
STOBEO,Eclog., II, 2, 18, p. 23 Wachsmuth = SVF I, 393
Aristone paragonava la dialettica al fango delle strade, che
anch’esso, pur non essendo utile a niente, riesce a far cadere i
passanti.
STOBEO,Eclog., II, 2, 23, p. 24 Wachsmuth = SVF I, 394
Dai Paragoni di Aristone. L’elleboro, preso a grossi grani,
purifica; ma se è trito in piccoli pezzetti rischia di soffocare.
Ugualmente fa la troppa sottigliezza nel filosofare.
STOBEO,Eclog., III, 20, 69, p. 554 Hense = SVF I, 395
Di Aristone. Vediamo che l’ira genera il turpiloquio, non è quindi
buona madre.
STOBEO,Eclog., II, 31, 95, p. 218 Wachsmuth = SVF I, 396
Dai Paragoni di Aristone. Il pilota non soffrirà mai del mare, sia
la sua nave grande sia piccola; gli inesperti del mare sia nell’uno
che nell’altro caso. Così l’uomo di saggia educazione non si turberà
né in caso di ricchezza né in caso di povertà; l’ineducato in
entrambi.
STOBEO,Eclog., IV, 31, no, p. 772 Hense = SVF I, 397
Dai Paragoni di Aristone. Come tra coloro che bevono lo stesso vino
alcuni dànno in escandescenze, altri in intenerimento, così anche
quelli che possiedono ricchezza…67
STOBEO,Eclog., IV, ^2a, 18, p. 1077 Hense = SVF I, 399
Dai Paragoni di Aristone. Molti sapienti, da vecchi, si mostrano
attaccati alla vita. Così come quelli che prendono moglie tardi si
attaccano alla vita per poter allevare i propri figli, così questi,
pervenuti tardi a possedere la virtù, desiderano di vederla
crescere.
PLUTARCO,De curiositate, 4, 5i6f = SVF I, 40168
Ce la prendiamo molto col vento, dice Aristone, quando ci solleva le
vesti. Il curioso non solo solleva le vesti del vicino, mantelli e
chitoni, ma gli circonda le mura, gli apre le porte.
PLUTARCO,Praec. polit., io, 8o4e = SVF I, 402
Aristone dice che, come il fuoco non fa fumo, così la gloria non
produce invidia quando entrambi divampino rapidi e di colpo; ma
quando ci si innalza gradatamente e a poco a poco, allora sì che si
è attaccati da ogni parte.69
PLUTARCO,Aqua an ignis util., 12, 958d = SVF I, 403
Ed essendo stato dato agli uomini tempo ristretto e vita breve, dice
Aristone, per di più il sonno ne porta via la metà, come un esattore
di imposte.
TESTIMONIANZE SULLA DOTTRINA
STOBEO,Eclog., II, 1, 24, p. 8 Wachsmuth = SVF I, 352
Aristone diceva che delle questioni filosofiche alcune ci
riguardano, altre non hanno alcun valore per noi, altre ancora sono
al di sopra di noi. Quella che ci riguarda è l’etica; quella che non
ha valore per noi è la dialettica (non ha alcuna importanza per
render migliore la nostra vita); quella al di sopra di noi è la
fisica: è impossibile a conoscersi e non presenta alcuna utilità.
EUSEBIO,Praep. evang., XV, 62, 7 = SVF I, 353
Questo affermava Socrate; dopo di lui anche Aristippo cirenaico e
poi Aristone di Chio con i loro seguaci presero a dire che bisogna
occuparsi solo di etica: questa è accessibile ed utile, al contrario
i discorsi sulla natura sono incomprensibili e, anche se si
potessero comprendere, non sarebbe di nessuna utilità. Nulla di più
noi diventeremo neanche se, sollevandoci al cielo più in alto di
Pèrseo.
«sopra il flutto del mare e sopra le stesse Pleiadi»70 con i nostri
propri occhi potessimo contemplare tutto l’universo e tutta la
natura delle cose quale essa veramente è. Non per questo infatti
diventeremmo più saggi o più giusti o più valorosi o più temperanti;
e neanche più belli o forti o ricchi, cose tutte senza le quali è
impossbile esser felici. Per questo giustamente Socrate aveva detto
che delle cose che sono, alcune sono sopra di noi, altro non hanno
valore per noi. Le realtà studiate dalla scienza della natura sono
al di sopra noi, e nessun valore per noi ha tutto ciò che viene dopo
la morte: solo le cose umane hanno un significato per noi71.
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., VI, 103 = SVF I, 354
I cinici ritengono che si debbano abolire le trattazioni logiche e
fisiche; e similmente Aristone di Chio: solo all’etica si deve
attendere72.
SESTO EMPIRICO,Adv. log., I, 12 = SVF I, 356
Anche Aristone di Chio non solo, come dicono, accusò la fisica e la
logica di essere inutili e di essere a chi faccia filosofia causa
solo di male, ma della stessa etica eliminò alcune parti, quali la
trattazione esortativa e precettistica, dicendo che cose del genere
sono buone per balie e pedagoghi, e che al fine della vita beata è
sufficiente quel ragionamento che concilia con la virtù, allontana
dal vizio, condanna tutte quelle cose che non sono né l’una né
l’altro e intorno alle quali il volgo tanto si affanna73.
LATTANZIO,Div. Inst., VII, 7, n, p. 608 Brandt = SVF I, 357
Aristone diceva che gli uomini nascono al fine di conseguire la
virtù.
SENECA,Epist. ad Lue, 94, 1 = SVF I, 358
Alcuni hanno ammesso solo quella parte della filosofia che dà
precetti particolari a ciascun individuo e non si indirizza all’uomo
in generale, ma insegna al marito come comportarsi verso la moglie,
al padre come educare i figli, al padrone come reggere i servi… Al
contrario lo stoico Aristone giudica questa parte della filosofia di
poco conto, e non tale da scendere in cuore veramente. Rispetto alla
precettistica, affermava che giova piuttosto conoscere i princìpi
stessi della filosofia e la norma del sommo bene, e che, quando si è
ben capito e appreso tutto questo, ciascuno è capace di prescrivere
a se stesso in qualunque circostanza ciò che sia da farsi.
SENECA,Epist. ad Lue, 94, 5 = SVF I, 359
Quelli che ritengono assolutamente inutile questa parte della
filosofia, così spiegano la loro posizione. Se c’è qualcosa che si
frappone a impedire la capacità visiva, questo qualcosa va rimosso;
fino a che un tale ostacolo si frappone, perderà il tempo chi
continuerà ad esortare: «cammina così; porgi la mano di qua». Allo
stesso modo, se c’è qualcosa che accieca l’anima, impedendole di
percepire l’ordine dei suoi doveri, nulla combina colui che esorti:
«vivi così con tuo padre; comportati così con tua moglie». Fino a
che l’errore è diffuso nella mente, a nulla varranno i precetti;
solo se l’errore è rimosso apparirà subito che cosa si debba
compiere in vista di ciascun dovere, o altrimenti non farai altro
che insegnare a qualcuno che cosa debba fare un uomo sano senza
prima darti cura di sanarlo. Insegni al povero come si debba fare la
parte del ricco: e come ciò potrà avvenire finché egli non abbia
eliminata la sua povertà? All’affamato indichi che cosa dovrà fare
da sazio: ma cerca prima di sopprimere la fame che gli sta nelle
viscere. E analogamente dico di tutti i vizi: sono questi che si
devono rimuovere, e non dare precetti destinati a restar lettera
morta se essi persistono. Se non si saranno fugate le false opinioni
dalle quali siamo afflitti, né Pavaro imparerà come maneggiare il
denaro, né il pauroso come disprezzare i pericoli. Bisogna far sì
che Γιιηο sappia che il denaro non è né un bene né un male, che gli
si mostri quanto siano infelici i ricchi; bisogna insegnare
all’altro che tutto ciò di cui comunemente si ha paura non è tanto
da temersi quanto la fama diffonde in giro, né il dolore né la
morte. Contro la morte, che è legge comune il subire, arreca un
grande sollievo il pensare che essa non torna più per nessuno; e nel
dolore serve di rimedio la forza dell’anima, la quale riesce a
render più lieve tutto ciò che sopporta con tenacia. Ottima è del
resto la natura del dolore, il quale, se prolungato, non può essere
intenso, se intenso, non può durare a lungo74. Tutte le cose che la
necessità cosmica ci impone sono da accettarsi con animo forte.
Questi sono gli argomenti con i quali dovrai condurre il tuo
interlocutore a contemplare serenamente la sua condizione; e quando
egli avrà compreso che non è felice la vita volta al piacere ma
quella conforme alla natura, in quanto avrà appreso ad amare la
virtù come unico bene per l’uomo e a fuggire il vizio come unico
male — quando avrà imparato che tutto quanto il resto (ricchezza,
onori, salute, forza e potere) è solo intermedio e non è da
annoverarsi né fra i beni né fra i mali — allora costui non avrà più
bisogno di chi lo ammonisca in vista di cose particolari, che gli
dica: «cammina così; nutriti così; questo conviene all’uomo e questo
alia donna, questo all’uomo sposato e questo al celibe». Queste
esortazioni così minute, essi stessi non sono poi capaci di metterle
in pratica. Son le cose che il pedagogo prescrive al fanciullo o la
nonna al nipotino; e il maestro più iroso ammonisce con belle parole
a non adirarsi. Se ti darai a esercitazioni letterarie, ti avvedrai
come queste cose, che filosofi vantano con gran solennità, facciano
parte dell’educazione per i fanciulli.
Si dovrà allora esortare alle cose evidenti o a quelle incerte? Le
cose di per sé evidenti in realtà non hanno bisogno di alcuno che le
indichi. E se le cose sono soggette a dubbio, non si presta foie a
colui che esorta. Quindi in ogni caso il dare precetti è cosa vana.
Orsù, apprendi questo: se esorti a ciò che è oscuro o ambiguo,
bisogna che ti aiuti con prove. Ma se usi argomenti probanti, i
princìpi su cui la tua prova si fonda vale più di ciò che essi
provano, e sono autosufficienti. «Così si deve trattare con l’amico,
col cittadino, con l’alleato». Perché? Perché è giusto. E dunque la
parte della filosofia che tratta della giustizia è quella da cui
tutti questi precetti discendono. Risalendo a quella, scopro che
l’equità va ricercata di per sé e che non dobbiamo esser spinti
verso di essa né da timore né da desiderio di premio, né si può dir
giusto colui al quale, in questa virtù, piace ciò che non è la virtù
in se stessa. Una volta che io mi sia persuaso a fondo e convinto di
questo, a che giovano questi precetti, che pretendono di insegnarmi
qualcosa che io già conosco? Dare precetti a chi già sa è del tutto
superfluo, a chi non sa è insufficiente; quest’ultimo infatti non
deve solo apprendere che cosa gli si prescrive, ma perché gli si
prescrive. I precetti sono necessari a chi ha opinioni ben fondate
sul bene e sul male, oppure a chi non ne ha? Chi non ne ha, non avrà
da te per questo alcun aiuto; la diceria del volgo occupa le sue
orecchie e le rende contrarie al tuo monito. Ma chi possiede già un
giudizio esatto circa ciò ch’è da fuggirsi e ciò ch’è da ricercarsi,
anche se tu taci, sa già da sé che cosa sia da farsi. Insomma, tutta
questa parte della filosofia può essere abolita.
Per due motivi noi cadiamo in errore: o vi è nell’anima una malizia
contratta da cattive opinioni; oppure, anche se l’anima non è
posseduta da falsi princìpi, è però proclive ad essi e facile a
lasciarsi corrompere da un’apparenza che la trascina dove non
dovrebbe. Dobbiamo quindi o curare la mente malata e liberarla dai
vizi, oppure — se essa è vuota, ma con propensione per i princìpi
peggiori — occuparla preventivamente con princìpi buoni. I princìpi
della filosofia possono assolvere all’una e all’altra funzione. Per
un simile tipo di insegnamento, la precettistica, non vi è alcuno
spazio.
Inoltre, se intendiamo dare precetti per ogni singola azione,
veramente la nostra opera si disperde senza trovare un centro.
Dovremo dare precetti di un certo tipo a chi è oppresso da debiti;
altri diversi a chi coltiva un campo; altri ancora a chi ha per le
mani affari, a chi va dietro alla benevolenza dei re, a chi ama i
suoi pari o chi gli è inferiore. Se si tratta del matrimonio,
bisognerà dare, circa la convivenza con la moglie, precetti diversi
a chi ha sposato una vergine o una donna già esperta di altre nozze,
una donna ricca o una priva di dote. E non credi che vi sia
differenza nel comportarsi con una donna sterile o una feconda, una
più matura o una giovinetta, con la madre o con la suocera? Non si
arriva mai ad abbracciare tutti i casi: eppure ogni singolo caso
esigerebbe i suoi precetti. Ma le leggi della filosofia sono concise
e comprendono in sé tutto. E aggiungi che i precetti della sapienza
devono essere ben delimitati e certi, e se non possono esser
delimitati sono al di fuori della sapienza, perché questa conosce
gli esatti confini delle varie questioni. Dunque questa parte
precettistica va eliminata, perché ciò che promette a pochi non può
renderlo a tutti, mentre la sapienza si estende universalmente a
tutti.
Tra la pazzia pubblica e quella che si dà da curare ai medici, non
c’è altra differenza se non che l’una deriva la sua sofferenza da
malattia fisica, l’altra da false opinioni; all’una la causa del
furore deriva da cattiva salute, l’altra è essa stessa una malattia
dell’anima. Chi pretendesse di dare a un pazzo precetti sul modo di
camminare, parlare, comportarsi in pubblico e in privato, sarebbe
certo più pazzo di colui al quale rivolge i suoi moniti: bisogna
invece curare la negra bile e rimuovere la causa della pazzia. Lo
stesso va fatto quando si tratta di pazzia dell’anima: è questa che
va cacciata, o tutte le parole dell’ammonitore se ne andranno in
fumo. Questo sostiene Aristone.
CLEMENTE ALESSANDRINO,Strom., II, 21, 129, 6, p. 183 Stàhlin = SVF
I, 360
Che dirti poi di Aristone? Questi dice che il fine è
l’indifferenza75: ciò che è assolutamente indifferente va al di là
dell’indifferente puro e semplice.
SESTO EMPIRICO,Adv. eth., 63 = SVF I, 361
Aristone di Chio diceva che la salute e tutti i beni simili ad essa
non sono indifferenti preferibili. Dire che la salute è un
indifferente preferibile equivarrebbe di fatto a considerarla un
bene: la differenza sarebbe puramente verbale. In generale egli
sosteneva che tutte quelle cose che si trovano fra il vizio e la
virtù senza essere né l’uno né l’altra, cioè gli indifferenti, non
presentano alcuna diversità fra di loro, né ve ne sono di
preferibili e di non preferibili, ma, a seconda delle diverse
circostanze, si può constatare che quelle che comunemente sono dette
preferibili non sono poi affatto da preferirsi, quelle che
comunemente sono considerate da respingersi non sono poi affatto da
respingersi. Per esempio, se avvenisse che, essendo in buona salute,
si dovesse servire il tiranno e per questo perdersi, mentre i
malati, dispensati da tale servizio, potrebbero sfuggire alla
rovina, è chiaro che in simili circostanze il saggio sceglierebbe
piuttosto l’esser malato che l’esser sano. Perciò non si può
affermare in generale che la salute è un preferibile e la malattia
un non preferibile. Così come, nello scrivere i nomi, usiamo come
iniziali ora certe lettere ora certe altre, ad esempio il delta
quando scriviamo il nome di Dione, lo iota quando scriviamo il nome
di Ione, l’omega quando scriviamo il nome di Orione, e ciò non
perché per natura certe lettere siano preferibili a certe altre, ma
perché le circostanze ci impongono di fare così, allo stesso modo
tutte quelle cose che stanno in mezzo fra vizio e virtù non hanno
per natura una loro particolare preferibilità le une rispetto alle
altre, ma sono tali di volta in volta solo a seconda delle
circostanze.
CICERONE,Hortensius, fr. 45 Grilli76
A tutto questo è contrario Aristone di Chio, inflessibile, ferreo:
non c’è nulla che sia un bene se non ciò ch’è retto e onesto.
CICERONE,Acad. pr., 42, 130 = SVF I, 362
Aristone, che, discepolo di Zenone, sperimentò con l’azione ciò che
quegli aveva dimostrato con discorsi, affermava non esservi alcun
bene se non la virtù né alcun male se non il suo contrario, e non
riteneva che vi siano fra queste momenti intermedi, come invece
aveva ritenuto Zenone. Per lui sommo bene è il non lasciarsi muovere
in alcun modo da ciò ch’è indifferente: questo è ciò ch’egli chiama
ἀδιαϕορία77.
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., VI, 105
(I cinici) chiamano le cose intermedie fra virtù e vizio
indifferenti, come Aristone di Chio78.
CICERONE,De fin., II, 13, 43 = SVF I, 364
Già prima abbiamo giustamente completato la nostra polemica contro
l’opinione di Aristone e di Pirrone, che cioè le cose che sono prime
secondo natura79 sono in realtà di nessun conto, sì che secondo loro
non c’è alcuna differenza fra il godere ottima salute e l’esser
gravemente ammalati. Essi in realtà, col riporre ogni bene nella
sola virtù, ma in maniera tale da togliere ad essa qualsiasi scelta
e da non lasciarle né un punto di partenza né una base di appoggio,
han finito col sopprimere quella stessa virtù che intendevano
affermare.
CICERONE,De fin., V, 8, 23 = SVF I, 364
Quelli … che nelle cose che non hanno attinenza con il decoroso e
con il turpe dicono non esservi alcuna ragione perché Puna debba
esser preferita all’altra, né ritengono fra simili cose esservi
alcuna differenza reciproca.
CICERONE,De legibus, I, 13, 38 = SVF I, 367
…sia che abbiano seguito la difficile e ardua, ma tuttavia già vinta
e sconfitta setta di Aristone, riponendo tutto ciò che non sia virtù
né vizio in una assoluta parità di valore80.
CICERONE,De fin., IV, 28, 79 = SVF I, 368
Chiedi ad Aristone se questi gli sembrino beni: la libertà dal
dolore, la ricchezza, la buona salute: risponderà di no. Ma quelle
cose che sono contrarie a queste, non sono forse mali? Nemmeno …
Chiediamogli allora con stupore in che modo potremo vivere, se
riteniamo che nulla debba importarci, lo star bene o lo star male,
Pesser liberi o Pesser afflitti da dolore, il poter eliminare il
freddo e la fame oppure il contrario. Risponderà Aristone: «Vivrai
egregiamente e splendidamente; farai tutto ciò che crederai; non
sarai mai afflitto, non avrai mai desideri, non avrai mai paura».
CICERONE,De fin., IV, 16, 43 = SVF I, 369
Mi sembra che siano stati in errore tutti quelli che hanno affermato
che il sommo bene è vivere virtuosamente; alcuni però più degli
altri, Pirrone soprattutto; … poi anche Aristone, il quale non osò
non ammettere nulla che sia da ricercarsi a parte la virtù, ma fece
un certo posto a quelle realtà che spingono di volta in volta il
sapiente a desiderare alcunché, ciò che gli venisse in mente, ciò
che gli si presentasse casualmente. In ciò si comportò meglio di
Pirrone, perché lasciò pur sempre un certo tipo di desideri; ma
pensava peggio di altri, perché prescindeva totalmente da quella che
è la natura.
CLEMENTE ALESSANDRINO,Strom., II, 20, 108, p. 172 Stahlin = SVF I,
370
Come diceva Aristone, contro tutto il tetracordo - piacere, dolore,
timore, desiderio — c’è bisogno di molto esercizio e di molta lotta:
«perché questi penetrano a fondo delle viscere, e agli uomini
sconvolgono il cuore»81.
PLUTARCO,De exilio, 5, 6ooe = SVF I, 371
Non c’è per natura una patria, dice Aristone, come non c’è per
natura una cosa, un campo, una bottega di fabbro, un luogo di cura
presso un medico: ognuna di queste cose diviene tale e prende questo
nome a seconda di chi le abita e ne fa uso.
SENECA,Epist. ad Lue., 115, 8 = SVF I, 372
Ci sarà allora possibile comprendere quanto siano disprezzabili le
cose che ammiriamo, del tutto simili a quei fanciulli per i quali
ogni gioco ha gran valore: più dei genitori e dei fratelli valgono
per loro collanette comprate per quattro soldi. Dice Aristone: che
differenza c’è fra noi e loro, se non che noi impazziamo per quadri
e statue e volgiamo la nostra stoltezza alle cose più costose?
Quelli si deliziano di lievi conchiglie raccolte sulla spiaggia,
variamente screziate; noi dei vari colori di grandi colonne.
PLUTARCO,De stoic. rep., 8, io34d = SVF I, 373
… Crisippo, il quale rimproverava Aristone per il suo sostenere che
tutte le virtù non sono altro che variazioni di una sola.
ANONIMO,In Platonis Theaetetum, col. 11, 33 segg., p. 9
Diels-Schubarth82
Aristone di Chio argomentava: «se c’è una sola buona disposizione
naturale (εὐϕυιΐα), c’è anche una sola virtù; ma c’è in effetti una
sola buona disposizione naturale — come riconoscono anche coloro
contro i quali è rivolto il discorso —; c’è quindi, una sola virtù».
GALENO,De Hippocr. et Plat. plac., VII, 2, pp. 208 e 591 Mùller =
SVF I, 374
Aristone, poiché credeva che una sola fosse la facoltà propria
dell’anima, quella razionale, poneva anche una sola virtù dell’anima
stessa, e la faceva consistere nella scienza dei beni e dei mali.
Quando si tratta di scegliere i primi e di fuggire i secondi, questa
scienza si chiama temperanza; quando si tratti di praticare ciò che
è bene e non praticare ciò che è male saggezza; valore, quando si
tratti di affrontare con coraggio alcune cose ed evitarne altre, e
infine giustizia quando si tratti di distribuire a ciascuno il suo
secondo il merito. La conoscenza che, in una parola, l’anima ha di
quelle cose che non riguardano direttamente l’agire bene o male si
chiama sapienza e scienza; è piuttosto quando essa si volge alle
azioni che si compiono ordinariamente nel corso della vita che
assume i nomi anzidetti e viene chiamata saggia e temperante e
giusta e forte. Questa è l’opinione di Aristone circa le virtù
dell’anima.
PLUTARCO,De virt. mor., 2, 44of = SVF I, 375
Anche Aristone di Chio considerò la virtù una nella sua essenza e la
chiamò salute. Solo in senso relativo essa può dirsi molteplice:
sarebbe come se uno volesse chiamare la nostra vista, quando vediamo
qualcosa di bianco, «biancovista» e «nerovista» quando vediamo
qualcosa di nero, e così via. La virtù, nell’atto di valutare ciò
che sia da farsi e ciò che non lo sia, si chiama saggezza; nell’atto
di moderare il desiderio e di segnare la misura e l’opportunità nei
piaceri, temperanza; nell’atto di concernere le relazioni sociali e
i patti reciproci fra gli uomini, giustizia; così come un coltello è
uno di per sé, ma taglia di volta in volta cose diverse, o come il
fuoco, in base a quella che è la sua specifica natura, opera su
materie differenti.
CLEMENTE ALESSANDRINO,Strom., I, 97, 2 segg., p. 62 Stahlin = SVF I,
376
Se ben esaminiamo la cosa, una in potenza è la virtù; ma per
accidente essa, quando si verifichi in un certo ordine di realtà,
prende il nome di temperanza, e in altri ordini valore o giustizia…
Allo stesso modo, della stessa dracma quando è data al marinaio in
compenso la chiamiamo prezzo del viaggio; quando è data
all’esattore, gabella; al padrone di casa, pigione; al venditore,
caparra. Ogni tipo di virtù, collegata agli altri tipi con rapporto
di sinonimia, è causa unicamente di quella prestazione che le è
propria; per via dell’uso comune di esse si attua la vita felice;
non facciamo questione di puri nomi quando diciamo che la vita retta
è felicità e che è felice colui che abbia l’anima ornata dalla
virtù.
GIAMBLICO, presso STOBEO,Eclog., II, 49, 42a, pp. 382-383 Wachsmuth
= SVF I, 379
C ’è stata disparità di vedute circa la comunanza possibile fra gli
dèi e le anime umane, giacché alcuni dicono che non è possibile che
vengano in alcun modo in contatto con gli dèi le anime che ancora
sono trattenute dai corpi, gli altri sostengono che le anime pure,
siano pur sempre esistenti entro un corpo, e gli dèi appartengono a
una sola e comune cittadinanza; alcuni suppongono che questa
comunanza sussista solo per i dèmoni e per gli eroi, tra i quali ve
ne sono di migliori — giudicati tali da Platone per la purezza,
elevatezza, perfezione dell’anima — altri di peggiori e con la
collocazione opposta rispetto a quelli. Secondo gli Stoici questa
comunanza si regge sull’unità di spirito e sul decoro naturale che è
connesso a certe anime; secondo i Peripatetici, sull’armonia secondo
natura e sulla vita intellettiva superiore alla stessa natura umana;
secondo Erillo, sulla scienza; secondo Aristone, sulla perfetta
indifferenza; secondo Democrito, sulla gravità del portamento; e
ancora secondo altri sull’uno o sull’altro aspetto di ciò ch’è bello
e decoroso, come per esempio la mancanza di sofferenza secondo
Ieronimo83, e così via.
CICERONE,De nat. deor., I, 14, 37 = SVF I, 378
Fra i suoi (di Zenone) discepoli, non meno grande è l’errore insito
nell’opinione di Aristone, il quale pensa che non si possa
assolutamente conoscere quale forma abbia la divinità e avanza dubbi
circa la possibilità che Dio ha di conoscere, dubita anzi
addirittura che Dio sia un essere vivente animato.
TESTIMONIANZE DUBBIE
VITTORINO,Ars Grammatica, I, 2, p. 65 Mariotti84
L’arte, ritiene Aristone, è una raccolta di percezioni ed esercizi
in vista di un qualche fine che si riferisce al vivere, o in altri
termini e in generale qualsiasi cosa che con precetti sicuri forma
gli animi in vista della nostra utilità.
VITTORINO,Ars Grammatica, I, 7, p. 66 Mariotti
Secondo Aristone, la grammatica è la scienza per cui si comprendono
i poeti e gli storici, e che dirige a ragione e a retto uso in
particolare la forma del nostro discorso.
FILODEMO,De poematibus, libro V, coli. XIII - XXXI, pp. 33-49
Jensen85
Quanto a queir(Arist?)one che si (at)t(ene)va alle teorie degli
Stoici, non potrei negare che è giusto quanto egli, fra l’altro,
(affer)ma, e cioè che inutile è la teoria della metrio-patia86; ma
quanto alla trattazione che fa della poesia … è parlatore
inconseguente e avventato, non fededegno, menzognero. Che cosa vuol
dire che egli, presentando ciò come un saggio discorso, contrapponga
alle opere di poesia buone e a quelle cattive altre che non sono né
buone né cattive, dichiarando esser buone quelle che hanno una buona
com(posizio)ne e un (saggio) contenuto di pensiero? e che cos’è un
saggio contenuto di pensiero? chiaramente, quello di poeti (che
presentino buone (riflessioni o buone azioni, o che tendano ad un
fine educativo — ma non c’è alcun poeta che scriva o che mai
scriverà poemi che contengano cose di questo genere! Egli dice
tuttavia che non (solo) vuol prendere in considerazione questi, ma
chiunque presenti una qualche composizione che, relativa a
determinate cose, parli in senso proprio; sotto questo rispetto,
dice, anche in Antimaco87 potremo trovare alcune (ri)flessi(oni)
ed(ucative); e dice che con una certa concessione possiamo definire
«buoni» i componenti poetici di Archiloco e di Omero; tuttavia
questi (di Antimaco) indiscutibilmente hanno in sé riflessioni sagge
ed educative, in grado più alto e in senso proprio, mentre quelli
possono dirsi tali solo in senso improprio88. Con ciò viene a
sostenere che le espressioni «utile», «buono», «valido», si possono
usare del contenuto di pensiero e della compo(sizione) poetica ora
in senso proprio ora in senso improprio. Ma non è forse specioso
l’aggiungere ch’egli fa a tutto ciò che è inutile la poesia che ha
una bella forma compositiva ma un contenuto di pen(siero) inusitato
e che va contro il senso comune, quale per esempio il verso:
«anzitutto si circondò le (gamb)e di gamb(iere)»?89. Qui in realtà
si par(la, riteng)o, di un verso non buono e da poco, però non
contro il senso comune. E come può uno che abbia solidità di
opinione affermare che i poemi di Antimaco potrebbero dirsi
(composti) con proprietà, e che quelli che egli valuta (con
concessione)90 contengono pensieri utili? Come può egli dichiarare
buona la (composizione) di queste poesie sulla base di pochi versi
che cita integralmente, se non dice che tota quan(ta l’opera) è
buona?
Egli ha creduto cosa saggia il dire che le poesie che non contendono
in sé) né buona né cattiva arte (non sono in realtà buon)e, (ma non)
si possono dire né buone (né cattive), e che tuttavia, limitatamente
a un certo rispetto, cioè (alla loro) composi(zione), sono buone.
Cose del genere essi chiamano tavolette composte con arte, e forse
di nuovo intenderebbero (parlare) in particolare della composizione.
Infatti, se vi sono aspetti che dal punto di vista (della
composizione) non sono positivi, ma di per sé non sono né buoni né
cattivi, l’opera ne risulterebbe pur sempre buona sotto un certo
punto di vista. Ed è il contenuto di pensiero quello che dice non
essere né buono né cattivo; sì che viene a dire, e lo scrive di
fatto, che (in verità) solo la composizione può esser detta sotto
qualche rispetto buona, e che la poesia è (lode)vole sotto l’aspetto
cella composizione. Dal punto di vista dei caratteri, poi, (c’è) in
Ome(ro) una superiorità (rispetto ad altri poeti). Ma allora, se
egli dichiara che l’arte con cui sono composti i poemi del passato
non è né buona né cattiva, in che modo può sostenere che essa
(contenga pensie)ri saggi ed (educativi)? quali dei (poemi) antichi
suppone che presentino tali contenuti? e in generale si può dire che
se non si ritengono belle tali opere poetiche non so quali si potrà
dire che sono belle. So che c’è anche chi di(ce) che è arte quella
di poesie come quelle di Antimaco; se (lo si concede) per altre, (lo
si conceda) anche in questo caso; ciascuno può affermare quello che
vuole. E qualcuno può ben trovare utilità nel fatto che esse siano
scritte con arte lodevole e (contengano) descrizioni di città e
luoghi disposte con bella armonia, ogni cosa serbando il suo giusto
ordine91.
Ma quando poi, di seguito, mi si viene a dire che anche quelle
poesie che non hanno né una buona composizione né un buon contenuto
di pensiero non sono né buone né cattive, trovo ciò biasimevole;
tanto più che costui non ha dato in merito alcuna dimostrazione. E
mi sem(bra) sorprendente che si possa affermare che ciò che non ha
né una buona composizione, né un contenuto che sia in tutto e per
tutto poetico e che non sia (buono), non è cosa cattiva. Approvo che
si dica (catt)ivo ciò che, anche se ha un buon (contenuto di
pensiero), ha una cattiva composizione, cioè che l’esser composto
malamente sia sufficiente per esser detto cattivo. D’altro canto,
che ad una poesia per esser dichiarata buona non basti esser
composta bene, ma che occorrano anche il bel suono e il bel
contenuto, e molte altre cose, mi sembra, se penso (agli antichi),
aggiunta recente sulla base di quelle insussistenti teorie
dell’eufonia proprie degli eruditi92. Ancor di più ciò vale per il
discorso secondo cui alcune delle poesie degli (anti)chi, che sono
buone sotto un certo rispetto e soprattutto per il modo come sono
composte, sono poi da considerarsi cattive nel loro insieme. E
ancora più assurdo è il dire che tutto ciò che va contro le regole
dell’arte, anche se composto bene, è cattivo, e che ciò che nei
poemi più eccelsi è buono, (valido, uti)le, non va giudicato secondo
un solo tipo di arte e in senso proprio e assoluto, ma di volta in
volta secondo riferimenti (diver)si a diverse forme di arte, a
seconda che siano ben riuscite; e il dire che dichiariamo senz’altro
buone sotto un certo aspetto anche quelle poesie che hanno qualcosa
di (biasimevole e che non sono riuscite in tutto per tutto, purché
vi sia in esse una buona elaborazione, ma che, se (non sono) buone
neanche sotto un certo rispetto, non le si potrebbe certo dir buone
nell’insieme.
Quanto poi al sostenere che, se non siamo capaci di dire che (alla
forma) soggiaccia un certo (contenuto di pensie)ro, non possiamo
nemmeno dire se quelle siano o no poesie, (ere)do che ciò consegua
al fatto che poco prima egli ha parlato in tono schernitorio, ma che
non possa esser questa la sua opinione93. (Come) può egli dire che,
nei casi ove noi comprendiamo che all’espressione soggiace un certo
contenuto, ma non possiamo dire se corrisponda o no al senso comune,
ci si asterrà dal dire (se è cosa buona) o cattiva, ma che
addirittura là dove vi siano cose incomprensibili al senso comune,
quelle cose che egli chiama inusitate, non si potrà dire nemmeno se
siano o no po(esie)? (Stolt)o mi sembra poi il dire che quelli che
hanno senno ricercano un buon contenuto di pensiero, quelli che sono
pri(vi di buone riflessioni) richiedono l’elaborazione artistica; a
meno che essi non vogliano dire che chi loda la buona composizione è
incapace di comprendere il pensiero, e che chi non comprende niente
della bont(tà della composi) zione (capi)sce invece se il pensiero è
buono! In realtà, poiché talvolta le espressioni sono così con
(veniente) mente congegnate che sembrano corrispondere a ciò che noi
riteniamo buono, alcuni dicono che il tutto è ben (compo)sto senza
badare al contenuto di pensiero, e ciò addirittura nel caso che
questo sia in (sussistente) o perturbato.
Egli cade poi del tutto nel ridicolo quando afferma che la buona
composizione non è comprensibile con la ragione, ma solo in base
all’esercizio dell’udito94. Sconsiderato è introdurre questo
concetto di eufonia, risultante dalla bella composizione delle
espressioni, e attribuire il giudizio su questa all’esercizio
dell’ascolto: ancor più sconsiderato il sottoporre la composizione
delle espressioni stesse, di cui la ragione sa (riconoscer)e se sia
buona o cattiva, alle ore(cchie) prive di ragione, che non si
preoccupano di giudicare se alcunché sia positivo o negativo, e
l’affermare che non si può comprendere con la ragione come giudicare
la proprietà delle varie espressioni verbali. Anche se, nel nostro
parlare, adduciamo esempi di qualcuno di coloro che hanno praticato
nella loro vita l’esercizio della poesia, non trascuriamo mai il
contenuto, né chiamiamo una cosa col nome di un’altra, per esempio
non chiamiamo pitture i carmi poetici, facendo come (costui), che
porta la composizione al livello della capacità puramente naturale
della vista o dell’udito, mentre in realtà si tratta di due cose
opposte.
VARIE
PLUTARCO,Demosthenes, 30 = SVF I, 380
Aristone poi diceva che egli avesse preso il veleno da una canna, a
quanto si racconta95.
PLUTARCO,Demosthenes, 10 = SVF I, 381
Aristone di Chio riportava anche un’opinione di Teofrasto circa i
retori. Essendogli stato chiesto quale tipo di oratore gli sembrasse
essere stato Demostene, rispose: «degno della città»; quale Demade,
«al di là della stessa città». Lo stesso filosofo ci riferisce che
Polieucto di Sfetto96, che era uno degli uomini politici di Atene in
quel periodo, affermava esser Demostene un grande oratore, ma
Focione ancora più abile nel parlare, giacché sapeva esprimere il
più grande intelletto nella frase più breve.
PLUTARCO,Maxime cum princ., 1, 776C = SVF I, 382
Aristone di Chio, poiché certi sofisti per diffamarlo andavano
dicendo che non si peritava di dialogare con chiunque, rispose: «ma
anche gli stessi animali arrivano quasi a capire i discorsi che
incitano alla virtù».
STOBEO,Eclog., III, 20, 67, p. 554 Hense = SVF I, 395
Di Aristone: l’ira evidentemente genera il mal parlare: non è quindi
una buona madre.
PLUTARCO,Caio Maior, 18 = SVF I, 398
Dicono che il filosofo Aristone si meravigliasse altamente che
coloro che possiedono il superfluo siano generalmente stimati più
felici di quelli che possiedono le cose necessarie ed utili.
STOBEO,Eclog., IV, 22, 16, p. 497 Hense = SVF I, 400
Dai detti di Aristone: la legge di Sparta stabilisce multe in primo
luogo per chi non si sposa, in secondo luogo per chi si sposa tardi,
più gravi in terzo luogo per chi si sposa male97.
ERILLO DI CALCEDONE98
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., VII, 165-166 = SVF I, 409, 411
Erillo di Calcedone diceva che il fine supremo è la virtù, il che
significa il vivere sempre rapportando ogni azione alla vita
condotta secondo scienza e non lasciarsi sedurre dall’ignoranza.
Diceva che scienza è disposizione costante nel? accogliere le
rappresentazioni, non suscettibile di esser rovesciata da
ragionamento. Ma talvolta diceva anche che non vi è un fine univoco,
ma che esso varia a seconda delle circostanze e delle realtà
diverse, così come lo stesso bronzo può diventare una statua di
Alessandro, o indifferentemente, una statua di Socrate. Sosteneva
anche che son due cose diverse il fine e il fine secondario99:
questo è oggetto di mira anche da parte dei non saggi, il primo solo
da parte dei sapienti. Indifferenti sono tutte quelle cose che si
trovano in mezzo fra il vizio e la virtù.
Di lui restano libri non ampi per numero di righe, ma pieni di
vivacità e contenenti prese di posizione polemiche nei confronti di
Zenone. Si dice che quando era giovinetto parecchi si innamorassero
di lui; Zenone, volendo allontanarli, costrinse Erillo a radersi i
capelli, e riuscì a distoglierli da lui.
I libri sono questi:
Dell’esercizio; Delle passioni; Della supposizione; Il legislatore;
Il discorso maieutico; Il discorso in opposizione; Il maestro; Il
revisore; L’esaminatore; Ermes; Medea; Dialoghi; Delle tesi
etiche™.100
TESTIMONIANZE SULLA DOTTRINA
CCICERONE,De fin., IV, 15, 40 = SVF I, 412
Non si può veramente parlare di virtù se non siano riferite a una
virtù unica e somma tutte quelle cose che essa accetti o che
respinga. Se noi trascureremo queste, finiremo o col cadere in falli
ed errori quali quelli di Aristone e dimenticheremo quegli stessi
princìpi che abbiamo fissati per la virtù, o — se non li
trascureremo ma non li riferiremo a quello che è veramente il fine
supremo del bene — potremo cadere nella leggerezza di Erillo.
Dovremo infatti abbracciare i costumi di due diversi tipi di vita.
Quegli separa infatti fra di loro due beni supremi che, per essere
reali, devono esser congiunti; mentre eccoli ora separati in modo
tale da non aver più rapporto reciproco, cosa di cui nulla può esser
peggiore.
CICERONE,Acad. Pr., 42, 129 = SVF I, 413
E tralascio posizioni che ormai sembrano essere state abbandonate,
quella di Erillo ad esempio, che poneva il sommo bene nella
conoscenza e nella scienza; pur essendo discepolo di Zenone, vedi
bene quanto sia lontano da questo, e come invece si avvicini a
Platone.
CICERONE,De fin., II, 13, 43 = SVF I, 414
Erillo, che riconduceva tutto alla scienza, intravvide certamente un
bene, ma non quello supremo, né tale che serva a guidare tutta la
vita. E perciò già da molto tempo la sua dottrina è stata
abbandonata, e dopo Crisippo non se ne discute più.
CICERONE,De orai., III, 17, 62 = SVF I, 414
Ci furono anche altre sette di filosofi che affermavano quasi tutti
di rifarsi a Socrate, quelli di Eretria, i seguaci di Errilo, i
Megarici, i seguaci di Pirrone. Ma tutti costoro, per la loro stessa
violenza nelle dispute, sono ormai sconfitti ed estinti.
CICERONE,De fin., III, 9, 31 = SVF I, 415
Sono al limite dell’assurdo sia quelli che dicono che il sommo del
bene è vivere con scienza, sia quelli che non ammettono in assoluto
alcuna differenza fra le cose, e affermano che il sapiente sarà
felice solo se riuscirà a non anteporre alcuna cosa ad altre in
termini di importanza101.
CICERONE,De fin., IV, 14, 36 = SVF I, 416
…oppure che, come Erillo, accettarono la sola conoscenza, respinsero
l’azione.
CICERONE,De fin., V, 8, 23 = SVF I, 417
Anche Erillo, se veramente ha inteso dire che non vi è alcun bene
che non sia la scienza, ha soppresso ogni possibilità di formulare
un proposito e ogni possibilità di definire che cosa sia il dovere.
CICERONE,De fin., V, 25, 73 = SVF I, 417
Preso da questo solo pensiero, Errilo affermò che la scienza | è il
bene supremo, e che non c’è alcuna altra cosa che sia di é per sé da
ricercarsi.
CICERONE,De off., I, 2, 6 = SVF I, 418
Giacché già da prima è stata derisa l’opinione di Aristone, ! di
Pirrone, di Errilo: che avrebbero avuti tutti quanti il loro n buon
diritto di discutere del dovere, se solo avessero lasciato una
possibilità di scelta in vista di quelle cose che ne rendono
possibile la effettuazione.
CLEMENTE ALESSANDRINO,Strom., II, 21, 129, 7, p. 183 Stàhlin = SVF
I, 419
O dovrò esporre l’opinione di Erillo? Errilo dice infatti che il
fine è vivere secondo scienza.
LATTANZIO,Div. Inst., III, 7, p. 191 Brandt = SVF I, 421
Per Erillo sommo bene è la scienza102.
SFERO DI BORISTENE
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 177-178 = SVF I, 620, 625
Anche Sfero Boristenita fu allievo di costui (Cleante), dopo esserlo
stato di Zenone. Quando ebbe fatto un buon progresso nell’esercizio
della filosofia, se ne andò ad Alessandria, presso Tolomeo
Filopatore103. Poiché una volta il discorso era caduto sul problema
se il sapiente possa avere opinioni, e Sfero diceva di no, il re,
volendo confutarlo, fece portare a tavola delle melagrane di cera;
Sfero cadde nell’inganno, e allora il re gridò a gran voce che egli
aveva dato il suo assenso a una rappresentazione falsa. Abilmente
allora Sfero ribatté che egli non aveva dato il suo assenso credendo
che fossero veramente melagrane, ma perché era ragionevole che
fossero melagrane; e la rappresentazione comprensiva differisce
dalla rappresentazione del ragionevole104.
A Mnesistrato105, che lo rimproverava di dire che Tolomeo non era un
re, rispose: «Tolomeo, in quanto ha determinati requisiti, è anche
re».
Scrisse i seguenti libri:
Dell’universo, libri II; Degli elementi; (Del) seme106; Della sorte;
Dei minimi; Contro la teoria degli atomi e dei simulacri; Sugli
organi sensori; Su Eraclito, libri V: Diatribe; Della disposizione
etica; Del dovere; Dell’impulso; Delle passioni, libri II; Del
regno; Sulla costituzione di Sparta; Di Licurgo e Socrate, libri
III; Della legge; Della mantica; Dialoghi erotici; Sui filosofi di
Ere-tria; Sui simili; Sulle definizioni; Sull’abito; Delle
contraddizioni,libri III; Del discorso; Della ricchezza; Della
opinione; Della morte; Dell’arte dialettica, libri II,; Dei
predicati; Delle amfibo-lie; Epistole.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 185 = SVF I, 621
Quando Tolomeo scrisse a Cleante pregandolo o di andare alla sua
corte lui stesso o di mandargli qualcuno dei suoi, vi andò Sfero,
Crisippo non volle saperne.
ATENEO,Deipnosophìstae, Vili, 354e = SVF I, 624
E non è inelegante quel detto di Sfero, quello che fu l’allievo di
Cleante insieme con Crisippo, il quale, trovandosi come invitato
alla corte del re Tolomeo, in Alessandria, una volta che erano stati
presentati degli uccelli fatti di cera, stese verso essi le mani e
fu ripreso dal re per il suo errore: egli acconciamente rispose che
non aveva dato l’assenso alla sensazione che fossero uccelli reali,
ma aveva ammesso esser probabile che quelli fossero uccelli. E
infatti la rappresentazione comprensiva differisce da quella
probabile: l’una non è soggetta ad errore, ma l’altra può sussistere
anche se le cose risultino altrimenti107.
PLUTARCO,Cleomenes, 2 = SVF I, 622
Si racconta che Cleomene abbia partecipato a discussioni filosofiche
fin dalla prima giovinezza; infatti vi era in quel periodo a Sparta
Sfero di Boristene, il quale si intratteneva con giovani ed efebi
assiduamente. Sfero era stato fra i primi allievi di Zenone di
Cizio; sembra che egli amasse molto la valorosa natura di Cleomene,
e che contribuisse ad accendere il suo amore per la gloria … La
filosofia stoica ha in sé qualcosa di pericolosamente eccitante per
le nature grandi e ardite, mentre se incontra una natura grave e
tranquilla contribuisce molto al bene proprio di questa.108.
PLUTARCO,Cleomenes, 11 = SVF I, 623
(Cleomene) si dedicò all’educazione dei giovani e al tipo di
formazione di cui si è parlato, e per la maggior parte di queste
cose Sfero lo assistè di presenza: fu ripreso per loro iniziativa
l’antico ordinamento dei sissizii e degli esercizi ginnici e furono
riportati agli Spartani, pochi con la forza, i più con il loro
stesso consenso, al modo di vivere frugale ch’era tradizionale di
Sparta.
DA SINGOLE OPERE
DLLA COSTITUZIONE DI SPARTA
ATENEO,Deipnosoph., IV, 141C = SVF I, 630
Nel III libro della Costituzione di Sparta, Sfero scrive: «quelli
che partecipano ai sissizii portano dolci e frutta: e fra quelli di
loro che coltivano i campi, talvolta anche la gente più modesta, i
ricchi in ogni caso, portano anche pane e primizie di stagione dalla
campagna, quanto è sufficiente di misura per il banchetto, giacché
ritengono che il portare più di quanto è strettamente necessario sia
cosa superflua e non giovevole».
PLUTARCO,Lycurgus, 5 = SVF I, 629
Aristotele dice che a partire da Licurgo all’inizio era stato
stabilito un numero di trenta partecipanti alla gerusia, ma che poi
due di essi rimisero la carica non sentendosi di sostenerla. Sfero
però dice che il numero fu tale perché tanti e non di più erano
ritenuti i cittadini dotati di senno.
DEL SEME
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., i59 = SVF I, 626
Sfero e i suoi seguaci dicono che il seme proviene da tutte le parti
del corpo, che dunque tutte le parti del corpo sono dotate di potere
generativo. Dicono invece che il seme deUa donna è privo di potere
generativo: è privo di tensione e scarso e acquoso; così dice Sfero.
TESTIMONIANZE SULLA DOTTRINA
AAEZIO,Piatita, VI, 15, 1 Box. Gr., p. 405 = SVF I, 627
Lo stoico Sfero dice che le tenebre sono visibili: dalla vista
infatti si protende verso di loro un raggio109.
CICERONE,Tusc. disp., IV, 24, 53 = SVF I, 628
Quindi la fortezza è «una disposizione dell’anima ad ottemperare
alla legge nel sopportare le cose», oppure «la conservazione di un
giudizio stabile in ordine a quelle cose che appaiono temibili, nel
subirle o nel respingerle», o ancora «la scienza di quello che sia
da temersi e di quello che non lo sia, o di quel che sia del tutto
da trascurarsi, che assicura un giudizio stabile e fermo su tali
cose» …Le definizioni date poco sopra sono di Sfero, un uomo bravo
come pochi a dar buone definizioni, a giudizio degli Stoici110.
APOLLOFANE
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, i4o = SVF I, 404
scrissero intorno al vuoto Crisippo … e Apollofane nella Fisica.
TERTULLIANO,De anima, 14, 2, p. 17 Waszink = SVF I, 405
Secondo Platone l’anima si divide in due parti … secondo Crisippo
perfino in otto, e addirittura in nove per Apollofane111.
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VII, 92 = SVF I, 406
Apollofane dice che c’è una sola virtù; la saggezza.
Fragmenta herculanensia, pap. 19-698, p. 271 Scott (ANON.De sensu,
col. 15) = SVF I, 407
Apollofane, ingannato da un’apparenza di credibilità, pur
peritandosi di considerare la memoria un senso in aggiunta agli
altri, ammise però che essa partecipa di una sorta di analogia (con
la sensazione); e così conferì alla sensazione la facoltà di
rappresentarsi ciò che non esiste più; come se, per salvare
l’evidenza, occorresse aggiungere altre evidenze112.
ATENEO,Deipnosoph., VII, 28id = SVF I, 408
Apollofane, che era seguace anch’egli di Aristone, nell’opera
Aristone (questo è proprio il titolo che le dava), mette l’accento
sulla tendenza al piacere propria del suo maestro113.
1. Ippoboto è scrittore di biografie filosofiche, probabilmente
attivo verso la fine del in secolo a. C; sua è l’elencazione delle
nove sette etiche che Diogene Laerzio propone nel proemio, 19. Cfr.
H. v. ARNIM,Real EncycL, Vili, 2, 1913, coli. 1722-23. Per gli
Stoici qui citati, cfr. supra, parte I, note 15 e 67 a proposito di
Filonide Tebano e Zenone di Sidone. Atenodoro di Soli, fratello di
Arato, è autore di scritti sulle categorie e sulla poesia di Omero;
è attivo nella prima metà del III secolo a. C, in polemica con altri
esponenti della scuola stoica (Vita Arati, IV, 8; III, 57; cfr.
KNAACK,Real Encycl., II, 2, 1896, col. 2044). Di Posi-donio di
Alessandria e di Callippo di Corinto non si hanno altre notizie,
giacché essi non sembrano identificabili con altri personaggi noti
dello stesso nome.
2. Cfr. K. DEICHGRèBER,Persaios, Real-Encycl. XIX, i, 1937, coli.
926-931; in part. 927, ove si esamina la notizia data da
ELIANO,Varia Hist., Ili, 17 (cfr. infra) secondo cui il principe da
educare sarebbe stato lo stesso Antigono; la notizia di Diogene
Laerzio è certamente più attendibile. Per la doppia tradizione circa
11 nome di Persèo cfr. infra,SUIDA,s.v.
3. Come al solito il catalogo laerziano è incompleto; cfr.
DEICHGRèBER, col. 928. Aggiunte sono ricavabili da Ateneo, cfr.
infra; dalla Vita di Suida potrebbe ricavarsi una Ιστορα (cfr.
infra, nota 24, e DIOGENE LAERZIO,Vitae Philos., IV, 46, ove si usa
il termine ἱστοροῦντες Il περὶ θεῶν). Il περί θεν è noto solo da
Filodemo; i συμποτιϰοὶ δὶαλογοι sono attestati con titoli di volta
in volta diversi (συμποτιϰοὶ διάλογοι), DIOGENE LAERZIO, VII, 1;
συμποτιϰά ὑπομνήματα, ATENEO,Deipnosoph., XIII, 607a; cfr. Anche
᾿Απομνημονεύματα nel Catalogo diogeniano, VII, 36, forse titolo
relativo alla stessa opera. Forse il modello è da Vedersi negli
Ἁπομνημονεύματα Κράτητος di Zenone; ma combinata con l’influenza
della letteratura «simposiaca», in particolare del Simposio di
Senofonte (cfr. MARTIN,Symposion. Die Geschichte einer literarischen
Form, Paderborn 1931, pp. 171, 179). L’influenza di Senofonte
sarebbe sensibile anche sulla Costituzione di Sparta; ma cfr. anche
qui l’appiglio prossimo in Zenone, ammiratore della costituzione di
Licurgo, a quanto ci dice PLUTARCO,Lycurgus, n (supra, parte I, nota
105).
4. W. W. TARN,Antigonos Gonatas, Oxford, 1913, rist. 1969, p. 22
segg. per il circolo filosofico intorno ad Antigono e per le
influenze che si esercitarono su di lui; 31 segg. per i suoi
rapporti con la Stoa, e 231 segg. in particolare per Persèo.
5.Δοῦλος ὢν integrazione del Bücheler, ma οἰϰογενής già basta a
chiarire la posizione che l’autore dél’Index attribuisce a Persèo
nei confronti di Zenone; si segue qui l’integrazione proposta dal
Traversa, γέγραπται ὑπ᾿ αὐτοῦ τεθράϕθαι … οἰϰογενής ecc. Raccoglie
la stessa tradizione, come si vedrà fra poco, Gellio (infra, nota
9). Questa tradizione può essere l’eco di una notizia calunniosa
diffusa da Bione Boristenita, nemico di Persèo, suo rivale alla
corte di Antigono; cfr. già F. SUSEMIHL,Geschichte der griechischen
Literatur in der Alexandriner Zeit, Leipzig, 1891-92, I, p. 69, nota
263 (richiamato dal DEICHGRèBER, col. 927); TARN,Antigonos Gon., p.
232, nota 32; POHLENZ,Stoa, II, p. 15; J. F. KINDSTRAND,Bion of
Borysthenes, Upsala 1976, p. 290).
6. Accenno a un personaggio e ad un episodio che ignoriamo; cfr.
TRAVERSA,Index, ad loc.
7. Per la duplicità delle tradizioni relative alla fine di Persèo
cfr. supra, nota biografica. DeICHGRABER, col. 927, considera la
tradizione relativa alla fuga una tradizione secondaria, dovuta
anch’essa alla letteratura calunniosa o comunque malevola formatasi
intorno a Persèo, ed è propenso ad accettare la versione del
suicidio, sulla scorta di WILAMOWITZ,Antigonos v. Kar, p. 108, nota
10 (diversamente TARN,Antigonos Gon., p. 398, nota 9).
8. Opera famosa del biografo ERMIPPO CALLIMACHEO,Index Acad. Herc.,
XI, 8-9, p. 28 Mekler; cfr. F. WEHRLI,Die Schule des Arìstoteles,
Suppl. I, Basel-Stùttgart 1974, frr. 89-91.
9. Cfr. supra, nota 5; per altre fonti della stessa notizia cfr.
oltre VIndex, ATENEO,Deipnosoph. IV, iÓ2d, che riporta lo scherzo di
Bione (non ϰιτιᾶ ma, con gioco di parole, οἰϰετιᾶ).). L’epigramma
del Boristenita potrebbe essere per l’appunto la fonte della
tradizione. Cfr. espressioni quali lo οκτης di Diogene Laerzio, VII,
6, che corrisponde al θρεπτός di Suida.
10. Cfr. lo stesso PAUSANIA, VII, 8, 3.
11. Mentre Pausania raccoglie la notizia del suicidio, di fonte
favorevole e filostoica, Plutarco e Polieno raccolgono la notizia di
tradizione antistoica; il che non meraviglia soprattutto nel caso di
Plutarco, del quale è noto l’antistoicismo sistematico. La
tradizione malevola risale a Ermippo Callimacheo (supra, nota 8).
12. Assente dal catalogo laerziano, cfr. supra, nota 2. Per la
testimonianza relativa al sofista Prodico di Ceo cfr. 84 B 5
Diels-Kranz e M. UNTERSTEINER, Sofisti. Testimonianze e Frammenti,
II, Firenze 19672, pp. 191-192: Untersteiner è per l’attribuzione di
tutta la teoria contenuta nel passo a Prodico, considerandone Persèo
il semplice riferitore (contro H.GOMPERZ,Sophistik und Rhetorik,
Leipzig, 1912, p. 113, nota 251).
13. Cfr. MINUCIO FELICE,Octavius, XXI, 2, con riferimento al solo
Prodico.
14. Cfr. per quest’opera supra, nota 2.
15. Da Persèo, filosofo αὐλιϰός, la questione se il sapiente possa
ubriacarsi è risolta in senso positivo. Per le risposte date alla
stessa questione da Cleante e da Crisippo cfr. Diogene Laerzio, VII,
127 (= SVF III, 237); infra, p. 574.
16. Cfr. WILAMOWITZ,Antigonos v, Kar., pp. 116-117. Si
contrappongono due tradizioni, di cui una nettamente sfavorevole a
Persèo; di questa potrebbe esser, se non fonte prima, perlomeno
raccoglitore ancora Ermippo (cfr. nota n supra).
17. Bione Boristenita, F73 Kindstrand, e commento, ivi, p. 288 segg.
Per Ermippo cfr. WEHRLI,Sch. d. Arisi., Suppl. I, fr. 91 e commento
pp. 96-97: il passo su Persèo deriva probabilmente anch’esso
dall’opera Di quelli che dalla filosofia sono passati a signorie e
tirannidi.
18. WEHRLI,Sch. d. Arisi., Suppl. II, fr. 21 e commento p. 53. Nicia
di Nicea compare qui come altrove quale la fonte cui Sozione attinge
per le sue Διαδοχαί (cfr. Ateneo XII, 592a), di data incerta,
anteriore comunque al I sec. a. C. (cfr. PHILIPPSON,Real-Encycl.,
suppl. VII, 1940, coli. 569-570).
19. Dioscuride (SCHWARTZ,Real-Encycl. V, i, 1903, coli. 1128-1129) è
discepolo di Isocrate, e autore anch’egli di una Costituzione di
Sparta. Cfr. anche Dei-pnosoph. IV, 140D, ove Ateneo ci riporta un
intraducibile giuoco di parole (SVF I, 455). Le notizie sulla
Costituzione di Sparta di Persèo sembrano concernere piuttosto
curiosità erudite che non temi di carattere politico.
20. Non sembra, in base al titolo del tutto diverso, potersi
identificare con gli ᾿Απομνημονεύματα di cui supra, nota 2, pur se
l’oggetto sembra esserne Zenone. Per la questione della cronologia
di Zenone Intr. e nota biografica.
21. Non sappiamo se poter attribuire a Persèo anche la terminologia
di questo brano; contrario DEICHGRABER,Real-Encycl., XIX, 1, col.
928; e in realtà il riferimento di Temistio è generico e comune a
tutta la Stoa. E, comunque, questa della negazione della τύχη
l’unica testimonianza strettamente relativa ad una dottrina
filosofica che ci sia data per Persèo.
22. Ciò dimostrerebbe che Perseo continuava l’esegèsi omerica di
Zenone; cfr. supra, parte I, nota no; e DEICHGRABER, col. 931.
23. Cfr. a proposito di questa notizia, difficile a interpretarsi
con esattezza, H. DITTMAR,Aeschines von Sphettos (Philol. Unters.
XXI), Berlin, 1912, vp. 89, 249; per Pasifonte K. v.
FRITZ,Real-Encycl., XVIII, 2, 1949, col 2084. E notizia
inverosimile, e potrebbe riferirsi non ai sette dialoghi autentici
del filosofo socratico ma agli ἀϰέϕαλοι a lui attribuiti falsamente.
Pasifonte era discepolo di Menedemo di Eretria, il nemico di Persèo
alla corte di Antigono; la notizia può esser quindi carica di
intenti malevoli di cui ci sfugge l’esatto significato (cfr.
DYROFF,Ethik d. alt. Stoa, p. 350).
24. Cfr. già supra, parte I, note 15-16.
25. A proposito di Menedemo di Eretria e in particolare del suo
tentativo di ricostituire la democrazia nella sua patria, sventato
da Persèo, K. v. FRITZ,Real-Encycl. XV, 1, 1931, coli. 788-794, in
part. 790.
26. I critici sono stati divisi circa l’importanza da darsi a questa
polemica; cfr. i più recenti, TSEKOURAKIS,Studies in Termin. st.
ethics, p. 3©, e IOPPOLO, Arìstone ài Chio, p. 29 segg., Opinione e
scienza, p. 80 segg., Pur non volendo riconoscere rilevanza
dottrinale al dissidio fra Aristone e Persèo e insistendo anche
nella più recente opera, p. 83, sul carattere individuale
dell’accusa (accusa ad Aristone di non incarnare la figura del
saggio), la Ioppolo, con riferimento anche a Sfero (per cui cfr.
infra, note 103 e 106), dà del dibattito sull’opinione in corso fra
i discepoli di Zenone una trattazione più convincente. È probabile
che Aristone si mantenesse su posizioni assai più radicali di quelle
di Zenone, e dell’ortodosso Persèo, anche a proposito della
questione della προϰοπή (per la cui presenza in Zenone cfr. supra,
Intr., nota 45) e ritenesse che il προϰύπτων non ancora saggio,
possa ancora avere opinioni.
27. Eraclide Pontico, l’allievo di Platone e poi peripatetico; cfr.
WEHRLI,Sch. d. Arist. VII, fr. 12 e p. 62; per altri rapporti fra
Eraclide e Dionisio ancora DIOGENE LAERZIO, V, 88 e 92,
rispettivamente frr. 38 e 13 Werhrli (è Dionisio il Transfuga
probabilmente il bersaglio dello scritto Contro Dionisio attribuito
ad Eraclide). Su Alessino Megarico cfr. v. ARNIM,Real-Encycl., I, 2,
1894, coli. 1464-1465; Menedemo è forse Menedemo di Eretria, anche
se è singolare che questi possa essere stato il maestro di un
filosofo poi passato alla Stoa. Cfr. in generale su Dionisio il
Transfuga H. v. ARNIM,Real-Encycl. V, 1, 1905, coli. 973-974
28. Per la condiscepolanza di Dionisio con Arato di Soli cfr.
l’anonima Vita Arati, SVF I, 424. Per notizie su Arato di Soli,
poeta-scienziato della prima metà del III secolo,
WILAMOWITZ,Hellenistische Dichtung, II, p. 274 segg.; W.
LUDWIG,Real-Encycl., Suppl. X, 1965, coli. 26-39. H contatto con gli
Stoici può essere avvenuto presso Antigono Gonata, alla cui corte
Arato fece soggiorno.
29. Citato come περὶ πλούτου ϰαὶ χάριτος ϰαὶ τιμωρίας; ma deve
trattarsi di due opere distinte, come suppone ArNIM, SVF, ad loc.
Per osservazioni generali sul catalogo c•r. LUDWIG,Real Encycl,
Suppl. X, col. 973, il quale nota che esso dev’essere incompleto,
dal momento che Dionisio è detto πολυγράϕος
30. Non a caso Dionisio è accomunato qui per la sua dissidenza a
Erillo ed Aristone; cfr. nota 35 infra.
31. Diversamente intende l’Arnim: non οὐδ᾿ ἠσχύνθη, come nel testo
tradito, ma - staccando le ultime parole dal resto della frase — ὁ
δὲ ἠσχύνθη, «ed egli se ne vergognò». Come si vede l’attribuzione
dell’episodio a Dionisio è incerta; esso andava anche sotto il nome
del poeta Spintaro (cfr. test. 3 Snell), tragico contemporaneo di
Dionisio.
32. L’ultima frase è congettura del tutto ipotetica del TRAVERSA, p.
45.
33. Se la parola precedente va intesa come προτε〈ρεῖν〉, non sembra
pertinente l’integrazione ἀϰρότ〈ητος〉 sarà più verosimile quella
ἀϰροά〈σέως〉, cfr. TRAVERSA, p. 47, peraltro in nota; mentre mentre
προτερεῖν è conservato, da questo interprete, nel testo. Lè ARNIM
(I, 446) accetta ἀϰρότ〈ητος〉 in base all’acutezza del dolore») ma
intende anche diversamente la parola precedente. Se intendiamo
questa come προτε〈ρεῖν〉, ciò vorrebbe dire che Persèo contesta la
verità della conversione di Dionisio in base alla forza del dolore,
e afferma che in lui non vi era che desiderio di primeggiare per
originalità. E allora un riferimento seguente alla «acutezza del
dolore» non ha più senso.
34. Odyss, XXI, v.152; WILAMOWITZ,Ant. v. Kar., pp. 125-126.
35. Invece cfr. supra, DIOGENE LAERZIO, VII, 167: Dionisio sarebbe
passato alla scuola cirenaica. Cfr. v. ARNIM,Real-Encycl., Suppl. X,
col. 974: falsa proba bilmente sia l’una che l’altra notizia;
Dionisio prese con ogni verosimiglianza una sua posizione
indipendente del tipo di quella di Aristone e di Erillo. Cfr.
ATENEO,Deipnosoph., X, 437C, il quale parla di una sua propensione
al piacere fino dalla giovinezza, anche se la dissidenza si verificò
poi in vecchiaia (dopo la morte di Zenone e durante la vita di
Cleante, cfr.CICERONE,Tusc. Disp., II, 60).
36. TIMONE, fr. 17 Diels; cfr. Antb. Pian. X, 38. Il verso è
imitazione da Odyss., XXI, v. è79.
37. Da segnalare l’imitazione satirica fatta da LUCIANO,Bis accus.,
20, 21 (SVF I, 430, evidente anche se implicito richiamo a Dionisio:
«vedendo che il suo corpo si opponeva alla filosofia stoica e diceva
il contrario»).
38. lliad., I, v. 646.
39. Dal Περὶ πένθους (Del lutto), l’opera scritta da Teofrasto in
ricordo di Callistene; ove veniva sviluppata la tematica della τύχη,
assai cara al primo Peripato (famoso in proposito il brano di
Demetrio del Falero riportato da POLIBIO,Hist., XXIX, 21 = Demetrio,
fr. 81 Wehrli). È assente da Theophrasti Opera III, Fragmenta, ed.
Wimmer, Lipsiae 1862, che comprende i soli frammenti di
tradizionegreca.
40. L’Arnim (SVF I, p. 96) suppone che il passo provenga dall’opera
Dell’impassibilità. Ma non ci sono rese le conclusioni proprie di
Dionisio.
41. La raccolta dei frammenti di Aristone di Chio che qui si offre
ha potuto essere ampliata rispetto agli SVF grazie a studi recenti;
la monografia già più volta citata di A. M. IOPPOLO,Aristone di Chio
e lo stoicismo antico, appare in realtà la sola dedicata ad Aristone
dopo N. SAAL,De Aristone Chio et Herillo Carthagi-niensi Stoicis
Commentano (I, De Aristonis Chii vita, scriptis et doctrina,
Coloniae Agrippinae, 1852). La bibliografia ulteriore è discussa
dalla stessa Ioppolo altrove, cfr. Aristone di Chio, in Scuole
socratiche minori e filosofia ellenistica, a cura di G. GIANNANTONI,
Bologna, 1977, p. 115 segg.; cfr. anche VIntroduzione alla
monografia citata. Per i limiti dell’ accettazione che qui si fa
delle conclusioni della Ioppolo, propensa ad una larghissima
attribuzione allo stoico dei frammenti e delle testimonianze a nome
«Aristone» in nostro possesso, cfr. già supra, Intr. note 64 e segg.
42. Per i Megarici cfr. DèRING, test. 25, commento a p. 85; e fr. II
A 32 Giannantoni.
43. Questa secessione del Cinosarge sarebbe dovuta, secondo il
POHLENZ (Stoa, I, p. 28), all’inimicizia con Zenone e gli Stoici
ortodossi. Ma ritiene che non si tratti di secessione ma di libertà
dei membri della scuola stoica di insegnare liberamente dove
volessero, IOPPOLO,Arnione ài Chio, p. 35, basandosi su DIOGENE
LAERZIO, VII, 185 (che ci dà la notizia di un insegnamento di
Crisippo nel LicecJ.
44. Non noti se non da questa citazione. Né ci si può spingere fino
a supporre come già il Saal (De Arisi. Chii vita, p. 8), che
Milziade fosse il figlio di Aristo-ne, portante il nome del padre di
questi.
45. Fr. 40 Diels.
46. Considerata notizia attendibile da POHLENZ,Grunàfrage àer
Stoischen Philosophie, Göttingen, 1940, p. 25 nota 1; ma accettata
con riserve e cautele dalla IOPPOLO,Arnione ài Chio, pp. 21-22.
47. Cfr. supra, nota 26.
48. CrATINO, fr. 459 Kock.
49. Megarico (DèRING,Megariker, frr. 73 segg. = II C 1-19
Giannantoni); da DIOGENE LAERZIO, II, 109, sappiamo che aveva
polemizzato anche con Zenone.
50. Cfr. PANEZIO, fr. 124 van Straaten; di Sosicrate è incerto se si
tratti dell’autore dei Kretikà, anche se il passo di Diogene Laerzio
è inserito dal MèLLER (FHG IV, 23) fra i frammenti relativi a questo
(notizie in LAQUEUR,Real-Encycl., III A 2, 1927, coli. 1160-1165).
L’Index Acaàemicorum Herculanensis (col. XXIV, 8) parla di un
Sosicrate allievo di Cameade, ma dandolo come Sosicrate di
Alessandria. La presenza di un catalogo delle opere di Aristone
sembra in realtà contrastare con la notizia dello stesso Diogene
Laerzio (Prooem. 16) secondo cui Aristone di Chio è da annoverarsi
fra i filosofi che non lasciarono nulla di scritto; FESTA,St. ant.,
II, p. 2 segg., cerca di sanare il dissidio supponendo che le opere
di Aristone siano in realtà compilazioni fatte dai discepoli, il che
può valere tuttavia solo per alcune (ad es. Le Σχολαί cui lo stesso
Festa tenta di attribuire, sia pure con qualche dubbio, una larga
parte dei frammenti, cfr. ivi, p. 8). Invece l’intero catalogo è
dato dal Wehrli come fr. 9 di Aristone di Ceo (cfr. Schule des
Aristoteles, VI, Basel-Stuttgart 19682); nel commento (p. 50)
peraltro egli fa distinzione fra l’insieme e ciò che può essere
attribuito ad Aristone di Chio (Sui principi di Zenone, In risposta
alle accuse di A lessino, Contro i dialettici, Contro Cleante, a
parte le Epistole). IOPPOLO,Aristone di Chio, p. 41 segg., rivendica
la paternità di Aristone di Chio per tutte le opere del catalogo,
anche per quelle, come le Ἑρωτιχαὶ διατριβαί, che vengono per lo più
identificate dai critici con gli Ἑρωτιϰὰ ὁμοιώματα di Aristone di
Ceo; considera poi, sulla base di alcune indicazioni di precedenti
studiosi - fra cui FESTA,St. ant., II, p. 3 - le Epistole e il πρòς
Κλεάνθην facenti tutt’uno (Epistole a Cleante) e cerca di togliere
all’opera contenuto polemico. Alcune delle ipotesi di attribuzione
della Ioppolo non mancano di buoni argomenti di supporto. E
interessante vedere come la confusione fra Aristone di Chio e
Aristone di Ceo fosse già in atto a distanza di un secolo, dal
momento che Panezio può essere stato indotto all’attribuzione
indebita al Peripatetico di opere dello Stoico.
51. Anth. Pian., V, 38.
52. Iuli nell’isola di Ceo: è il peripatetico, per cui cfr.
WEHRLI,Lykon und Ariston v. Keos, Sch. d. Arist. VI, cit.
53. Aristone di Alessandria, I sec. a. C: raccolta di frammenti da
parte di L MARIOTTI,Aristone d’Alessandria, Bologna, 1966.
54. Cfr. supra, parte I, nota 82.
55. Cfr. supra, nota 25 segg. (per Menedemo di Eretria).
56. Questo verso di Aristone (esemplato su Iliad. VI, v. 181) è
ambiguo e il suo significato è stato molto discusso dalla critica.
Il primo a interpretarlo in senso negativo è stato Sesto Empirico,
cfr. il fr. qui immediatamente seguente; da vedersi anche
EUSEBIO,Praep. Evang., XIV, 5, 13, in cui peraltro non viene fatto
il nome di Aristone. Per questa interpretazione cfr. L. ROBIN,
Pyrrhon et te scepticisme grec, Paris 1944; p. 68; M. DAL PRA,Lo
scetticismo greco, Bari 1975, 2a ed., I, p. 158; KRèMER,Platonismus
und hell. Philos., p. 9; ed altri. Non mi sentirei di seguire la
IOPPOLO(Aristone di Chio, p. 27, e p. 29, nota 24) nelPaffermare che
le testimonianze di Diogene e di Eusebio (cioè poi di Numenio, cfr.
fr. 25 Des Places) si limitano a indicare le tre scuole che hanno
avuto influenza su Arcesilao, e che la distorsione polemica è in
Sesto; Aristone difficilmente avrà voluto fare una ricostruzione
«storica» in senso obiettivo della formazione di Arcesilao; credo
che la intenzione polemica e schernitoria sia ineliminabile dal
verso citato. Affermare che un filosofo è «di tre scuole» è
accusarlo apertamente di incoerenza. Per la testimonianza di
Strabone (SVF I, 338) cfr. infra, nota 62: essa non contraddice in
alcun modo alla notizia di una polemica fra Arcesilao e Aristone di
Chio.
57. Per Democare cfr. supra, parte I, nota 20. Per Cleocare di
Mirlea in Biti-nia, retore, scrittore, cfr. LENSCHAU in Real-Encycl.
XI, 1, 1921, coli. 672-673. Non meglio identificati Pitocle figlio
di Bugelo (forse seguace di Aristone stesso?) né il Demetrio di cui
qui si parla.
58. E difficile dare, con la IOPPOLO(Aristone di Chio, p. 35), un
valore di obiettività a questa testimonianza, in favore della tesi
secondo cui fra Zenone ed Aristone non vi sarebbe stata vera
contrapposizione polemica. UIndex filode-meo dice semplicemente che
agli occhi di uno «storiografo» relativamente estraneo alle
questioni dottrinali interne di scuola stoica la questione della
assoluta αδιαφορα aristonea - cioè il rifiuto della dottrina dei
preferibili - appariva come il più vistoso tratto di
contrapposizione fra Aristone e Zenone, scarsa importanza rivestendo
il resto. Ragionevole è il supporre comunque che la polemica,
iniziatasi sotto lo scolarcato di Zenone, si sia accentuata quando
Aristone e Cleante furono rimasti i due capi rivali di due correnti
stoiche orientate nel senso di due diverse interpretazioni della
dottrina del maestro.
59. Lacunosissima la prima colonna della quale sono leggibili solo
le parole τῆς τραγῳδίας (così Arnim, Traversa). Forse si tratta di
critica di Aristone alla teoria aristotelica della catarsi? Per il
riferimento a Omero, cfr. lliaà. X, v. 482.
60. Probabilmente lo stoico, del quale si lodava in particolare
l’eloquenza; cfr. supra, Index Stoic. XXXV.
61. Iliad. V, v. 215.
62. Eratostene, cfr. JACOBY,Fr. Gr. Hist. 241 T 10; commento II B,
pp. 704-706. Il frammento viene dall’opera dell’erudito Polemone
Circa la residenza ateniese di Eratostene, opera polemica e
schernitoria, ed è chiarito dal contesto: Eratostene, secondo
Polemone, non avrebbe neppure visto Atene, tutto occupato nei suoi
incontri con uomini illustri di cui in quel periodo la città era
piena. Il «fiorirono insieme» si riferisce quindi al periodo e alla
coincidenza, e non in alcun modo a buoni rapporti intercorrenti fra
Aristone e Arcesilao (cfr. correttamente POHLENZ,Stoa, I, p. 28).
Forza indebitamente il significato del testo nella sua
interpretazione la IOPPOLO,Aristone di Chio, p. 24.
63. Fr. 6 Diels.
64. Fr. 23 Mannebach = IV A 107 Giannantoni.
65. L’attribuzione dei Paragoni è discussa (una rassegna della
letteratura critica in IOPPOLO,Aristone di Chio, p. 50 segg., in
part. p. 52, nota 52). La tesidi A. GERCKE(Real-Encycl., II, 1,
1895, coli. 953-957, e altrove) che l’opera appartenga ad Aristone
di Ceo peripatetico è stata ripresa da K. MRAS,Ariston v. Keos,
«Wiener Studien», LXVIII, 1955, pp. 88-98, e almeno tendenzialmente
da L. ALFONSI,Su Aristone di Ceo, «Aevum», XXXI, 1957, pp. 366-367.
Il WEHRLI(Schule d. Arisi. VI, 19682, p. 62) si limita ad attribuire
alcune sentenze giunteci sotto forma di paragone al peripatetico,
pur riconoscendo l’esistenza di un’opera dello stoico con tale
titolo, e include nella raccolta relativa ad Aristone di Ceo alcuni
«paragoni» che l’Arnim comprendeva invece nella raccolta relativa ad
Aristone di Chio (si riportano qui, sia pure in forma dubitativa;
cfr. infra, note 66, 68, 69).
66. E uno dei frammenti che il WEHRLI(Seh. Arisi., VI, p. 63)
ritiene non attribuibili ad Aristone stoico, per il suo carattere
platonizzante.
67. Lacuna già segnalata dal MEINEKE; lo HENSE propone a
integrazione «alcuni la usano male, altri bene».
68. Attribuito dal WEHRLI al peripatetico (fr. 16 Wehrli, commento a
p. 62) ma le analogie con il detto di Senocrate sulla curiosità, di
sapore analogo (fr.95 Heinze = 64 Isnardi Parente), non
costituiscono in realtà una solida ragione di attribuzione ad
Aristone di Ceo.
69. Fr. 25 Wehrli, cfr. commento p. 64: più adatto, secondo il
WEHRLI, al moderatismo peripatetico che al rigorismo cinico-stoico.
70. Adesp., fr. 131 Nauck2.
71. L’Arnim dà anche la parte seguente del passo, che però riguarda
Socrate, ed è tutt’al più interessante pone attestazione di un
tentativo di assimilazione della dottrina di Aristone a quella di
Socrate.
72. Cfr. anche CICERONE,Acad. pr.y 39, 123.
73. Cfr. anche SENECA,Epist. 89, 13.
74. è un tratto di dottrina epicurea (EPICURO,Ratae Seni. IV. Gn.
Vai. 4, e frr. 447 segg. Us., 204 segg. Arr.2); probabilmente ciò
risponde all’eclettismo senechiano piuttosto che alla fonte, che
Seneca contamina liberamente.
75. Cfr. supra, Intr., nota 36, e parte I, nota 198. L’attestazione
di Clemente, che conferma quella ciceroniana di Acad. pr. II, 130,
ci porterebbe a interpretare in senso specifico l’espressione
ἀδιαϕορία di Diogene Laerzio, VII, 31; Zenone non avrebbe parlato
propriamente di ἀδιάϕορα ma di μέσα, οὐδέτερα, ἕτερα (cfr. già, per
le radici nell’Accademia, SENOCRATE, fr. 76 Heinze = 231 Isnardi
Parente). Sotto l’aspetto filosofico, è però da notarsi che
l’ἀδιαϕορία di cui parla qui Clemente come τλος è qualcosa di
diverso dallo stato di assoluta non preferibilità dell’oggetto: non
è un fatto di ordine obiettivo ma una disposizione soggettiva, o, se
si vuole, l’aspetto a parte subiecti della teoria che nega
l’esistenza di «preferibili».
76. Manca in SVF. E, in forma meno precisa, un’altra attestazione
della polemica aristonea contro la teoria dei «preferibili» (supra,
parte I, nota 205).
77. Cfr. supra, nota 75 (e anche Tusc. Disp., V, 9, 27).
78. Manca in SVF; cfr. IOPPOLO,Aristone di Chio, p. 158 nota 37.
79. Per i πρῶτα ϰατὰ ϕύσιν cfr. già Intr., p. 202, e parte I, nota
211. Per Pirrone cfr. DECLEVA CAIZZI,Pirrone. Testimonianze, Napoli
1981, test. 69B e p. 268 segg. (l’accostamento di Pirrone, Aristone,
Erillo, abbastanza estrinseco date le diverse premesse di questi
filosofi, si spiega con la fonte neoaccademica, probabilmente
Clitomaco, di cui Cicerone fa uso).
80. Per akri passi ciceroniani citabili cfr. De fin. Ili, 3, n-12;
IV, 17, 47; e ancora III, 15, 50; V, 25, 73 (SVF 365-366), di tenore
polemico, e insistenti sulla negazione aristonea di qualsiasi
intermedio. Ancora da citarsi De legibus, I, 20, 55, per il motivo
della parità assoluta di tutte le realtà diverse dalla virtù e dal
vizio.
81. Aristone accetta qui in effetti la quadripartizione zenoniana
dei tOX9T (cfr. supra, parte I, nota 136) che passerà poi in
Crisippo. Per le analogie della teoria ari-stonea delle passioni con
quella crisippea credo si possa seguire la IOPPOLO,Aristone di Chio,
p. 244 segg., la quale sottolinea il carattere razionalisticamente
unitario della teoria. Per l’attribuzione ad Aristone anche dei due
versi, che mancano nella raccolta dell’Arnim, cfr. U. v.
WILAMOWITZ-MOELLENDORFF,De Tragicorum graecorum frag-mentis,
Gòttingen 1893, p. 22 ( = Kleine Schriften, Berlin 1935, I, p. 196);
per altra letteratura critica citata IOPPOLO,Aristone di Chio, p.
247, nota 14.
82. Su questo brano, non presente negli SVF, cfr. LUSCHNAT,Probi,
eth. Fortschritts, p. 200: Aristone polemizza contro Cleante, per il
cui Περὶ εὐϕυιΐας cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 175, ma, come indica il
plurale πρòς οὕς, anche contro Zenone, che aveva ammesso le quattro
virtù fondamentali. Luschnat ritiene che il concetto di εὺϕυΐα sia
importante nell’ambito delle relazioni fra προϰοπή e ἀρετή per lo
sviluppo di questi concetti in Crisippo cfr. infra, parte IV, nota
203.
83. IERONIMO DI RODI, fr. 17 Wehrli. La parola ἀοχλησία è forse di
origine socratica (cfr. per i Cirenaici Aristippo minore, fr. 205
Mannebach = I B 1 Gian-nantoni). Certo la troviamo nell’Accademia,
attestata per Speusippo da CLEMENTE ALESSANDRINO (fr. 57 Lang = 101
Isnardi Parente); Ieronimo di Rodi (III secolo) rappresenta la sua
continuazione del Peripato, così come d’altro canto avrà una
continuazione in ambito epicureo.
84. I due frammenti da Mario Vittorino sono attribuiti ad Aristone
di Alessandria da I. MARIOTTI,Aristone di Alessandria, pp. 93-101,
con buoni argomenti; lo stesso carattere stoico della definizione
della téchne che compare nel primo dei passi non dice nulla di
specifico per l’attribuzione ad Aristone di Chio, ed è consona allo
stile filosofico dell’alessandrino. Nella critica una certa
propensione ad attribuirli ad Aristone di Chio si è manifestata con
J. TOLKIEN,Arìston von Chios bei Marius Victorinus, «Wochenschrift
f. Klass. Philologie» XXII, 1905, pp. 1157-1160, e W.
SCHMID,Nachtrag zu den Fragmenta Stoicorum Veterum, «Philolo-gus»
LXIX, 1910, pp. 440-442; l’opinione è oggi ripresa dalla
IOPPOLO,Aristone di Chio, p. 279 segg. Si inseriscono qui i
frammenti nonostante l’incertezza notevole che regna a loro
riguardo; l’opinione di Mariotti, che essi derivino dall’opera di
Aristone di Alessandria sulle Categorie di Aristotele, non sembra
del tutto destituita di validità e potrebbe esser ripresa in
considerazione.
85. Per questo brano filodemeo cfr. già Intr., nota 65. Allo JENSEN,
che aveva integrato nel testo il nome di Aristone nel 1923, nella
sua edizione dell’opera filodemea, il solo PHILIPPSON si oppose
(«Philol. Wochenschr.» XLIV, 1924, col. 420), sembrandogli a ragione
assai singolare che ad Aristone di Chio, incentrato su una
problematica esclusivamente etica e sostenitore dell’assoluta
indifferenza di quanto esula da questa, si potesse attribuire una
elaborata teoria estetica, con l’affermazione della positività del
fatto poetico-letterario anche sotto l’aspetto puramente formale. Ai
dubbi del Philippson, che la critica non ha raccolto, molto più può
oggi essere aggiunto, giacché molte altre considerazioni possono
render dubbia l’attribuzione (accettata senza esser rimessa in
discussione anche nella monografia della IOPPOLO, cfr. tutto il
capitolo La poetica, p. 256 segg.); ma ciò che soprattutto colpisce
è il carattere eclettizzante della teoria letteraria ivi esposta,
teoria che appare tipica di un filologo alessandrino o pergameno
inteso a mediare fra alcune categorie aristoteliche e altre stoiche;
la collocazione del brano di Filodemo, fra la critica, che sembra
sicura, al filologo Neoptolemo di Pario e quella, sicura, al
filologo Cratete di Mallo; la dipendenza del preteso Aristone dalla
teoria crisippea della ϕωνή?. Si dà perciò qui il brano per comodità
degli studiosi e possibilità di confronto, senza accettare
l’attribuzione aristonea.
86. Nel brano papiraceo figura solo ων la fine del nome, che può
essere anche del tutto diverso da quello di Aristone. L’integrazione
di tutte queste righe è dello Jensen. ᾿Aντεχόμενος τῶν Στωιϰῶν, se
così si deve leggere nel testo assai mutilo, non indica appartenenza
alla setta stoica ma accettazione di teorie stoiche, e Filodemo
spiega subito dopo quali: il rifiuto della μετριοπαθία peripatetica
(ciò rende impossibile, una volta che nel testo si legga ᾿Aρίστων,
l’attribuzione ad Ari-stone di Ceo). Naturalmente, il contesto
essendo rigorosamente estetico, la «moderazione negli affetti» è
intesa qui in relazione a personaggi poetici.
87. Antimaco, poeta del IV secolo (WeNTZEL, in Real-Encycl. I, 2,
1984, coli. 2434-2436 e PFEIFFER,Hell. Scholarship, p. 93 segg.) che
ebbe una grandissima fama ai suoi tempi, anche presso Platone (cfr.
la notizia di Proclo, In Plat. Tim. I, p. 90, 21 segg. Diehl, circa
una raccolta di suoi carmi che Platone avrebbe fatto fare da
Eraclide Pontico); autore di opere elegiache, come la Lide, o
epiche, come la Tebaide, oltre che di una edizione dei poemi
omerici.
88. La distinzione ϰυρίως – ϰαταχρηστιϰῶς, «in forma impropria», è
tipica di un erudito e grammatico, così la distinzione (di
derivazione aristotelica, cfr. Poet., i449b 31 segg., 1459b 10
segg.) di διάνοια ο διανοήματα, contenuto di pensiero, e λέξις,
forma, espressione: qui l’espressione usata sembra sia in
particolare quella di σύνθεσις, composizione; ma cfr. in Neottolemo
di Pario quella di σύνθεσις τῆς λέξεως. L’apprezzamento di Antimaco
pone l’autore contro cui Filodemo polemizza decisamente fuori dalla
cerchia callimachea (Callimaco esercitava contro la poesia di
Antimaco forti critiche; cfr. il passo di Proclo sopra citato, ove
si dice che Callimaco rimproverava a Platone di esser cattivo
conoscitore di poeti proprio a causa della sua ammirazione per
Antimaco). Ma il deprezzamento di Omero lo pone anche lontano dalla
veduta più usuale della cerchia stoica; cfr. per l’interpretazione
allegorica di Omero nella Stoa supra, parte I, nota 110. Le
integrazioni del testo in questa parte sono in prevalenza del
precedente editore ottocentesco, G. Kentenich.
89. Iliad., III, v. 330.
90. Integrato dallo Jensen per analogia col συγγνώμη letto con più
chiarezza in precedenza. Assai incerto tutto il testo della seguente
col. XVI, soprattutto pe le prime quindici righe, fortemente
integrate dallo Jensen.
91. JENSEN,Philod. über die Gedichte, p. 136, sostiene il carattere
stoico di questo giudizio estetico, adducendo il τέλειον σύμμετρον
(«perfetta armonia») di DIOGENE LAERZIO, VII, 100. Ma si tratta di
concetti platonico-stoici largamente diffusi, e in particolare ciò
non dice niente per l’attribuzione ad Aristone, assertore
dell’irrilevanza assoluta di tutto ciò che non sia bene etico.
92. Per l’espressione ϰριτιϰοί? (eruditi, filologi) cfr.
PFEIFFER,Class. Scholarship, pp. 157 segg., 238 segg. in particolare
a proposito di Cratete di Mallo, sui termini ϰριτιϰός e γραμματιϰός)
e SCHENKE VELD, ΟΙ ΚΡΙΤΙΚΟΙ in Philodemus, «Mnem.» XXI, 1968, p. 176
segg. Da ricordare che Crisippo scrisse un πρòς τούς ϰριτιϰούς
(DIOGENE LAERZIO, VII, 200). Il tenore del discorso di Filodemo
rende assai difficile l’attribuzione delle teorie citate a un membro
della Stoa antica come Aristone, e sembra riferirsi a sviluppi più
recenti della filologia. «Insussistente», ?γνητος, è termine di per
sé insolito, ma usato da Filodemo anche altrove, cfr. H.
DIELS,Philodemos über die Götter, I, «Abhandl. Preuss. Akad.», 1915,
p. 87, e JENSEN, p. 137, nota 1.
93. Integrazioni JENSEN; non facile la comprensione del testo.
Filodemo sembra trovare assurdo il discorso del suo avversario
secondo cui di fronte a un contenuto incomprensibile non possiamo
nemmeno pronunciarci circa la classificazione esatta del
componimento poetico, e forse qui ci troviamo di fronte ad una
forzatura delle parole dell’avversario.
94. La teoria dell’eufonia nella Stoa è molto probabilmente
postcrisippea, mentre è di casa fra i filologi, in proposito
PFEIFFER,Class. Scholarship, pp. 243 (per Cratete di Mallo). Non mi
sembra che basti a ricondurre questi passi ad Aristone
l’affermazione che egli non dimenticava per l’eufonia il contenuto
educativo (IOPPOLO,Aristone di Chio, pp. 264-266). Ci troviamo di
fronte ad una teoria retorica che non ha nulla a che fare con le
testimonianze a noi note su Aristone. Non aristonea è anche la
distinzione fra λόγος e ἀϰοή, che presuppone una psicologia più
articolata del razionalismo psichico unitaristico di cui Aristone è
banditore (supra, Intr., nota 65) e si ritrova invece in altri
ambiti, per esempio presso Cratete di Mallo (PFEIFFER,Class.
Scholarship, p. 243).
95. Questo e il seguente frammento provengono probabilmente
dall’opera Contro i retori citata nel catalogo laerziano.
96. Polieucto di Sfetto, oratore ateniese (P. TREVES, in
Real-Encycl., XXI, 2, 1952, coli. 1614-1616), attivo nell’età delle
guerre contro Filippo in senso antimacedone.
97. Attribuito al Peripatetico dal WEHRLI, cfr. fr. 26 e commento p.
64, Fattribuzione resta in ogni caso assai incerta. Non si
inseriscono qui i frr. biografici (Vita Epicuri, Philod. de pietate
fr. 126, p. 140 Gomperz, e Vita Heracliti, Diog. Laerzio, IX, 5, n,
22, frr. 28-30 Wehrli) che la IOPPOLO,Aristone di Chiot p. 316
segg., vorrebbe attribuire allo Stoico: questa volta la base per una
attribuzione sembra insussistente. Cfr. ancora IOPPOLO,Aristone di
Chio, p. 320 segg., per la confusione possibile di Aristone con un
non meglio identificato Aristonimo in STOBEO,Fior., III, 21, 7, p.
557 Hense.
98. La patria di Erillo è stata intesa come Cartagine (Καρχηδών)
dagli editori più antichi, mentre oggi prevale la lezione «di
Calcedone», χαλχηδόνιος cfr. per questo GIGANTE,Diogene Laerzio2, p.
300 e nota 82, p. 534, con richiamo a P. v. D. MèHLL,Zwei alte
Stoiker: Zuname und Herkunft, «Mus. Helv.», XX, 1963, pp. 1-9, in
part. 6 segg.
99. Sulle due diverse possibili interpretazioni di questo passo cfr.
Intr., nota 68. Probabilmente è esatta l’interpretazione che pone
l’accento sul termine àtaqpερειν, a sottolineare la differenza
radicale intercorrente fra il fine e la ipoteli-de. E anche
probabile che Erillo abbia compiuto una innovazione terminologica
chiamando «ipotelide» quello che Zenone aveva chiamato
«preferibile», ma non alio scopo di riproporre la teoria dei
preferibili con altro linguaggio, anzi allo scopo di confutarla; la
ipotelide ha quindi nella concezione erillea un posto e una funzione
del tutto diversi da quella che il προηγμένον ha nel sistema di
Zenone. Cfr. di recente.IOPPOLO,Lo stoicismo di Erillo, «Phron»,
1986, p. 73.
100. Non si include qui il fr. 410 v. Arnim; questi seguiva il
Croenert in una sua lettura di Index Stoic. Here., col. XXXVII, poi
rivista ulteriormente dal CROENERT stesso, Kolotes und Menedemos, p.
79, nota 392; cfr. oggi TRAVERSA, Index Stoic. Herc., pp. 54-55 (il
nome di Erillo è decisamente caduto). Di questo filosofo l’Index non
sembra dunque far parola, almeno allo stato delle nostre letture.
101. Il riferimento sembra anche ad Aristone oltre che ad Erillo.
L’interpretazione che Cicerone dà di Erillo è, come risulta ancor
meglio dai frammenti seguenti, forzata in senso teoretico, forse per
la rigidezza delle sue fonti dossografi-che. Sembra accettarla il
FESTA,St. ant., II, p. 38 segg. notando fra l’altro il carattere
socratico-platonico di un titolo nel catalogo laerziano, Μαιευτιϰός.
102. Per SVF I, 420 cfr. supra, Aristone di Chio, SVF I, 379: è un
elenco di sapore dossografico in cui Erillo figura accanto ad
Aristone (il valore supremo sarebbe per Erillo la scienza così come
per Aristone lo è la suprema indifferenza, ἀδιαϕορία). Per la
sostanziale somiglianza che intercorreva probabilmente fra le due
posizioni pur nella formulazione diversa cfr. Intr., p. 39 segg.
103. Incertezze circa l’identificazione di Tolomeo; cfr. HOBEIN in
Real-Emycl. III A 2, 1929, coli. 1683-1693 per le divergenze
sussistenti nella tradizione; se Ateneo (cfr. Infra) parla di invito
da parte di Tolomeo, lo stesso Diogene altrove (VII, 185, cfr. fr.
seg.) parla di un invito che sarebbe stato rifiutato da Crisippo e
sarebbe passato ad un ancor giovane Sfero; qui invece egli sembra
parlare di un soggiorno più tardivo. Un soggiorno presso Tolomeo
Filopatore si accenda cronologicamente male con il soggiorno a
Sparta presso Cleomene; ma si perebbe pensare che Sfero abbia fatto
da giovane un soggiorno presso Tolomeo Evergete, o fors’anche
Filadelfo, e che più tardi con Cleomene si sia rifugiato presso il
Filopatore. Così anche POHLENZ,Stoa, II, p. 15. Per la
condiscepolanza ceri Crisippo cfr. Index. Stoic., col. XXXVII, p. 54
Traversa.
104. Per una diversa versione offerta da Ateneo cfr. infra, nota
107. L’espediente cui Sfero ricorre è la nozione di εὔλογον cfr. in
proposito A. M. IOPPOLO,Opinione e scienza, p. 84. Importante per
Arcesilao e l’Accademia di mezzo, il concetto di εὔλογον faceva
parte della polemica intercorsa fra Arcesilao e Zenone, e quindi in
qualche modo della tematica zenoniana. Per la sua presenza in
definizioni zenoniane stesse e i problemi sorti dalla sua
interpretazione cfr. supra, parte I, nota 101.
105. Filosofo non noto se non da questa testimonianza, e da non
confondersi co. platonico Mnesistrato di Taso (cfr. W.
CAPELLE,Real-Encycl. XV, >2, 1932, co.. 2281).
106. Così Meibom contro il poco comprensibile testo tradito περὶ
στοιχείων σπέρματος (seguito poi dagli altri editori).
107. Per la versione alquanto diversa, ma sostanzialmente
coincidente sotto l’aspetto concettuale, di Diogene Laerzio cfr.
supra, nota 26.
108. Per l’attività politica di Sfero cfr. Intr., pp. 41-42 e nota
70.
109. La teoria del raggio visivo ha precedenti letterari (gli occhi
detti «raggi del volto», PiNDARO, fr. 123 Bowra, ARISTOFANE,Vespae,
v. 1032) e ha un precedente in PLATONE (Resp. VII, 509a: l’occhio
ἡλιοειδής). Sarà ripresa da POSIDONIO (frr. 395D-C Theiler, e ivi,
II, pp. 326-328). Essa sembra distaccarsi alquanto dalla più comune
teoria stoica della sensazione come impressione o modificazione.
110. Alcune di queste definizioni tornano fra quelle comunemente
attribuite alla Stoa crisippea; per quelle fondate sulla scienza, ad
es., cfr. infra, parte VI, pp. 1134 e segg. passim.
111. Per le varie distinzioni in parti cfr. infra, parte VI, pp.*
1038. Forse Apollofane considerava la memoria una vera e propria
parte a sé stante dell’anima o un senso distinto dagli altri, (cfr.
fr. segg.). L’attribuzione della dicotomia psichica a Platone si
trova già nei Magna Moralia cioè nella prima tradizione peripatetica
(I, n82a 23 segg.); ma forse la psicologia di Platone era già
presentata in tal modo da Senocrate, sulla base della distinzione
del Timeo fra una parte mortale e una immortale (cfr. in proposito
SENOCRATE, fr. 70 Heinze= 206 I.P.; rimando al commento in
SENOCRATE-ERMODORO,Frammenti, p. 398, anche per i possibili
ascendenti pitagorici della teoria).
112. L’anonimo che scrive, probabile autore di un trattato Sulla
sensazione, potrebbe essere un epicureo del III o del II secolo,
Demetrio Lacone, Zenone di Sidone; a parte l’appartenenza alla
biblioteca di Filodemo, il carattere epicureo del trattato è
confermato dalla terminologia (cfr. parole quali ἐπιβάλλειν ο ἐνάρ,
per cui cfr. USENER,Glossarium, ed. Gigante-Schmid, s.v.). è
polemica contro la dottrina della sensazione e della memoria di
Apollofane; la polemica antistoica è assai viva nell’epicureismo del
III-II sec. a. C.
113. Considerava, per questa testimonianza, Apollofane un allievo
dissidente di Aristone lo HIRZEL,Unters. Cic. Philos. Schr., II, p.
101, nota 2; ma cfr. oggi al contrario IOPPOLO,Aristone di Chio, pp.
24 nota 17 e 84, che propende a dare valore oggettivo alla notizia,
senza intenti denigratori: essa sarebbe confermata dall’analoga
notizia di Eratostene, dataci da Ateneo nello stesso contesto (cfr.
SVF I, 341, e supra, nota 62, per i rapporti fra Aristone ed
Eratostene). Tuttavia è da notarsi che da Ateneo la notizia, se non
come denigrazione, è presentata pur sempre come biasimo da parte del
discepolo Eratostene, e biasimo potrebbe essere anche in Apollofane;
i tramiti e le fonti biografiche difficilmente hanno contenuto
puramente obiettivo e la loro tendenziosità quasi sempre
riscontrabile rende difficile evitare il sospetto di accentuazioni,
deformazioni, valutazioni intenzionali.
PARTE IV
CRISIPPO
NOTA BIOGRAFICA
Di Soli e non di Tarso, come indicherebbero alcune fonti, ma figlio
di un cittadino di Tarso trasferitosi a Soli, Crisippo nacque fra il
281 e il 277. Le fonti lo dànno morto o a 73 o ad 81 anni;
probabilmente la sua morte si pone fra il 208 e il 204, come date
più verosimili. Del tutto incerta, e di difficile collocazione
cronologica (ma in ogni caso anteriore alla residenza in Atene), la
notizia secondo cui la confisca dei beni paterni lo avrebbe reso
povero, inducendolo a volgersi alla filosofia. In Atene fu dal 260
circa; in un primo tempo sembra sia passato attraverso l’Accademia
di Arcesilao e di Lacide, per poi accedere alla Stoa di Cleante; e a
quest’ultimo doveva succedere come scolarca nel 232/231. Rifiutò
l’invito ad Alessandria che fu invece accettato da Sfero, secondo
quanto ci dice una fonte biografica. A differenza dei suoi
predecessori, accettò l’invito dell’assemblea ad assumere la
cittadinanza ateniese, e da allora visse ad Atene con pieni diritti
e senza mai allontanarsene. Ivi condusse una vita di tipo
rigorosamente scolastico, impegnandosi a fondo nella polemica contro
le altre scuole e in particolare contro l’Accademia scetticizzante.
La sua esistenza appare estremamente povera di eventi esteriori. La
sua produzione, al contrario, appare sterminata; lasciava alla
scuola, alla sua morte, un ingente patrimonio di opere.
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO, Vitae philosoph., VII, i, 179-202 = SVF II, 1, 6-7,
8-10, 13
Crisippc, figlio di Apollonio, di Soli o di Tarso, come dice
Alessandro nelle Successioni, fu allievo di Cleante1. In un primo
tempo era un corridore nella corsa lunga; poi, dopo esser stato alla
scuola di Zenone, o, come dicono Diocle e i più, di Cleante, se ne
distaccò quando questi era ancora in vita, e assunse nella filosofia
un importante ruolo indipendente. Era uomo di innata intelligenza e
acutissimo in tutti i campi, sì che si differenziò in moltissimi
punti da Zenone, e anche da Cleante: a quest’ultimo spesso ebbe modo
di dire che a lui occorreva l’insegnamento generico di singole
dottrina, ma che poi le dimostrazioni intendeva trovarle da solo.
Tuttavia, ogni volta che entrava in contesa con Cleante, se ne
pentiva al punto tale da esser solito dire di continuo: «son nato
fortunato in tutte le altre cose / eccetto che in Cleante: in questo
non ho fortuna».
Divenne così famoso nell’esercizio della dialettica che i più
ritenevano che, se gli dèi avessero praticato la dialettica, non ne
avrebbero avuta una diversa da quella di Crisippo. Era ricchissimo
negli argomenti; non perfettamente corretto nello stile. Fu
laborioso più di ogni altro, come ben si vede dai suoi scritti, che
sono in numero di più di settecentocinque. Tale numero altissimo è
dovuto anche al fatto che egli tornava più volte a scrivere sullo
stesso punto della dottrina, mettendo giù tutto quello che gli
veniva in mente, correggendosi, valendosi di una gran massa di
citazioni; sì che una volta si narra che in uno dei suoi scritti
avesse citato quasi per intero la Medea di Euripide, e un tale che
stava leggendo il libro, alla domanda che cosa leggesse, rispose:
«la Medea di Crisippo». Apollodoro ateniese, volendo dimostrare,
nella Raccolta delle dottrine, che Epicuro aveva scritto le sue
opere con le forze sue proprie e senza bisogno di citazioni, e che
quindi esse in realtà erano più di quelle di Crisippo, dice
letteralmente così: «Se si togliessero dagli scritti di Crisippo
tutte le testimonianze altrui che vengono là citate, le sue pagine
rimarrebbero vuote»; questo dice A-pollodoro2. Diocle narra poi che
la vecchia governante di Crisippo, che gli era sempre accanto,
raccontava come egli scrivesse cinquecento righe al giorno.
Ecatone dice che egli si diede alla filosofia dopo che la sua
sostanza ereditaria fu confiscata in favore del tesoro del re. Era
piccolo di corporatura, come si vede dalla statua che è nel
Ceramico, la quale viene completamente nascosta da quella di un
cavaliere che le sta vicina: tanto che Cameade lo chiamava
Cripsippo3.
A chi lo rimproverava di non seguire le lezioni di Aristone, insieme
con molti altri, rispose: «se avessi voluto attenermi a ciò che fa
la moltitudine, non mi sarei dato alla filosofia». A un dialettico
che polemizzava con Cleante proponendogli dei sofismi, disse:
«smetti di distrarre chi è più vecchio dalle cose serie: i tuoi
sofismi, valli a proporre ai giovani». E una volta che un tale gli
andò a sottoporre delle questioni e stava facendolo tranquillamente,
ma quando poi sopravvenne una turba si distrasse e cominciò a
litigare con quelli, egli disse: «ohimè, fratello! l’occhio tuo si
turba / d’un colpo ti trasformi, passando a sensi di furore»4.
Durante i simposi non perdeva la sua tranquillità, si muovevano
scompostamente solo le sue gambe, sì che la serva diceva: «solo le
gambe di Crisippo si ubriacano».
Aveva una stima altissima di sé, tanto che una volta, chiedendogli
un tale: «da chi manderò a educare mio figlio?» rispose: «da me: se
io avessi creduto che ci fosse qualcuno migliore di me, sarei andato
io stesso ad apprendere la filosofia da lui». Perciò si dice che a
lui si riferiva il verso «egli solo sa: gli altri sono ombre
labili»5; e si diceva anche: «se Crisippo non fosse, non sarebbe la
Stoa».
Infine, giunto a conoscenza di Arcesilao e di Lacide, fece anche
lezioni di filosofia con loro nell’Accademia, almeno a quanto dice
Sozione nel libro V1116: questa è la ragione per cui trattò anche
della opinione comune in senso favorevole e contrario, e delle
grandezze, ben conoscendo il corpo delle dottrine accademiche.
Racconta Ermippo che, una volta che teneva lezione nell’Odeon, fu
chiamato dai discepoli per fare un sacrificio: là bevve del vino
puro dolce, e fu preso da capogiro; dopo cinque giorni cessò di
vivere. Era vissuto settantatré anni, e morì nell’Olimpiade 143a,
come dice Apollodoro nelle Cronache7. Il nostro epigramma per lui è
il seguente:
fu preso da vertigine bevendo d’un fiato puro Bacco
Crisippo, né ebbe più cura
del Portico, della patria, dell’anima sua,
ma andò diretto alla casa dell’Ade8.
Alcuni però dicono che Crisippo morì per aver fatto una troppo
grande risata. Un asino aveva mangiato i suoi fichi: egli disse
allora alla vecchia: «dagli anche da bere del vino puro» e si mise a
ridere in maniera così violenta che ne morì.
Sembra che sia stato altero oltre misura. Non dedicò nessuno dei
suoi scritti, che erano in così gran numero, ad alcun re: e si
contentava del servizio di una sola vecchietta, come scrive anche
Demetrio negli Omonimi9. Quando Tolomeo chiese a Cleante di venire
lui stesso o di mandargli qualche discepolo, fu Sfero che andò,
Crisippo non volle saperne10. Invece fece venire presso di sé i
figli di sua sorella, Aristocreonte e Filocrate, e li fece
esercitare nella filosofia. Nel Liceo fu il primo ad avere il
coraggio di far lezioni all’aperto, come racconta l’anzidetto
Demetrio.
Ci fu anche un altro Crisippo, di Cnido, medico, da cui Era-sistrato
afferma di aver molto appreso; e anche un altro figlio di questi,
che fu medico di Tolomeo, e in seguito a calunnia cadde in una
disgrazia e fu punito con la frusta; e altri due, uno discepolo di
Erasistrato, uno autore di un’opera sull’agricoltura11.
Ma torniamo al nostro filosofo. Egli usava fare ragionamenti di
questo tipo: «chi rivela i misteri ai non iniziati è un empio: ma lo
ierofante rivela (i misteri) ai non iniziati; quindi lo iero-fante è
un empio». Oppure: «ciò che non è nella città, non è neppure nella
casa; ma non vi è un pozzo nella città; quindi non vi è neppure
nella casa». Oppure: «c’è un certo tipo di testa; tu non l’hai, vi è
perciò una testa (che tu non hai); tu non hai quindi testa». Oppure:
«se uno è a Megara, non è ad Atene; ma c’è un uomo a Megara; quindi
non c’è un uomo ad Atene». Oppure, «ciò che tu dici passa per la tua
bocca: ma tu dici carro’; ecco quindi che un carro passa per la tua
bocca». Oppure ancora: «se tu non getti via una cosa tu l’hai; ma tu
non getti via le corna; quindi hai le corna». Alcuni però dicono che
questo ultimo ragionamento non sia di Crisippo, ma di Eubulide12.
Vi sono alcuni che rimproverano a Crisippo di aver trattato nei suoi
scritti di molte cose in maniera impudente e scandalosa. Per esempio
in un libro Sugli antichi filosofi naturalisti egli racconta storie
tali su Era e Zeus, per la lunghezza di seicento righe, che nessuno
potrebbe ripeterle senza contaminarsi la bocca. La storia che egli
racconta, essi dicono, è vergognosissima, e — anche se egli loda la
cosa come un atto naturale — tale che si addice molto più a una
prostituta che a una divinità; essa inoltre non è citata da nessun
autore che parli di opere dipinte, né da Polemone né da Senocrate13
e non si trova neanche in Antigono14, è solo frutto di sua
invenzione. Nell’opera La Repubblica ammette che ci si possa
congiungere con la madre o con la figlia o il figlio, e lo stesso
dice nel Di ciò eh’è da scegliersi di per se stesso, subito
all’inizio. Nel libro III del suo Del giusto, in mille righe circa,
dice che è lecito mangiare anche i morti. Nel libro II del Sulla
vita e sui mezzi di sostentamento, ponendosi il problema di quali di
questi mezzi debba procurarsi il filosofo15, dice: «e per quale
ragione dovrebbe procurarsene? Non per vivere, perché il vivere è
cosa indifferente; non per il piacere, anche questo è indifferente;
non per la virtù, questa è autosufficiente in vista della felicità.
Tutti i modi per procurarsi mezzi di sostentamento sono poi
ridicoli: per esempio se uno se li procura presso un re, dovrà
cedere a tutto ciò che questi voglia; se se li procura dagli amici,
l’amicizia diventerà cosa venale e comprabile; se dalla sapienza, la
stessa sapienza diventerà cosa commerciabile.» Per tutte queste cose
Crisippo è biasimato.
Poiché i suoi libri sono assai famosi, mi è sembrato bene di porne
qui il catalogo16, dividendolo secondo opere di un certo tipo. Gli
scritti sono questi:
Trattazione logica generale:
Tesi logiche; Delle meditazioni proprie del filosofo-, Definizioni
dialettiche, a Metrodoro, libri VI; Dei termini usati nella
dialettica, a Zenone, libri I; Arte dialettica, ad Aristagora, libri
I; Dei sillogismi probabili, a Dioscuride, libri IV.
Trattazione logica delle cose:
Serie prima:
Dei giudizi, libri I; Dei giudizi semplici, libri I; Del giudizio
complesso, ad Atenade, libri II; Delle forme negative, ad
Aristagora, libri III; Delle forme affermative17, ad Atenodoro,
libri I; Delle espressioni secondo privazione, a Tearo, libri I; Dei
giudizi indefiniti, a Dione, libri III: Delle differenze fra gli
indefiniti, libri IV; Delle espressioni temporali, libri II; Dei
giudizi perfezionati, libri II.
Serie seconda:
Del sillogismo disgiuntivo vero, a Gorgippide, libri I; Del
sillogismo ipotetico vero, a Gorgippide, libri IV; Della scelta, a
Gorgippide, libri I; Del ragionamento in tre membri, ancora a
Gorgìp-pide, libri I; Dei possibili, a Clito, libri IV; In merito
all’opera di Filone «Dei significati», libri I18; Quali siano i
giudizi falsi, libri I.
Serie terza:
Sulle prescrizioni, libri II; Sull’interrogazione dialettica, libri
II; Sul quesito, libri IV; Epitome su interrogazione e quesito,
libri I; Epitome sulla risposta, libri I; Dell’indagine, libri II;
Della risposta, libri IV.
Serie quarta:
Sui predicati, a Metrodoro, libri X; Sulle proposizioni attive e
passive, a Filarco, libri I; Sui predicati accidentali, ad
Apollonide, libri I19; A Pasilo sui predicati, libri IV.
Serie quinta:
Sui cinque casi, libri I; Sugli enunciati definiti a seconda del
soggetto, libri I; Sul significato accessorio, a Stesagora, libri
II; Degli appellativi, libri II.Trattazione logica delle espressioni
e del discorso che si basa su di esse.
Serie prima:
Sugli enunciati al singolare e al plurale-, Sulle espressioni, a
So-gigene e ad Alessandro; Sulla anomalia nelle espressioni, a
Dione, libri IV; Sugli argomenti soriti applicati alle voci, libri
III; Sui solecismi, libri I; Sui discorsi che contengono solecismi,
a Dionisio, libri I; Discorsi contro l’esperienza comune, libri I;
L’espressione, a Dionisio, libri I.
Serie seconda:
Sugli elementi del discorso e della frase, libri V; Sull’ordinamento
delle proposizioni; Sull’ordinamento e sugli elementi delle
proposizioni, a Filippo, libri III; Degli elementi del discorso, a
Nicla, libri I; Sul termine relativo, libri I.
Serie terza:
Contro quelli che non ammettono la divisione, libri II; Delle
amfiboliey ad Apollas, libri IV; Sulle amfibolie dei tropi, libri I;
Suiramfibolia dei tropi di tipo sillogistico, libri II; Contro il
«Delle amfibolie» di Pantoide, libri II; Introduzione alle
amfibolie, libri V; Epitome sulle amfibolie, a Epicrate, libri I;
Sillogismi introduttivi ai discorsi sulle amfibolie, libri II20.
Trattazione logica dei ragionamenti e dei tropi.
Serie prima:
Arte dei ragionamenti e dei tropi, a Dioscuride, libri V; Sui
ragionamenti, libri III; Sul sistema dei tropi, a Stesagora, libri
II; Confronto dei giudizi tropici, libri I; Dei ragionamenti
reciproci e composti, libri I; Ad Agatone o dei problemi disposti in
serie, libri I; Quali siano i ragionamenti sillogistici vertenti su
una determinata cosa in connessione con una o più altre, libri I;
Sulle conclusioni, ad Aristagora, libri I; Come uno stesso
ragionamento sì possa formulare in più modi, libri I; A proposito
delle argomentazioni contro Vaffermazione che uno stesso
ragionamento si può formulare in maniera sillogistica e non
sillogistica, libri II; A proposito delle obiezioni contro la
soluzione dei sillogismi, libri III; A proposito dell’opera di
Filone sui tropi, a Timostrato, libri I; Ragionamenti logici
ipotetici, contro Timocrate e Filomate, sui ragionamenti e sui
tropi, libri I.
Serie seconda:
Sui ragionamenti concludenti, a Zenone, libri I; Sui sillogismi
primi e non dimostrativi, a Zenone, libri I; Sulla soluzione dei
sillogismi, libri I; Sui ragionamenti prolissi, a Pasilo, libri II;
Sulle teorie relative ai sillogismi, libri I; Sui sillogismi
introduttivi, a Zenone, libri I; Dei tropi in funzione introduttiva,
a Zenone, libri III; Dei sillogismi con figure false, libri V;
Ragionamenti sillogistici secondo risoluzione analitica nei
ragionamenti non dimostrativi, libri I; Ricerche sui tropi a Zenone
e a Filomate, libri I (questo però sembra che sia spurio).
Serie terza:
Dei ragionamenti variabili, ad Atenade, libri I (spurio); Dei
ragionamenti che hanno variabile il medio termine, libri III
(spurio); In risposta ai Ragionamenti disgiuntivi di Aminio, libri
I.
Serie quarta:
Sulle ipotesi, a Meleagro, libri III; Ragionamenti ipotetici sulle
leggi, ancora a Meleagro, libri I; Ragionamenti ipotetici a scopo
introduttivo, libri II; Ragionamenti ipotetici sui teoremi, libri
II; Soluzione dei ragionamenti ipotetici di Edilo, libri II;
Soluzione dei ragionamenti ipotetici dì Alessandro, libri III
(spurio); Delle esposizioni, a Laodamante, libri I.
Serie quinta:
Suirintroduzione al ragionamento «mentitore»21, ad Aristo-creonte,
libri I; Ragionamenti falsi, a scopo di introduzione, libri I; Del
ragionamento mentitore, ad Aristocreonte, libri VI.
Serie sesta:
Contro quelli che credono esservi ragionamenti insieme falsi e veri,
libri I; Contro quelli che risolvono per divisione il ragionamento
«mentitore», ad Aristocreonte, libri II; Dimostrazioni che le
proposizioni indefinite non devono esser suddivìse, libri I; In
risposta alle obiezioni circa la divisione delle proposizioni
indefinite, a Vasilo, libri III; Soluzione data dagli antichi, a
Dioscuride, libri I; Intorno alla soluzione del ragionamento
«mentitore», ad Aristocreonte, libri III; Soluzione dei ragionamenti
ipotetici di Edilo, ad Aristocreonte e Apollas, libri I.
Serie settima:
Contro quelli che dicono che il ragionamento «mentitore» ha premesse
false, libri I; Del ragionamento negativo, ad Aristocreonte, libri
II; Dei ragionamenti negativi, per esercizio, libri I; Sul
ragionamento approssimativo a Stesagora, libri II; Sui ragionamenti
relativi a congetture e sui «quiescenti», a Onetore, libri II; Del
ragionamento «velato»22, ad Arìstobulo, libri II; Del ragionamento
«nascosto»23, ad Atenade, libri I.
Serie ottava:
Del ragionamento «nessuno»24, a Menecrate, libri Vili; Dei
ragionamenti composti di forme definite o indefinite, a Pasilo,
libri II; Del ragionamento «nessuno», a Epìcrate, libri I.
Serie nona:
Sui sofismi, a Eraclide e Pollide, libri II; Sulle questioni
dialettiche insolubili, a Dioscuride, libri V; Contro il metodo di
Arcesi-lao, a Sfero, libri I.
Serie decima:
Contro l’usanza comune, a Metrodoro, libri VI; In favore dell’usanza
comune, a Gorgippide, libri VII.
Ci sono poi scritti su questioni di logica che non possono esser
raccolti nelle quattro sezioni sopra elencate, perché riguardano
ricerche sporadiche e non raccolte in corpo organico circa gli
argomenti esposti: si tratta di altri trentanove scritti. Gli
scritti logici, nel loro insieme, sono trecentoundici25.
Etica: classificazione articolata dei concetti etici:
Serie prima:
Schizzi di etica, a Teoforo, libri I; Tesi etiche, libri I; Premesse
probabili ai principi, a Filomate, libri III; Definizioni
riguardanti ciò eh’è virtuoso, a Filomate, libri II; Definizioni
riguardanti ciò ch è malvagio, a Metrodoro, libri II; Definizioni
riguardanti la mediocrità, a Metrodoro, libri II; Definizioni su
concetti generali, a Metrodoro, libri VII; Definizioni di concetti
propri delle altre arti26, a Metrodoro, libri IL
Serie seconda:
Sui simili, ad Aristocle, libri III; Sulle definizioni, a Metrodoro,
libri VII.
Serie terza:
In risposta alle obiezioni non giuste mosse alle «Definizioni», a
Laodamante, libri VII; Argomenti probabili a sostegno delle
«Definizioni», a Dioscuride, libri II; Sulle specie e sui generi, a
Gorgippide, libri II; Sulle definizioni, libri I; Sui contrari, a
Dionisio, libri II; Argomenti probabili circa le divisioni, i
generi, le specie, i contrari in generale, libri I.
Serie quarta:
Sulle etimologie, a Diocle, libri VII; Etimologie, a Diocle, libri
libri IV.
Serie quinta:
Sui proverbi, a Zenodoto, libri II; Sulle composizioni poetiche, a
Filomate, libri I; Come si deve ascoltare la poesia, libri II;
Contro i critici, a Diodoro, libri I27.
Etica dei concetti generali e delle scienze e virtù che si basano su
questi.
Serie prima:
Sulle riproduzioni pittoriche, a Timonatte, libri I;
SulVespres-sione e la conoscenza che abbiamo dei particolari, libri
I; Sulle nozioni, a Laodamante, libri II; Sulla congettura, a
Pitonatte, libri III; Dimostrazioni circa il fatto che il sapiente
non opina mai, libri I; Sulla rappresentazione comprensiva, sulla
scienza e sulvignoranza, libri IV; Sul ragionamento, libri II;
Sull’esercizio del ragionamento, a Leptine.
Serie seconda:
Di come gli antichi giudicavano la dialettica in base a
dimostrazioni, a Zenone, libri II; Della dialettica, ad
Aristocreonte, libri IV; Sulle obiezioni ai dialettici, libri III;
Dalla retorica, a Dio-scouride, libri IV.
Serie terza:
Sull’abito, a Cleante, libri III; Sull’esperienza tecnica e
l’inesperienza, ad Aristocreonte, libri IV; Sulla differenza fra le
virtù, a Diodoro, libri IV; Che le virtù sono qualità, libri I;
Delle virtù, a Pollide, libri II.
Etica dei beni e dei mali.
Serie prima:
Del bello e del piacere, ad Aristocreonte, libri X; Dimostrazioni
che il piacere non è il fine, libri IV; Dimostrazioni che il piacere
non è un bene, libri IV; Sugli argomenti circa…28.
SUIDA, Lexicon, s.v., IV, p. 830 Adler
Crisippo figlio di Apollonide, di Soli o di Tarso, filosofo,
discepolo di Cleante, che fu a capo della scuola stoica dopo Cleante
stesso, e morì a ottantatré anni, dopo aver bevuto vino puro e aver
avuto un capogiro, nell’olimpiade 143. Lasciò una gran serie di
libri, più di cinquecento, di soggetto filosofico, storico,
grammatico.
Index Stoicorum Herc., coli. XXXVII-XLV, pp. 54-61 Traversa = SVF
II, 2, 329
(Apollonio di Tiro) dice che Crisippo, figlio di Apollonio, fu
discepolo di Cleante e condiscepolo di Sfero.
…Faceva tutte le cose con lo stesso metodo; andava sempre a far
lezione alla stessa ora e alla stessa tornava, sì da non mancare
all’attesa di nessuno dei suoi seguaci…
…i suoi scritti sulla giustizia…30
Nel modo di vivere fu oltremodo misurato e continente…
(la sua serva) rimaneva alla custodia della casa, conservando lo
stesso ordine di vita stabilito fin dall’inizio. Se talvolta egli
aveva bisogno del vaso non tollerava che alcun altro glielo porgesse
fuorché lei31.
E quando egli, pur essendo malato, si alzava per le necessità…
…dicono che questa era la realtà; nessuno potè vederlo intrattenersi
seppur rapidamente con altri che non fossero ascoltatori o seguaci…
QUINTILIANO, Inst. orai., XII, 7, 9 = SVF II, 4
Ma se lo stato delle proprie sostanze dovesse richiedere qualcosa di
più, secondo le norme dettate da tutti i sapienti sarà ammesso che
si riceva qualche benefizio: a Socrate si dettero aiuti per il suo
sostentamento, ma Zenone, Cleante, Cri-sippo hanno accettato un
compenso vero e proprio dai loro discepoli.
VALERIO MASSIMO, Fact. dici, memor., Vili, 7, 10 = SVF II, 19
La longevità di Crisippo passò i termini della prima parte della
vita, e di uno spazio certo non breve: infatti, nel suo ottantesimo
anno, egli lasciò iniziato il ventinovesimo volume, di squisita
sottigliezza, dei suoi Scritti logici. E tanta opera diede, con
tanto lavoro e fatica, nel tramandare i monumenti del suo ingegno,
che per conoscere bene tutto ciò che scrisse c’è pure bisogno di una
lunga vita.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., IV, 62 = fr. 156 Hùlser
Cameade … letti attentamente i libri degli Stoici, (e soprattutto)32
quelli di Crisippo, ne fece una confutazione adeguata; e ne parlava
anche bene, almeno in quanto affermava: «se non ci fosse stato
Crisippo, non ci sarei io»33.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., X, 26 = fr. 157 Hùlser
Moltissimo scrisse Epicuro … Crisippo gareggiò con lui in quanto a
fecondità nello scrivere, come dice Cameade, che chiama il secondo
un parassita di libri altrui: se qualcosa avesse scritto Epicuro,
subito Crisippo ambiva a scrivere alcunché di corrispondente. Per
questa ragione si ripeteva spesso, oppure scriveva le prime cose che
gli passavano in mente. E non lasciava mai corretti i suoi scritti;
e spesso questi erano pieni zeppi di sole citazioni; ma una cosa
simile vediamo essersi verificata anche per gli scritti di Zenone e
di Aristotele.
ORIGENE, Contra Celsum, II, 12, p. 141 Kòtschau = SVF II, 21
Ma Crisippo spesso nei suoi scritti appare in atto di volgersi
contro lo stesso Cleante, facendo innovazioni rispetto alle sue
dottrine, di lui che era stato suo maestro fin dalla giovinezza e
dal quale il suo stesso filosofare aveva avuto inizio … E si dice
che per non poco tempo Crisippo avesse svolto le sue diatribe a
fianco di Cleante.
ORIGENE, Contra Celsum, I, 40, p. 91 Kòtschau = SVF II, 22
Crisippo poi, esponendo spesso le cose che lo hanno colpito, ci
rimanda ad autori che forse avremmo potuto constatare aver parlato
meglio di lui stesso34.
GALENO,De differentia pulsationum, io, VIII, p. 631 Kùhn = SVF II,
24
Ciò è in grande misura presso il proavo della loro setta, Cri-sippo;
questi legifera sui nomi più di quanto Solone non abbia fatto
stabilendo norme agli Ateniesi sulle tavole; ed è il primo a creare
in essi gran confusione … Ora il più bello è che, non nato ad Atene
né ivi educato, ma fino a ieri e poco prima arrivato dalla Cilicia,
prima di aver diligentemente appreso una qualsiasi voce della lingua
greca, si dà a dettar legge sui nomi agli Ateniesi … Quanto Crisippo
abbia fatto violenza alla lingua degli Ateniesi presto e nuovamente
ci avverrà di descriverlo35.
CICERONE, De oratore, I, n, 50 = SVF II, 26
E infatti vediamo che di queste medesime cose alcuni hanno disputato
in maniera debole e tenue, fra cui per esempio quello stesso
Crisippo che dicono essere stato così acuto; tuttavia non per questo
non ha adempiuto ai compiti della filosofia - per il fatto cioè che
non aveva buona capacità di parlare che gli derivasse da un’arte
estranea alla filosofia.
FRONTONE, Epist. ad. M. Antoninum de eloquentia, p. 146 Naber = SVF
II, 27
Dov’è quel tuo grande acume? dov’è la tua sottigliezza? Vigila, e
fa’ attenzione a ciò che richiede lo stesso Crisippo. Forse che gli
basta l’insegnare’, l’esporre l’argomento, il definire, l’esplorare?
no, non gli basta: ma amplifica quanto più può, accumula, inventa
difese, ripete, differisce, ritorna indietro, interroga, descrive,
divide, crea personaggi, adatta a un altro il suo discorso36.
DIONISIO DI ALICARNASSO,De compos. verb.,30-31, II, p. 21
Usener-Radermacher = SVF II, 28
E di che dobbiamo meravigliarci, se quelli stessi che fanno
professione di filosofia e fanno mostra di arti dialettiche sono
così infelici nella disposizione dei nomi che si vergognano perfino
di parlare? Basterebbe addurre a prova l’esempio di Crisip-po
stoico; non andrei più oltre. Nessuno fu più di lui diligente nello
studio delle arti dialettiche e nessuno compose discorsi peggio
combinati fra quelli degni di nome e di fama. E in verità parecchi
hanno fatto sfoggio di trattazioni intorno a questa parte della
dialettica, come necessaria al discorso, e hanno scritto trattati
sulla sintassi delle parti del discorso, ma molti, o meglio tutti,
hanno deviato dal vero, e non han capito nemmeno per sogno che cos’è
che fa la composizione del discorso piacevole e bella.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 24, io46a = SVF II, 31
Ma qualcuno potrebbe dire: perché tu non cesserai mai di dar
battaglia a tali e tanti uomini, e di confutarli, o almeno così
ritieni, per i gravissimi e grandissimi errori che avrebbero
commesso? Essi non avrebbero dunque scritto seriamente di
dialettica, e solo marginalmente e per gioco sul principio, sul
fine, sugli dèi, sulla giustizia; su tutti questi argomenti tu
dichiari il loro discorso vano e in contraddizione con se stesso e
pieno di mille altre pecche.
PLUTARCO, De Stoic. rep.y 10, io36b = SVF II, 32
Essi (gli Stoici) dicono che quell’uomo elaborò i suoi discorsi
polemici, per i quali va famoso, non in forma breve, ma
abbondantemente e con molto studio e cura e fatica, sì che non è da
tutti apprendere bene quale sia la sua dottrina; e ammirano molto la
sua bravura; e ritengono che Cameade non abbia affermato niente di
proprio: egli, qualunque cosa avesse trattato Crisippo, si limitava
a trattarla per suo conto nel senso opposto contrapponendosi alla
dottrina dell’altro; e talvolta esclamava perfino: «o troppo ardito
/ il tuo valor ti perderà»37; e con ciò intendeva dire che egli già
di per sé aveva dato grandi appigli a quanti vogliano criticare e
discreditare la sua stessa dottrina.
PLUTARCO, De comm. not., i, 1059b = SVF II, 33
«Crederei che non a caso, ma per un atto di provvidenza divina dopo
Arcesilao e prima di Cameade ci sia stato Crisip-po: il primo dei
due infatti è stato quello che ha iniziato a far oltraggio e
violenza all’uso comune, e l’altro ha portato l’Accademia al massimo
fiore. Ma Crisippo, ponendosi in mezzo fra i due, con i suoi scritti
contro Arcesilao aveva già preventivamente distrutto molti saggi di
bravura di Cameade; e per suo conto lasciò molti presidi alla
sensazione, come si usa in caso di assedio, ed eliminò del tutto il
disordine relativo alle anticipazioni e alle nozioni, ogni cosa ben
articolando e ponendo nel luogo suo proprio: col risultato che tutti
coloro che tentino di sconvolgere e far violenza alle cose reali
vedono i loro sforzi ridotti a zero e sono confutati come
ingannatori e sofisti38».
DA SINGOLE OPERE
PLUTARCO, De Stoic. rep., 9, 103= SVF II, 30
Ma questa trattazione sugli dèi, che afferma dover essere l’ultima
nella serie, di fatto poi la pone abitualmente prima e la fa servire
da introduzione a tutte le sue trattazioni di etica: sia che scriva
Sui fini, Sulla giustizia, Sui beni e sui mali, Sulle nozze e
Veducazione dei figli, Sulla legge e sulla città, mai si attenta a
dire alcunché se — come le città fanno precedere ai loro decreti
l’espressione «Buona Fortuna»39 — così anch’egli non faccia
precedere discorsi circa Zeus, il Destino, la Provvidenza, o
semplicemente il fatto che il cosmo, che è uno e limitato, è tenuto
insieme da una sola forza.
STOBEO, Eclog., II, 7, 12 p. n6 Wachsmuth = SVF III, p. 204
Di tutti i suoi principi contrari all’opinione comune, egli ne
trattava in più luoghi differenti: nel Dei principi, nello Schizzo
del Discorso40, in molti altri dei suoi scritti su questioni
particolari.
DEL RAGIONAMENTO
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 39 = SVF II, 37
Dicono che la trattazione filosofica si divide in tre parti: una è
la fisica, un’altra è l’etica, un’altra ancora la logica. Questa
divisione la diede per primo Zenone … e così pure Crisippo nel libro
I del suo Del ragionamento … Queste parti Apollodoro le chiama
«luoghi», Crisippo e Eudromo41 le chiamano «forme»; altri ancora
«generi».
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 54 = SVF II, 105
Dicono che il criterio della verità è la rappresentazione
comprensiva..
Crisippo … nel libro I del suo Del ragionamento dice che criteri
sono la sensazione e l’anticipazione42.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., V, 3, p. 421 Mùller = SVF II,
841
Forse (o Crisippo) tu vuoi rammentarci di quello che hai scritto nei
libri Del ragionamento, dove hai dissertato sul fatto che «l’anima è
un complesso di alcune nozioni e anticipazioni». Ma se ritieni che
ciascuna delle nozioni e anticipazioni sia essa stessa parte
dell’anima, sbagli due volte. La prima perché bisogna dire che
queste realtà sono parti non dell’anima, ma del ragionamento, e del
resto tu stesso lo scrivi nella tua trattazione Del ragionamento:
non è lo stesso dire ’dell’anima’ o/del ragionamento’: tanto più che
nel discorso antecedente hai dimostrato che il ragionamento è una
delle realtà che sussistono nell’anima, e non può esser la stessa
cosa l’anima e ciò che sussiste in essa. Il secondo sbaglio è che …
nozioni e anticipazioni non possono esser dette parti dell’anima:
nozioni e anticipazioni sono atti dell’anima, come tu stesso hai
dimostrato mediante altre argomentazioni, e lo sono lo spirito
auditivo e visivo e vocale e generativo e anzitutto lo è la funzione
direttiva, in cui tu stesso dici che sussiste il ragionamento43.
DELL'USO DEL RAGIONAMENTO
PLUTARCO, De Stoic. rep., 9, 10356 = SVF II, 50
Se qualcuno dice che Crisippo ha scritto nel Dell’uso del
ragionamento: «chi affronta la logica come primo oggetto del
filosofare, non deve per questo astenersi dal trattare le altre
parti della filosofia a seconda che se ne offre l’opportunità»,
direbbe certamente il vero.
PLUTARCO, De Stoic. rep., io, 1035Ì = SVF II, 127
Egli dice che non è da rigettarsi Fuso di disputare in senso
contrario, raccomanda semplicemente di usare di questo tipo di
argomentazione con cautela, procedendo come nei tribunali, non per
allocuzione, ma demolendo la credibilità delle argomentazioni
altrui: «questo, egli dice, può andar bene, ed essere coadiuvante al
loro scopo, per quelli che professano la sospensione del giudizio;
ma per quelli che vogliono invece ingenerare una scienza secondo la
quale dobbiamo coerentemente vivere è necessario, al contrario, dare
ai discepoli rudimenti e istruzione, dall’inizio fino al
conseguimento del fine: perciò è necessario anche far menzione dei
ragionamenti contrari demolendo la loro credibilità, come si fa nei
tribunali».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 10, 1037b = SVF II, 129
E nel Dell’uso del ragionamento, dopo aver detto che non bisogna
usare della forza del discorso a scopi non pertinenti, così come
della forza delle armi, afferma: «bisogna usarne al fine della
ricerca della verità, e di tutto ciò che è con essa apparentato, non
per lo scopo contrario, come molti fanno»; con questi «molti»
intende certo riferirsi a quelli che professano la sospensione del
giudizio.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 10, io36f = SVF II, 271
O bisogna apprendere ciò da Crisippo stesso? Guarda che cosa ha
detto della filosofia megarica, nell’opera Dell’uso del
ragionamento, in questi precisi termini: «così come è avvenuto a
proposito della filosofia di Stilpone e di Menedemo44: pur essendo
essi divenuti famosi per la loro abilità, ora il loro stesso modo di
ragionare si ritorce contro di loro a loro offesa: si rimprovera
all’uno e alla sua scuola l’eccessiva grossolanità, all’altro la
manifesta capziosità dei discorsi».
DELL'ORDINAMENTO DELLE PARTI DEL DISCORSO
DIONISIO DI ALICARNASSO,De compos. verb., 31-32, II, p. 22
Usener-Radermacher = SVF II, 2o6a
Quando ho intrapreso a disporre la materia di questa trattazione,
sono andato a cercare se già abbian trattato il soggetto scrittori
precedenti, e soprattutto ho cercato fra i filosofi della Stoa,
sapendo come quegli uomini abbiano messo non poca cura nello studio
circa l’arte del parlare. Su di essi bisogna attestare la verità. Da
nessuna parte e presso nessuno di quelli che sono degni di un certo
nome ho trovato una raccolta — né maggiore né minore — simile a
quella fatta da Crisippo con le due composizioni che hanno per
titolo Dell’ordinamento delle partì del discorso45; esse non
contengono una trattazione retorica, ma una dialettica, come sanno
quelli che le hanno lette, sulla sintassi dei giudizi, veri e falsi,
possibili e impossibili, assodati e mutevoli e ambigui e di altri
determinati modi e tipi del genere; non offrono la benché minima
utilità in vista di discorsi politici, ma mirano solo al piacere e
alla bellezza nella ricerca di ciò cui deve mirare la composizione
d’insieme. Crisippo si tenne infatti lontano da quel tipo di
trattazione.
DELLA DIALETTICA, AD ARISTOCREONTE
PLUTARCO, De stoic. rep., 24, 1045f= SVF II, 126
Nel libro III del Della dialettica, dopo aver notato che Platone si
è occupato seriamente di dialettica, e così pure Aristotele, e i
loro successori fino a Polemone e Stratone, ma soprattutto se ne
occupò Socrate, e dopo aver aggiunto: «si potrebbe pur accettare di
sbagliare in compagnia di tanti uomini e di tale livello», afferma
testualmente: «se essi avessero parlato intorno a questo soggetto
solo marginalmente, lo si potrebbe anche facilmente considerare
trascurabile; ma dal momento che essi hanno dato alla dialettica
somma cura, considerandola da porsi fra le capacità più grandi e più
necessarie, non è credibile che abbiano sbagliato così radicalmente
uomini che in tutto il resto sono quali vediamo».
DEFINIZIONI SECONDO IL GENERE
GALENO, De Hipp. et Plat. plac, IV, 4, p. 351 Mùller = SVF III, 464
…e nel libro VI delle Definizioni secondo il genere definisce la
tensione «impulso di natura razionale che spinge verso ciò che ci
piace, nei limiti del consentito»46.
DEFINIZIONI DIALETTICHE, A METRODORO
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 65 = SVF II, 193
Un giudizio è ciò che può essere vero o falso; oppure un fatto in sé
compiuto, che può essere affermato di per sé, come dice Crisippo
nelle Definizioni dialettiche-, «un giudizio è ciò che può essere
affermato o negato di per se stesso, per esempio: ‘è giorno’, ’Dione
passeggia’». Si chiama giudizio dal fatto di poter essere accettato
o respinto. Chi dice: «è giorno» accetta il dato di fatto che sia
giorno. Se effettivamente lo è, il giudizio proposto è vero, se non
lo è, è una menzogna.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 71 = SVF II, 207
Il sillogismo ipotetico appartiene ai giudizi non semplici, come
dice Crisippo nelle Definizioni dialettiche47 … ed è quello che
consiste in proposizioni unite dal collegamento di un «se»; un
simile collegamento annuncia il seguire di un secondo termine a un
primo, per esempio «se è giorno, c’è luce». Il sillogismo complesso
è un giudizio intrisecamente collegato da più particelle
congiuntive, per esempio «ed è giorno e c’è luce». Il sillogismo
disgiuntivo è quello che è diviso dalla particella disgiuntiva
«oppure», per esempio «è giorno oppure è notte»: in questo caso una
particella di questo tipo annuncia che uno dei due giudizi è falso.
Causativo è poi quel giudizio che è strutturato in base
all’espressione «poiché», per esempio «poiché è giorno, c’è luce»:
in qualche modo infatti il primo termine è causa del secondo. Il
giudizio che indica «di preferenza» è quello che è strutturato
mediante un’espressione che indica appunto il «piuttosto», insieme
con una particella «che» posta in mezzo; per esempio «è piuttosto
giorno che notte»; e il giudizio che indica il meno è quello opposto
ad esso, per esempio «è meno notte di quanto sia giorno».
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 60 = SVF II, 226
La definizione, come dice Antipatro …è un discorso espresso in
maniera analitica e in forma delimitata, e come dice Crisip-po nel
Delle definizioni, ciò che rende la proprietà di un oggetto48.
STOBEO, Eclog., II, 5, 15, p. 79 Wachsmuth = SVF II, 913
Nel libro II del Delle definizioni … e in altri scritti qua e là
afferma: «Il fato è la ragione del cosmo», o: «la ragione di tutto
ciò che nel cosmo è retto da provvidenza»; o anche: «la ragione
secondo la quale sono avvenute le cose passate, avvengono le
presenti, avverranno le future».
DEI POSSIBILI
ARRI ANO, Epicteti diss., II, 19, 1-19 = SVF II, 283
Sembra che il «discorso dominatore» si argomenti in base a tre punti
di appoggio. Poiché non si possono sostenere senza contraddirsi i
tre enunciati («ogni realtà passata che fu vera è anche necessaria»;
«a ciò che è possibile non consegue l’impossibile»; «possibile è ciò
che non è vero né lo sarà»), Diodoro, accortosi del contrasto, cercò
di render verosimili le prime due proposizioni con l’aggiunta di
«nulla è possibile che non sia né debba essere vero». Tuttavia si
potrà conservare validità ai due primi assiomi, enunciando i tre
così: «vi è alcunché di possibile che non è al presente né sarà nel
futuro vero»; «al possibile non consegue l’impossibile»; «non ogni
realtà passata che sia vera è anche necessaria», come sembra
affermasse Cleante con la sua scuola, cui per lo più si accordò poi
Antipatro49.
Ma gli altri (Crisippo e i suoi) accettarono invece le altre due
proposizioni: «è possibile ciò che non è vero né lo sarà»; «ogni
realtà vera passata è anche necessaria»; ammettevano però che al
possibile possa conseguire l’impossibile. Insomma, ammettere tutte e
tre le proposizioni non è lecito, per il fatto che sono in
contraddizione fra di loro … Anche Crisippo ne scrisse in maniera
mirabile nel primo libro del Dei possibili.
PLUTARCO, De stoic. rep., 44, 10540 = SVF II, 551
Nel libro IV del suo Dei possibili suppone che esistano un luogo e
uno spazio intermedio e che ivi sia situato il cosmo. Le sue parole
sono queste: «perciò anche il problema se il cosmo possa esser detto
distruttibile o no ha bisogno di qualche riflessione. Mi sembra che
le cose vadano probabilmente così: alla sua virtuale
indistruttibilità conferisce molto il posto che essa occupa nello
spazio, il fatto cioè che sia nel mezzo, perché, se si potesse
pensare che fosse in altro luogo, certamente la distruzione gli
sarebbe pertinente». E poco dopo nuovamente: «così forse si può dire
che la sostanza è eterna per accidente per il fatto che occupa il
luogo di mezzo, ma che ha una natura atta a renderla tale anche
sotto un altro rispetto; tuttavia anche per concorso di circostanze
accidentali non è suscettibile di distruzione; perciò è eterna».
PLUTARCO, De def. orac., 28, 4250! = SVF II, 551
Per cui si può provare meraviglia e non saper proprio che cosa
rispondere alla questione in virtù di quale causa Crisippo dica che
il mondo è costruito nel bel mezzo dell’universo e così la sua
sostanza, che eternamente occupa il posto mediano di esso, e
nondimeno che esso è costretto all’immobilità e in certo modo
all’indistruttibilità. Così dice nel libro IV dell’opera Dei
possibili, delirando intorno al preteso «punto medio» di uno spazio
infinito, ma accumulando discorsi ancor più assurdi in quanto a
questo inesistente punto medio attribuisce la causa del permanere
dell’universo; dicendo ripetutamente fra l’altro che «la sostanza
del mondo è retta e tenuta insieme dai movimenti verso il suo punto
centrale e da quelli che si dipartono dal punto centrale»50.
DELLE NEGAZIONI
TRATTAZIONI CIRCA LE PRIVAZIONI51
SIMPLICIO, In Arisi. Categ., p. 395, 8 segg. Kalbfleisch = SVF n,
177
Vi è un’altra forma di privazione oltre quella che riguarda la
natura, e cioè quella di cui si è parlato a proposito delle
proprietà che sono per natura e si sono formate naturalmente: una
privazione che Crisippo chiama relativa al costume. Le espressioni
«senza chitone», «senza calzari», «senza pranzo» può significare una
mancanza pura e semplice; per costituire una vera e propria
privazione deve essere detta con puntualizzazione speciale. Di un
bove non diremo che è «senza veste»; né «senza calzari» di noi
stessi nell’atto di prendere il bagno; né «senza pranzo» degli
uccelli oppure di noi stessi al levar del giorno: la privazione deve
sottolineare che quella è l’abitudine e quando essa vi sia. Per
esempio, ammesso che vi sia una certa abitudine stabilita di
prendere il pranzo a un’ora fissa, chi segue questa abitudine,
quando non prende quel dato pasto all’ora stabilita, sopprime
secondo la figura della privazione una evidenza (eu.(pacus) non
certo relativa all’ordine naturale, ma al costume. Vi sono dunque
privazioni le une secondo natura, le altre secondo costume, e vi
sono mancanze (assetai) nell’ordine di ciò che ciascuna realtà attua
per natura o per abitudine. Spesso la privazione indica un caso non
relativo al costume ma anche all’obbligo sociale: per esempio quando
qualcuno viene a un banchetto senza essere stato invitato possiamo
dimostrare che chi ha fatto così non si è comportato
convenientemente né secondo ciò che corrisponde al costume usuale.
D’altra parte, la privazione è pertinente anche alle realtà che
predichiamo come omonime: quando un intero genere per natura non
possiede una certa proprietà, noi diciamo che ne è privo: per
esempio diciamo che le piante sono prive di sensazione, per il fatto
che per natura la sensazione non è loro pertinente. O, quando in un
dato genere vi siano specie che per natura sono dotate di una certa
proprietà, e altre specie che ugualmente per natura non ne sono
dotate, noi diciamo che le specie di questo secondo tipo, che per
natura non ne sono dotate, ne sono prive: tra gli animali, per
esempio, la talpa è priva della vista. Ancora più ne parliamo quando
si tratta di cose che sono state portate via con la violenza.
Tuttavia nel senso più proprio «privazione» si dice per quegli
esseri che per natura possiedono una certa proprietà, ma non la
possiedono di fatto, pur avendone la natura e l’uso, e pur avendo
cominciato a possederla; ed essa viene considerata una realtà
contraria al possesso, sì che un’antitesi di questo tipo viene
chiamata «secondo privazione — secondo possesso (ἕξις)»52 … Bisogna
anche prendere in considerazione il fatto che talvolta nomi non
tipicamente usati in sede logica a indicare la privazione la
indicano di fatto: così per esempio «povertà» equivale a «privazione
di ricchezza»; esser cieco «privazione della vista». Altre volte,
invece, nomi di tipo indicante privazione in realtà non la indicano:
ad esempio immortale, che ha forma privativa, non indica privazione,
perché non usiamo questa parola per indicare qualcuno che sia
mortale per natura ma che poi di fatto non muore. Vi è di regola una
grande confusione in questo campo fra le espressioni indicanti
privazione: per via di una a (o an)53 che sia premessa a una parola,
spesso le si confonde con negazioni, talvolta anche con contrari … E
poiché tale e tanta è F irregolarità di tutte queste forme, Crisippo
fece di ciò trattazione espressa in quei libri detti Delle forme
privative.
SIMPLICIO, In Arisi. Categ., p. 401, 6 segg. Kalbfleisch = SVF II,
178
Non è possibile che fra privazione e possesso (ἕξις) ci sia uno
scambio alterno. La cecità deriva dalla vista, ma non avviene il
contrario. Per questo Crisippo si pose il problema se sono da
chiamarsi ciechi coloro che soffrono di cataratte e che possono
tornare a vedere mediante un’operazione54, o quelli che hanno le
palpebre chiuse. Se sussiste la possibilità di vedere, si è nello
stesso stato di chi tenga gli occhi chiusi o di chi abbia davanti
agli occhi un riparo che impedisca di vedere, tolto il quale però
nulla più lo impedisce. Perciò un simile cambiamento non è passaggio
dalla privazione al possesso. Privazione egli considera dunque
solamente la cecità.
SIMPLICIO, In Arisi. Caieg., p. 394, 31 segg. Kalbfleisch = SVF II,
179
E vediamo infatti che Crisippo, seguendo Aristotele55, dichiara
«privative», tutte quelle cose che sopprimono la possibilità di
possedere una certa proprietà, non in assoluto, ma nel caso che si
indichi chiaramente il carattere naturale della proprietà e il fatto
che essa ci sia … La privazione si contrappone al possesso, e non
solo quella che riguarda le qualità, ma anche le funzioni
(evépyeiat): per esempio la cecità è privazione della funzione
visiva, l’essere zoppo di quella ambulatoria.
CONTRO L'USO COMUNE, A METRODORO (?)
PLUTARCO, De Sioic. rep., 10, 1036c segg. = SVF II, 109
Nei loro scritti dati come Contro l’uso comune essi vaneggiano e
schiamazzano affermando che tutti i discorsi degli Accademici
riguardanti lo stesso soggetto non sono neanche minimamente da
confrontarsi con quelli che Crisippo scrisse per discreditare la
sensazione. E questo è indice della loro ignoranza nel dire così e
della loro vanagloria; è vero invece che quegli, quando poi
nuovamente scrisse sull’esperienza comune, e questa volta nel senso
di una accettazione di essa e dell’esperienza sensibile, scrisse un
trattato ancora più debole di quello precedente…56 Volentieri
chiederei agli Stoici, se credono che le trattazioni logiche dei
Megarici siano più efficaci di quelle raccolte da Crisippo in sei
libri Contro l’esperienza comune…
Tu stesso, Crisippo, nello scrivere tanti libri Contro l’esperienza
comune, nei quali hai esposto tutto ciò che hai potuto trovare,
preso dall’ambizione di superare Arcesilao, non hai pensato che
avresti potuto ingenerare turbamento in chi si trovasse a leggerti?
Non si direbbe, perché egli non usa semplicemente argomentazioni
dialettiche per criticare l’esperienza comune, ma, lasciandosi
trascinare dalla passione come nei discorsi in tribunale, accusa
spesso gli altri di dire cose stolte e di fare discorsi vani.
INTRODUZIONE AI SILLOGISMI57
SESTO EMPIRICO, Adv. logicos, II, 223 segg. = SVF II, 242.
Insomma, per riprendere il discorso dal punto precedente, si può
dire che i ragionamenti non dimostrativi si dividono in due tipi,
quelli che effettivamente non sono dimostrati e quelli che non hanno
bisogno di dimostrazione per il fatto che la loro conclusione è di
per sé evidente. Abbiamo spesso spiegato come gli argomenti posti da
Crisippo all’inizio della Prima Introduzione ai sillogismi
rispondano a questo secondo significato. Ora, in base a questa
precisazione bisogna rendersi conto che il primo tipo di non
dimostrativo è quell’ argomentazione costituta da una proposizione
ipotetica e dal suo antecedente, e che ha per conclusione il
conseguente della proposizione ipotetica. In altri termini, quando
un ragionamento ha due premesse, di cui una è una proposizione
ipotetica e l’altra è l’antecedente della proposizione ipotetica, e
come conclusione ha il conseguente della proposizione ipotetica,
allora tale ragionamento viene chiamato primo non dimostrativo; si
tratta di un ragionamento di questo tipo: «se è giorno, c’è luce; ma
è giorno; dunque c’è luce». Un ragionamento del genere ha come prima
premessa una proposizione ipotetica, «se è giorno, c’è luce»; come
seconda premessa, il membro antecedente di questa stessa
proposizione»; «ma è giorno»; come terzo membro, cioè come
conclusione, ha il membro conseguente della stessa proposizione:
«quindi c’è luce». Il secondo ragionamento non dimostrativo è quello
che è costituito da premesse che sono una proposizione ipotetica e
la contradditoria del suo conseguente e da una conclusione che è la
contraddittoria dell’ antecedente. Ossia, quando un ragionamento è
di nuovo composto di due premesse, di cui una è una proposizione
ipotetica, l’altra è la contraddittoria del membro conseguente della
proposizione ipotetica stessa, e da una conclusione che è la
contradditoria del membro antecedente della proposizione ipotetica,
allora si ha il secondo tipo di non dimostrativo, che è di questa
forma: «se è giorno, c’è luce; ma non c’è luce; dunque non è
giorno». La proposizione «se è giorno, c’è luce» è la prima premessa
dell’ipotetica; l’altra, «non c’è luce», posta come seconda
premessa, è la contradditoria del secondo membro della proposizione
ipotetica; la conclusione, «non è quindi giorno», è la
contraddittoria dell’antecedente. Il terzo ragionamento non
dimostrativo è quello che è costituito da un nesso logico di
carattere negativo e da uno dei due membri di tale nesso, e che ha
come conclusione la contraddittoria dell’altro membro; è di questo
tipo: «non può essere insieme giorno e notte; ma è giorno; dunque
non è notte». Il nesso «non può essere insieme giorno e notte» è
negativo rispetto al nesso «è giorno ed è notte»; la proposizione «è
giorno» equivale a una delle due di cui si compone il nesso; quella
«dunque non è notte» è negativa rispetto all’altro membro del
nesso58. Questi sono alcuni ragionamenti di questo tipo: i loro
tropi e in certo modo schemi, secondo i quali si svolgono le
argomentazioni che li concernono, sono i seguenti: quello del primo
ragionamento: «se è il primo, è il secondo; ma è il primo; dunque è
il secondo»; quello del secondo ragionamento: «se è il primo, è il
secondo; non è il secondo; quindi neppure il primo»; quello del
terzo: «non è possibile che siano insieme il primo e il secondo; ma
è il primo; non è dunque il secondo». Bisogna poi sapere che, dei
non dimostrativi, alcuni sono semplici, altri non semplici; quelli
che sono semplici sono quelli che dimostrano chiaramente di per sé
che sono concludenti … quali sono quelli su esposti … i non semplici
sono quelli che sono composti da ragionamenti semplici, e che hanno
bisogno che si compia l’analisi di quelli per apprendere come
anch’essi siano concludenti. Di questi ragionamenti non semplici,
poi, alcuni sono costituiti da membri omogenei, altri da membri non
omogenei: di omogenei quando sono ragionamenti complessi fatti di
due non dimostrativi del primo tipo o del secondo, di non omogenei
quando sono composti di tutti e tre i tipi di non dimostrativi, e in
generale quelli simili a questi ultimi.
RICERCHE LOGICHE59
Pap. herc. 307 = S VF II, 298a fr. 2
…e ci saranno passati di passati all’infinito; tali saranno quindi
le realtà pertinenti al passato; e allo stesso modo ci saranno
futuri di futuri all’infinito…60
col. 1
…da queste si può passare in maniera plausibile ad altre, dicendo
che non si può affermare che, se vi sono plurali di plurali, in un
modo simile a quello relativo alle cose che si dicono61 al
singolare, non vi siano anche passivi di passivi, né che, se vi è
processo all’infinito per gli uni, non sia così anche per gli altri,
e viceversa. E se qualcuno facesse ragionamenti del genere, se fosse
cioè possibile in casi del genere compiere un passaggio62 ad altri,
ecco che in tali casi sorgerebbe una difficoltà…
col. 2
…se ci sono (predica)ti e gi(udi)zi al passato63, ci sono anche
passati di passati e così all’infinito; ma questo non è; quindi non
vi sono nemmeno predicati e giudizi al passato. E se ci sono
predicati passivi, vi sono anche passivi di passivi, all’infinito;
ma questo non è; quindi non è neanche il primo caso. E se vi sono
predicati al plurale, vi sono anche plurali di plurali all’infinito;
ma questo non è; quindi non è neanche il primo caso…
col. 3
… (si verificano rappresentazioni) (ve)re e false, comprensive e non
comprensive; anche nel pensiero avviene press’a poco lo stesso; non
si può infatti dare di tutte le cose un giudizio (ir)reprensibile)
(?)64 né si può avere una rappresentazione, e tanto meno una
rappresentazione co(mprens)siva, di tutte le cose. Nel pensiero si
verificano quindi rappresentazioni false e non comprensive non meno
di quanto non se ne verifichino di comprensive. E similmente avviene
… a proposito delle cose (visibili) e udibili65 e relativamente a
tutte le sensazioni e in generale al (corporeo?)66 e al pensiero…
col. 467
…non solo nelle realtà naturali si verificano simili differenze, ma
anche nelle arti e nelle occupazioni relative ad altre cose, in più
forme. Inoltre nel campo delle arti avviene lo stesso che nel campo
degli organi della sensazione: non è vero che in esse non ci sia
nulla da scoprire, né che esse non possano estendersi a tutto quanto
l’ambito delle realtà omogenee. Ed è da supporre che ciò sia
pertinente non solo agli uomini saggi, ma anche a quelli s (tolti)
…68. Lo stesso è dato a(pprendere)69 anche rispetto a tutto ciò che
a tali realtà è simile, per spiegare in che cosa un determinato
fatto consista: di cui se essi dicono ambiguamente70 «questo non è
quello» non potranno spiegare le realtà medesime…
col. 5
…è lo stesso dire «questi passeggia» oppure «passeggia questi» così
come il dire «Dione è Teone» rispetto a «Teone è Dione»71, sia che
si enunci così sia in forma definita (ὡρισμένως). E «Dione è Teone»
si oppone a «Dione non è Teone»; sia che lo si enunci così, sia in
forma definita. Nei casi dunque di questo genere non solo è
difficile (confrontare?)72 che cosa sia in realtà ciò che diciamo,
ma talvolta ci sfugge che stiamo dicendo cose false; e questo si
riferisce similmente anche ai saggi. Non è infatti plausibile che
nulla di tutto questo possa spiegarsi; ma non lo è neanche che, una
volta enunciato, non costituisca un punto problematico
(?πιστασις)…73
col. 6
per queste ragioni è dunque un plurale, e così anche in casi simili
rappresenterà (per noi) un punto problematico. Potrà esser plurale
anche a seconda del numero dei soggetti argomentati: per esempio,
nel caso che ci sia la parola «nostre», mentre non lo sarà nel caso
che ci indichino74 realtà diverse o talvolta quale sarà l’oggetto
che si ricerca, mentre singolare è, infatti, «colui che batte»
questi altri ancora…
col. 7
«colui che batte» e «coloro che battono questi altri» … così sarà
possibile nel caso di alcune espressioni75 che siano primariamente
dei plurali … e così per espressioni come «loro» e «nostro».
Altrettanto si dica di espressioni di questo tipo: «ciò che sussiste
(per me)», «cose che sussistono per me», «ciò che sussiste per noi»…
col. 8
…(frasi come) «dopo che costui è tornato in senno, io pure sono
tornato in senno»; o «dopo che costui ha passeggiato, io mi sono
seduto»76; mentre (non possono essere ammissibili)77 frasi come:
«dopo che costui è tornato in senno, io mi sono alzato in piedi».
Tali essendo (le espressioni?)78, sarà possibile esaminare quali
siano le loro differenze. Nel caso di «dopo che lui tornò in senno,
anch’io tornai in senno» e «poiché quegli era tornato in senno, vi
tornai anch’io», si tratta di fatti simili fra loro…
col. 9
… (espressioni che) indicano i fatti e li esprimono, ma non
contengono giuramento né comando né imprecazione né domande né
interrogazione precisa79. E fino a che punto occorra seguire questa
distinzione rappresenta un punto problematico, secondo il
ragionamento dell’«a poco a poco»…80 Per ciò che concerne poi la
risposta, è plausibile che neanche ciò81 si verifichi. Similmente a
proposito dei discorsi che indicano ciò che è vero … il punto
problematico82 è se si tratti di verità e di falsità.
col. 10
non si può quindi supporre che discorsi di quel tipo (= giuramento,
comando ecc.) dicano insieme (il ve)ro e il falso, nel senso che
nello stesso discorso vi sia verità e menzogna; ma (si deve tener
conto del fatto) che in questi casi essi prescindono)83 da quello
che è la semplice indicazione84. (Né?) in (firma)85 l’argomento
precedente il fatto stesso che in essi possa esservi qualcosa di
vero e di falso; in tutti i discorsi noi troviamo talvolta una
semplice forma enunciativa; ma talvolta si tratta di un contenuto
esplicitato (παρεμϕαι-νομένου), che è qualcosa di più rispetto alla
semplice enunciazione…86
col. 11
…di altre cose ho detto87 che esse si affermano secondo nostre
enunciazioni, ma in qualche caso se ne prescinde e in generale
(procediamo?) facendo conversioni in una determinata trattazione88,
sì da non usare espressioni che non siano esattamente delimitate
(ἀναπηρτισμένως o che siano ambigue, molto utile essendo indicare
con precisione questo punto per poter compiere ritorno ad esso con
maggior coerenza89. In frasi del tipo: «cammina, poiché è giorno» ci
esprimiamo in forma ambigua90: in una delle due frasi vi è
l’essenziale, che è il comando: «camminare, perché è giorno»… E il
passeggiare che costituisce il contenuto essenziale dell’imperativo,
il resto non è che aggiunta estrinseca.
col. 12
… in frasi come «questi passeggia, o altrimenti siede» … L’insieme
ricade sotto la forma dell’imperativo, né è possibile una traduzione
ad altra modalità91. Una frase poi di questo tipo: «costui
passeggia, o altrimenti siede» non ha alcun contenuto enunciativo.
In forma rapida92 si dica invece: «passeggia! o altrimenti, se non
fai questo, siediti». E si può anche dire qualcosa di più, come
«cammina, o altrimenti dormi» o «fa’ di pre(fer)enza questo, o
altrimenti quest’altro, o quest’altro ancora» o così procedere
all’infinito…
col. 13
…una simile cosa si dirà in due forme possibili: «cammina o
(sie)di»; delle quali l’uno è di un tipo e l’altra di quest’altro:
«questo, o altrimenti quello». In quale dei due modi dovremo dunque
esprimerci? o dovremo dire che anche in questo caso, nel caso cioè
di un giudizio di questo tipo («Dione passeggia o altrimenti sta
seduto») c’è in realtà un membro che vuole l’imperativo, e che il
discorso plausibile è della forma: «passeggiare o altrimenti
sedersi». Se ciò è, è plausibile che la vera forma del discorso in
questione sia quella imperativa93. Ecco che dopo di ciò si presenta
un altro punto problematico; giacché può essere che quelli che si
esprimono all’imperativo in questa forma: «prendi una qualsiasi di
queste cose», «prendi una a caso o l’altra di queste cose» in realtà
non (coman)dino niente, né in frasi del genere sia reperibile una
vera forma (imperativa…94
col. 14
così è ancora un punto problematico quello che presentano
espressioni come «una (pare)te intonacata» o «impolverata», una
colonna «impeciata», una porta o uno scudo «imbiancati», e un uomo
«spalmato di unguento» o «tinto di fuliggine», e così pure un
mantello «insudiciato» o «sporco» e un uomo «sporco». In un discorso
del genere bisogna stabilire le differenze…95
DICOME ZENONE USASSE SPECIFICAMENTE DEI NOMI96
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 122 = SVF III, 617
Dicono che i sapienti non sono liberi, ma anche re; e che il regno è
un dominio che si esercita senza dar rendiconto, il che può esistere
veramente solo fra i sapienti, come dice Cri-sippo nell’opera Di
come Zenone usasse specificamente dei nomi. Egli dice, infatti, che
chi ha il dominio deve avere retta conoscenza di ciò ch’è bene e di
ciò ch’è male; ma nessuno fra gli stolti possiede una tale
conoscenza.
DELL’ANOMALIA
VARRONE, De lingua latina, IX, 1, p. 145 Goetz-Schòll = SVF 11, 151
Essi non sanno insegnare più di quanto non siano capaci di
apprendere ciò che ignorano; in questa posizione si trovava Cratete,
grammatico di rilievo, il quale, valendosi delle trattazioni di
Crisippo, uomo di grande acume, che aveva lasciato III libri
Dell’anomalia, polemizzò contro la dottrina dell’analogia e contro
Aristarco97; in forma però tale che i suoi scritti lasciano a vedere
come egli manifestamente non avesse individuato bene le opinioni di
nessuno dei due; poiché anche Crisippo, scrivendo sull’anomalia nel
discorso, si era proposto di dimostrare che cose simili sono
indicate con parole dissimili e cose dissimili con espressioni
simili; e questo è vero.
DELLA RETORICA, A DIOSCURIDE
PLUTARCO, De Stole, rep., 28, io47a-b = SVF II, 297-298
Definisce la retorica arte che verte intorno all’ordine e alla
disposizione di un discorso inventato98; e nel libro I della
Retorica così scrive: «Penso che bisogna rivolgere la propria cura
non solo a un ordine libero e schietto, ma anche, nel corso del
parlare, a dare risposte appropriate con le debite modulazioni di
voce, espressioni del volto, gesticolazioni delle mani»; Ma dopo
essersi mostrato così zelante per il discorso, nello stesso libro
più oltre, fatta menzione dello iato, non solo dice che si deve
trascurare un simile problema per attenersi a ciò ch’è più
importante, ma ritiene trascurabili anche alcune oscurità, ellip-si,
solecismi, cose tutte di cui non pochi si vergognerebbero.
Ps. PLUTARCO, Pro nobil., 17, VII, p. 258 Bernardakis = SVF III,
14899
Ma lasciamo stare Crisippo, il quale non una sola volta si
contraddice, come nel primo libro del Dei beni e nel Della retorica,
dicendo che non è contraddittorio l’enumerare la salute fra i beni.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 5, 1034b = SVF III, 698
…Crisippo, il quale ancora scrive nel Della retorica-, «il sapiente
nell’esercitare la retorica e la politica dovrà far conto che siano
beni cose quali la ricchezza, la fama, la salute», e dimostra con
ciò stesso che tutte le dottrine della sua scuola vanno contro le
esigenze della buona fama e della politica, tutti i principi stoici
sono inadattabili alle necessità e alle esigenze dell’azione.
DELLA SOSTANZA
GALENO, De elem., I, 9, I, p. 487 Kùhn = SVF II, 412
Aristotele nei libri Del cielo e Della generazione e corruzione
elabora il suo ragionamento sugli elementi, così come fa anche
Crisippo nel Della sostanza.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 37, io ib-c = SVF II, 1178
E ancora, dopo avere scritto che il cosmo è assolutamente privo di
mende e di difetti e che tutte le cose sono condotte secondo i
dettami di una natura ottima, deve ammettere tuttavia che sussistono
trascuratezze biasimevoli relative a cose non piccole né da poco.
Infatti nel libro III del Della sostanza, dopo aver notato che cose
del genere avvengono anche agli uomini migliori, dice: «forse ciò
avviene perché alcuni particolari vengono trascurati, come succede
in case grandi, ove, anche se rinsieme è ben amministrato, vanno
perduti un po’ di crusca e di orzo: oppure in simili cose
intervengono cattivi spiriti100 facendovi ingenerare anche
negligenze riprovevoli?» E dice che in tutto questo c’entra in gran
parte l’opera della necessità. E lasciamo stare il paragone con la
crusca di fatti come la condanna di Socrate, Pitagora bruciato vivo
dai Cilonei101, Zenone ucciso e torturato dal tiranno Demilo102 e
Antifonte dal tiranno Dionisio103; ma il dire che dalla provvidenza
sono preposti cattivi spiriti all’attuarsi di simili avvenimenti,
come può non essere un biasimo mosso direttamente alla stessa
divinità?
DELLA NATURA
PLUTARCO, De Stoic. rep., 41, io53a = SVF II, 579
Ritiene che il sole sia dotato di anima, fatto di fuoco e nato
dall’esalazione che si muta in fuoco. Dice infatti nel libro I del
Della natura: «la trasformazione del fuoco avviene così: per via
dell’aria esso si muta in acqua; poi da questa l’aria evapora e la
terra si rapprende; per un raffinamento dell’aria si produce
l’etere, che corre circolarmente intorno, e dal mare si accendono
gli astri insieme col sole».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 34, io49f-io50c = SVF II, 937
Dapprima, nel I libro del Della natura, paragonata l’eternità del
movimento a un vortice104 che rivolge in sé tutte le cose e le
sconvolge, dice: «poiché l’ordinamento del tutto procede in questa
forma, necessariamente noi ci troviamo nella situazione in cui di
fatto siamo, anche se è contro natura che ci accada di essere
malati, o acciecati, o diventati musici o grammatici». E poco più
oltre: «In base a questi stessi principi possiamo fare più o meno lo
stesso discorso intorno alla virtù e al vizio, e in generale alle
arti o alle inabilità in esse, come ho già detto». E poco dopo,
risolvendo ogni ambiguità: «Non è possibile che nessuna delle cose
particolari si verifichi in maniera anche minimamente difforme dalla
natura comune e dalla ragione che la governa». Che poi la natura
comune e la ragione comune di questa siano il fato, la provvidenza e
Zeus, lo sanno anche quelli che stanno agli antipodi, tanto egli e i
suoi ne discorrono dappertutto; e quel detto di Omero «si andava
compiendo il consiglio di Zeus105», egli dice che giustamente lo si
deve riferire al fato e a quella natura del tutto secondo la quale
la realtà dell’universo è governata.
…Insomma Crisippo concede piena licenza al vizio nell’atto stesso di
dichiararlo generato non solo per fato o necessità, ma costituito
secondo la stessa ragione della divinità e la perfezione della
natura. Si vede ciò da quanto egli dice esattamente in questi
termini: «Dal momento che la comune natura si estende a tutte le
cose, necessariamente tutto ciò che si verifica nell’universo e
nelle sue singole parti dovrà avvenire in base ad essa e alla sua
ragione, in assoluta continuità, perché non vi è nulla che dal di
fuori possa far ostacolo all’ordinamento generale, né alcuna delle
parti può subire un movimento o assumere una disposizione che sia
diversa da quella della comune natura». Ma quali sono questi
movimenti e queste disposizioni delle parti? è chiaro che sono
disposizioni i vizi e le malattie, e cose come l’avidità, la
dissolutezza, la vanagloria, la viltà, l’ingiustizia; e sono
movimenti atti come gli adulteri, i furti, i tradimenti, gli
assassini, i parricidi. E di questi, Crisippo ritiene che nulla, né
grande né piccolo, vada contro la ragione, la provvidenza, la
giustizia di Zeus!106
PLUTARCO, De Stoic. rep., 47, 10560 = SVF II, 937
E alla fine, dice, nulla avviene né si muove neanche minimamente in
maniera diversa da quella che sia la ragione di Zeus, che coincide
poi esattamente con il fato.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 35, io5of = SVF II, 1181
Estende questa contrapposizione fino al libro II del Della natura,
scrivendo le seguenti cose; «anche il vizio ha una definizione sua
propria107 nei riguardi di casi temibili che si verificano:
anch’esso si rende possibile in base alla ragione naturale e, per
così dire, non avviene invano nei riguardi del tutto: infatti, senza
di esso, non sarebbe neanche il bene».
PLUTARCO, De comm. not., 14, loód = SVF II, 1181
O vuoi considerare fino a che punto arriva di amenità… e di
credibilità? «Come le commedie» dice «hanno talvolta epigrammi
ridicoli, che di per sé sarebbero brutti, ma che dànno pur tuttavia
all’insieme della composizione poetica una certa grazia: così puoi
condannare il vizio di per sé, ma esso non è senza utilità per gli
altri aspetti del tutto»
PLUTARCO, De Stole. rep., 20, io43e-f = SVF III, 153
E in numerosi luoghi esalta fino alla noia i versi «che cosa occorre
ai mortali se non due sole cose / il grano di Demetra e la bevanda
di pura acqua?»108 E nei libri Della natura dice: «il sapiente,
anche se gettasse via la più grande sostanza, riterrà sempre di aver
gettato non più di una dracma.»
PLUTARCO, De Stole, rep., 30, io48b = SVF III, 153
Nel III libro del Della natura afferma che alcuni che si trovano in
condizione di re o hanno grande ricchezza sono ritenuti beati, come
se bastasse per esserlo l’usare vasi da notte d’oro o avere frange
d’oro alle vesti, ma che per chi è veramente buono il perdere le
proprie sostanze equivale a perdere una sola dracma, e l’ammalarsi
equivale a inciampare109.
PLUTARCO, De Stole, rep., 13, 10380 = SVF III, 526
Crisippo, anche se poi ha scritto molte cose in senso contrario,
chiaramente aderisce al principio secondo cui non vi è vizio
superiore ad un altro né errore superiore ad un altro, e nemmeno
virtù superiore ad un’altra virtù né rettitudine superiore ad
un’altra. Dice infatti nel libro III del Della natura: «Come a Zeus
si addice l’andar glorioso di sé e della sua vita e, se così si può
dire, tener alta la testa ed esultare e vantarsi, come chi vive in
uno stato degno di vanto, così tutto questo si addice anche ai
buoni, perché essi non sono in alcun modo superati da Zeus»110.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 18, io42a = SVF III, 760
Nel libro III del Della natura, dopo aver affermato che «giova più
vivere senza senno che non vivere affatto, anche se non si dovesse
mai acquistare saggezza», aggiunge: «di tal fatta sono i beni per
l’uomo, che anche ciò che è male ha una certa superiorità rispetto
alle cose neutre». Tralascio il fatto che altrove egli ha detto che
nulla è giovevole per gli stolti, mentre qui dice che c’è un
vantaggio nel vivere stoltamente; basti dire che, poiché secondo gli
stoici le cose neutre e intermedie sono quelle che non sono né beni
né mali, quando egli afferma che i mali sono in posizione di qualche
vantaggio rispetto a queste realtà non afferma di fatto niente altro
se non che i mali sono superiori a ciò che non è male… Nell’intento
poi di mitigare una simile assurdità, a proposito di ciò che è male
dice ancora: «Non simili cose in realtà sono superiori, ma lo è la
ragione, in virtù della quale è meglio per noi vivere, anche se
dovessimo vivere stoltamente».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 21, io44c-d = SVF II, 1163
Dopo avere scritto, nei libri Della natura, che «la natura ha
prodotto molti animali allo scopo di produrre la bellezza, perché
essa ama il bello e gode della varietà delle forme», e aver aggiunto
il discorso quanto mai assurdo secondo cui «il pavone è stato
prodotto in vista della sua coda, per la bellezza di questa» … nel
libro V del Della natura, affermato che «le cimici ci arrecano
utilità tenendoci svegli e i topi ci ammoniscono a non disporre le
cose incautamente; è naturale tuttavia che la natura ami il bello e
goda della varietà» aggiunge testualmente: «la dimostrazione di ciò
si ha soprattutto dalla coda del pavone ne». E là sostiene che queir
animale è stato prodotto in vista della sua coda, e non viceversa; e
«una volta nato il maschio, la femmina è poi seguita».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 22, io45a = SVF III, 754
Ancora nel V libro del Della natura dice: «bene fa Esiodo a proibire
di orinare nei fiumi e nelle fonti111; sarebbe più ammissibile
permettere di orinare sugli altari o sulle statue degli dèi; e non
vale dire che lo fanno i cani o gli asini o i bambini senza ragione,
giacché essi non hanno alcun riguardo verso simili cose né alcuna
possibilità di comprenderle».
FILODEMO, De pietate, col. 14, p. 81 Gomperz (Dox, Gr., p. 548b) =
SVF II, 636
Scrive cose analoghe anche nei libri Della natura, insieme con le
cose che abbiamo dette (?) nell’intento di conciliarle con i detti
di Eraclito. Nel libro I dice che la notte è la prima e originaria
fra le divinità. Nel III libro dice che il cosmo è uno degli esseri
intelligenti, e che è abitato insieme come una città da dèi e
uomini, e che Zeus e la guerra sono la stessa cosa, come dice anche
Eraclito112. Nel V libro svolge argomentazioni per dimostrare che il
mondo è un essere vivente, dotato di ragione e di senno, divino.
PLUTARCO, De comm. not., 31, io75a-c = SVF II, 1049
Ma Crisippo e Cleante, dopo aver riempito, per così dire, nel loro
discorso di altrettante divinità il cielo, la terra ecc., in realtà
non conferiscono indistruttibilità e immortalità a nessuno di questi
dèi se non al solo Zeus, nel quale vengono poi a risolvere tutti gli
altri, sì che a questo si addice non meno il distruggere che
l’essere distrutto… Nei loro scritti … Sulla natura … essi vanno
dicendo di continuo che tutti gli altri dèi sono nati e saranno
distrutti dal fuoco, e che sono destinati a dissolversi come se
fossero di cera o di stagno… e trovano, per rispondere alle
obiezioni, questo geniale espediente, che l’uomo è mortale, ma che
la divinità non è mortale ma distruttibile.
DEL COSMO
ALESSANDRO DèAFRODISIAIn Arist. Analyt. pr.y p. 180, 31 sgg. Wallies
= SVF II, 624
È vero quello che essi dicono, che dopo la morte di Dione «si
separano il corpo e l’anima di questi», cioè di quel Dione che è
indicato ad esempio: infatti credono che dopo la conflagrazione
queste realtà restino nell’universo nella loro singolarità, e che le
loro proprietà particolari dovranno rinascere nel nuovo cosmo in
forma uguale a quella di prima, come dice Cri-sippo nei libri Del
cosmo.
STOBEO, Eclog., I, 5, 15, p. 19 Wachsmuth = SVF II, 913
Crisippo ritiene che l’essenza del fato sia la forma dello spirito
che governa in un certo ordine il tutto: dice questo nel libro II
del Del cosmo.
LIBRI FISICI
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 139 = SVF II, 300
Sembra loro che due siano i principi dell’universo, quello attivo e
quello passivo. Quello passivo è la sostanza senza qualità, la
materia; quello attivo è la ragione immanente ad essa, la divinità.
Questa, essendo immortale, foggia tutte le realtà al suo interno.
Pongono questo principio…113 fra gli altri Crisippo nel primo dei
Libri fisici, verso la conclusione.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 135-137 = SVF II, 580
Dicono che la divinità è uno, intelletto, fato, Zeus e che gli si
dànno anche numerosi altri appellativi. All’inizio, risiederido in
sé, egli fa volgere tutta la realtà da aria in acqua: e come nella
generazione scorre il liquido seminale, così anche questa che è la
ragione seminale del cosmo continua a sussistere nell’umidità,
facendo la materia ben disposta ad agire in vista della continua
generazion delle cose: poi per prima cosa genera i quattro elementi,
fuoco, acqua, aria, terra. Parlano di ciò … Crisippo nel primo dei
Libri fisici … I quattro elementi ancora indistinti nel loro
insieme, formano la sostanza senza qualità, la materia. Il fuoco è
l’elemento caldo, l’acqua l’elemento umido, l’aria l’elemento
ventoso, la terra l’elemento asciutto. Ma anche nell’aria vi è una
parte a sé stante. Al punto più alto sta il fuoco che è detto anche
etere, nel quale si genera per prima la sfera degli astri immobili,
poi di quelli in movimento: dopo questa viene l’aria, poi l’acqua, e
infine la terra che è il punto di equilibrio del tutto, e si trova
al centro dell’universo114.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 142 = SVF II, 581
Dicono che il cosmo nasce quando dal fuoco la materia trapassa in
aria e poi in umidità, e quindi da questa rapprendendosi la parte
densa nasce la terra, sollevandosi poi la parte tenue e ancora
ulteriormente rarefacendosi nasce il fuoco. Di seguito dalla
mescolanza di tutti questi elementi nascono gli animali e gli altri
generi. Sulla genesi e la distruzione del cosmo parlano … Crisippo
nel primo dei Libri fisici.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 54 = SVF II, 105
Criterio della verità dicono esser la rappresentazione comprensiva
cioè quella che si verifica in base all’esistente, come dice
Crisippo nel secondo dei Libri fisici…
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 55 = SVF II, 140
E la voce è un corpo, secondo gli Stoici, come dicono … Crisippo nel
secondo dei Libri fisici. Tutto ciò che proli duce un qualche
effetto, è infatti, un corpo: e lo produce la voce, quando arriva a
coloro che ascoltano partendo da chi la emette.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 158 = SVF II, 741
Dicono che il seme è quello che è capace di generare realtà simili a
ciò da cui si è separato. Dicono che il seme dell’uomo è quello che
questi emette con umidità e che esso è intimamente commisto alle
parti dell’anima sì da trasmettere le proprietà degli avi. Nel
secondo dei Libri fisici Crisippo dice che esso è nella sua essenza
spirito vitale, come è evidente dai semi che son gettati nella
terra, i quali, passato troppo tempo, non dàn-no più luogo ad alcuna
produzione — è chiaro che la loro forza generativa è esalata.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 157 = SVF II, 867
La vista è resa possibile da un cono che protende fra l’organo della
vista e il soggetto luminoso, come dice Crisippo nel secondo dei
Libri fisici … Questa formazione conica di aria sta con la punta
dell’organo visivo, con la base all’oggetto visto, sì che l’oggetto
che vediamo ci si annunzia per mezzo di una sorta di verga
d’aria115.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 151 = SVF II, 479
Le commistioni avvengono per tutto l’universo, come dice Crisippo
nel terzo dei Libri fisici, e non si tratta di fatti di ordine
accessorio o esterno: infatti un pochino di vino gettato nel mare
farà resistenza per breve tempo, poi si dissolverà completamente.
RICERCHE FISICHE
PLUTARCO, De Stole. rep. 43, io53f = SVF II, 429
Dice che l’aria è per sua natura oscura, e ne prende a prova il
fatto che essa all’inizio è fredda: «essa si contrappone per la sua
oscurità alla luminosità così come per il suo carattere freddo al
calore del fuoco». Dopo aver avanzato tali argomenti nel libro primo
delle Ricerche fisiche…
PLUTARCO, De primo frig., 17, 952c = SVF II, 429
Poiché anche Crisippo ritiene che l’aria all’origine sia fredda e
per questa ragione anche tenebrosa, fa menzione solo di quelli che
ritengono l’acqua esser più lontana dall’etere che non l’aria, e
volendo loro obiettare qualcosa: «così» dice «dovremmo dire che
anche la terra all’origine è fredda, poiché è al massimo grado
lontana dall’etere, respingendo questo discorso come non credibile e
del tutto assurdo. Ma mi sembra che non si sia lontani dal
verosimile e credibile se, invece, alla terra si assegni quel
principio che Crisippo assegna all’aria; quello cioè di essere
originariamente oscura e fredda.
PLUTARCO, De comm. not., 37, 1078c = SVF II, 480
E queste cose ammette Crisippo nel libro I delle Ricerche fisiche,
quando dice che «nulla vieta che una goccia di vino si mischi con
tutto il mare»; e aggiunge, perché non ci meravigliamo: «nella sua
commistione la goccia si estende a tutto l’universo».
PLUTARCO, De comm. not., 45, io84c-d = SVF II, 665
Non si stizziscano se li conduco a questo un passo per volta,
ricordando che Crisippo, nel libro I delle Ricerche fisiche così
afferma: «Non è possibile che la notte sia un corpo e non lo siano
la sera o il mattino o la mezzanotte; né che il giorno sia un corpo,
e non lo siano il primo giorno del mese, il decimo, il quindicesimo,
il trentesimo, il mese stesso: che non lo sia Testate, l’autunno,
l’anno».
TESI FISICHE
PLUTARCO, De Stole, rep., io, 1037!) = SVF II, 128
E per togliere (agli avversari) la possibilità di accusarlo di
contraddizione con se stesso, nelle Tesi fisiche ha scritto: «E
possibile che, avendo compreso che alcunché è in un certo modo, si
tenti tuttavia di argomentare in contrario secondo le forme
stabilite; così come è anche possibile che si compia una
argomentazione prò e contro secondo le forme stabilite pur non
avendo compreso né l’uno né l’altro dei casi in questione»116.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 29, io47b = SVF II, 763
Nelle Tesi fisiche, a proposito di ciò che necessita esperienza e
ricerca, raccomandando di star zitti se non si ha qualcosa di
migliore e di più evidente da dire, precisa «perché non ci succeda
di supporre, come fa Platone, che il nutrimento umido affluisca al
polmone e quello secco all’intestino, o altri errori del genere»117.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 9, 10350 = SVF III, 68
E di nuovo dice nelle Tesi fisiche: «non è possibile giungere
altrimenti né in maniera più appropriata alla trattazione del bene e
del male o della virtù o della felicità, se non muovendo dalla
natura universale e dal governo del tutto»; e dopo poco di nuovo:
«bisogna riallacciare a questo la trattazione del bene e del male,
non essendovi altro principio né riferimento migliore, né in vista
di altro essendo da intraprendersi lo studio della natura se non in
vista della discriminazione fra ciò che è bene e ciò che è male».
TRATTATI DI FISICA
PLUTARCO, De Stoic. rep., 42, 10536 = SVF II, 435
Nei Trattati di fisica passa all’opinione opposta, sostenendo che
«l’aria non ha di per sé né peso né leggerezza».
STOBEO, Eclog., I, 24, 5, p. 206-207 Wachsmuth (ARIO DIDIMO, Epit.
phys., Dox. Gr., p. 466) = SVF II, 683
Di Crisippo: il sorgere di un astro, dice Crisippo nei Trattati di
fisica, è l’emergere di questo al di sopra della terra, e il suo
tramonto è il nascondersi di questo sotto la terra. Il sorgere e il
tramonto degli stessi astri si verificano insieme per persone
diverse da luogo a luogo. Il levarsi (èTctToXrj) dell’astro insieme
col sole è il suo sorgere (evorcoXri) e il suo scomparire col sole è
il suo tramonto. Il tramonto ha due diversi nomi, rispetto al
sorgere e rispetto al levarsi. Il levarsi della costellazione del
Cane è il suo sorgere insieme col sole; il tramonto della
costellazione del Cane è il suo nascondersi sotto la terra insieme
col sole. Il discorso può valere anche per le Pleiadi118.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 140 = SVF II, 543
All’infuori del cosmo, dicono esser diffuso l’infinito vuoto che è
privo di corporeità. Incorporeo è ciò che può esser contenuto da
corpi, ma non lo è di fatto. Entro il cosmo invece non c’è nessun
vuoto, esso è un tutto unitario, ed è necessitato ad esserlo
dall’azione di spirito vitale e di tensione esercitata di corpi
celesti nei riguardi delle realtà che sono sulla terra. Crisippo
dice così … nel primo libro dei Trattati di fisica.
DEL VUOTO
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 140 = SVF II, 543
Crisippo dice così nell’opera Del vuoto ecc.
PLUTARCO, De comtn. not.y 41, io8if=SVF II 518
Crisippo, volendo compiere la divisione con sottigliezza, nello
scritto Del vuoto e in alcuni altri dice: «il tempo passato e il
futuro sono ma non esistono, solo il presente esiste»119.
DEL MOVIMENTO
PLUTARCO, De Stole, rep.y 42, io53e = SVF II, 434
Dice talvolta che l’aria è proclive a salire per la leggerezza … e
nel libro II del Del movimento: «il fuoco, essendo privo di peso,
tende a salire in alto, e anche l’aria ha un movimento simile a
questo; mentre l’acqua è più simile alla terra, l’aria lo è al
fuoco».
PLUTARCO, De Stole, rep. 44, 10546-10550 = SVF II, 550
Non avrebbe dovuto temere ciò, se non avesse negato che i corpi si
muovono per natura da ogni parte verso il centro, non dico della
realtà, ma dello spazio che circonda questa; di ciò fa cenno più
volte, come di cosa «impossibile e contro natura: non vi è
differenziazione nel vuoto, tale da poter condurre i corpi piuttosto
da una parte che dall’altra: è l’ordine del cosmo che è causa del
movimento, e fa si che (tutte le parti) tendano al centro o al mezzo
muovendo da tutti punti». Basti paragonare con ciò una sua
espressione che si trova nel libro II dell’opera Del movimento. Dopo
aver detto in precedenza che il cosmo nel suo insieme è perfetto, ma
che non lo sono le sue singole parti, per il fatto che esse hanno
una certa disposizione relativamente al tutto120 e non sono
autonomamente sussistenti, e quanto al movimento, dopo aver
sostenuto che esso si muove naturalmente in ogni sua parte in vista
della sussistenza e della coesione del tutto, non della sua
dispersione e distruzione, afferma poi: «così, poiché il tutto è
percorso da una tensione e da un movimento che va verso un’unica
direzione, e le parti hanno tale movimento in virtù della natura del
corpo, è credibile che per tutti i corpi il primo movimento secondo
natura sia quello verso il punto centrale dell’universo, sia per il
cosmo nel suo insieme, che così si muove solo verso se stesso, sia
per le sue parti in quanto parti del tutto».
…Alle cose anzidette, o Crisippo, tu riallacci poi, come facendo a
gara a confutarti da te stesso, queste altre espressioni: «A quel
modo che si muove ciascuna delle parti, essendo esse connaturate con
il resto del tutto, è ragionevole pensare che anch’esso si muova di
per sé; ma se, a scopo di pura argomentazione, volessimo supporre
che ci sia del vuoto all’interno dell’universo, anche in questo
caso, contenuto da ogni parte, si muoverebbe verso il centro;
continuerebbe dunque ad avere un simile moto anche se — detto sempre
a scopo di argomentazione — all’interno di esso si producesse
d’improvviso un vuoto».
DEL FATO
STOBEO, Eclog., I, 5, 15, p. 79 Wachsmuth = SVF II, 913
…e nei libri Del fato e qua e là anche in altri scritti, in più
forme, dà queste definizioni: «Il fato è la ragione del cosmo» o «la
ragione secondo cui le cose sono governate nel cosmo per atto di
provvidenza», o «la ragione secondo la quale avvennero le cose
passate, avvengono le presenti, avverrano le future». Cambia spesso
i termini, e, invece della ragione, dice la verità, la causa, la
natura, la necessità, e aggiunge anche altre denominazioni, come
riguardanti la stessa realtà da diversi angoli visuali. Le Moire,
dice, si chiamano così perché in base alla loro azione si compie la
distribuzione (8iocfxepiau.ó(;); sono Cloto, La-chesi, Atropo:
Lachesi si chiama così perché distribuisce a ciascuno la sua parte
secondo che l’ha avuta in sorte (Xayxàveiv); Atropo perché la
distribuzione a ciascuno di ciò che gli è dovuto è immutabile e
inalterabile dall’eternità; Cloto perché la distribuzione secondo il
fato e le cose che ne derivano si compiono in maniera analoga al
volgersi di un fuso (xXa)6eiv); e ciò secondo la spiegazione
etimologica dei nomi, posti utilmente a confronto con le realtà che
ad essi corrispondono.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 149 = SVF II, 915
Dicono che tutto avviene secondo il destino Crisippo nel Del fato …
Il fato è detto causa delle cose che sono o ragione secondo cui
procede il cosmo.
FULGENZIO, Prooem. Mythol., p. 15, 15 segg. Helm = SVF II, 927
Tuttavia nell’ambito della conoscenza umana mai gli errori nascono
se non suscitati da moti casuali, come dice Crisippo scrivendo sul
fato: gli incidenti si determinano per moti sdrucciolevoli.
DIOGENIANO presso EUSEBIO,Praep Evang., IV, 3, 1 segg. = SVF II, 939
Ma Crisippo nel libro anzidetto di quest’opera porta una diversa
dimostrazione di questo tenore: «non sarebbero vere le predizioni
degli indovini, se non fossero tutte quante contenute già nel fato».
Come se fosse evidente che tutte le predizioni di quelli che si
fanno chiamare indovini colgono nel segno o come se,
preferibilmente, da ciò si dovesse ammettere che tutto quanto
avviene secondo il fato … così Crisippo ha condotto la sua
dimostrazione, cadendo in un circolo vizioso. Vuole dimostrare che
tutte le realtà avvengono per fato per il fatto stesso che esiste la
divinazione; ma in realtà non potrebbe dimostrare la validità della
divinazione se non in base al presupposto che tutte le realtà
accadono per fato … Inoltre, se per ipotesi fosse vero che la
divinazione è capace di preannunziare e scoprire in anticipo il
futuro, ne conseguirebbe sì che tutte le realtà si verificano per
fato, non però anche che essa sia cosa utile e necessaria al vivere,
come lo stesso Crisippo dice esaltandola in sommo grado … Se infatti
si volesse sostenere che Futilità dell’arte divinatoria consiste nel
suo stesso predirci ciò che ci può accadere di rovinoso se non
prendiamo cautele per sventarlo, ciò non dimostra certo che tutto
avviene secondo il fato, se è vero che è riposta in noi la
possibilità di sventarlo o di non sventarlo. E se si dicesse che
anche questo avviene per necessità, in quanto il fato si estende a
tutte le cose, si vanificherebbe sotto un altro aspetto Futilità
della divinazione: prenderemo le nostre precauzioni se è deciso per
fato che le prendiamo e non le prenderemo, com’è chiaro, nel caso
contrario, anche se tutti gli indovini ci preannunciassero un dato
futuro. Lo stesso Crisippo ammette che Edipo e Alessandro figlio di
Priamo non poterono essere uccisi, nonostante che i loro genitori
facessero di tutto per sopprimerli allo scopo di evitare il male
che, secondo quanto era stato loro predetto, ne sarebbe derivato;
con ciò ammette che non derivò loro nessun vantaggio dalla
predizione dei mali, per l’essere la causa di questi riposta nel
fato.
PLUTARCO, De comm. not., 31, io75a = SVF II, 1049
Essi a gran voce … nei loro scritti … Del fato diffusamente dicono
che tutti gli altri dèi sono nati e periranno nel fuoco ecc.121.
DIOGENIANO presso EUSEBIO, Praep. evang., VI, 8, 1-2 = SVF II, 925
Vale la pena di paragonare con queste dottrine quelle avanzate dallo
stoico Crisippo in ordine allo stesso problema. Questi, nel libro I
dell’opera Del fato, volendo dimostrare che tutto è compreso
nell’ambito della necessità e del fato, fra le altre testimonianze
si vale anche di questi detti del poeta Omero: «ma il terribile fato
mi circonda che mi è stato dato in sorte al mio nascere»122 e «in
seguito egli dovrà subire / tutto ciò che la moira gli ha filato
quando la madre lo generò»123 e: «non è possibile che alcuno degli
uomini fugga la moira»124. Ciò non accorgendosi che sono contrarie a
queste altre cose altrove detto dal poeta, come gli argomenti di cui
egli stesso si vale nel libro II per sostenere il principio che
«molte delle cose che avvengono dipendono da noi», là ove cita il
verso «essi periscono per la loro stolta presunzione»125, e l’altro:
«ahimé, come i mortali accusano gli dèi / Dicono che da noi vengono
loro i mali; ma essi stessi / nella loro stolta presunzione si
procuran dolori contro la stessa sorte»126. Versi come questo e
altri simili contraddicono alla tesi secondo cui tutto avviene per
destino.
DIOGENIANO presso EUSEBIO, Praep. evang., VI, 8, 25 = SVF II, 998
Nel primo libro del De fato si vale di queste dimostrazioni; nel
libro II cerca di eliminare tutte le conseguenze assurde che
sembrano discendere dall’affermazione secondo cui tutte le cose sono
soggette alla necessità, come abbiam detto fin dall’inizio: per
esempio il fatto che un discorso del genere implica la negazione del
nostro libero volere e quindi sopprime ogni possibilità di lode,
biasimo, esortazione, tutto ciò che sembra riferirsi a noi stessi
come causa dell’accadere. Dice infatti nel libro II: «Molte cose
chiaramente dipendono da noi; tuttavia anch’esse sono fissate per
fato nel governo dell’universo». E si vale di esempi del genere:
«che il mio mantello si mantenga in buone condizioni non è
semplicemente stabilito per fato, ma a ciò collabora il mio averne
cura; e all’essersi uno salvato dalla guerra collabora il suo esser
sfuggito ai nemici; e l’aver generato figli implica anche la volontà
di unirsi con una donna». E dice ancora che il fatto che il pugile
Egesarco sia uscito dalla lotta illeso non può indurre all’opinione
assurda che questi abbia lottato senza levare le mani perché tanto
era stabilito per fato che egli uscisse illeso, ma che chi fa questa
affermazione dice ciò intendendo sottolineare la straordinaria cura
presa da quell’uomo di evitare i colpi. E così è anche per le altre
cose: molte di esse infatti non possono avvenire senza che, insieme,
noi le vogliamo e usiamo una intensissima cura e premura nei loro
riguardi: è fissato per fato che esse avvengano, dice, solo insieme
con questa circostanza concomitante … «Sarà senz’altro in nostro
potere» dice «perché tutto ciò che è in nostro potere è anch’esso
compreso nel fato».
DELLA PROVVIDENZA
LATTANZIO, Div. imi, VII, 23, 3, p. 656 Brandt = SVF II, 623
Meglio dice Crisippo, quello che Cicerone afferma essere stato il
pilastro della scuola stoica; il quale, nei libri che scrisse sulla
provvidenza, parlando del rinnovarsi del mondo, afferma: «se le cose
stanno così, è chiaro che nulla è impossibile, e che anche nói, dopo
essere morti, passato un certo periodo di tempo, torneremo alla
forma che ora è la nostra».
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 138 = SVF II, 634, 644
Il cosmo è governato secondo intelletto e provvidenza, secondo
quanto dice Crisippo nei libri Della provvidenza … e l’intelletto
scorre per ogni sua parte, come in noi l’anima: tuttavia per alcune
parti più intensamente e per altre meno. In alcune parti se ne
avverte la presenza come pura disposizione, per esempio è così nelle
ossa e nei nervi; in altre è presente direttamente come intelletto,
così per esempio nella parte direttiva; analogamente il cosmo nel
suo insieme, che è un essere animato e dotato di ragione, ha come
sua parte direttiva l’etere … Crisippo nel libro I del Della
provvidenza … (dice) che il cielo è la parte direttiva
dell’universo127 … Tuttavia Crisippo dice poi anche, in maniera
alquanto diversa, nella stessa opera, che la parte direttiva è la
parte più pura dell’etere, il che essi dicono basandosi puramente
sulla sensazione128, il primo dio: questo penetra ciò che sta
nell’aria e tutti gli animali e le piante, ma nella terra risiede
puramente come disposizione.
ACHILLE, Isagoge, 13, p. 40 Maass = SVF II, 687
Che gli astri siano esseri animati non lo ritengono Anassagora né
Democrito né Epicuro nell’epitome a Erodoto129, ma lo ritengono
Platone nel Timeo, e Aristotele nel libro II Del cielo, e Crisippo
nel Della Provvidenza … Gli Epicurei dicono che non sono esseri
animati proprio in quanto consistono in corpi; gli Stoici
esattamente il contrario.
FILODEMO, De pietate, col. 15, p. 82 Gomperz (Dox. Gr, p. 548) = SVF
II, 1023
E nei libri Della provvidenza espone quelle che sono le
identificazioni allegoriche130 proprie dell’anima del tutto e pone
in armonia (con essa) i nomi degli dèi, facendo instancabilmente
sfoggio della sottigliezza che gli è propria.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 39, 1052C = SVF II, 604
Nel libro I della sua opera Sulla provvidenza dice che Zeus cresce
fino a consumare in sé tutte le altre realtà. «Pur essendo la morte
separazione dell’anima dal corpo, l’anima del cosmo non si separa da
questo, ma cresce continuamente; fino a che non abbia consumato
tutto il resto della realtà in sé stessa, non si può dire che
avvenga la morte del cosmo».
PLUTARCO, De Stoic. rep. 41, 105 = SVF II, 605
E quando sopraggiunge la conflagrazione, egli dice (il cosmo pur
sempre)131 vive ed è un vivente; poi subito si distrugge tutto,
spegnendosi, e condensandosi nuovamente si muta in acqua, terra,
sostanza corporea in genere. Dice, nel libro I Della provvidenza:
«per tutto quel tempo che il cosmo è in stato igneo, esso è per ciò
stesso anima e parte direttiva; quando poi, mutandosi in sostanza
umida132 e anima che ne è il risultato, diventa un determinato
composto di anima e corpo, anche la sua ragione cambia rispetto alla
precedente». Chiaramente con ciò vuole intendere che mediante la
conflagrazione anche le parti prive di anima dell’universo si mutano
in sostanza animata, e che con lo spegnimento del tutto l’anima è
spinta fuori e diventa umida, cambiandosi in sostanza corporea.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 142-143 = SVF II, 633
Che il cosmo è un essere vivente, razionale e animato lo dice anche
Crisippo nel libro I del Della provvidenza … è essere vivente in
quanto è sostanza animata capace di sentire. Ciò ch’è vivente è
superiore a ciò che non lo è: ma nulla è superiore al cosmo; quindi
il cosmo è un essere vivente. E anche animato, come è chiaro dalla
nostra anima, che è una parte staccata di esso.
GELLIO, Noctes Attìcae, VII, 2 segg. = SVF II, 1000
Crisippo, capo della setta stoica, definì press’a poco in questa
forma il fato, che i Greci chiamano eiu.ocpuivr): «il fato è una
serie o catena di realtà, sempiterna e ineluttabile, che si volge e
si dispiega per eterne serie di cause di cui è connessa». Ho voluto
scrivere qui, per quanto la mia memoria può essere esatta, la
definizione stessa di Crisippo in parole greche, perché, se la mia
interpretazione sembra a qualcuno oscura, questi possa ricorrere
all’originale. Nel libro IV del Della provvidenza dice che «il fato
è un ordinamento naturale di tutte le cose dall’eternità, in virtù
del quale gli uni eventi succedono agli altri e insieme si
distruggono, ineluttabile essendo tale connessione reciproca»133. I
sostenitori di diverse opinioni e teorie oppugnano aspramente tale
definizione. «Se Crisippo» essi dicono «pensa che ogni cosa sia
mossa e diretta dal fato, e che le successioni e i rivolgimenti di
questo non possano essere in alcun modo evitati o schivati, non
bisogna poi prendersela con le colpe degli uomini, né attribuir
queste alla loro volontà, ma ad una necessità determinata e a quella
costrizione che deriva dal fato, padrone e arbitro di tutta la
realtà, per cui dovrà di necessità avvenire ciò che ancora deve
avvenire; è quindi ingiusto che le leggi riservino pene a coloro che
operano misfatti, dal momento che verso questi gli uomini non
muovono spontaneamente, ma trascinati dal fato». Contro tali
obiezioni, Crisippo disserta sottilmente e argutamente; ma quasi
tutte le cose che ha scritto in proposito si riassumono in questa
affermazione: «benché avvenga in effetti che tutte le cose siano
determinate e connesse insieme fatalmente in base a una ragione
necessaria e dominatrice, tuttavia le disposizioni della nostra
anima sono soggette al fato a seconda di quella che è la loro
proprietà e la caratteristica particolare a ciascuna. Per esempio,
se siano state formate da natura in maniera salutare ed utile, tutta
quella forza fatale le investe dall’esterno passa per esse in forma
inoffensiva e senza urto. Ma se sono aspre, ignoranti e rozze, e non
aiutate da alcuna buona arte che le sostenga, anche se non siano
incalzate da alcun urto violento del fato o lo siano solo in minima
parte, per la loro malvagità e per la loro volontaria irruenza
incorrono in continui misfatti ed errori. Che questo avvenga così è
anch’esso opera peraltro di quella naturale e necessaria connessione
di tutte le realtà che si chiama fato. E, per la stessa ragione,
fatale e inevitabile che le cattive indoli non possano stare senza
peccati ed errori». Per dimostrare meglio questo, si serve di un
esempio abbastanza pertinente né privo di spirito. «Come, egli dice,
se si lanci una pietra fatta a forma di cilindro per un tratto di
terra in discesa e ripido, questo è per la pietra causa iniziale del
suo cadere a precipizio, ma poi essa rotola giù precipitosamente non
tanto perché tu le imprimi questo moto, ma perché essa stessa
possiede nella forma che le è propria la tendenza congenita a
rotolare, così allo stesso modo l’ordine, la ragione, la necessità
del fato sono all’origine del moto causale primitivo, ma quanto
all’impulso dei nostri propositi e delle nostre menti, quanto alle
nostre stesse azioni, è la volontà propria ai singoli e la
disposizione dell’animo a determinarli». Aggiunge infine queste
parole, che sono in perfetto accordo con quanto ho detto134:
«Perciò viene detto dai Pitagorici: ’per loro volontà stessa gli
uomini hanno dolori spontaneamente scelti’; in quanto a ciascuno
derivano mali da se stesso, ed essi errano e ricevono danno per loro
volontà e per loro propria intenzione e posizione».
Ma dice anche che non bisogna stare ad ascoltare uomini scellerati o
inetti, nocivi agli altri e impudenti, che, quando li si sorprenda a
commettere qualche misfatto, si rifugiano nel fato come nell’asilo
di un tempio, dicendo che quello che hanno commesso di male non è
dovuto alla loro scelleraggine ma al fato. Per primo quel poeta
antichissimo e sapientissimo ha espresso ciò in questi versi:
«ahimé, come i mortali accusano gli dèi! / Dicono che da noi vengono
i mali; ma sono essi stessi / che per la loro stolta arroganza
soffrono dolori intollerabili»135.
GELLIO, Noct. Att., VII, 1, 1 segg. = SVF II, 1169
Quelli che non credono che il mondo sia stato foggiato per la
divinità e per l’uomo né che le cose umane siano rette da
provvidenza, ritengono di avere in mano una valida prova col dire:
«se ci fosse la provvidenza, non ci sarebbe il male». Dicono infatti
che nulla è tanto contrario alla provvidenza quanto il fatto che in
questo mondo, che si dice essere stato fatto da essa per gli uomini,
ci sia così gran copia di dolori e di mali. Crisippo, argomentando
contro di essi nel libro IV del Della provvidenza, «nulla, disse, è
più stolto di questi, i quali ritengono che possano esservi dei beni
senza che insieme vi siano anche dei mali. Essendo infatti il bene
contrario al male, è necessario che l’uno e l’altro sussistano in
opposizione reciproca e quasi sostenendosi a vicenda con sforzo
insieme scambievole e contrario: non vi è alcun contrario senza che
sussista anche il suo contrario. A quel patto si potrebbe sentire la
giustizia se non ci fosse il torto? e che cos’è la giustizia se non
la mancanza di ingiustizia? Chi potrebbe capire che sia la forza se
non dal confronto con la viltà? la continenza se non dal confronto
con l’intemperanza? Come potrebbe esservi prudenza, se non
volgendosi contro l’imprudenza? Perciò» conclude «quegli uomini
stolti perché non chiedono anche che vi sia la verità senza che vi
sia la menzogna? Insieme nascono bene e male, fortuna e sfortuna,
dolore e piacere. Sono legati l’uno all’altro, come dice Platone136,
per le punte contrarie fra loro: se abolisci l’uno, sopprimi anche
l’altro».
GELLIO, Noct. Att., VII, 1, 7 segg. = SVF II, 1170
Nello stesso libro, sempre Crisippo prende in considerazione e
ritiene degno di esame il problema, se le malattie degli uomini
siano secondo natura, o, in altri termini, se la natura stessa o la
provvidenza, che ha formato la compagine dell’universo e la stirpe
degli uomini, abbia prodotto anche le infermità e i mali del corpo
da cui gli uomini sono afflitti. Ed esprime l’opinione che non sia
stato certo questo il principale intento della natura, di fare gli
uomini soggetti alle malattie, poiché questo in nessun modo si
addice a quella natura eh’è madre ed autrice di tutti i beni. «Ma,
dice, mentre essa genera grandi cose e produce la realtà nella
maniera più abile e più opportuna, vengono a prodursi inconvenienti
connessi a queste realtà stesse»; e questi inconvenienti si
producono non per natura, ma per via di alcune conseguenze
necessarie, che egli appunto chiama «in via secondaria».
«Come quando, dice, la natura foggiava il corpo dell’uomo, e fu
costretta da una ragione acutissima e dalle stesse esigenze
dell’impresa a far sì che il capo fosse fatto di osssicini
minutissimi e tenuissimi, a questa esigenza conseguì di necessità,
esi-trinsecamente, un inconveniente maggiore: che il capo ne
risultasse debolmente difeso, e fragile rispetto ai colpi e agli
urti anche di piccola entità. Così si sono prodotti malattie e
infermità per la stessa ragione per cui da un altro lato si
produceva salute. E allo stesso modo, al tempo stesso che per il
proposito della natura si genera la virtù, ecco che in base
all’affinità contraria si genera anche il vizio».
DEGLI DÈI
ACHILLE, Isag., 13, p. 40 Maass = SVF II, 687
Che gli astri siano esseri viventi … lo dice Crisippo … nel Della
provvidenza e Degli dèi137.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 148 = SVF II, 1022
Sostanza della divinità Zenone dice essere l’intero cosmo e il
cielo, e così pure Crisippo nel I libro del Degli dèi.
FILODEMO, De pietate, col. 11, p. 77 Gomperz (Dox. Gr, p. 545b) =
SVF II, 1076
Ma anche Crisippo … nel pri(mo libro del Degli dèi, dice che Zeus è
la ragione che governa (tut)te le cose, e l’anima dell’universo, e
che (tut) te le cose (vivono?) per partecipazione a questo … anche
le pietre: perciò è chiamato ora Zfjvoc ora Aia in quanto causa e
signore di tutte le cose138; dice che il cosmo è un essere animato
ed è divino, e lo è la sua parte direttiva) e l’anima (del tut)to …
Zeus viene chiamato anche natura universale del tutto, e fato, e
necessità, e coincide anche con l’ordine e con la giustizia, con la
concordia e con la pace e con tutto ciò che a queste è simile. Non
ci sono divinità femminili e maschili, così come non sono tali le
città né le virtù: semplicemente prendono nomi maschili e femminili
pur essendo sempre la stessa cosa, come avviene nel caso di «luna»
(e «me)se». Dice che il nome di Ares (sta per) guerra e
contrapposizione; E)festo si identifica col fuoco, Crono con lo
scorrere e il fl(uire). Rea è la terra, Zeus l’etere, ma anche
Apollo e Demetra sono la terra o lo spirito vitale che sta in essa.
Dice che l’uso di rafffigurare e immaginare gli dèi in pitture e
statue come aventi forma u(mana) è stolto, come lo è quello di
foggiare immagini simili per le città, i fiumi, i luoghi, le varie
passioni dell’anima. Dice che Zeus è l’aria che circonda la (ter)ra,
Ade è l’aria tenebrosa, quella che sta fra terra e mare, Posinone).
Anche gli altri dèi li assimila a esseri inanimati: ritiene che
siano dèi il sole, la luna e tutti gli altri astri, e la legge139.
Dice anche che determinati uomini si sono mutati in dèi140.
FILODEMO, De pietate, col. 13, p. 80 Gomperz (Dox Gr., p. 547b) =
SVF II, 1078
Nel libro II del Degli dèi, cerca di assimilare alle dottrine della
Stoa ciò che si (traman)da come detto da Orfeo e Museo, e ciò che si
trova presso Omero, Esiodo, Euripide e altri poeti, così come già
aveva fatto Cleante. Dice che l’etere è tutte le cose, e che è
insieme padre e figlio; e nel I libro già aveva sostenuto che non
c’è contraddizione nel dire che Rea è madre e 〈fig〉lia di Zeus.
CICERONE, De nat. deor., I, 15, 39-41 = SVF II, 1077
In realtà Crisippo, che è ritenuto il più acuto interprete di tutte
quelle che sono le fantasie degli Stoici, raccoglie una gran turba
di divinità ignote, ignote a tal punto che non possiamo dar loro una
forma neanche per congettura, anche se la nostra mente è capace di
foggiarsi con l’immaginazione tutto ciò che le sembri. Dice infatti
che la capacità divina è riposta nella ragione, nell’anima e
nell’intelletto della natura universale, e dice ora che lo stesso
mondo è la divinità e lo è l’espandersi universale della sua anima,
ora dice che lo è la sua parte direttiva che consiste
nell’intelletto e nella ragione e la natura universale o la totalità
che tutto abbraccia, ora dice che lo è il ciclo del fato e la
necessità che predetermina il futuro; identifica poi ancora la
divinità con il fuoco, e con quell’etere di cui ho già parlato; poi
con le realtà che dalla natura discendono ed emanano, come l’acqua,
la terra, l’aria, il sole, la luna, gli astri, la totalità delle
cose che tutto contiene, perfino quegli uomini che sono stati capaci
di conseguire l’immortalità. Afferma inoltre che l’etere si
identifica con quel dio cui gli uomini dànno il nome di Giove, e che
l’aria che si diffonde sul mare è Nettuno, la terra è quella che si
usa chiamare Cerere, e allo stesso modo dà spiegazione dei nomi di
tutti gli altri dèi. Ma poi dice anche che Giove è quella forza
della legge perpetua ed eterna che è come la guida della nostra vita
e ci addita i doveri; e chiama Giove anche quella stessa necessità
del fato che ci insegna in eterno come dovranno realmente svolgersi
gli eventi futuri — cose di cui nessuna è tale da poter dire che vi
sia in esse natura divina. Nel libro I della sua opera Sulla natura
degli dèi141 disserta di tutto questo; nel libro II cerca di
adattare le favole di Orfeo, Museo, Esiodo, Omero a tutto quello che
lui stesso ha detto sugli dèi nel libro precedente, come se fossero
stati stoici anche quegli antichissimi poeti che non hanno avuto il
benché minimo sentore delle loro dottrine.
PLUTARCO, De Stole, rep., 33, io49d-e = SVF II, 1125
E dice … nel libro II del Degli dèi che non è ragionevole pensare
che la divinità possa divenire anche semplicemente causa secondaria
delle turpitudini, a quel modo che la legge non può esser
considerata causa secondaria dell’illegalità né gli dèi
dell’empietà; è ragionevole invece pensare che essi non siano causa
secondaria di nessuna cosa turpe. Ma, si può allora dire, per Zeus,
così egli viene a lodare142 il detto di Euripide, che «se gli dèi
fanno qualcosa di turpe, non sono più dèi»143 o «dici la cosa più
facile di tutte, quando accusi gli dèi»144.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 32, io49a = SVF II, nyy
Ma egli irride coloro che muovono questi rimproveri, nel libro III
Sugli dèi, fino a scrivere di Zeus, salvatore, genitore, padre di
Dike, Eunomia, Irene145 le seguenti cose: «Così come le città,
quando sono troppo sovrabbondanti di popolazione, mandano la gente a
fondare colonie oppure fanno guerra contro qualcuno, allo stesso
modo la divinità dà i princìpi della distruzione». E chiama a
testimone Euripide e tutti quegli altri che sostengono essere stata
la guerra di Troia mandata dagli dèi per ovviare all’eccessiva
moltitudine degli uomini146.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 35, io5oe = SVF II, 1176
Ma dice che la divinità punisce il male e molto opera in vista della
punizione dei cattivi; così ad esempio nel libro II del Degli dèi:
«talvolta cose cattive, dice accadono ai buoni, non per punizione,
come sarebbe se fossero cattivi, ma secondo un altro criterio di
governo del tutto, come avviene nelle città». E di nuovo negli
stessi libri: «i mali vanno compresi secondo quanto ho detto sopra:
o sono distribuiti da Zeus secondo la sua ragione, o per punizione o
in base a un altro criterio di governo del tutto».
PLUTARCO, De Stole, rep., 38, io5if segg. = SVF II, 1049
Non si direbbe tuttavia che Crisippo appartenesse a quelli di cui
Antipatro parla147: infatti egli non crede proprio che alcuno degli
dèi sia indistruttibile, tranne il fuoco, ma li fa tutti allo stesso
modo soggetti a nascere e perire. Riporterò la sua precisa opinione,
nel libro III dell’opera Degli dèi: «secondo però un altro aspetto
del ragionamento, essi possono venir detti da un lato generati e
distruttibili, dall’altro ingenerati: ed è più coerente alla natura
delle cose dimostrare ciò partendo dal principio. Per esempio il
sole, la luna e tutti gli altri dèi che seguono le stesse leggi sono
generati, mentre Zeus è eterno». E poco più oltre: «similmente si
può dire del fatto che la generazione è un problema diverso per Zeus
e per gli altri dèi: gli altri dei sono soggetti a distruzione, Zeus
è indistruttibile in ogni sua parte».
PLUTARCO, De comm. not., 31, 1075 a segg. = SVF II, 1049
Crisippo e Cleante … nei loro scritti … Sugli dèi ecc. … dicono
continuamente che tutti sono generati e si dissolveranno nel fuoco,
e son destinati a sciogliersi in esso come se fossero di cera o di
stagno!
PLUTARCO, De Stoic. rep., 39, io52b = SVF II, 1068
È in realtà nel libro III del Sugli dèi Crisippo, a proposito del
nutrimento degli altri dèi, dice: «gli altri dèi, dovendo sostenersi
col nutrimento, si nutrono in maniera simile, ma Zeus e il cosmo in
altro modo, infatti (si sostengono in determinati periodi)
risolvendosi in fuoco e rinascendo dal fuoco»148.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 13, io39a= SVF III, 212
Dice cose simili a queste nel libro III del Sugli dèi: «credo
inoltre, dice, che la lode non si addica ad azioni che sono del
tutto accidentali rispetto alla virtù, come l’astenersi da una
vecchia col piede nella fossa o sopportare con forza d’animo la
puntura di una mosca».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 9, 1035C = SVF III, 326
Ascolta quello che dice a questo proposito nel libro III del Sugli
dèi: «Non si potrebbe trovare altro principio né altra origine alla
virtù se non che essa scaturisce da Zeus e dalla natura universale:
di là ogni cosa del genere deve trarre il suo principio, se vogliamo
dire qualcosa di valido sul bene e sul male»149.
SU ZEUS
PLUTARCO, De Stoic. rep., 13, io38f = SVF III, 211
Nell’atto di esortare a lodare sempre tutto ciò che si compie
secondo virtù, mette in rilievo qualche differenza nel concetto di
azioni rette; così dice infatti nell’opera Su Zeus: «pur essendo
tutte appropriate le opere che si compiono secondo virtù, tuttavia
alcune fra di esse sono da preferirsi; ma quanto ad atti quali
tendere valorosamente un dito, astenersi con continenza da una
vecchia già col piede nella fossa, e ascoltare senza dar
precipitosamente il proprio assenso l’affermazione che tre è uguale
a quattro — non darebbe forse prova di grande stupidità che si
mettesse a lodare o encomiare qualcuno per cose del genere?»
PLUTARCO, De Stole, rep., 13, io38e = SVF III, 226
Lascio stare poi quanto da lui è detto nello scritto Su Zeus a
proposito del fatto che le virtù subiscano accrescimento ed
espansione per non sembrare che voglia cavillare sui termini, anche
se nel corso di questa trattazione Crisippo attacca aspramente
Platone e gli altri filosofi.
DELLE PARTI
PLUTARCO, De comm. not., 41, io8if = SVF II, 517
Nei libri III, IV, V-dell’opera Delle parti afferma che «del tempo
che è presente150 una parte è già il futuro, un’altra è già il
passato».
DELLE DISPOSIZIONI
PLUTARCO, De Stoic. rep., 43, io53f = SVF II, 449
Di nuovo poi nel Delle disposizioni dice: «nuli’altro sono le
disposizioni (e•ets) se non una certa quantità di aria: i corpi sono
tenuti insieme da queste; e del fatto che ciascuna delle
disposizione così tenute insieme abbia una sua qualità è causa
l’aria che le circonda, per esempio della durezza nel ferro, dello
spessore nella pietra, della bianchezza nell’argento, così come
comunemente si dice»151.
DELL’ACCRESCIMENTO
FILONE ALESSANDRINO, De aetem. mundi, 9, 48, VI, p. 87
Cohn-Wendland-Reiter = SVF II, 397
Crisippo, che fra di essi gode la massima fama, negli scritti
Dell’accrescimento dice cose stravaganti di questo tipo: dopo aver
argomentato in precedenza che è impossibile che sussistano due
qualità proprie e caratterizzanti152 per la stessa sostanza, dice:
«supponiamo a mo’ di esempio che ci siano due persone una perfetta
in tutte le membra, l’altra mancante di uno dei piedi, e che la
prima si chiami Dione, l’altra Teone; e supponiamo poi che anche
Dione debba farsi amputare uno dei piedi». Chiestosi poi quale dei
due abbia subito una menomazione, dice che è più esatto dire che
questi è Teone. Ma questo è un parlare molto più degno di chi vuole
sbalordire che di chi vuole insegnare il vero. Come è possibile dire
che Teone, che non ha avuto asportato alcun membro, è un menomato,
mentre Dione, cui hanno amputato il piede, non ha subito alcuna
menomazione? «In questo caso» dice, «bisognerebbe affermare che di
necessità Dione, per l’amputazione del piede, è venuto a ricadere
nell’essenza imperfetta propria di Teone; ma due qualità
caratterizzanti non possono esser pertinenti alla stessa sostanza.
Perciò se ne deduce che Dione resta intatto e Teone è il menomato».
DELL’ANIMA
GALENO, De Hippocr. et Plat, plac., Ili, 5, p. 293 Mûller = SVF II,
884153
Adesso, lasciando stare il resto, che ho già prima scritto, passo a
ciò che segue, a quella parte cioè in cui Crisippo comincia a citare
testimonianze di poeti, inframmezzando a queste pochi suoi discorsi,
spesso puramente come esegesi di ciò che dice il passo citato, o
anche a mo’ di riassunto e ricapitolazione generale. Cominciando
dunque da una citazione di Empedocle, la illustra e prende a fare,
in base a questa esegesi, alcuni discorsi degni di menzione, fra i
quali è anche quello circa la voce, di cui ho già parlato nel
secondo di questi commentarii … Farò menzione di tutte le cose che
sono di seguito alla trattazione circa la voce, e che si dicono nei
libri di Crisippo: per esempio le argomentazioni circa i movimenti
delle mani, quando ci tocchiamo il petto per indicare noi stessi;
quelle circa la parola «io» (trattazione analoga la troviamo anche
nelle Etimologie), a proposito della quale egli dice che tale parola
è indicativa con tutta evidenza, perché in virtù della sua prima
sillaba quasi conduce verso il petto la mascella e il labbro
inferiore. …Cose simili a queste egli dice a proposito
dell’etimologia della parola «cuore», di seguito a quanto già detto
da lui nel libro I del Dell’anima154
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., III, 1, p. 251 Muller = SVF II,
885
Crisippo, dico, nella sua prima trattazione sull’anima e sulle sue
parti, cominciando dal menzionare anzitutto la parte direttiva,
cerca poi di dimostrare che il principio dei moti psichici risiede
esclusivamente nel cuore; e dice così: «L’anima è spirito vitale
connaturato in noi, che scorre per tutto il corpo, e avviene per
questo che lo spirare dell’anima sia presente nel nostro corpo.
Poiché le parti di essa si stendono per tutte le membra del corpo,
il suo scorrere nell’arteria trachea (lo chiamiamo) voce, quello
negli occhi vista, nelle orecchie udito, nella lingua gusto; quello
per tutta la carne tatto, quello, secondo analoga ragione, nei
testicoli seme generativo; quello in vista di cui tutte queste cose
si compiono diciamo che sta nel cuore e la parte direttiva fa parte
del cuore stesso. Che le cose stiano così, si è per la maggior parte
d’accordo; il disaccordo nasce a proposito della parte direttiva
dell’anima, che viene collocata a seconda dei casi in luoghi
diversi: alcuni ritengono che essa si trovi nel petto e altri nella
testa: e anche nell’ambito di queste due opinioni si discute in
quale luogo stia del petto, in quale della testa, non trovando un
accordo su questi punti. Platone, avendo detto che l’anima consta di
tre parti, precisò poi che la parte direttiva sta nella testa, la
parte irascibile nel petto, la parte concupiscibile intorno
all’ombelico155. E perciò sembra di non poter raggiungere la
sicurezza circa il luogo, non dandoci la sensazione chiare
indicazioni in proposito, come avviene per altre questioni, né
possedendo noi chiare prove in base alle quali risolvere la
questione con argomentazioni; altrimenti la contrapposizione, sia
fra i medici sia fra i filosofi, non sarebbe giunta fino a questo
punto».
Questo è il primo discorso che Crisippo fa intorno alla parte
direttiva nella prima parte dell’opera Dell’anima. Infatti la prima
metà del libro contiene la trattazione circa l’essenza dell’anima.
Nella seconda metà egli cerca di dimostrare, partendo da quanto
sinora ha scritto, che la parte direttiva dell’anima si trova nel
cuore.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., IV, i, p. 334 Mùller = SVF III,
461
Nel libro I del DelVanima Crisippo non nega radicalmente che l’anima
abbia alcuna funzione concupiscibile né irascibile, ma descrive
anche i fenomeni corrispondenti a tali funzioni; e attribuisce loro
una collocazione.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., Ili, i, p. 254 Mùller = SVF II,
886
Avendo posto premesse di un certo genere, egli intraprende poi a
dimostrare ciò che è giusto credere in base all’opinione di
testimoni qualsiasi o del volgo, e non secondo la natura della cosa.
Trascrivo qui le sue stesse espressioni, che sono press’a poco
queste: «intorno a tali cose faremo ricerca similmente, partendo
dalla comune opinione e dai discorsi che secondo questa si compiono»
e con opinione comune Crisippo vuole intendere ciò che appare
comunemente a tutti gli uomini; poi continuando dice: «essi sembrano
da tutto ciò fin dall’inizio di preferenza esser condotti ad
asserire che la nostra parte direttiva sta nel cuore». Trattando poi
ancora di ciò scrive testualmente: «Mi sembra che i più siano
generalmente portati ad affermare ciò, in quanto in certo modo si
rendono conto che, in concomitanza con i loro moti psichici, si
verifica qualcosa nel loro petto, e soprattutto nel luogo ove è
posto il cuore; così per esempio nel caso che si provi dolore,
timore, ira, soprattutto ardore e impeto. Questo soprattutto in
certo modo spira nel cuore, e trabocca violentemente fuori
protendendosi verso un oggetto, e spira sul volto e nel moto delle
mani, sì che si rivela in noi una sorta di enfasi».
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac, II, 7, p. 230 Mùller = SVF II,
887
Trovo Crisippo involto in non poche contraddizoni a proposito di
questo suo discorso intorno alla parte direttiva dell’anima.
All’inizio, dopo aver detto che circa le altri parti dell’anima c’è
sufficiente accordo in quali membra degli esseri viventi esse si
trovino, mentre la questione è aperta circa la sede della parte
direttiva, per il fatto che non vi è di ciò sensazione certa, né
prova evidente, poco dopo parla però di questa sede come se fosse un
parte scontata della trattazione. Le sue espressioni sono di questo
tipo: «Sembra di non poter raggiungere la sicurezza circa il luogo
giacché la sensazione non ci dà chiare indicazioni in proposito,
come avviene per altre questioni, né possediamo chiare prove in base
alle quali poter risolvere il problema argomentando: altrimenti la
contrapposizione, sia fra i medici sia fra i filosofi, non sarebbe
giunta a questo punto». Ma dopo aver premesso ciò, in seguito, dice
che tutti gli uomini si accorgono che i moti psichici relativi alle
varie passioni si verificano nel petto e nel cuore. Il suo discorso
è questo: «Mi sembra che i più siano portati a credere ciò in quanto
in certo modo si rendono conto che, in concomitanza con i loro moti
psichici, si verifica qualcosa nel loro petto e soprattutto nel
luogo ove è posto il cuore; così per esempio nel caso che si provi
dolore, timore, ira, soprattutto ardore e slancio». In questo suo
discorso, se non altro, egli ha inserito un «in certo modo», non
osando affermare che senz’altro e in assoluto gli uomini avvertono
tutti i moti psichici verificarsi nel petto: dice infatti
«rendendosi in certo modo conto». Ma poco oltre, lasciato da parte
«in certo modo», scrive così: «Il turbamento che avviene nell’anima
per ciascuna di queste cose è avvertito dalla sensazione come
interessante il petto». E più oltre di seguito: «Se là si verifica
l’ira, è chiaro che anche gli altri moti appetitivi si verificano in
quella sede». E ancora nel seguito dello scritto, dice che le
passioni proprie di coloro che si adirano come di coloro che amano
appaiono chiaramente verificarsi nel petto. E per tutto il resto
dell’opera non cessa dal discorrere delle passioni come se fosse
evidente che esse si verificano nel petto e hanno sede nel cuore.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., II, 7, p. 235 Müller = SVF II,
888
Tuttavia né il libro I dell’opera Dell’anima, né degli scritti Delle
passioni, riesce a dare una dimostrazione del fatto che là dov’è la
parte irrazionale debba trovarsi anche la parte razionale; ma tratta
la cosa dappertutto con faciloneria e dandola come scontata.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., Ili, 2, p. 258 Mùller = SVF II,
890
La questione disputata non è se la parte passionale dell’anima sia
posta nel cuore, ma se lo sia la parte razionale; per cui sarebbe
stato necessario per dimostrare ciò non darsi tanta preoccupazione
della parte passionale156, né riempire il libro di tante citazioni
poetiche, come tu fai, una dietro l’altra, scrivendo: «Molto più
dolce del miele sulla lingua quando sale come un fumo nei petti
degli uomini»157, o «l’impeto del petto lo sollevò»158, o «balzando
di dentro l’impeto vaticina»159 e infinite altre espressioni del
genere. Non questo era da dimostrarsi, per Zeus, ma che vi ha sede
la parte razionale, o, se non eri capace di dimostrare direttamente
questo, per lo meno tentare di farlo, spiegandoci perché parte
passionale e parte razionale dell’anima devono risiedere nello
stesso luogo. Ma in realtà egli non tentò di farlo in nessuna parte
del libro, e dà la cosa dovunque come scontata.
Subito di seguito scrive: «se là si verifica l’ira, è ragionevole
pensare che vi siano anche i moti appetitivi di ogni genere, e, per
Zeus, tutte le altre passioni, e anche i ragionamenti e tutto ciò
che a questi è simile».
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac, III, 5, p. 287 Mùller = SVF II,
891
Ma staccandosi da tutto questo vediamo tutti gli argomenti che egli
usa in seguito, riprendendo tutto il suo discorso dall’inizio, allo
scopo di non trascurare nulla. Adduco tutto il discorso così com’è,
anche se è alquanto lungo: «se là si verifica l’ira, è ragionevole
pensare che anche tutti gli altri moti appetitivi si verifichino
nella stessa sede, e così tutte le altre passioni, e anche i
ragionamenti e tutto ciò che è simile a questi. La più parte della
gente, sedotta dalle espressioni correnti, va affermando secondo la
verità molte cose simili a queste, attenendosi all’uso anzidetto:
per prima cosa, tutti, per cominciare da questo punto160, dicono che
a taluni ’si deprime l’animo’, e che talaltri ’mandan giù la bile’;
e che quando diciamo che qualcuno inghiotte (o non inghiotte) pezzi
di carne non facciano altro che usare la stessa espressione. Così
pure si usa dire che ’non va loro giù nulla di questo’ o che
’trangugiato ciò che si è detto se ne andò’; e Zenone, a quelli che
gli rimproveravano di portarsi ogni cosa alla bocca, ’ma non tutto
va giù’ disse; né sarebbe appropriato il termine di trangugiare o
mandar giù se la parte direttiva della nostra anima non fosse nel
petto, a cui tutto si dirige. Se essa fosse nella testa, il termine
’andar giù’ sarebbe ridicolo e inappropriato, bisognerebbe piuttosto
dire ’andar su’ invece di ’andar giù’, e allo stesso modo si
dovrebbe dire della sensazione dell’udito nei suoi rapporti col
pensiero, anche in quel caso l’espressione ’andar giù’ è appropriata
solo se ci riferisce al petto come sede, mentre è più inappropriata
se ci riferisce alla testa»161.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., Ili, 5, p. 290 segg. Mùller =
SVF II, 892
Tuttavia Crisippo, dopo di ciò, fa menzione ancora di altre.
«Dimostrano ciò ancor più le donne. Se ciò che si dice non va loro
giù, spesso esse muovono il dito verso il luogo ove sta il cuore,
dicendo appunto che non vanno loro giù le cose che si dicono»… Ma
egli stesso, contrapponendosi a quanto prima aveva detto, dopo poco
scrive press’a poco così: «In base alla stessa opinione per cui noi
diciamo che ’non ci vanno giù’ le cose che si dicono, siano esse
minacce siano offese (nel senso che andando giù colpiscono e
feriscono e provocano così un moto psichico), diciamo anche che
alcuni sono ’profondi’ per la ragione che nessuna di simili cose
riesce a penetrare giù a fondo in loro». Questo discorso però
Crisippo lo fa in seguito: fra la frase che abbiamo trascritta ora e
quella di sopra, relativa alle donne, c’è un’altra frase che
trascrivo ora, perché non sembri che io trascuri qualcosa: è in
questi termini: «In conseguenza di ciò, noi diciamo che alcuni
’vomitano fuori’ le cose che paiono loro e addirittura ’il fondo
della loro anima’, usando molte ci siffatte espressioni in accordo
con le cose anzidette. Se è simile al ’mandar giù’ il dire ’è
giorno’ riponendolo nel pensiero, il dire poi al contrario che ’non
è giorno’, quando la realtà rimane esattamente quella che era, si
può dire senza alcuna improprietà che sia un ’vomitare’».
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., II, 5, p. 203 Müller = SVF II,
894
Prima di confutare questi, voglio addurre quell’argomento di
Crisippo che è formulato al modo seguente: «è ragionevole pensare
che ciò a cui si riferiscono le espressioni significative usate in
quest’ambito e ciò da cui deriva il discorso sia la parte direttiva
dell’anima. Non vi è altra fonte del discorso rispetto a quella che
è la fonte del pensiero, e nemmeno altra fonte della voce da quella
ch’è la fonte del discorso, né in assoluto si può dire che altra sia
la fonte della voce, altra la parte direttiva dell’anima». Definendo
quindi il pensiero in accordo con questi principi, dicono che esso è
la fonte del discorso. «In generale ciò da cui viene emesso il
discorso, deve essere anche la fonte del ragionamento, delle
argomentazioni, degli esercizi dialettici, come già prima ho detto.
Tutte queste cose sono evidentemente elaborate dal cuore, e dal
cuore poi emesse attraverso la faringe in forma di voce e discorso.
E verosimile pensare, d’altra parte, che ciò cui le cose dette si
riferiscono con espressioni significanti sia anche elaborato in
quella sede, e che le voci corrispondenti derivino di là nel modo
che si è detto or ora». Altrove ho già parlato delle definizioni che
gli Stoici dànno della voce; se volessi citare tutte le definizioni
che sono state date dagli altri membri della scuola in proposito, il
mio scritto si prolungherebbe indefinitivamente in lunghezza. Ho
ricordato non solo i discorsi in proposito di Crisippo e Diogene162
con i loro seguaci, ma mi è sembrato sufficiente già semplicemente
nella mia indagine fermarmi alla definizione data da Zenone163…
GALENO, De Hippoer. et Fiat, plac., II, 2, p. 172 Müller = SVF 11,
895
Quello che Crisippo, nel libro I dell’opera Dell’anima, ha scritto
circa la voce «io» nell’ambito della sua trattazione della parte
direttiva, lo trascriverò adesso perché sia noto: «così noi diciamo
’io’ per questo, per indicare noi stessi nel rivelare (che tale?)164
è il nostro pensiero, usando di una indicazione naturale e
appropriata in quel caso. E accenniamo con ciò a noi stessi senza
aver bisogno di usare una indicazione con la mano allo stesso scopo,
giacché la voce ’io’ equivale immediatamente a una simile
indicazione, e il pronunziarla equivale a un’indicazione nel senso
che abbiamo scritto poco sopra. Pronunziamo la parola ’io’ tirando
giù il labbro inferiore alla prima sillaba per indicare noi stessi,
e subito di seguito col movimento della guancia e con l’accennare
verso il petto; e in virtù di una simile indicazione si formula la
sillaba seguente, che rivela qualcosa di non posto a distanza; il
che si verifica appunto perché ci si riferisce alla parte
direttiva».
GALENO, De Hippocr. et Fiat plac., II, 2, p. 175 Müller = SVF II,
895
E che dire del fatto che, quando nelPassentire chiniamo il capo,
diamo a vedere chiaramente che la parte verso la quale incliniamo il
capo è quella in cui si trova il principio direttivo dell’anima,
piuttosto che trovarsi in quella parte del corpo che noi muoviamo?
GALENO, De Hippoer. et Pkt. plac., III, 5, p. 295 Müller = SVF II,
896
Simili sono le cose che Crisippo scrive di seguito circa
l’etimologia del nome «cuore» (xapSta) nel libro I del suo
Dell’anima, press’a poco di questo tenore: «In armonia con tutto
questo, il cuore ha avuto il suo nome dal dominio e dalla signoria e
dal fatto che è la parte principale e direttiva dell’anima, per cui
esso è stato detto xpocxia165… E ancora di seguito Crisippo scrive
questo: «Noi abbiamo i nostri impulsi all’azione in virtù di questa
parte dell’anima, e per essa diamo i nostri assensi e ad essa
tendono tutti gli organi sensori».
GALENO, De Hippoer. et Plat. plac., I, 5-10, pp. 138-145 Müller =
SVF II, 897166.
Se si trafigge il cuore, il sangue ne sgorga subito. Però, se fosse
vero ciò che dice Crisippo, bisognerebbe che prima si rendesse
manifesto il suo svuotarsi di tutto il soffio vitale e poi in
seguito avvenisse l’uscita del sangue, oppure che questa non si
verificasse in alcun modo, come non si verifica dalle cavità del
cervello…
Erasistrato dice che la cavità sinistra del cuore è piena puramente
di soffio vitale, Crisippo di quel soffio ch’è la stessa anima…
Ma soprattutto c’è da biasimare Crisippo perché a torto ha posto la
sede del soffio vitale nel cuore, intendendo che si tratti proprio
dello spirito puro, quello che governa l’anima. Tuttavia rende
tollerabile la sua opinione col dire modestamente che egli non
presume di dire che il cuore è la fonte dei nervi o che conosce
veramente ciò che si riferisce a questa questione, giacché si
dichiara inesperto dell’arte della dissezione. Invece ad Aristotele
e a Prassagora si può rimproverare giustamente di avere, contro
l’evidenza, dichiarato che il cuore è fonte dei nervi167… Io …
ritengo di dover controbattere Prassagora, soprattutto perché anche
Crisippo ha fatto menzione di quell’uomo e ha contrapposto la sua
autorità a chi ritiene che i nervi abbiano la loro origine nella
testa.
GALENO, De Hippoer. et Plat. plac. II, 4, pp. 196-197 Müller = SVF
II, 894
Se la voce fosse veramente derivata dal soffio vitale che scorre per
i polmoni provenendo da quella parte di esso che scorre entro il
cuore, e imprimendo poi la sua orma a sua somiglianza nel soffio che
sta nella faringe, non dovrebbe essa venire meno istantaneamente una
volta che si recidano certi nervi? … Non c’è poi alcuna ragione
coibente per credere che una sola sia la fonte di tutte le facoltà
dell’essere vivente.
GALENO, De Hippoer. et Plat plac. II, 5, p. 215 Müller = SVF II, 898
Tuttavia in un’altra frase, scritta non molto dopo queste, egli si
trova costretto ad ammettere la verità. Dico si trova costretto
perché, pur volendo confutare un discorso di altri col dimostrare
che non è verace, accortosi poi che questa forma di confutazione
finisce col confutare anche le sue proprie teorie, non ha esitato a
vanificare anche il suo discorso precedente insieme con quello dei
sostenitori di altre opinioni … Trascrivo la stessa frase, con la
quale Crisippo non fa altro che dimostrare che il precedente
discorso non era affatto dimostrativo. Eccola: «Come ho già detto,
ci sarebbero ancora molte altre cose da obiettare, anche se per caso
si concedesse quello che essi sostengono, che eie è dalla testa sia
il principio delle funzioni per le parti anzidette; e ne faremo
indagine. A quello che essi dicono (che cioè, anche se la voce viene
su dal petto attraverso la faringe, nella testa sta sempre su
qualche principio motore), si può rispondere questo, che la parte
direttiva risiede nel cuore, ma viene dalla testa il principio dei
movimenti». Ciò che Crisippo intende dire con questo discorso, è
che, anche se si acconsentisse ad ammettere che la testa è il punto
da cui hanno principio i nervi, non verrebbe con ciò ad affermare
che la parte direttiva sta nella testa. Ciò che quelli dicono del
fatto che la voce viene emessa dal petto attraverso la faringe, ma
che è in realtà la testa a trasmettere alle singole parti del corpo
il principio dell’energia, va detto piuttosto nel senso che i nervi,
in noi, hanno il loro principio dalla testa, ma ricevono l’energia
dal cuore.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., Ili, 5, p. 297 Mùller = SVF II,
899
Dopo di questo spiega l’etimologia della parola «senza cuore» … e
anche questo lo indicheremo con le stesse parole di Crisippo, che
rendono testimonianza a ciò che ho premesso. Egli dice così: «Per
questa ragione sono detti ’di buon cuore’ alcuni nel senso di ’di
buona anima’, e quelli che si affliggono si dice che soffrano nel
cuore, come a significare che il dolore della loro afflizione si
produce nel cuore». … E poi continuando di rincalzo: «In generale,
come ho detto all’inizio, ben rivelano gli spaventi e i dolori il
fatto di prodursi in quella sede». Porta poi, come testimonianza, la
dottrina di Platone; ma si vede da quel che dice di seguito e nel
solito modo che non ha capito come Platone parlasse del cuore solo
come sede della parte irascibile. «E cosa evidente il battito del
cuore in occasione di uno spavento: è evidente che in simili casi in
quel luogo si raccoglie insieme tutta l’anima, né moti di questo
genere si verificano sopravvenendo in altro modo, se non perché c’è
un qualcosa che per natura soffre insieme con tutto il resto, e per
questa ragione avviene una sorta di concentrazione e condensazione
reciproca, tutti portandosi verso la parte direttiva e il cuore come
organo che la custodisce. Anche le affezioni del dolore si compiono
naturalmente in quella sede, non essendovi nel corpo altro luogo
capace di subire e soffrire insieme con gli altri. Quando si
verificano sofferenze particolari violente, nessun altro luogo del
corpo manifesta queste passioni se non la regione del cuore, al più
alto grado». … Ciò è condiviso con assenso d’altronde anche da parte
degli altri Stoici. Pongono questi principi non solo Crisippo, ma
anche Zenone e Cleante.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., III, 7, p. 302 Müller = SVF II,
900
Crisippo, in ciò dice che dopo aver espresso le teorie di cui sopra,
dà per scontato che entrambe queste forze168 nascano da una sola
parte, né avverte alcuna necessità di aggiungere al suo discorso una
sola dimostrazione, o un argomento persuasivo o probabile; si
esprime in questo modo: «Si porrebbe la questione in maniera
assurda, dal momento che si deve ammettere che la lotta e il dolore
sono forme di sofferenza, se dicessimo poi che queste sofferenze si
verificano altrove che nella parte direttiva; lo stesso dovremmo poi
dire della gioia e dell’allegrezza, che si rivelano con tutta
evidenza prodursi anch’esse nel cuore. A quel modo che, quando
soffriamo nel piede o nella testa, la sofferenza si verifica in
quegli organi, così ci accorgiamo bene come le sofferenze del dolore
si verifichino nella regione del petto; sì che si deve dire o che il
dolore non è sofferenza, oppure che esso non si trova in alcun altro
luogo se non nella parte direttiva»169.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, III, 7, p. 307 Müller = SVF II,
901
Dopo che, nella trattazione che stiamo facendo, abbiamo appreso e
menzionato tutto quello che Crisippo ha detto nel libro I dell’opera
Dell’anima, parlando della parte direttiva di questa, è tempo ora di
aggiungere a quanto finora si è detto ciò che segue. Quello che
Crisippo scrive in seguito, è del seguente tenore: «L’espressione
secondo la quale si dice: ti ho toccato il cuore’, nel senso di
’l’anima’, e ’tocco il cuore’ — e nessuno potrebbe contrapporre a
queste altre espressioni che vertano sul cervello o sulle viscere o
sul fegato, ma sempre e solo espressioni simili alle anzidette — mi
sembra che voglia significare semplicemente ’tocco qualcosa che è
dentro di te’, poiché l’atto che reca dolore penetra fino in quel
punto interno. Insomma, noi usiamo ’cuore’ nel senso di ’anima’:
tale è il significato di queste espressioni, per chi ponga mente con
più attenzione».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., Ili, 4, p. 276 Mùller = SVF II,
902
Per Zeus, è cosa veramente mirabile come egli spieghi il termine
«senza cuore» secondo il modo di pensare proprio della moltitudine,
ricollegando immediatamente ad esso anche il termine di «senza
viscere» (àcniXorfx$); il suo discorso è questo: «Essi (gli
avversari) mettono a confronto con le espressioni cui ci siamo
richiamati sopra altre come ’ senza viscere ’, e quelle per cui
diciamo che qualcuno non ha cervello oppure lo ha, avanzando
l’ipotesi che allo stesso modo noi diciamo che qualcuno ’ha cuore’ o
’non ha cuore’, secondo quanto detto prima. Ma in realtà quelli che
sono ’senza viscere’ si dicono così perché non hanno al loro interno
moti di compassione nei riguardi delle disgrazie altrui, e vengono
chiamati così da ’cuore’ in base al contrario di ciò che
effettivamente sono; per ’cervello’ poi si intende o qualcosa che è
simile sotto lo stesso rispetto, oppure perchè anche questo esercita
una certa funzione sul tipo di quella delle viscere». Questo è il
suo discorso; e bisogna leggerlo tre o quattro volte, in perfetta
tranquillità, facendo accuratissima attenzione a ciò che dice. Ci si
persuaderà soltanto che ad esso si addice il detto proverbiale «non
cogliere mai nel segno e abbi bellamente la meglio».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, Ili, 7, p.309 segg. Müller = SVF
II, 903
Dopo di ciò egli scrive questa frase: «Mi sembra che in base a un
movimento del genere anche quelli che sono spinti da sentimenti di
vendetta verso qualcuno abbiano come un impulso di strappargli il
cuore; e un impulso anche più violento li spinge anche a strappare
le altre viscere».
…E così anche di seguito a ciò che ha scritto prima, là dove dice:
«anche le passioni dell’ira mi sembra che nascano nella regione del
petto, e anche quello dell’amore; sì che si può dire che ogni
impulso appetitivo abbia origine nella stessa sede» … E mi sembra
che di nuovo si valga dello stesso discorso relativamente alla voce;
provo ciò citando le sue parole: «In base al pensiero si deve
parlare, e anche parlare in sé stessi e ragionare e formulare entro
di sé la voce e mandarla fuori». Ammettendo in primo luogo che il
parlare e il parlare in se stessi derivino dalla stessa funzione
psichica, poi in secondo luogo che il parlare sia opera del cuore,
concludendo da queste due premesse afferma che il parlare in se
stessi si verifica nel cuore … Esaminiamo ora il seguito: «In
affinità con questo, anche i lamenti sono emessi dalla stessa sede».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, III, 7, p. 315 Müller = SVF II,
904
Per il momento fra le sue frasi farò menzione solo di alcune, che
suonano: «Il poeta, con grande sovrabbondanza di espressioni in
proposito, sostiene che la parte razionale e quella impulsiva
dell’anima hanno la stessa sede, e le considera in realtà, come si
deve fare, una sola ed unica cosa». Nel seguito, dopo aver detto in
quali luoghi il poeta indichi il cuore come la sede dell’anima
razionale, aggiunge ancora: «che anche la parte appetitiva sia là,
lo indica con queste parole: non mai amore di dea né di donna / ha
domato nel mio petto, diffondendovisi, l’ardore170; e poi: «che
anche la parte impulsiva risieda là, lo dimostra con espressioni del
genere, che sono ancora in maggior numero: ’il petto di Era non potè
contenere l’ira, ed ella così parlò’171; e ’l’ira, che spinge anche
il molto saggio a infuriarsi’»172.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac, Ili, 3, p. 272 segg. Mùiler = SVF
II, 906173
Mi sembra che sia quanto mai opportuno ciò che ci ricorda Platone
nel libro IV della Repubblica174, e quanto mai fuori luogo quello
che ci dice Crisippo; soprattutto poi quanto a quello che fa dire a
Euripide nel riportare le parole di Medea, che cioè nella sua anima
il ragionamento combatteva con l’impulso175 … Crisippo, il quale non
crede che esistano queste due distinte parti dell’anima, né facoltà
irrazionali diverse da quelle razionali, tuttavia non esita a
riportare le parole di Ulisse e di Medea che con tutta evidenza
confutano la sua opinione … La trattazione che Crisippo fa della
parte direttiva dell’anima è riempita di versi di poeti che o
attestano semplicemente che le passioni hanno la lor sede nella
regione del petto e del cuore, o che ci sono in realtà due facoltà
dell’anima del tutto differenti fra loro, una irrazionale l’altra
razionale. Così come si è brevemente esposto sopra in base a quanto
Crisippo riporta di Omero e di Esiodo, così egli dà la stessa
interpretazione assuda di versi di Orfeo, di Empedocle, di Tirteo,
di Ste-sicoro, di Euripide e di altri poeti ancora; per esempio cita
i versi di Tirteo: «Avendo nel petto un impeto di leone ardente»176,
e tutti noi sappiamo bene che il leone possiede la facolta dell’
impulso irrazionale, anche prima di aver ascoltato Tirteo; non così
sembra a Crisippo, il quale espone il verso nell’intento di negare
ai leoni tale facoltà. Infatti afferma di ritenere che nessuno degli
animali privi di ragione possiede la parte impulsiva, appetitiva o
razionale dell’anima … gli Stoici sopprimono infatti tutte queste
facoltà contro ogni evidenza.
GALENO, De Hippocr. et Fiat. plac, III, 4, p. 281 Mùller = SVF II,
907
Dopo aver riempito tutto il libro di versi di Omero, Esiodo,
Stesicoro, Empedocle, Orfeo, e aver addotto anche versi dalla
tragedia e da Tirteo e da altri poeti, dopo aver raccolto tutta
questa massa di parole vuote (non saprei quale altro nome può meglio
addirsi a tutto ciò); aggiunge testualmente questo: «diranno che
questa è una vanteria da vecchierella, giacché un qualsiasi maestro
potrebbe, volendo, radunare un gran numero di versi sull’argomento».
GALENO, De Hippocr. et Fiat. plac., III, 8, p. 317 Mùller = SVF II,
908
In seguito esporrò anche il discorso che egli fa intorno ad Atena.
Crisippo infatti, accorgendosi che il mito intorno a questa dea può
trovarsi in contrasto con i principi da lui stabiliti, dal momento
che si suppone che essa sia nata dalla testa di Zeus, dice le
seguenti cose (trascriverò tutto, anche se il discorso è abbastanza
lungo):
«Apprendo che alcuni sono confortati nella loro credenza che la
parte direttiva dell’anima si trovi nella testa dal sentire che
Atena, che impersona l’intelligenza e quasi la mente, è nata dal
capo di Zeus, e dicono che essa è l’immagine allegorica della parte
direttiva; intelligenza e mente non possono infatti derivare da
alcun altro luogo che non sia la testa, né si sa come lo potrebbero
se lì non fosse la parte direttiva dell’anima. Hanno dalla loro una
qualche credibilità, ma sbagliano, credo, in quanto ignorano tutto
l’insieme di quel racconto, a proposito del quale non sarà quindi
male dire adesso qualcosa di più, indagando più a fondo. Questi
autori affermano così in assoluto che Atena è nata dal capo di Zeus,
non ricercando affatto né come né secondo quale ragione. Ma Esiodo,
oltre a questo, scrive anche che vi sono altri che nelle
teogonie177, descrivono diversamente la sua nascita e dicono che
Zeus prima si congiunse con Metis, poi con Themis; altri ancora
scrivono che la sua nascita fu dovuta a una contesa sorta fra Zeus e
Era, per cui Era generò con le sue sole forze Efesto e Zeus Atena da
Metis che aveva precedentemente ingoiata. Secondo tutti e due i
racconti risulta chiaramente che Metis fu inghiottita, e che la
nascita di Atena avvenne quindi all’interno del corpo di Zeus.
Rispetto al discorso che noi stiamo facendo, questi due racconti
differiscono solo in relazione al modo come la cosa si sia compiuta,
ma ciò non è qui in argomento: è ciò che vi è di comune fra i due
racconti, piuttosto, che risulta utile al nostro fine presente.
Nella Teogonia178 si dice così: «Zeus, re degli dèi, ebbe come prima
moglie Metis, / la più sapiente fra tutti gli dèi e tutti gli uomini
mortali. / Ma quando essa fu sul punto di partorire l’occhiazzurra
dea Atena / allora, se-ducendo il suo cuore con l’inganno, / e con
carezzevoli discorsi, Zeus la inghiottì nel suo ventre, / … perché
la dea gli facesse conoscere ciò che fosse bene o male». Poi
seguitando dice ancora: «Ed egli dalla testa generò l’occhiazzurra
Atena / terribile, suscitatrice di tumulti, infaticabile conduttrice
di schiere, / signora, che rallegrano i clamori, le guerre, le
battaglie»179. E evidente che ripose egli Metis nell’intimo del
petto, e così poi si dice che generasse la dea dalla testa. Nel
seguito del discorso, dopo un certo tratto, dice ancora queste cose:
«Dalla contesa derivò che ella generasse / Efesto, figlio splendido
nelle arti, senza il concorso di Zeus reggitore di egida; / fra
tutti i celesti sommamente ricco d’ingegno. / E quello dal suo
canto, lungi da Era, accolse la figlia / di Oceano e di Teti dalle
belle guan-cie, la ben chiomata / Metis, e per astuta che fosse, la
prese con l’inganno: / afferrandola con le mani, la trasse dentro il
suo ventre, / temendo che potesse partorire uno più forte di lui
nella folgore. / Per questo il Cronide eccelso, che abita
nell’etere, / la inghiotti repentinamente; ed essa concepì Pallade
Atena / e la generò il padre degli -uomini e degli dèi / dalla sua
sommità, sulle rive del fiume Tritone. / Metis, nascosta nelle
viscere di Zeus, / fu riconosciuta poi come madre di Atena, artefice
di giustizia, / lei la più saggia di tutti, mortali e immortali. /
Giacque poi con Zeus Themis, che eccelleva / per astuzie fra tutti
gli immortali che abitano l’alto Olimpo. / Fatto un formidabile
scudo ad Atena dentro di sé / la generò poi con questo, armata da
guerra».
GALENO, De Hippocr. et Plac., Ili, 8, p. 321 Mùller = SVF II, 909
Detto ciò, Crisippo di seguito, riallacciandosi a questo, dice:
«Tali sono le cose che si dicono di Atena, e l’allegoria che risulta
da esse è un’altra. Per prima cosa si paragona Metis alla mente e
all’arte del vivere180; per opera di questa si devono ’mandar giù’ e
’inghiottire’ le arti, allo stesso modo che diciamo di ’mandar giù’
i discorsi altrui: è come dire di conseguenza che dobbiamo quasi
trangugiarle e mandarle giù nel ventre. Dopo di ciò, è ragionevole
che si partorisca quest’arte che abbiamo inghiottita, divenendo con
ciò simili a una madre che genera; inoltre noi partoriamo in noi i
prodotti delle scienze, ed è lecito esaminare come si proceda e con
quale metodo. E evidente che, per mezzo della parola che si
pronuncia, i pensieri passano attraverso la bocca, il che vuol dire
che passano per la testa, intendendo questa nel senso che si
potrebbe usare anche per un animale, oppure come quando diciamo che
viene tagliata la testa a qualcuno; non diverso è il senso del
discorso ’essa (Atena) è nata dal capo’ poiché questa allegoria
implica il riferimento a più significati. A parte questa ricerca, si
potrebbe dire alcunché di simile affermando che è nata solo dalla
testa; ma il poeta non dice affatto questo, a meno che qualcuno non
voglia distorcerne e fraintenderne le parole; si dovrebbe dire che
essa è uscita di là, dopo esser però stata generata altrove. Perciò
ecco che questa favola è l’immagine di qualcos’altro, come già
dissi: i prodotti della scienza nati in noi, con l’uscire attraverso
la nostra testa, non fanno in realtà che riconfermare le nostre
affermazioni precedenti».
FILODEMO, De pietate, col. 16, p. 83-84 Gomperz = SVF II, 910
Alcuni degli Stoici dicono che la parte direttiva sta nella
testa181; è infatti l’intelligenza, e si chiama per questo Metis. Ma
Crisippo dice che la parte direttiva è nel petto, e che là è na(ta
At)ena che è l’intelligenza stessa; si dice, semplicemente, che lo
sia dalla testa per il fatto che la voce viene emessa attraverso la
testa; e da «Ef(esto)» perché diviene poi arte; e invece di Atena
bisognerebbe dire At(re)na182. La si dice poi Tritonide e
Tritogeneia per il fatto che la intelligenza si articola in tre
ragionamenti, fisici, logici, etici. Così anche tutte le altre
denominazioni e tutti gli altri (appellativi che le si dànno egli li
adatta brillantemente all’intelligenza.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 50 = SVF II, 55
La rappresentazione differisce da ciò che è l’immagine
rappresentata. Quest’ultima è una credenza della mente del tipo di
quelle che si verificano nei sogni, mentre la rappresentazione è una
impressione nell’anima, cioè una trasformazione dell’anima stessa,
come Crisippo stabilisce nel libro II dell’opera Dell’anima. Né la
parola impressione va intesa come detta a proposito di un sigillo,
dal momento che non è concepibile che si possano verificare molte
impronte nello stesso luogo intorno allo stesso oggetto.
SUGLI ANTICHI FILOSOFI NATURALISTI
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 187 = SVF II, 1071
Crisippo … nell’opera Degli antichi filosofi naturalisti foggia
storie turpi intorno a Zeus e Era, dicendo in seicento righe cose
che nessuno vorrebbe dire per timore di sporcarsi la bocca. E assai
turpe, essi dicono, la storia che racconta, perché, anche se egli
giustifica la cosa come rispondente a natura, essa si addice molto
più a una prostituta che a una dea.
Scholia Genevensia, I, p. 210 Nicole = SVF II, 748
Crisippo, nell’opera Sulla fisica antica183, dimostrato che Artemide
equivale alla luna e riportando a lei la ragione dei parti (TèXOI),
(dice che) durante i pleniluni non solo le donne sono
particolarmente feconde (eikoxcÓTaToci) ma che nascono più
facilmente tutti quanti (gli animali)184.
EPISTOLE EROTICHE
CLEMENTE ROMANO, Homil. V, 18, P. L. II, col. 188 = SVF II, 1072
Zenone non alludeva forse a questa assoluta indifferenza quando
affermava che il divino si trova in tutte le cose, si che i suoi
discepoli comprendessero che chi si unisce con qualsiasi essere è
come se si unisse con esso, e che è vano proibire quelli che noi
siamo soliti chiamare gli incesti, le unioni carnali con la madre,
con la figlia, con la sorella, coi figli? Crisippo, nelle Epistole
erotiche, fa menzione perfino di quell’immagine che si trova in
Argo, nella quale è ritratta Era con la bocca vicina al membro
virile di Zeus.
DELLA DIVINAZIONE:
FILODEMO, De vietu deorum, col. y, 28 segg., pp. 25-26 Diels185
… se avesse p(otu)to questo, avre(bbe avuto) anche la facoltà186 di
rendere tutti sapienti e felici e non permettere fesistenza del
male. In tal modo egli riconduce al supremo principio cose tali da
implicare debolezza e difetto. E la stessa cosa ammettono spesso in
forma di confutazione, a proposito della conoscenza che è propria
dell’essere divino: così Crisippo nel suo Della divinazione dice che
la divinità non (può) conoscere tutto, perché non ha … Dopo aver
attribuito alla divinità, secondo quella che è la (superiorità
propria della sua specie, il potere di fare tutto, quando poi sono
messi con le spalle al muro dalle obiezioni altrui, cercano allora
uno scampo e son costretti a dire che essa non compie le cose che
sarebbero a ciò conseguenti perché non può tutto.
CICERONE, De divin., I, 3, 6 = SVF II, 1187
Venne poi Crisippo, uomo d’ingegno acutissimo, che spiegò tutta
questa dottrina in due libri Sulla divinazione…
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 149 = SVF II, 1191
Dicono che ha validità ogni tipo di divinazione, dal momento che c’è
la provvidenza; e dimostrano che essa è un’arte in virtù di alcune
sue prestazioni valide, come dicono Zenone e Crisippo nel libro II
dell’opera Della divinazione.
LATTANZIO, Div. Inst., I, 6, 9, p. 21 Brandt = SVF II, 1216
(nel catalogo delle Sibille) la terza è la Delfica, della quale
Crisippo parla nel libro da lui scritto Sulla divinazione.
DEI SOGNI
CICERONE, De divin. I, 3, 6 = SVF II, 1187
Crisippo … che diede la trattazione completa di questa dottrina in
due libri Sulla divinazione, e inoltre …in uno Dei sogni.
CICERONE, De divin., I, 65, 134 = SVF II, 1204
Un tale va a raccontare a un indovino di aver sognato che sopra di
lui dalla trave del letto nella sua camera pendeva un uovo. Questo
si trova nel libro di Crisippo Dei sogni. L’indovino risponde che
ciò significa che un tesoro sta nascosto sotto il letto. Quegli
scava, e trova una certa quantità d’oro circondata da argento. Manda
allora all’indovino un po’ dell’argento, quanto gli è sembrato. E
quello: «e niente mi mandi, del tuorlo?» giacché il sogno gli aveva
rivelato chiaramente la presenza dell’oro, e dell’argento solo per
sovrappiù.
CICERONE, De divin., I, 25, 57 = SVF II, 1204
Un altro sogno assai perspicuo viene raccontato. Avendo fatto due
Arcadi, legati da familiarità, lo stesso viaggio ed essendo arrivati
a Megara, l’uno andò a dormire in una osteria, presso un ospite
l’altro. Dopo che, cenato che ebbero, andarono a dormire, nel cuor
della notte a quello che era presso l’ospite apparve in sogno
l’altro, pregandolo che lo soccorresse, perché l’oste stava
meditando di ucciderlo. Egli balzò su con terrore, disturbato nel
primo sonno; poi, raccoltosi in sé, gli sembrò che la cosa non fosse
da prendersi sul serio, e si rimise a dormire. Ma mentre dormiva
ricomparve la stessa immagine, che stavolta lo pregava, dal momento
che non lo aveva aiutato finché era in vita, almeno di vendicare la
sua morte: era stato infatti ucciso dall’oste, poi era stato messo
in un carro e gli era stato gettato sopra dello sterco; andasse
dunque di primo mattino alla porta, prima che il carro uscisse dalla
città. Sconvolto da questo sogno, quegli di buon’ora si presentò al
bifolco accanto alla porta; e chiese all’uomo che cosa portasse nel
carro; l’uomo spaventato fuggì, il morto fu tratto fuori; l’oste,
essendo ormai chiaro il misfatto, fu condannato187.
CICERONE, De divin., II, 70, 144 = SVF I, 1206
E che? Le congetture degli stessi interpreti dei sogni non rivelano
forse piuttosto l’acume di quelli che non una forza oggettiva
riconoscibile in natura?
Un corridore che desiderava partire per Olimpia vede in sogno se
stesso portato da una quadriga. Al mattino sta già dall’indovino. E
quello: «vincerai» gli dice «ciò è indicato dalla velocità e dalla
forza dei cavalli». Poi lo stesso va da Antifonte188. «Sarai per
forza vinto» gli dice questi «non capisci che il sogno vuol dire che
quattro altri correranno avanti a te?» Ed ecco un altro corridore —
di questi sogni e di tale tipo sono pieni i libri di Crisippo e
anche quelli di Antipatro — ma torniamo al corridore: questi va a
raccontare a un indovino che in sogno gli è parso di esser tramutato
in aquila. E quello: «hai già vinto. Di questo uccello nessun altro
vola più rapido». Ma gli dice invece Antifonte: «Sciocco, non ti
accorgi che ciò vuol dire che sei vinto? Quest’uccello, per il fatto
stesso di inseguire e incalzare sempre gli altri, rimane sempre
ultimo» … Una matrona desiderava avere un figlio, ed era incerta se
fosse incinta. Nel sonno le è sembrato di avere la vulva suggellata.
Lo dice all’indovino, che le spiega che non può aver concepito per
il fatto stesso di aver la vulva suggellata; ma un altro indovino le
dice che è invece incinta, perché non si suole suggellare qualcosa
che sia vuoto. Tutto questo è semplicemente arte dell’indovino che
inganna con il suo ingegno. Le cose che ho raccontato e le
innumerevoli altre che gli Stoici hanno raccolte, che cosa
significano se non che sono assai astuti questi uomini che riescono
a congetturare sulla base ora di una similitudine, ora di un’altra?
DEGLI ORACOLI
CICERONE, De divin., Ili, 3, 6 = SVF II, 1187
…Crisippo che diede la trattazione completa in due libri … in un
libro Sugli oracoli189, edito poi da Diogene di Babilonia, suo
seguace.
Fozio, Lexicon, s.v. veoixóc. = SVF II, 1202
Che il giallo per loro equivalga al tuorlo, lo dice Crisippo nel
Degli oracoli190.
DELLE GRAZIE
FILODEMO, De pietate, col. 14, p. 81 Gomperz (Dox. Gr., p. 547b) =
SVF II, 1081
Stabilisce gli stessi accosta(menti) anche nel Delle Grazie, in cui
afferma che Zeus è la legge e le Grazie sono per noi l’inizio e il
contraccambio dei benefici191.
SENECA, De beneficiis, I, 3 = SVF II, 1082
Dirò che capacità abbia ciascuna di queste cose e quale proprietà,
se mi permetterai di tralasciare in primo luogo tutto ciò che non è
pertinente all’argomento: perché siano tre le Grazie e perché siano
sorelle e perché si tengano per mano e perché siano rappresentate in
atto di fanciulle ridenti dalla veste sciolta e trasparente. Alcuni
vogliono sostenere che una di esse è quella che dà i benefici,
l’altra quella che li riceve, la terza quella che li contraccambia.
Altri ancora ritengono che esse simboleggino tre tipi diversi di
benefici, quelli di chi li merita, quelli di chi li contraccambia,
quelli di chi insieme li riceve e li rende. Ma, qualunque di queste
cose io giudichi vera, a che ci giova la conoscenza di tutto questo?
Che vuol dire che la loro danza si volga in sé a mani intrecciate?
forse bisogna intenderlo nel senso che la serie dei benefici
passando di mano in mano nondimeno ritorna a chi per primo li ha
resi, e perde la bellezza dell’insieme se è in qualche punto
interrotta, mentre è un bellissimo ordine se è continua e si
avvicenda con regolarità … I loro volti sono ilari come sogliono
esserlo quelli di coloro che dànno e ricevono benefici; sono giovani
perché la memoria dei benefici non deve invecchiare; sono vergini,
perché sono incorrotte e sincere e in tutto sante; poiché non devono
essere forzate e costrette in alcun caso, hanno le loro tuniche
sciolte; e trasparenti perché i benefici vogliono esser palesi …
Anche Crisippo, che è vantato come l’intelletto più acuto e più a
fondo penetrante nella verità delle cose, Crisippo che parla sempre
in vista del contenuto oggettivo del discorso e usa le parole solo
per quel tanto che è richiesto dalle esigenze della comprensione,
riempie quel suo libro tutto quanto di simili sciocchezze, sì che in
realtà ben poco dice a proposito del modo di rendere, accettare e
contraccambiare un beneficio, e anziché tutt’al più inserire in
mezzo a queste argomentazioni dei miti, inserisce invece le
argomentazioni stesse in mezzo a un discorso di carattere
mitologico. Oltre a queste cose, che trascrive Ecatone, dice anche
che le Grazie sono figlie di Giove e di Eurinome, minori di età
rispetto alle Ore, ma di volto più bello e per questo date come
compagne a Venere. Giudica anche il nome della madre non casuale
rispetto alla realtà: infatti Eurinome è detta così perché è proprio
di un largo (eupus) patrimonio distribuire (véfxetv) i benefici:
come se fosse sempre d’uso dare alle figlie il nome della madre, o
come se i poeti dessero sempre nomi corrispondenti all’essenza della
cosa…192.
SENECA, De benef., III, 4, 4 = SVF II, 1082
Così Crisippo ci esorta a questa nobilissima gara di unire beneficio
a beneficio, fino a dire che c’è da temere che, dal momento che le
Càriti sono figlie di Giove, comportarsi senza gratitudine sia un
vero e proprio sacrilegio e sia un’offesa fatta a graziosissime
fanciulle.
DEL FINE
PLUTARCO, De Stole, rep., 19, io42e-f = SVF III, 85
I beni sono radicalmente differenti dai mali, ammette Cri-sippo; e
così deve essere: la presenza di questi ultimi rende infelici
all’estremo, la presenza dei primi rende sommamente felici. Egli
dice che i beni e i mali sono oggetto di sensazione, e nel primo
libro dell’opera Del fine così scrive: «che i beni e i mali sono
oggetto di sensazione, si è indotti a dirlo anche in base a questo:
non solo sono oggetto di sensazione le passioni in tutte le loro
forme, quali dolore, timore e altre simili, ma è possibile anche
avvertire il furto e l’adulterio e altre cose simili a queste, e in
generale la follia e la viltà e altri non pochi vizi; e non solo la
gioia e i benefici, ma anche molte altre azioni rette, e la
saggezza, il valore e le altre virtù».
PLUTARCO, De comm. not., 9, 1062C = SVF III, 85
Per essi il bene non è superiore alla sensazione; anzi Crisip-po nei
libri Del fine dice diffusamente che il bene è oggetto di
sensazione, come egli crede e dimostra.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 91 = SVF III, 223
Che essa — la virtù — sia insegnabile lo dice Crisippo nel libro I
Del fine; … che lo sia è dimostrato dal fatto che si diventa buoni e
cattivi.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 87 = SVF III, 4
E ancora, il vivere secondo virtù è uguale al vivere secondo
esperienza delle cose che avvengono secondo natura, come dice
Crisippo nel libro I del suo Del fine. Le nostre nature sono parte
della natura del tutto. Il fine è quindi vivere coerentemente alla
natura, il che vuol dire secondo la natura propria e specifica e
secondo la natura della realtà universale193, senza fare nulla di
quanto proibisce quella legge comune che è la retta ragione che
scorre per tutte le cose e che si identifica con Zeus, signore e
guida di tutte le cose che sono. La stessa cosa sono la virtù
dell’uomo felice e il buono scorrere della vita, quando tutto si
compie in armonia col dèmone proprio di ciascuno in vista della
volontà di colui che governa l’universo.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 85 = SVF III, 178
Dicono che il primo istinto dell’uomo è quello di conservare se
stesso, essendo questo a lui connaturato fin dall’inizio; come
afferma Crisippo nel libro I del suo Del fine, dicendo che a ogni
essere vivente è connaturata la propria struttura fisica e la
coscienza che la accompagna; non è verosimile infatti pensare che un
essere vivente possa estraniarsi (da se stesso), né che la natura
che lo ha generato possa respingerlo da sé o non assimilarlo a
sé194. Non resta quindi che affermare che la natura, dopo che lo ha
composto, se lo assimila come proprio. Perciò egli è proclive a
respingere ciò che lo danneggia e a ricercare ciò che è affine alla
sua natura. Essi dimostrano esser falso ciò che dicono alcuni, che
cioè gli esseri viventi hanno il loro primo impulso verso il
piacere: tutt’al più, essi dicono, il piacere è una superfetazione,
verificantesi quando la natura di per sé ha cercato e raggiunto
tutto quello che si adatta alla costituzione dell’individuo: è
quello il momento in cui gli animali si allietano e le piante
fioriscono. Nessuna differenza, essi dicono ancora, fa la natura fra
le piante e gli animali: anche senza impulso e sensazione essa
governa le piante, e d’altronde in noi si producono fenomeni affini
a quelli dei vegetali. Ma poiché agli animali in sovrappiù è stato
dato quell’impulso per mezzo del quale essi si dirigono a ciò ch’è
loro connaturato; avviene che essi realizzino la loro natura nel
seguire il proprio impulso; e poiché agli animali ragionevoli per
dirigersi in maniera più perfetta è stata data per l’appunto la
ragione, essi realizzano la loro natura nel vivere razionalmente. La
ragione si aggiunge in loro come qualcosa che plasma ad arte
l’istinto.
INTRODUZIONE ALLA TRATTAZIONE DEI BENI E DEI MALI
ATENEO, Deipnosoph., XI, 4Ó4d = SVF III, 667
Crisippo, nella sua Introduzione alla trattazione dei beni e dei
mali, dice che il volgo usa adattare la espressione «mania» a
moltissime cose. C’è quella che è detta mania delle donne e quella
che è detta mania delle pernici. Alcuni chiamano «maniaci di gloria»
quelli che corrono dietro alla fama, come «maniaci di donne» quelli
che amano molto le donne e «maniaci di uccelli» quelli che amano gli
uccelli; tutti questi nomi significano la stessa cosa; e anche il
resto non è inappropriato chiamarlo in questo stesso modo. Anche
quello che ama i pesci o che mangia volentieri i pesci è «maniaco di
pesci» e quello che ama il vino «maniaco di vino» e così via per
tutte le altre cose: e non a torto si considerano queste propensioni
altrettante manie, in quanto si tratta di errori dovuti a follia e
per di più di deviazioni dalla verità.
ATENEO, Deipnosoph., IV, 159d = SVF III, p. 196
Nella Introduzione alla trattazione dei beni e dei mali Crisippo
racconta che un giovinetto molto ricco venne dalla Ionia in Atene,
vestito di una tunica di porpora con frange auree. E a un tale che
gli chiedeva chi mai fosse, rispose: «un ricco».
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 63, I, p. 334 Kòtschau = SVF III, p.
196; II, 1174
Il discorso di Celso su ciò che è male si confuta anche in altro
modo, in base alle ricerche dei filosofi sul bene e sul male: essi
hanno appurato anche dallo studio della storia, che all’inizio le
etère si concedevano per prezzo a chiunque tenendosi fuori dalle
città e portando una maschera sul volto; in seguito spavaldamente si
tolsero la maschera, però ancora le leggi non permettevano loro di
entrare nelle città; poi infine, accrescendosi ogni giorno di più la
corruzione, osarono entrarvi. Questo dice Crisippo nolY Introduzione
alla trattazione dei beni e dei mali: «del fatto che i mali siano
cresciuti anziché diminuire, è facile accorgersi se si osservi come
i cosiddetti ambigui’ (di sesso incerto) un tempo se ne stessero
davanti alle porte delle città, prostituendosi e servendo ai
desideri di chi vi entrava; più tardi poi gli agoranomi li hanno
cacciati». Di innumerevoli cose si può dire che esse sono entrate a
far parte della vita degli uomini per il diffondersi del vizio,
mentre prima non esistevano…
Se una sola e la stessa è la natura del tutto, non una e la stessa
in tutto e per tutto è la genesi dei mali. Così come, pur essendo la
natura di un uomo una e la stessa, questi tuttavia non si comporta
sempre allo stesso modo quanto alla parte direttiva della sua anima,
alla sua ragione, alle sue azioni — sì che egli talvolta fa del male
senza concorso della ragione e talvolta con ragionamento, e in
misura maggiore o minore, talaltra si lascia convincere alla virtù
compiendo maggiore o minore progresso, oppure senza necessità di
esortazione giunge subito alla virtù, con maggiore o minore
riflessione — allo stesso modo si può dire della natura
dell’universo: essa è una e la stessa nel suo genere, tuttavia nel
tutto non si verificano certo eventi sempre uguali e omogenei, né
abbiamo sempre abbondanza o sempre carestia, né sempre ricche piogge
o sempre siccità; e allo stesso modo non si ha sempre la stessa
abbondanza o la stessa carenza di anime virtuose o lo stesso flusso
crescente o decrescente di anime viziose. Per chi voglia esaminare
il più diligentemente possibile, il problema dei mali, è necessario
rendersi conto che questi non sono sempre gli stessi perché la
provvidenza vigila su ciò che avviene sulla terra e purifica il
tutto con cataclismi o con conflagrazioni — e forse non solo le cose
che sono sulla terra, ma quelle che sono per tutto l’universo, il
quale ha bisogno di purificazione quando in esso il male divenga
troppo abbondante195».
DEI BENI
PLUTARCO, De Stole, rep., 30, io48a = SVF III, 137
Nel libro I dell’opera Dei beni in certo modo ammette e concede a
chi lo voglia che i preferibili possano dirsi beni e i loro contrari
mali196, usando queste espressioni: «Se uno, per mezzo di queste
varianti, voglia affermare che uno degli indifferenti è cattivo,
l’altro buono, facendo riferimento a questi concetti e non
altrimenti errando, (si può concedere) nel senso che egli quanto a
significati non si trova in errore, per il resto si attiene all’uso
abituale dei termini»197.
PSEUDO-PLUTARCO, Pro nobilit., 17, VII, p. 258 Bernardakis = SVF
III, 148
Ma lasciamo stare Crisippo, il quale più volte contraddice se
stesso: così ad esempio nel libro I dell’opera Dei beni … afferma
che non è contraddittorio l’annoverare fra i beni la salute.
PLUTARCO, De Stole, rep., 25, io46b = SVF III, 418
Nel libro II dell’opera Del bene198, nell’atto di dare la
spiegazione di che cosa sia l’invidia, definendo questa come «dolore
che si prova per il bene altrui, in quanto vogliamo che il nostro
prossimo subisca una diminuzione per poter noi esser da più»,
ricollega a questa definizione quella della malevolenza:
«strettamente connessa a questa è la malevolenza, per la quale pure
noi desideriamo che il nostro prossimo subisca diminuzione per cause
simili; quando poi siamo deviati da altri impulsi naturali, ecco che
invece nasce la pietà».
PLUTARCO, De comm. not., 25, 10700! = SVF III, 25
Che dalle due cose, il fine e ciò che si riferisce al fine199, sia
il primo che è superiore, nessuno lo ignora; riconosce questa
differenza anche Crisippo, com’è chiaro dal libro III dell’opera Dei
beni.
DELLE COSE CHE SONO DA SCEGLIERSI DI PER Sè
PLUTARCO, De Stoic. rep., 20, io43b = SVF III, 704
Cose press’a poco come queste dice anche nell’opera Delle cose che
sono da scegliersi di per sé, con queste espressioni: «In realtà la
vita condotta in tranquillità sembra avere in sé qualcosa di sicuro
ed esente da pericoli anche se i molti non arrivano assolutamente a
comprendere ciò».
ATENEO, Deipnosoph., VII, 285d = SVF III, 195
Il filosofo Crisippo, nell’opera Delle cose che sono da scegliersi
di per sé, dice: «ad Atene disprezzano le acciughe, per eccesso di
raffinatezza, e le considerano un pesce da poveri; ma nelle altre
città, dove in realtà quei pesci sono molto peggiori, le apprezzano
al più alto grado. E gli abitanti di queste parti si dànno cura di
allevare uccelli adriatici, che sono del tutto inutili, solo perché
son più rari, mentre gli abitanti di quei paesi, al contrario, si
fanno mandare i nostri»200.
PSEUDO-PLUTARCO, Pro nobil., 17, VII, p. 255 Bernar-dakis = SVF III,
148
Crisippo … non ritiene contraddittorio annoverare la salute fra i
beni, e nell’opera Delle cose che sono da scegliersi di per sé
dichiara addirittura non privi di pazzia quelli che la disprezzano.
DELLE COSE CHE NON SONO DA SCEGLIERSI DI PER Sè
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 188 = SVF III, 744
… dice che ci si può congiungere con la madre, con le figlie, con i
figli; le stesse cose dice anche nel suo Delle cose che non sono da
scegliersi dì per sé, subito all’inizio.
ATENEO, Deipnosoph., IV, i^a = SVF III, p. 195
Così come scrive il grazioso Crisippo nell’opera Delle cose che non
sono da scegliersi di per sé: «fino a tale punto alcuni sono
trascinati dall’amore del denaro che si racconta che un tale giunto
presso alla morte inghiottì alcune monete d’oro, e un altro,
avendone cucite entro il suo chitone, indossato questo diede
disposizione ai suoi di seppellirlo così, senza cremarlo e senza
fargli ulteriori trattamenti».
DELLE VIRTU'
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 127 = SVF III, 49
Dicono che la virtù è autosufficiente in vista della felicità; così
… Crisippo nel libro I dell’opera Delle virtù … Se, egli dice
infatti, la grandezza d’animo è sufficiente a far tutte in maniera
sublime, ed essa non è altro che una parte della virtù, bisogna dire
che anche la virtù in generale è autosufficiente nei riguardi della
felicità, disprezzando essa le opinioni volgari.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 125 = SVF III, 295
Dicono che le virtù sono conseguenti l’una all’altra e che chi ne ha
una le ha tutte. I loro principi generali sono comuni, come dice
Crisippo nel libro I del suo Delle virtù … Chi possiede la virtù
possiede la scienza teoretica e la capacità pratica di ciò eh’è da
farsi; e ciò eh’è da farsi è anche da scegliersi, da tollerarsi, da
distribuirsi, da continuarsi con perseveranza. Chi sappia compiere
tutte queste cose, scegliere, tollerare, di stribuire, perseverare,
questi è saggio, è forte, è giusto, è continente.
Le virtù si possono elencare a seconda della loro proprietà
specifica; per esempio il valore dal saper resistere, e la saggezza
dal saper fare e non fare quando si deve o no, e così le altre a
seconda del campo di azione che è loro proprio. Alla saggezza
conseguono buon consiglio e intelligenza, alla continenza buon
ordine e compostezza, alla giustizia uguaglianza e buon giudizio,
alla fortezza immutabilità e vigore.
PSEUDO-PLUTARCO, Pro nobil., 12-13, p. 235 Bernardakis = SVF ni, 350
Crisippo, nel suo Delle virtù, chiama la nobiltà «scoria e
raschiatura dell’uguaglianza»: non c’è quindi alcuna differenza nel
discendere da un padre nobile o no … Di nuovo torno a Crisippo, il
quale, a proposito della nobiltà, scrive che il più intelligente dei
poeti ha detto: «che io, o qualche altro degli Achei, conduca
prigioniero in catene»201… E di nuovo egli emette ululati dicendo
che dallo stesso poeta sono svelate le malefatte dei nobili, quando
Efesto sorprende l’adulterio di Ares e di Afrodite: «ché la figlia
di Zeus Afrodite me zoppo / disprezza, e ama il terribile Ares»202
DELLA DIFFERENZA FRA LE VIRTè (CHE LE VIRTè SONO QUALITè)203
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., VII, 2, p. 591 Mùller = SVF III,
256
Credendo dunque Aristone che una sola sia la facoltà dell’anima,
quella raziocinante, pose di conseguenza anche una sola virtù
dell’anima, la scienza di ciò ch’è bene e di ciò eh’è male. Quando
si debba scegliere i beni da compiersi e fuggire i mali, questa
scienza si chiama temperanza; quando si debba fare il bene e non
fare il male, saggezza; fortezza quando si debba fuggire alcune cose
e altre affrontarne con coraggio; giustizia, quando si debba
distribuire a ciascuno il suo secondo il merito; in una parola,
quando l’anima, indipendentemente dall’azione, abbia conoscenza del
bene e del male, abbiamo la sapienza e la scienza; quando acceda
all’azione ordinarie della vita prende i nomi diversi corrispondenti
alle disposizioni anzidette, chiamandosi di volta in volta saggezza
e temperanza e giustizia e fortezza. Questa è l’opinione di Aristone
circa le virtù dell’anima. Ma Crisippo non so come tenti di
contrapporsi a lui, dal momento che finisce col sostenere poi
esattamente la sua stessa opinione. Se noi conosciamo e facciamo
tutte le cose debitamente la nostra vita può svolgersi secondo
scienza, nel caso contrario, se facciamo e conosciamo tutto male e
falsamente, vivremo nell’ignoranza, come afferma lo stesso Crisippo,
e perciò una sola è in realtà la virtù, scienza, una è in realtà il
vizio, che qualche volta si dichiara essere ignoranza, talvolta
insipienza. Se si temano la morte o la povertà o la malattia come
mali, ci si deve far coraggio pensando che si tratta solo di
indifferenti; come direbbero Aristone e Crisippo, per mancanza di
scienza chi teme ciò ignora il vero e quindi ha quel vizio
dell’anima che si chiama viltà; vizio che essi pongono in
contrapposizione con la virtù che si chiama fortezza, ed è la
scienza di quello di fronte a cui si deve aver coraggio o aver
paura, cioè dei mah e dei beni, quelli che sono veramente tali e non
quelli supposti tali secondo opinione fallace, quali sarebbero ad
esempio la salute, la ricchezza, la malattia, la povertà. Di queste
cose nessuna è un bene o un male, essi dicono: sono tutte cose
indifferenti. E certo, se c’è qualcuno che, ritenendo che ciò che è
piacevole sia un bene e ciò che è spiacevole un male, seguendo
questa opinione indirizzi la sua scelta all’uno e il suo rifiuto
all’altro, questi ignora la vera essenza del bene, e per questa
stessa ragione è anche intemperante. Poiché in tutte le nostre
azioni noi scegliamo ciò che ci sembra bene e respingiamo ciò che ci
sembra male, e facciamo ciò in base a un impulso naturale, nell’uno
e nell’altro caso, è poi la filosofia a renderci esenti da errore,
insegnandoci ciò che è bene e ciò che è male secondo verità.
Crisippo, non so come, allo stesso modo che quelli che sono
inesperti di ragionamenti, fa più attenzione al suono differente
delle voci che all’oggetto cui queste si riferiscono, quando crede
che ciascuna di queste voci significhi una realtà diversa, «da
scegliersi», «da farsi», «da affrontarsi», quasi un diverso bene.
Non vi è dietro ciascuna di esse una realtà diversa, ma sempre la
stessa realtà, come è evidente da quella che indica il bene in
generale … Con tutte queste espressioni anche secondo lo stesso
Crisippo noi non intendiamo altro che il bene, dal momento che il
bene è ciò eh’è da scegliersi e da compiersi e da affrontarsi; sì
che la scienza dei beni, esaminata a seconda dei vari oggetti e
delle varie azioni, prende più nomi, ciascuno di carattere relativo
in considerazione, dell’oggetto o dell’azione sua propria … Così nei
libri Sulla differenza fra le virtù Crisippo, prescindendo da
argomentazioni scientifiche e dimostrative, erra fra i rimanenti tre
generi, lui che nell’opera Della qualità delle virtù si attiene
invece piuttosto ad argomentazioni scientifiche, argomentazioni che
confutano il discorso di Aris tone, ma non si accordano con la sua
stessa premessa.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, VII, i, p. 583 Müller = SVF III,
259
Ci siamo dilungati non solo a confutare i discorsi da loro scritti
sulla parte direttiva dell’anima, ma anche ciò che Crisippo ha
scritto sulle passioni dell’anima stessa questo in tre commentarli
logici, quest’altro nel Discorso terapeutico, col dimostrare che
egli è in contraddizione con se stesso. Ho fatto menzione anche
degli scritti di Posidonio, nei quali egli loda la teoria degli
antichi204, confutando quanto Crisippo a torto dice circa le
passioni dell’anima e la differenza fra le virtù. Così come egli,
infatti, sopprime tutta la parte passionale dell’anima, abolendo del
tutto la facoltà impulsiva e quella appetitiva, così fra le virtù
non lascia più sussistere altro che la saggezza. E a questo punto,
se uno volesse scorrere ragionandoci su quello che Crisippo ha
scritto in quattro libri nel Della differenza fra le virtù,
vagliando una per una le cose da lui dette anche in quell’altro
scritto, in cui dimostra la qualità delle virtù, con l’intento di
confutare Aristone, avrebbe bisogno per parlarne non di un libro o
anche due, ma addirittura di tre o quattro. Anche a questo proposito
vi è un solo discorso breve, scientifico, che confuta Crisippo, il
quale non annunzia il vero e sovrabbonda in eccessive lungaggini (ma
quelli che non hanno alcuna educazione al ragionamento scientifico e
non sanno quale esso sia, ma rimangono colpiti dalla lunghezza e
vastità dei libri di Crisippo, credono che in essi siano scritte
tutte verità). Ci sono tuttavia moltissime cose vere soprattutto in
quel libro in cui egli parla delle qualità delle virtù; ma il
supporre che nell’anima vi sia una sola facoltà, quella che si
chiama raziocinante e giudicante, sopprimendo del tutto la facoltà
impulsiva e la appetitiva, così come ha fatto Crisippo, contraddice
a tutte le altre cose dette nello stesso libro. Non gli si potrebbe
rimproverare, invece, di aver confutato la setta di Aristone secondo
verità con i suoi scritti. Quegli riteneva che la virtù, una di per
sé, prenda diversi nomi a seconda della sua posizione relativa. Ma
Crisippo dimostra che la molteplicità delle virtù come dei vizi non
deriva dalla posizione relativa, ma dall’essenza specifica di
ciascuna, che varia secondo le qualità, discorso che coincide con
quello degli antichi. La stessa cosa, con leggere variazioni,
Crisippo l’ha sostenuta pur esprimendosi diversamente nell’opera
Delle qualità delle virtù, con argomenti che non si accordano con
quella sua precedente affermazione che l’anima non è altro che
facoltà razionale e che non esiste una facoltà affettiva.
DELLA GIUSTIZIA
PLUTARCO, De Stole, rep., 15, 104ob = SVF II, 1175
E similmente nel libro I del suo Della giustizia, citando a questo
proposito i versi esiodei «a questi dal cielo mandò afflizione
grande il figlio di Crono, / fame e peste insieme: e furono
distrutti i popoli»205, dice che «gli dèi così fanno allo scopo di
distornare gli altri, mediante la punizione dei cattivi data loro
come esempio, del fare alcunché di simile».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 36, 105Ia = SVF II, 1182
E ancora nel libro I del Della giustizia, parlando degli dèi, che si
trovano implicati in qualche misfatto, dice: «non è possibile
abolire del tutto il male dall’universo, e neanche sarebbe bene che
fosse abolito».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 12, 1038b = SVF II, 724
Ma nel libro I del Della giustizia afferma: «anche gli animali
feroci hanno un senso di parentela per i loro rampolli, in maniera
commisurata al loro bisogno; non così i pesci, giacché essi mangiano
quelli che hanno generato». Tuttavia non ci può esser sensazione per
chi non è capace di sentire né sentimento di parentela per chi non
può aver nulla di congeniale a sé: l’apparentamento con se stessi206
è infatti, a quanto sembra, senso e percezione di ciò che è
congeniale.
DIOGENE LAERZIO, Vitae phìlos., VII, 129 = SVF III, 367
Essi ritengono che non esista una giustizia nei riguardi degli
animali, per la nostra dissomiglianza da essi, come dice Crisip-po
nel libro I del Della giustizia.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 15, 1040C = SVF III, 23
Ancora nel Della giustizia, dopo aver detto che quelli che ritengono
il piacere un bene ma non il fine possono salvare la giustizia,
stabilita questa posizione dice testualmente: «forse se noi
ammettiamo che sia un bene, ma non il fine, poiché ciò ch’è decoroso
è fra le cose che sono da scegliersi di per sé, potremmo salvare la
giustizia riconoscendo che il decoroso e il giusto sono un bene
ancora maggiore».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 17, 104If SVF III, 545
Nel libro III del Della giustizia dice queste cose: «Perciò, per la
straordinaria grandezza e bellezza del soggetto, sembra che diciamo
cose simili a finzioni e superiori all’uomo e alla natura umana».
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 188 SVF III, 747
Egli che, nel libro III del suo Del giusto207, per ben mille righe
prescrive perfino di mangiare i morti!
SESTO EMPIRICO, Adv. Ethicos, 192 SVF III, 748
Potrebbero valere come principio della loro pietà verso i morti le
cose che essi proclamano a proposito della antropofagia; non solo
dicono che è lecito mangiare i morti, ma anche quei pezzi del loro
corpo che per caso si trovino tagliati. Cri-sippo nell’opera Della
giustizia dice così: «E se sia tagliato un pezzo delle loro membra
buono a mangiarsi, non è il caso di seppellirlo né di gettarlo
altrove, bisogna consumarlo perché esso possa divenire un altro
pezzo della nostra stessa carne».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 32, 1049a SVF III, 705
Alcuni dei Pitagorici208 gli rimproverano di avere scritto nei libri
Della giustizia intorno ai galli: «sono esseri nati per scopo utile:
ci svegliano e mangiano gli scorpioni e ci eccitano a battaglia
mettendoci ardire con la loro forza; tuttavia bisogna mangiarli,
perché la quantità dei tuorli fecondati non oltrepassi quella che è
la necessità».
DELLA GIUSTIZIA CONTRO PLATONE209
PLUTARCO, De comm. not., 25, ioyoe = SVF III, 455
Ma ammette anche, Crisippo, che vi siano alcuni timori, dolori e
inganni che ci recano sì danno, ma che non ci rendono peggiori.
Guarda cosa dice nel primo dei libri scritti Sulla giustizia contro
Platone: anche per altre ragioni dobbiamo esaminare l’inventività
impiegata là nelle parole da quell’uomo, una in-ventività che non
risparmia alcun contenuto né principio proprio o altrui.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 15, 104od = SVF III, 157
Nei libri Contro Platone (della giustizia), condannando questi
perché ha ritenuto la salute un bene, dice: «non solo la giustizia,
ma anche la magnanimità dovremo sopprimere, e la temperanza e tutte
le altre virtù, se ammettiamo che sia un bene qualcosa che in realtà
non lo è, come il piacere o la salute o un’altra qualsiasi di cose
del genere».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 16, 104Ib = SVF III, 288
E poiché Platone dice che l’ingiustizia, essendo un principio
distruttivo per l’anima, è anche rivolta verso di sé e non lascia
tranquillo l’uomo malvagio ma lo pone in lotta con se stesso210,
Crisippo lo rimprovera di ciò dicendo: «è assurdo dire che si è
ingiusti verso se stessi: l’ingiustizia si esercita sempre contro
altri, non contro di sé» … Nei libri Contro Platone egli si è così
espresso a proposito del fatto che l’ingiustizia non si esercita mai
contro se stessi ma contro gli altri: «individui isolati non sono
mai ingiusti, né gli ingiusti consistono in più individui simili che
cadono in contraddizione con se stessi, poiché l’ingiustizia deve
esser concepita diversamente da quel che sarebbero più individui
così disposti verso se stessi, e poiché nulla di simile può esser
pertinente a un individuo se non nei suoi rapporti col suo
prossimo».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 15, io4oa SVF III, 313
Ma nell’opera contro lo stesso Platone Della giustizia subito
all’inizio si contrappone al discorso sugli dèi, e dice: «Cefalo211
non si conduce rettamente col suo voler distogliere dall’ingiustizia
per mezzo del timore negli dèi, e tale discorso è condannabile, e
trascina al contrario, ingenerando deviazioni e credenze
contraddittorie; questo discorso sui castighi divini non è molto
dissimile da quello sull’Orco e sul Babau di cui si servono le donne
per impedire ai bambini di fare i capricci». Dopo aver così
malevolmente dileggiato Platone, loda invece Euripide fra gli altri,
citando spesso questi versi: «ma sono, anche se alcuno rida per
queste parole / Zeus e gli dèi a tener d’occhio le cose dei
mortali»212.
DELLA GIUSTIZIA CONTRO ARISTOTELE
PLUTARCO, De Stoic. rep., 15, 1040c SVF III, 24
Per non trascurare di difendere le proprie contraddizioni, nello
scritto Contro Aristotele, della giustizia dice che questi non ha
avuto ragione nel dire che, se il piacere è il fine, si abolisce con
ciò la giustizia, e con la giustizia viene abolita ogni altra virtù:
è vero che la giustizia viene abolita da chi professa una simile
teoria, ma non è detto che lo siano anche le altre virtù: queste
possono esser considerate buone e approvate213 anche se non sono di
per sé oggetto di scelta. E quindi egli le enume ra dando a ciascuna
un nome; ma è meglio riportare esattamente le sue espressioni. «Se
in una simile teoria il piacere è indicato come fine, questo non mi
sembra implicare tutto il resto che si è detto: si dovrà solo dire
che nessuna delle virtù è da scegliersi di per sé e nessun vizio da
fuggirsi, ma bisogna mettere le une e le altre in rapporto con lo
scopo che ci si prefigge. Nulla però vieta che per chi pensa così la
fortezza, la saggezza, la temperanza e la costanza e tutte le altre
virtù del genere siano da annoverarsi fra i beni, e che i vizi ad
esse contrapposti siano da fuggirsi».
DIMOSTRAZIONI SULLA GIUSTIZIA
PLUTARCO, De Stole, rep., 16, 104Ic-d = SVF III, 289
Ma si dimentica di questo quando, nelle Dimostrazioni sulla
giustizia, dice che chi commette ingiustizia può anche riceverla da
sé stesso ed essere ingiusto contro di sé, anche quando commette
ingiustizia nei riguardi di un altro, perché diviene causa a sé
stesso di trasgressione alla legge, e si arreca danno contro il
dovuto … Nelle Dimostrazioni infatti argomenta così circa il
problema se l’ingiusto possa esser tale anche verso se stesso: «La
legge vieta di diventare causa sia pur collaterale di trasgressione
della legalità; ma il commettere ingiustizia è una trasgressione
della legalità. Chi dunque diventi causa anche indiretta a sé stesso
di ingiustizia, commette una trasgressione del genere nei propri
riguardi. Ma chi trasgredisce la legge nei riguardi di qualcuno,
commette anche ingiustizia nei riguardi di quello; chi dunque
commetta ingiustizia, contro chiunque sia, in pari tempo la commette
anche contro di sé».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 15, 104Ia = SVF III, 297
E nelle Dimostrazioni sulla giustizia dice letteralmente che «ogni
dovere cui si adempia e ogni obbedienza alla legge è anche una
azione giusta; ma le azioni compiute secondo temperanza o costanza o
saggezza o fortezza sono tutte espressioni del dovere; quindi sono
anche azioni giuste».
DELL'AZIONE DOVEROSA
SESTO EMPIRICO, Adv. Ethìcos, 194 = SVF III, 752
Nello scritto Dell’azione doverosa, discorrendo della sepoltura da
darsi ai genitori, dice testualmente: «Quando i genitori siano
giunti a morte, bisogna far loro la sepoltura più semplice, dal
momento che nulla del nostro corpo ha veramente importanza per noi
come non ne hanno unghie e capelli, né certo abbiamo necessità della
cura e dell’importanza che si danno in genere a queste cose. Se le
loro carni poi fossero utili in vista della nutrizione, si potrà
anche mangiarne, così come delle parti del nostro corpo, se un piede
o qualche altro membro sia tagliato, può avvenirci di dover far
analogo uso. Se invece questa utilità non sussista, li si ponga in
un tomba seppellendoli, oppure li si cremi e se ne disperdano le
ceneri, o anche li si getti lontano, dal momento che del loro corpo
non si deve fare nessuno conto, come non ci diamo cura delle unghie
o dei capelli».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 23, 10456 = SVF III, 174
Nel libro VI dell’opera Dell’azione doverosa, dopo aver detto: «Vi
sono alcune cose che non sono degne di molta trattazione né di molta
attenzione», ritiene che si debba lasciare al caso la scelta di tali
cose, con una fortuita inclinazione dell’animo. «Se per esempio»,
dice «tra due persone che esaminano due dracme l’una dicesse che
questa è più bella, l’altro che è più bella quella, si dovrà in
questo caso, senza stare a ricercare più accuratamente, scegliere
quella che capita, valendosi di un criterio dettato dalla sorte,
anche se poi così facendo può capitarci di scegliere la peggiore».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 30, 1047f = SVF III, 688
E nel libro VII dell’opera Dell’azione doverosa afferma che il
sapiente potrà anche fare tre salti mortali e con questo guadagnarsi
un talento.
DEL BELLO
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 101 = SVF III, 30
Dicono che solo il bello è anche buono; così dice … Crisippo nei
libri dell’opera Del bello. Questo è virtù e partecipa della virtù:
per cui si può dire ugualmente che tutto ciò che è buono è anche
bello e che il bene ha la stessa forza del bello, in quanto è uguale
a questo. Se è buono, è anche bello, ma è bello dunque è buono.
PLUTARCO, De Stole, rep., 13, 10390 = SVF III, 29
Nello scritto Sul bello, allo scopo di dimostrare che solo il bello
è buono, si serve di questa argomentazione: «Il bene è da
scegliersi: ciò che è da scegliersi è da approvarsi; ciò ch’è da
approvarsi è da lodarsi; ciò ch’è da lodarsi è bello». E ancora:
«Ciò ch’è buono dà gioia, ciò che dà gioia è augusto, ciò ch’è
augusto è bello».
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 128 = SVF III, 308
Dicono che il giusto è tale per natura e non per convenzione, e
applicano ciò alla legge e al retto discorso, come dice Crisippo
nell’opera Del bello.
ATENEO, Deipnosoph., IV, 158a = SVF III, 709a
È principio stoico che il sapiente sa far bene tutto ciò che fa, e
perciò saprà anche preparar bene un piatto di lenticchie. Perciò
Timone di Fliunte dice: «chi non ha imparato a preparare da sapiente
il piatto di lenticchie zenoniano214, come se non si potesse cuocer
bene le lenticchie altro che seguendo la dottrina di Zenone, il
quale diceva: ’getta nel piatto un dodice simo di coriandro’; e
Cratete Tebano diceva: ’non gettarci nella discordia con il far
stima più del vassoio di lusso che del piatto di lenticchie’215.
Quanto a Crisippo, nella sua opera Del bello, offrendoci alcune
piccole massime, dice: ’non mangiare olive, se hai dell’ortica.
Nell’inverno, mangia lenticchie cotte con bulbi’ (ohi! ohi!) e
ancora: ’le lenticchie coi bulbi, quando il freddo è forte, sono
come ambrosia’».
DEL BELLO E DEL PIACERE, AD ARISTOCREONTE
GELLIO, Noct Att, XIV, 4 = SVF III, p. 197
Degnamente e insieme decorosamente a mio giudizio Crisippo, nel
libro I dell’opera intitolata Del bello e del piacere, ha dipinto il
volto e gli occhi della Giustizia con parole dal colore severo e
venerando. Rappresenta l’immagine della giustizia come dipinta
solitamente dai pittori e dai retori più antichi su per giù in
questo modo: «di bellezza e di dignità verginale, di aspetto forte e
terribile, dagli occhi acuti, di una dignità non umile né fiera, ma
dotata di una certa tristezza che ispira rispetto». Dalle
espressioni usate per questa immagine desiderava che si comprendesse
come il giudice, che è il sacerdote della giustizia, debba essere
grave, santo, severo, incorrotto, resistente all’adulazione,
resistente alla compassione nei riguardi degli uomini malvagi e
nocivi, inesorabile, inflessibile e arduo e potente, veramente tale
da incutere spavento per la forza e la maestà dell’equità e della
verità. Le parole stesse che Crisippo scrive sulla giustizia,
eccole: «Si dice che essa sia una vergine perché ciò simboleggia il
suo carattere incontaminato, il suo nulla concedere ai malvagi, e il
fatto che non la toccano né i discorsi indulgenti, né la supplica e
la preghiera, né l’adulazione, né alcun’altra cosa di questo tipo.
Di conseguenza la si dipinge accigliata, col volto rigido, con lo
sguardo intenso e terribile, sì da infondere spavento negli
ingiusti, coraggio nei giusti, poiché a questi appare amabile quel
volto, agli altri invece osti le». Ho ritenuto che sia il caso di
riportare queste parole di Crisippo verbalmente perché siano a
disposizione di chi voglia giudicarle e valutarle; giacché mentre
noi le leggevamo alcuni filosofi più delicati hanno obiettato che
questa non è l’immagine della giustizia, ma della crudeltà.
ATENEO, Deipnosoph., XIII, 565a = SVF III, p. 198
Giacché l’uso del radersi la barba è stato inventato al tempo di
Alessandro, come ci dice il vostro Crisippo nel libro IV del suo Del
bello e del piacere. Non sarà inopportuno, sono persuaso, che io
riporti le sue espressioni: mi rallegro infatti con quell’uomo per
la sua vasta erudizione e per l’equità del costume. Così dice il
filosofo: «l’uso di radersi la barba è stato avanzato per la prima
volta ai tempi di Alessandro, giacché gli uomini del periodo
precedente lo ignoravano. Il flautista Timoteo suonava il flauto
portando una lunga barba; in Atene si mantiene il ricordo del primo
che si è raso, non molto antico in verità, e che ha avuto per questo
il soprannome di Corse216. Per cui Alessi diceva: ’ se tu vedi
qualcuno che sia depilato con la pece o sia raso / questi deve
trovarsi in una di queste due condizioni: / o sembra che stia
meditando di far il soldato / e far cose imcompatibili con l’uso
della barba / oppure a costui è successo un qualche male di quelli
che avvengono ai ricchi. / In che ci affliggono, per gli dèi, i peli
/ per i quali ciascuno di noi appare virile, / a meno che tu non
pensi di far qualcosa di contrario a questi?’217 E Diogene, vedendo
una volta un tale con la guancia rasa, gli disse: ’forse rimproveri
la natura per averti fatto uomo e non donna?’ Un’altra volta,
vedendo un tale a cavallo nelle stesse condizioni, e profumato e
vestito di conseguenza, disse: ’ avevo cercato che cosa fosse
l’ippoporno, adesso l’ho trovato’. Ma in Rodi, nonostante la legge
che proibiva di radersi, nessuno può ormai essere arrestato, perché
lo fanno tutti; e a Bisanzio, nonostante ci sia una multa per chi si
rada il volto, nonostante ciò tutti hanno adottato quest’uso». Ciò
dice l’ammirevole Crisippo.
ATENEO, Deipnosoph., IV, 13y• = SVF III, pp. 198-199
Crisippo, nel libro IV dell’opera Del bello e del piacere, dice:
«raccontano che ad Atene, nei due banchetti istituiti non poi tanto
tempo fa, quello dell’Accademia e quello del Liceo, si usa così:
nell’Accademia, quando il cuoco porti un piatto di tipo inusuale, i
sacrificanti rompono tutto il vasellame, poiché non è bello
introdurre niente che venga di lontano, da cose del genere essendo
doveroso astenersi; quanto a quelli del Liceo, se qualcuno prepari
in salamoia della carne disseccata, lo frustano come se avesse
malvagiamente barato con discorsi capziosi».
ATENEO, Deipnosoph., III, 89d = SVF II, 729a
Crisippo di Soli, nel libro V del suo Del bello e del piacere, dice:
«la pinna e il gamberello si aiutano l’uno con l’altro, e separati
non possono sopravvivere. La pinna è una conchiglia, il gamberello
un piccolo granchio. La pinna, aprendo la sua conchiglia, offre
rifugio tranquillo ai piccoli pesci che vi entrano; ma il gamberello
sopravvenendo, quando qualche pesciolino vi entri, la morde come per
farle un segno; essa allora, sotto il morso, si chiude; e così
divorano insieme quello che hanno acchiappato».
ATENEO, Deipnosoph., IX, 373a = SVF III, p. 199
E Crisippo nel libro V del suo Del bello e del piacere scrive così:
«come alcuni dicono che gli uccelli bianchi sono più dolci di quelli
neri».
ATENEO, Deipnosoph., VIII, 33 = SVF III, p. 199
Ma dunque l’ammirevole Crisippo218, nel libro V dello scritto Del
bello e del piacere, dice: «i libri di Filenide e la gastronomia di
Archestrato219 e l’abilità nell’amore e nell’unione carnale, e così
pure le ancelle esperte di questi moti e di queste figure e che son
brave in questi esercizi» e inoltre: «essi apprendono simili cose e
possiedono ciò che in proposito hanno scritto Filenide e Archestrato
e altri scrittori di cose analoghe». E nel libro VII dice: «non c’è
da imparare le cose scritte da Filenide o la gastronomia di
Archestrato come capaci di farci vivere meglio».
ATENEO, Deipnosoph., XIV, 616a = SVF III, p. 199
E Crisippo il filosofo, nel libro V del suo Del bello e del piacere,
scrive questo a proposito di Pantaleonte: «l’astuto Pantaleonte220,
sul punto di morire, ingannò a parte l’uno e l’altro dei suoi figli,
a ciascuno dei due dicendo che gli confidava ove avesse sepolto il
suo oro: sì che entrambi dopo avere scavato invano si accorsero di
essere stati ingannati».
ATENEO, Deipnosoph., XIV, 616b = SVF III, p. 199
A proposito di un tale di questa tendenza (a schernire gli altri)
nuovamente Crisippo, nello stesso libro, così scrive: «un tale
amante dello scherno, sul punto di essere ucciso dal boia, disse:
’voglio morire come il cigno, cantando’. Poiché quello mostrava di
volerglielo concedere, così si prese gioco di lui»221.
DELLE AZIONI RETTE
PLUTARCO, De Stole, rep., 12, io38a = SVF III, 674
«Nulla è utile agli stolti» dice Crisippo «né lo stolto ha necessità
o bisogno di alcunché». Dopo aver detto questo nel libro primo
dell’opera Sulle azioni rette, in seguito dice: «la riconoscenza e
la gratitudine son pertinenti all’ordine delle cose neutre», e di
queste nulla è utile per loro. Che poi per lo stolto nulla sia
appropriato né adatto lo dice in questi termini: «Secondo tutto
questo si deve dire che a chi è di animo elevato nulla è estraneo, a
chi è di animo vile nulla è appropriato; giacché agli uni appartiene
il bene, agli altri il male».
PLUTARCO, De comm. not. 20, io68a-c = SVF III, 674
…scrivendo nel suo Delle azioni rette che «lo stolto non ha bisogno
di nulla né ha alcuna necessità: nulla gli è utile, nulla proprio,
nulla adatto» (giacché se c’è il vizio non è utile nulla, né la
salute, né una gran quantità di ricchezze, né il successo) … Ora,
che cos’è questo indovinello, che chi non soffre mancanza abbisogna
di quei beni che possiede, ma lo stolto soffre mancanza di molte
cose, però non abbisogna di alcuna? Cosi dice Crisippo: «gli stolti
non abbisognano di nulla, mancano di tutto»222.
PLUTARCO, De Stoic. rep. 25, io46b-c = SVF III, 672
(Nel primo libro dell’opera Delle azioni rette) dice che in un certo
modo il godere del male altrui non esiste: infatti dei buoni nessuno
gode degli altrui mali, (ma dei cattivi nessuno gode) in assoluto223
… E anche in altri libri dice che ciò non esiste, così come non
esistono l’odio per i malvagi e la cupidità di guadagno.
PLUTARCO, De comm. not. 21, io68d = SVF III, 672
«Non traggono giovamento dall’avere questo gli stolti, né ne godono;
non hanno benefattori, e neanche si trovano in grado di trascurare i
benefattori. Quindi gli stolti non conoscono l’ingratitudine. Però
non la conoscono neanche i saggi. E dunque l’ingratitudine non
esiste: questi non sono privi di gratitudine perché ne ricevono,
quelli non sono capaci per natura di ricevere gratitudine». Ma
guarda poi che cosa dicono: «la gratitudine è pertinente alle cose
neutre; il dare e ricevere giovamento è proprio dei sapienti, la
gratitudine può essere anche degli stolti».
DELLA CONCORDIA
ATENEO, Deipnosoph., VI, 2Óyb = SVF III, 353
Crisippo dice che uno schiavo differisce da un servo domestico,
scrivendo nel libro II Della Concordia che, poiché gli affrancati
sono ancora servi, ma i servi domestici sono quelli non liberati
dalla proprietà, «il servo domestico è un servo che fa regolarmente
parte della proprietà».
DELL'INCONSEGUENZA
PLUTARCO, De viri, mor., 10, 450C SVF III, 390
Nei libri DelV inconseguenza Crisippo, dopo aver detto: «l’ira è
cieca e spesso non riesce a vedere le cose più evidenti, spesso si
pone di contro a ciò ch’è oggetto di comprensione», poco più oltre
dice: «le passioni col loro sopravvenire sovvertono i ragionamenti e
fan sì che le cose appaiano altrimenti, violentemente spingendo alle
azioni opposte». E si vale a testimonio di Menandro, il quale dice:
«ohimè, me infelice, dov’era la mia ragione, / in quale parte mai
del mio corpo, / in qual tempo, quando preferii quello a questo?»224
E lo stesso Crisippo proseguendo dice: «pur essendo proprio
dell’animale dotato di ragione valersi di questa in ogni circostanza
e lasciarsene governare, spesso noi la teniamo lontana, cedendo a un
moto più violento».
DELL'AMICIZIA
PLUTARCO, De Stoic. rep., 13, 1039b = SVF III, 724
Ancora, nel libro II Dell’amicizia, intendendo insegnare che non per
ogni tipo di errori siamo al caso di dover sciogliere l’amicizia, si
vale di queste espressioni: «E conveniente alcune cose trascurarle
appieno, altre colpirle di una riprensione leggera, altre
considerarle più gravi e altre ancora stimarle degne di una vera e
propria rottura» … Nello stesso luogo dice anche: «abbiamo rapporti
più stretti con alcuni che con altri, sì che siamo più amici di
alcuni che di altri. Portando più avanti questo confronto, diremo
che alcuni sono degni di un tanto di amicizia, altri di più o meno;
e gli uni saranno tenuti in un certo conto per ciò che riguarda la
fiducia e cose analoghe, altri in un conto diverso».
DEL PIACERE
DIOGENE LAERZIO, Vltae philos., VII, 103 = SVF III, 156
Dicono che il piacere non è un bene … Crisippo nei libri Del
piacere: vi sono infatti piaceri turpi; ma nulla di turpe può essere
un bene.
DEI GENERI DI VITA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 129 = SVF III, 716
Il sapiente proverà amore per i giovinetti, quelli che dimostrino
nel loro aspetto la loro buona natura nei riguardi della virtù, come
dice … Crisippo nel libro I dell’opera Dei generi di vita …L’amore è
uno sforzo di procurarsi amicizia che si rivela attraverso la
bellezza; non gli è propria l’unione fisica, ma l’amicizia pura e
semplice.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 20, 1043b-c = SVF III, 691
Lo stesso Crisippo, nel libro I dell’opera Dei generi di vita,
afferma: «il sapiente accetterà volentieri di assumere la stessa
condizione di re, arricchendosi per mezzo di essa; se non potrà
essere re di persona, accetterà di convivere col sovrano e di fare
con lui spedizioni militari, come per esempio fecero Idan-tirso lo
Scita o Leucone del Ponto». Citerò esattamente le sue parole…: «Che
egli accetterà di far spedizioni militari e di vivere a corte dei
potenti, infatti, di nuovo possiamo prenderlo in esame tenendo fermo
a questi principi: succede infatti che alcuni non sospettino nemmeno
cose di questo genere, per considerazioni simili, e che noi stessi
abbiamo talvolta trascurato di porre in rilievo ciò per
considerazioni analoghe». E poco oltre: «non solo (ci è avvenuto
ciò) a proposito di quelli che hanno compiuto un certo progresso in
certe discipline e in certi costumi, come è stato per esempio nel
caso di Leucone e Idanttrso225».
PLUTARCO, De Stoic. rep., io43e-io44a = SVF III, 701, 579
Dopo avere là (nel Della natura) così esaltato e gonfiato il
sapiente, qui226 lo spinge nuovamente al guadagno e all’arte
sofistica: dice infatti che egli chiederà mercede e la prenderà in
anticipo oppure al termine del tempo fissato (l’un metodo è più
nobile, ma l’altro è più sicuro, perché in situazioni del genere vi
è luogo a possibili frodi). Così dice: «Chiederanno la loro mercede,
quelli che hanno senno, non allo stesso modo di tutti, ma
diversamente (dal volgo)227, secondo le esigenze dell’occasione,
senza dare assicurazione di render sapienti in un anno, ma
promettendo di far tutto il possibile per render tali nell’ambito
del tempo di insegnamento che si è pattuito». E poco più oltre: «il
maestro saprà anche valutare bene la circostanza se sia il caso di
prender subito il compenso all’inizio, come i più fanno, oppure dare
tempo per questo ai discepoli; questo secondo sistema è
evidentemente più nobile, lascia però più margine alla frode». Come
dobbiamo dunque concepirlo questo sapiente: disprezzatore del
denaro, quando è invece in atto di trasmettere la virtù per compenso
secondo un certo patto, e richiede per giunta il suo compenso anche
se non l’ha poi effettivamente trasmessa, col pretesto che ha fatto
tutto il possibile? superiore a ogni danno, quando prende invece le
sue precauzioni perché non gli sia fatto torto nel compenso
dovutogli? Nessuno riceve un danno se in pari tempo non gli si
faccia anche torto; quindi lui che altrove228 ha detto che il
sapiente è superiore a qualsiasi possibile torto qui riconosce che
la situazione in cui si trova dà luogo a torti.
PLUTARCO, De Stole, rep., 30, io4yf = SVF III, 693
Nel Dei generi di vita dice che il sapiente potrà conviverne col re
allo scopo di accumulare ricchezza e che potrà fare esercizio dei
suoi sofismi dietro compenso in denaro, sia prendendo questo in
anticipo sia pattuendolo coi discepoli.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 121 = SVF III, 697
Il sapiente potrà partecipare alla vita politica, se nulla glielo
impedisce, come dice Crisippo nel libro I del Dei generi di vita:
egli in tal modo potrà scagliarsi contro il vizio e indurre alla
virtù.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 188 = SVF III, 685
Nel II libro del Del generi di vita si preoccupa anche del
sostentamento, dicendo come il sapiente (non) debba229 provvedere
alla propria sussistenza; così argomenta: «e perché il sapiente
dovrebbe provvedere al suo sostentamento? se si dice che è per
vivere, il vivere è cosa indifferente; se per il piacere, anche il
piacere è un indifferente; se in vista della virtù, la virtù è
autosufficiente nei riguardi della felicità. Sono ridicoli quindi i
vari modi di procurarsi il sostentamento. Chi se lo procura da un
re, dovrà cedere a tutto ciò ch’egli voglia; chi dagli amici,
renderà l’amicizia cosa venale. E così anche chi se lo procura dalla
sapienza: dovrà far commercio della sapienza».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 2, 1033d = SVF III, 702
Ma lo stesso Crisippo nel IV libro del suo Dei generi di vita
ritiene che la vita di ricerca non sia differente dalla vita secondo
piacere; riporterò le sue frasi: «Quelli che suppongono che al
filosofo si addica al massimo la vita di ricerca, mi sembra sbaglino
dall’inizio, giacché ritengono che ci si debba impegnare così ed
esser trascinati a far questo o alcunché di simile, poi a farlo
costantemente in vista di un genere di vita determinato ed
esclusivo: il che poi coinciderebbe, a veder più chiaramente, col
piacere; non deve sfuggirci quello che essi veramente intendono,
anche se alcuni lo dicono più apertamente e alcuni in forma meno
chiara»230… Questo dice Crisippo, il vecchio, il filosofo, quello
che loda la vita di uomo politico e di re, e al tempo stesso ritiene
che la vita di ricerca non differisca dalla vita di piacere!
PLUTARCO, De Stoic. rep., 20, 1043a = SVF III, 703
Una sola trattazione d’insieme è quella Dei generi di vita, e si
compone di quattro libri: nel IV di essi egli sostiene che il
sapiente deve essere inattivo o scarsamente attivo e deve badare
alle sue cose231; le sue parole sono queste: «Io credo che il saggio
debba essere inattivo o scarsamente attivo e badare alle sue cose,
perché il fare le proprie cose e l’essere scarsamente impegnato sono
cose similmente buone».
PLUTARCO, De Stole, rep., 9, io35a = SVF II, 42
Crisippo crede che i giovani debbano in primo luogo ascoltare
lezioni di logica, in secondo luogo di etica, da ultimo di fisica, e
apprendere per ultima la dottrina sugli dèi. Benché egli dica queste
cose in diverse opere, basterà riferire ciò che sta scritto nel
libro IV del Dei generi di vita, con queste parole testuali:
«Dapprima mi sembra, secondo quanto hanno già rettamente detto i
miei predecessori, che tre siano i generi di trattazione filosofica,
logica, etica, fisica; tra questi poi bisogna dare il primo posto
alla logica, il secondo alPetica, il terzo alla fisica; nella fisica
viene per ultima la trattazione degli dèi; l’insegnamento di questa,
essi lo hanno chiamato una cerimonia di iniziazione».
PLUTARCO, De Stole, rep., 10, 10360-d = SVF II, 270
Si che è in contraddizione con se stesso; giacché, quando prescrive
di citare le argomentazioni in contrario non con perorazione ma con
indicazione della falsità di queste, dimostra di essere più acuto
come accusatore che come sostenitore delle sue proprie dottrine, e
quando raccomanda agli altri di tener ben presenti gli argomenti in
contrario, in quanto essi possono stornare dalla comprensione,
dimostra di saper comporre con maggior zelo gli argomenti che
possono distruggere questa che non quelli che possono rafforzarla.
Come egli stesso in-travveda ciò e lo tema è chiaro dal IV libro del
Dei generi di vita, in cui egli scrive: «gli argomenti contrari e le
cose credibili in senso contrario sono però da presentarsi non a
casaccio ma con criterio, stando bene attenti che, lasciandosi
trascinare da questi, non si perdano di vista gli atti di
comprensione, né si riescano più ad afferrare le conclusioni e si
divenga mal sicuri nel comprendere; anche la gente che usa nelle sue
conoscenze seguire l’opinione comune, intorno alle cose sensibili e
a quelle che dipendono dalla conoscenza sensibile, resta smarrita se
si lascia trascinare dalle argomentazioni megariche o da altre
argomentazioni ancora più numerose ed efficaci».
DELL’AMORE
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 129 SVF III, 718
L’amore, dice anche Crisippo nell’opera Dell’amore, è della stessa
natura dell’amicizia, e non è condannabile; anche la bellezza è il
fiore della virtù.
DELL’IMPULSO
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, IV, 4, p. 351 Mùller = SVF III,
464
Così definisce il desiderio (opei^cj anche nei libri Dell’impulso (=
impulso razionale verso qualcosa che, nei limiti del consentito, ci
piace)232.
DELLE PASSIONI233
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 111 = SVF III, 456
Essi ritengono che le passioni siano giudizi, come dice Crisippo nel
libro I del suo Delle passioni: per esempio l’amore del denaro non è
altro che la supposizione che il denaro sia cosa bella, e così
l’amore per il vino e l’intemperanza e tutte le altre simili.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, V, 6, p. 459 Mùller = SVF III,
458
Ciò si può anche vedere da quei libri che Crisippo scrisse Sulle
passioni. Pur avendo infatti composto libri così ampi che ciascuno
di essi equivale al doppio di uno dei nostri, tuttavia noi in questi
due interi non riusciamo a individuare la sua vera e propria
opinione sulle passioni.
FILODEMO, De ira, col. I, 16 segg., p. 17 Wilke = SVF III, 470
Se dunque avesse ripreso coloro che si limitano a biasimare, ma non
compiono alcuna altra cosa, «non la più piccola»234, come fanno
Bione nell’opera Dell’ira235 e Crisippo nel libro terapeutico del
Delle passioni…
GALENO, De locis affectis, III, 1, Vili, p. 138 Kuhn = SVF III, 457
Le cose di questo tipo diceva che sono in certo modo ancor più
razionali; veramente razionali sono quelle disposizioni che,
oltrepassando l’ambito della necessità valutano la natura delle cose
qual è secondo la sua essenza propria. Dunque sulle passioni
dell’anima Crisippo scrisse un libro di tipo terapeutico, per
potercene valere allo scopo di curarle, gli altri tre contenenti
ricerche logiche.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac, IV, 1, p. 334 Mùller = SVF III,
461
Nei libri Delle passioni (tre, in cui esamina le questioni logiche
che riguardano queste, e inoltre il libro detto «terapeutico», che
alcuni chiamano anche «etico») non sembra che egli sia sempre della
stessa opinione, ma scrive ora quasi accettando due cose diverse,
ora negando che vi sia una facoltà impulsiva e una appetitiva.
Infatti, nella spiegazione ch’egli dà delle definizioni delle
passioni, mostra di ritenere che nell’anima c’è una qualche facohà
irrazionale causa delle passioni, come dimostrerò fra poco esponendo
il suo discorso. Ma poi in seguito, là dove si chiede se le passioni
(siano giudizi o) derivino da giudizi236, si allontana apertamente
dalla dottrina di Platone, della quale peraltro non ritenne di dover
far menzione neanche all’inizio. E perciò per prima cosa gli si
potrebbe obiettare che sbaglia per la manchevolezza preliminare
della sua suddivisione. Una passione, per esempio l’amore, o è un
giudizio, o è derivante da un giudizio, oppure è un moto che
scaturisce dalla facoltà appetitiva; e così pure la collera o è
giudizio, o è passione irrazionale conseguente a un giudizio, o è un
moto violento della facoltà impulsiva. Ma egli non consente a
impostare il problema secondo questa tripartizione; e tenta invece
di dimostrare che è preferibile supporre che le passioni siano
giudizi anziché derivanti da giudizi, e dimentica di avere scritto
lui stesso, nel libro I Dell’anima, che l’amore appartiene alla
facoltà appetitiva e la collera all’impulsiva.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, V, I, p. 405 Mùller = SVF III,
461
Dunque Crisippo, nel libro I del suo Delle passioni, cerca di
dimostrare che queste sono nient’altro che giudizi dell’anima
razionale.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 2, p. 338 Mùller = SVF III,
462
Non solo su questi punti egli è in aperta contraddizione con se
stesso, ma anche quando, scrivendo sulle definizioni delle passioni,
dice che la passione è un moto dell’anima contro natura e un impulso
smodato237, poi spiega che l’irrazionale è ciò che si dice essere
all’Infuori del ragionamento e del giudizio, e quanto all’impulso
smodato ricorre ad esempio a chi corra eccessivamente; ora, tutto
questo è in contraddizione aperta con la premessa secondo cui le
passioni sono giudizi. Ma capiremo meglio tutto questo trascrivendo
le stesse frasi che egli usa. Una è la seguente: «Bisogna per prima
cosa tener presente che l’animale razionale è portato per natura a
seguire la ragione e ad agire avendo la ragione come guida. Spesso
tuttavia egli è spinto verso qualcosa o è respinto da qualcos’altro,
per lo più sotto l’urto della disobbedienza alla ragione. A questo
moto si riferiscono entrambe le definizioni, poiché in tal caso si
verifica un movimento di tipo irrazionale e si ha mancanza di
moderazione negli impulsi. Tale irrazionale va considerato come
disobbediente alla ragione e tale da sovvertire l’uso della ragione:
seguendo un tal moto diciamo che si è spinti con violenza nel
proprio comportamento e trascinati irrazionalmente, senza usare il
giudizio della ragione. Non usiamo queste espressioni nel caso che
quegli si comporti in modo errato e trascurando qualcosa di
ragionevole, ma riferendoci al moto che abbiamo descritto, poiché
l’essere vivente dotato di ragione è portato non a muoversi di un
simile moto psichico, ma appunto di un moto razionale».
Così si conclude uno dei due discorsi di Crisippo, quello che spiega
inizialmente che cosa si debba intendere per passione. Ma ti farò
ora conoscere l’altro discorso, quello in cui egli spiega l’altra
definizione, e che si trova scritto qui di seguito, nella prima
trattazione dell’opera Sulle passioni: «In questo senso si è parlato
anche della smodatezza dell’impulso, in quanto esso oltrepassa
quella simmetria naturale che ad esso è propria. Ciò che intendo
dire diverrà più chiaro con questi esempi. Il movimento delle gambe
nel camminare non supera una certa misura rispetto all’impulso, ma
corrisponde ad esso in maniera tale che, se si voglia, ci si può
fermare e si può cambiare strada. Se invece si corre, tale movimento
non si verifica in questa misura, ma la supera in eccesso, di modo
che si è trascinati in avanti e non si può facilmente cambiare
strada, una volta che così si è cominciato. Ritengo che succeda
qualcosa di simile anche a proposito degli impulsi, per il fatto che
essi oltrepassano la retta simmetria secondo ragione, cosicché, una
volta verificatisi, è poi difficile porre loro un freno: insomma,
nel caso della corsa si verifica un eccesso di questa rispetto
all’impulso, nel caso dell’impulso si verifica un eccesso di questo
rispetto alla ragione. La giusta misura dell’impulso naturale è
quella regolata dalla ragione, fino a tanto che questa agisca e fino
a tanto che lo consideri opportuno. E perciò così avviene che si
passi oltre la misura, e in tal modo l’impulso viene detto
ridondante, e contro natura, e moto irrazionale dell’anima». Ecco i
discorsi di Crisippo.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 2, p. 336 Mùller = SVF III,
463
Allo stesso modo, nelle definizioni delle passioni generali che ha
fissate in precedenza, si allontana completamente dall’opinione
degli antichi. Definisce infatti il dolore «una opinione attuale
circa la presenza di un male»; il timore, «l’aspettativa di un
male», il piacere, «un’opinione attuale circa la presenza di un
bene»; e in queste definizioni egli fa pura e semplice menzione
della sola parte razionale dell’anima, trascurando in pieno la parte
degli impulsi e quella degli appetiti. Egli ritiene infatti che
opinione e aspettativa sussistano solo nella parte razionale
dell’anima. Quanto alla definizione del desiderio, che dice essere
«tensione irrazionale», in qualche modo sembra nell’espressione
sfiorare il concetto di facoltà irrazionale dell’anima; ma quando
poi viene a spiegare la definizione se ne discosta di nuovo, col
dire che anche tale tensione, quale ha fissata nel definire,
appartiene alla parte razionale, giacché la illustra come «impulso
razionale verso alcunché di piacevole nei limiti del consentito». In
realtà in tutte queste definizioni egli mostra di ritenere che le
passioni siano impulsi, opinioni e giudizi; in ciò che segue scrive
almeno in parte cose conseguenti piuttosto ai principi di Epicuro o
di Zenone che non ai propri. Nel definire il dolore, infatti, dice
che esso è una diminuzione determinata da qualcosa che appare da
fuggirsi, mentre il piacere è una esaltazione riguardo a qualcosa
che appare desiderabile. Ora, le diminuzioni e le esaltazioni, le
contrazioni e le effusioni — fa infatti talvolta menzione anche di
queste — sono passioni proprie della facoltà irrazionale dell’anima,
che si verificano in seguito a opinioni. Questa, però, è l’essenza
delle passioni quali le concepiscono Epicuro238 e Zenone, e non
Crisippo stesso. E provo quindi un senso di stupore di fronte a
quest’uomo che con così poca esattezza tratta una materia così
logica ed esatta.
GALENO, De Hippoer. et Pkt. plac, IV, 4, p. 351 Müller = SVF III,
464
Di come egli non si preoccupi affatto di cadere in contraddizione
con se stesso, ci sarebbero ancora infine cose da dire… Dopo aver
definito, nel libro I dell’opera Delle passioni, il desiderio come
una tensione irrazionale, nel libro VI delle Definizioni secondo il
genere definisce la tensione stessa come un impulso razionale che
spinge verso ciò che piace, nei limiti del consentito…239
GALENO, De Hippoer. et Fiat, plac, V, 2, pp. 407-411, Müller = SVF
III, 465
Che la passione dell’anima sia un moto irrazionale contro natura, lo
ammette, insieme con gli antichi, anche Crisippo; e gli uni e gli
altri son d’accordo nel ritenere che un moto del genere non si
verifica nelle anime dei buoni. Quale però sia la posizione
dell’anima degli stolti nei riguardi alle passioni e di fronte ad
esse, non lo spiegano alla stessa maniera. Crisippo dice che questa
si comporta in maniera analoga a quei corpi che sono proclivi ad
attacchi di febbre o di diarrea o altri mali del genere per un
qualche motivo futile e fortuito…
Ancora più assurdamente di questi (Posidonio), Crisippo non accetta
di paragonare la malattia dell’anima a forme di malattie ricorrenti,
come le terzane o quartane; scrive in questo modo: «Bisogna supporre
che la malattia dell’anima sia simile ad uno stato febbrile del
corpo, per via del quale le febbri e i brividi sopravvengono senza
alcuna periodicità ma disordinatamente, e sotto un altro aspetto
indipendentemente dalla costituzione fisica e per cause banali
sopravvenienti». E non so poi per quale ragione aggiunge anche che
quelli che hanno disposizione alle malattie sono di fatto già
ammalati, ma che quelli che sono già ammalati non lo sono del
tutto240.
(pp. 419-420 Mùller) Ma Crisippo sbaglia due volte nel suo
insegnamento a proposito di questi soggetti: prima perché non è
concorde con se stesso quando, nel libro etico del suo Delle
passioni, usa espressioni sinonimiche per la malattia dell’anima e
per quella del corpo, ma poi, nel primo dei libri logici, paragona
la passione ad uno stato di salute fragile e precario; in secondo
luogo perché non è capace di dimostrare ciò che aveva promesso nel
libro intitolato terapeutico ed etico241.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., IV, 7, p. 394 Mùller = SVF III,
466
Che le passioni si mitighino col tempo, anche se restano le opinioni
proprie di quel male che esse rappresentano, lo attesta lo stesso
Crisippo nel libro II del Delle passioni, quando scrive così:
«Qualcuno potrebbe voler indagare come si verifichi il rilassamento
del dolore; se ciò avviene perché l’opinione è cambiata, oppure, se
è vero che le opinioni perdurano tutte, da che cosa ciò dipenda».
E poi così continua: «Mi sembra che perduri una simile opinione, che
cioè è un male ciò che si verifica nel presente; col passare del
tempo, invece, si allenta la contrazione e, io credo, l’impulso alla
contrazione stessa. E se anche avviene che l’opinione rimanga, sono
le disposizioni concomitanti che non la assecondano più, poiché
queste si verificano per via di una certa altra disposizione
irrazionale sopravveniente. In tal modo coloro che piangevano
cessano di piangere, oppure, anche non volendolo, vien loro da
piangere quando la realtà produca rappresentazioni simili a quelle
che provocavano il dolore, anche se di questo resti solo qualcosa o
nulla più. In questa maniera cessano i lamenti e i gemiti, ed è
logico che così si verifichi per cose siffatte, perché all’inizio
tutto produce un effetto più violento. Si può dire lo stesso anche
per quelle cose che muovono al riso, e tutto ciò eh’è simile».
Insomma, che col tempo i dolori vengano meno anche se l’opinione
perduri, lo stesso Crisippo lo ammette; ma dice che è difficile a
comprendere per quale ragione ciò si verifichi.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., IV, 7, p. 397 Müller = SVF III,
467
Per questo (Posidonio) si vale anche della testimonianza di Crisippo
che nel libro II del suo Delle passioni così scrive: «per quanto
riguarda il dolore, mi sembra che alcuni riescano a liberarsi di
esso in virtù di una sorta di sazietà: così dice il poeta a
proposito di Achille che si duole per Patroclo: ’ma quando fu sazio
di gemere e di rotolarsi per terra / e nell’anima e nelle membra
tornò la dolcezza’242, allora mosse a esortare Priamo,
dimostrandogli la irrazionalità del dolore». E aggiunge: «tenendo
mente a queste parole non si deve disperare che, allontanandosi le
cose nel tempo e spegnendosi gli ardori della passione, sopravvenga
quasi insinuandosi in noi la ragione, e dimostri tutta
l’irrazionalità della passione stessa». E chiaro che qui Crisippo
ammette che l’ardore della passione viene meno col tempo, pur
restando ferma l’opinione e la convinzione; e che si rende conto che
gli uomini sono pieni di moti passionali, e che perciò, quando si
verifichi una pausa della passione e questa si calmi, la ragione
riprende il sopravvento. Queste cose, e così pure alcune altre che
dice, sono vere; ma sono in contraddizione con i suoi principi, così
come altre sue espressioni, che suonano al modo seguente: «Si dicono
anche cose di questo tipo circa il mutamento delle passioni: ’
rapida è la sazietà dell’odioso pianto243’ e ancora questo a
proposito di ciò che causa sofferenza: ’ per gli infelici / è dolce
piangere e dolersi delle sventure’244; e in seguito ancora: ’Così
disse; e suscitò in tutti un desiderio di pianto’245 e: ’suscita lo
stesso pianto, riprendi il canto che fa versar molte lacrime’246».
GALENO, De Hippocr. et Fiat. plac., V, 2, p. 413 Mùller = SVF III,
471
Ma, per Zeus, forse qualcuno degli Stoici dirà che non c’è la stessa
proporzione fra l’anima e il corpo a proposito di passioni,
malattie, salute… E tuttavia che cosa dice Crisippo, quando scrive
nel libro etico del Delle passioni al modo seguente? «Così come c’è
un’arte per le malattie del corpo, che noi chiamiamo medicina, così
vi è un’arte per le malattie dell’anima, e questa non deve essere
inferiore all’altra né in fatto di competenza speciale, né in fatto
di metodo terapeutico. Perciò, così come occorre che chi è medico
del corpo debba esser ben addentro ai problemi di tutte quelle
affezioni fisiche che gli vengono sottoposte e intendersi bene delle
cure per ciascuna di esse, così è anche per il medico dell’anima,
che deve essere ben addentro, nel modo migliore, ai due tipi di
affezioni e a ciascuna di esse. E che le cose stiano così lo si può
vedere dall’analogia che abbiamo posta all’inizio: la parentela che
sussiste fra questi due piani assicura anche, io credo, somiglianza
di cure e analogia reciproca di mezzi curativi». Mi sembra chiaro
che essi intendono porre una precisa proporzione fra affezioni
dell’anima o passioni e affezioni del corpo; e non solo per quello
che lo scritto dice inizialmente, ma anche per ciò che afferma in
seguito, che suona così: «Così come infatti per ciò che riguarda il
corpo si parla di forza e debolezza, vigore e rilassamento e in
seguito a ciò di salute e malattia, buona e cattiva stato di salute»
(ed elenca qui una serie di malattie e infermità dello stesso tipo)
«così allo stesso modo si verificano e hanno determinati nomi
nell’anima alcuni fatti di tipo analogo»247.
Poi ancora continuando dice: «Così io credo, basandomi su quella
tale proporzione, somiglianza e sinonimia che sussiste fra questi
fatti. Diciamo infatti, parlando dell’anima, che vi sono uomini
forti o deboli, vigorosi o fiacchi, sani o morbosi, a somiglianza di
quanto si dice per un’affezione fisica e una malattia che ne dipende
e altri fenomeni di questo tipo»… Lo stesso è il loro nome e il loro
significato concettuale, pur se egli dice che essi sono sinonimi248…
Ma che Crisippo sostenga che è necessario spiegare e attenersi alla
analogia sussistente fra di essi, è evidente da quanto si è
riportato. Se poi, nel suo tentativo di stabilire ciò, non è
riuscito nel suo intento, non per questo bisogna sconfessare questa
somiglianza, ma respingere la filosofia insegnata da lui, che non
risponde alla verità. Gli succede questo in misura non minore anche
nel discorso seguente, quello che si trova nel libro etico del Delle
passioni. Egli scrive così: «Zenone ha già svolto in maniera
conveniente una simile trattazione. La malattia dell’anima è
estremamente simile all’infermità del corpo. Si dice che la malattia
del corpo è la asimmetria degli elementi che lo costituiscono, caldo
e freddo, secco e umido»249. E poco più oltre: «io credo che la
buona salute del corpo sia la migliore mescolanza degli elementi
suddetti». E di nuovo più oltre: «le stesse cose possono dirsi del
tutto appropriatamente anche riguardo al corpo: la simmetria e
l’asimmetria che si verificano nel rapporto reciproco degli elementi
caldi e freddi, secchi ed umidi si identificano con la salute e con
la malattia; le stesse nei nervi non sono altro che forza e
debolezza, vigore e fiacchezza, nelle membra non sono altro che
bellezza o bruttezza».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, V, 2, p. 420 Mùller = SVF III,
471 a
Eppure, poco dopo le parole che ho riportato sopra, scrive: «Perciò
analogamente un’anima si dirà brutta o bella a seconda della
simmetria o asimmetria di queste determinate parti». Ma poi, non
essendo in grado di precisare di quali parti realmente si tratti,
per il fatto che ha riposto tutto quanto nella sola parte razionale
— salute e malattia, bellezza e bruttezza — è costretto a fare
ragionamenti complicati e a dare il nome di «parti» ad alcune
funzioni dell’anima stessa. E quindi, continuando dopo le frasi
citate, scrive così: «vi sono parti dell’anima sulle quali si basa
la stessa ragione di questa e la sua disposizione. E l’anima è bella
o brutta a seconda che la sua parte direttiva si comporti nell’uno o
nell’altro modo seguendo le partizioni sue proprie». Ma, Crisippo,
se tu avessi aggiunto quali poi siano in effetti queste partizioni,
ci avresti liberati dalla difficoltà. Tu però non lo hai aggiunto né
qui né in altri luoghi dello stesso libro: come se non stesse
proprio in questo il fondamento della dottrina delle passioni, tu
abbandoni subito la trattazione di questo punto e ti dilunghi invece
in altri non necessari, mentre qui avresti dovuto fermarti, e
spiegare quali siano queste parti dell’anima razionale250.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, V, 3, p. 425 Mùller = SVF III,
472
Per quel che si riferisce al corpo, egli definì il tutto con molta
esattezza, ponendo la salute nella simmetria degli elementi e la
bellezza nella simmetria delle forme. E dimostrava ciò chiaramente
in base a quanto detto poco prima, che cioè la salute del corpo
risiede nella simmetria degli elementi caldi freddi, secchi ed
umidi, che si trovano alla base dei corpi, mentre crede che la
bellezza non consista nella simmetria degli elementi ma delle parti:
del dito riguardo all’altro dito, e di tutti questi riguardo alle
ossa dell’ avambraccio, e di questo rispetto al gomito, e infine di
tutte le parti riguardo alle altre parti, così come ci dice
Policleto nel Canone. Infatti Policleto, insegnandoci in quello
scritto tutte le proporzioni simmetriche del corpo, confermò il suo
discorso con l’opera, foggiando una figura d’uomo secondo i precetti
del ragionamento, e chiamando «regola» quella statua così ottenuta,
così come Canone (regola) si chiamava lo scritto251.
GALENO, De Hippoer. et Fiat, plac., IV, 6, p. 376-380 Müller = SVF
III, 473
Che non una sola volta o due, ma ben di più Crisippo giunga lui
stesso ad ammettere che nelle anime umane vi è una capacità diversa
da quella razionale, e che questa è causa delle passioni, lo si può
capire da quei luoghi in cui egli dà la colpa delle azioni non rette
alla mancanza di vigore e alla debolezza dell’anima (così egli le
chiama, come chiama le facoltà opposte vigoria e forza). Le azioni
non rette degli uomini egli le riconduce alcune a un cattivo
giudizio, altre a mancanza di vigore e a debolezza dell’anima; e
ugualmente le azioni buone sono da lui ricondotte al retto giudizio
con buon vigore dell’anima. Ma di queste cose, come il giudizio è
opera dell’anima razionale, bisogna dire che la vigoria, la forza,
l’efficienza siano opera di un’altra facoltà diversa da quella; è la
facoltà che Crisippo chiama vigore, e dice che talvolta ci
allontaniamo dal retto giudizio perché il vigore dell’anima viene
meno, e non perdura stabilmente, e non si piega alle prescrizioni
della ragione, addivenendo con ciò a rivelare chiaramente che cosa
sia in effetti la passione. Trascriverò in proposito un suo passo
significativo, dal libro etico del Delle passioni: «e ugualmente per
questo le forme di vigore che interessano il corpo sono connesse al
rilassamento o alla tensione dei nervi, per il fatto che noi siamo
capaci di compiere una azione o non lo siamo a seconda dello stato
di questi. Così anche l’anima ha il suo vigore, che può essere buono
o rilassato».
E di seguito: «come nell’atto di correre o in quello di resistere o
in atti simili che si compiono mediante i nervi vi è una capacità
efficiente, o una incapacità nel caso che i nervi siano rilassati e
molli, similmente nell’anima vi è un elemento affine ai nervi, per
cui metaforicamente chiamiamo certuni snervati, oppure diciamo che
hanno nervi». Poi illustrando ulteriormente questo scrive ancora:
«L’uno viene meno al suo dovere per paura che gli sopravvengano
mali, l’altro si corrompe e cede per un guadagno o per una
punizione, un altro ancora per ragioni analoghe, che non sono poche.
Ciascuna di queste cose ci svia e ci asservisce, al punto che,
cedendo a simili sollecitazioni, giungiamo fino a tradire gli amici
e la città, e a compiere azioni turpi, dissoltosi ogni moto che ci
porterebbe ad azioni diverse. Così per esempio da Euripide è
rappresentato Menelao: sguainata la spada si slanciò su Elena come
per ucciderla, ma poi guardandola, colpito dalla sua bellezza, gettò
via la spada, non più capace di reggerla, come gli viene
rimproverato: ’tu, come vedesti il seno di lei, lasciando cadere la
spada, / accogliesti il suo bacio, carezzandola, quella cagna
traditrice’»252.
…E lo stesso Crisippo dice a rincalzo: «perciò, dal momento che
tutti gli stolti agiscono così per molte cause, deviando e cedendo,
si può dire che compiono ogni cosa in maniera debole e perversa» …
Pur facendo ben attenzione non si potrà trovare alcun seguito a
questo nell’opera Delle passioni, nemmeno nella parte terapeutica in
cui ha scritto tutto questo, sì da poter conoscere quali poi siano
tutte le cause per cui quelli che agiscono sotto l’impulso della
passione si siano allontanati dai giudizi iniziali.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., IV, 6, p. 382 Miiller = SVF III,
473
Medea era in realtà spinta con violenza dall’impeto, e non si
capisce come Crisippo non si accorga di ciò parlando di lei e
facendo mezione delle stesse parole di Euripide: «e apprendo quali
mali sto per compiere, / poiché l’impeto in me vince i consigli»253.
ORIGENE, Contra Celsum, I, 64, p. 117 Kòtschau = SVF III, 474
Aggiungerei a quanto già detto che Crisippo, nel libro terapeutico
del Delle passioni, tenta di mitigare negli uomini le passioni
dell’anima, non presentandosi come chi possiede il principio della
verità, ma studiando come si curino, secondo le differenti sette,
quelli che sono affetti da qualche passione; e dice che, se il
piacere fosse davvero il fine, in questo modo si dovrebbero medicare
le passioni; e che, se davvero i beni fossero di tre tipi, sarebbe
ugualmente valido il discorso che egli fa a stornare dalle passioni
quelli che ne sono affetti254.
ORIGENE, Contra Celsum, Vili, 51, p. 266 Kòtschau = SVF III, 474
Mi sembra che Crisippo, nel suo libro terapeutico Delle passioni, si
sia comportato con maggior umanità di Celso, intendendo curare le
passioni che opprimono e affliggono l’anima dell’uomo in primo luogo
con quelle argomentazioni che gli sembrano giuste, ma in secondo e
terzo luogo anche valendosi di principi che non approva. Egli dice
infatti: «Se anche si ammettesse che i beni appartengono a tre
generi differenti, anche secondo tale criterio sarebbe possibile
curare le passioni; nel momento in cui le passioni divampano, chi è
tormentato da esse non si dà eccessivamente cura del principio che
abbia assunto a premessa; e non è il caso che chi intende curare
perda il suo tempo in un inopportuno e fuori luogo tentativo di
trasformazione dei principi professati dall’altro». Dice anche che
«anche se ammettessimo che il piacere fosse un bene, e se così
ritenesse colui che si trova ad esser dominato dalle passioni,
bisognerebbe pur sempre insegnargli che anche per coloro che
ritengono il piacere bene e fine cedere a una passione di qualsiasi
tipo è un atto inconseguente».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 6, p. 383 Mùller = SVF III,
475
Crisippo non si rende conto della contraddizione che c’è in tutto
questo, e scrive moltissime altre cose simili, come quando, per
esempio, dice: «Il moto irrazionale è un fenomeno generalissimo e
tale che stravolge la ragione, sì che diciamo che da esso come da un
impulso alcuni sono trascinati»; e ancora: «perciò noi trattiamo
quelli che sono in preda alle passioni come gente ch’è fuori di
senno e rivolgiamo loro il discorso come se fossero alienati, gente
non padrona di sé né in sé». E ancora di seguito, spiegando queste
parole: «Il turbamento e l’uscire fuori di sé non viene da altro che
dallo stravolgersi della ragione, così come prima si è detto».
L’essere «trasportati dall’impulso», P«uscir fuori di sé», il «non
esser padroni di sé né in sé» intendono provare il fatto che le
passioni sono giudizi e che si verificano nella parte razionale
dell’anima; e così anche quest’altro che egli dice: «Perciò è
possibile udire da parte di coloro che amano espressioni simili a
quelle di chi ha un violento desiderio o di chi è trasportato
dall’ira: che essi vogliono cedere al loro impulso, che li si lasci
fare, che non importa se ciò sia bene o male, che non si dica loro
niente, che essi devono agire così in ogni modo, anche se
sbagliassero o se la cosa dovesse volgersi in male per loro».
…Simili alle cose anzidette sono anche questi altri detti di
Crisippo, che suonano così: «Moti di questo tipo quelli che amano
ritengono di doversi aspettare da chi è oggetto del loro amore,
poiché essi si comportano con molta sconsideratezza e senza alcuna
applicazione della retta ragione; e sono inclini a passar oltre la
voce della ragione che li esorta, e anzi per niente affatto disposti
ad ascoltare alcunché di simile». Ma in verità tutti questi discorsi
non fanno altro che confermare l’opinione degli antichi, così come
anche le altre cose ch’egli dice proseguendo: «Essi sono così
lontani dalla ragione, così alieni dal poter ascoltare e dar retta
ad alcunché di simile ad essa, che neppure si adatta loro il detto:
’Cipride, se non è contrastata, si attenua; / se la si contrasti,
suole acquistare vigore’255 o l’altro: ’l’amore osteggiato tormenta
di più’256». Portano testimonianza in realtà in favore della
dottrina degli antichi circa l’origine delle passioni queste
affermazioni e le altre che vengono di seguito, e che suonano così:
«essi respingono la ragione come un punitore inopportuno e
incomprensivo verso coloro che sono stati colti da amore, come un
uomo che appaia rimproverare inopportunamente, quando al contrario
perfino gli dèi consentono loro di spergiurare» e di seguito:
«perciò tanto più sembra loro permesso far ciò che venga loro in
mente, seguendo il loro desiderio».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 5, p. 365 Mùller = SVF III,
462
Poiché egli sapeva che ci sono due significati della parola
«irrazionale», uno dei quali richiede solo di essere spiegato
secondo la definizione «esente da giudizio», fece bene a non lasciar
sussistere nessuna ambiguità, egli stesso chiarendo esser
irrazionale l’impulso proprio della passione in quanto stravolge la
ragione ed è ribelle alla ragione stessa e si verifica senza
giudizio. Quanto allo stravolgere la ragione, egli separava il moto
irrazionale proprio della passione da quello degli esseri inanimati
e da quello degli animali privi di ragione… In base a simili
argomentazioni dimostrava che non può sopravvenire alcuna passione
psichica né in un essere inanimato né in un animale irragionevole.
Ma quando poi scrive che il moto proprio della passione si verifica
senza ragione né giudizio, e poi riallacciandosi a questo dice di
seguito: «neanche se si lascia trasportare nell’errore e trascurando
qualcosa che è secondo ragione», e «in maniera stravolta e
disobbedendo alla ragione» distingue rettamente le passioni dagli
errori: e gli errori sono infatti cattivi giudizi e discorso che
falsifica la verità e sbaglia. Quanto alla passione … essa è moto
dell’anima ribelle alla ragione.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 4, pp. 356-358 Muller = SVF
III, 476
Nel comune linguaggio greco non esiste un terzo, o addirittura
quarto significato di questo termine (àXoyos), quello al quale, per
Zeus, vorrebbero costoro piegarlo con la forza. Ciò è chiaro da
quanto dice lo stesso Crisippo: «perciò è definizione non inesatta
della passione dell’anima quella che dànno alcuni, i quali dicono
che essa è un moto contro natura che dipende dal timore, dal
desiderio o da alcunché di simile. Tutti questi moti infatti sono
ribelli alla ragione e stravolti. E quindi diciamo che chi è in
questo stato si comporta irrazionalmente: non irrazionalmente nel
senso che commette errori nel ragionamento, come si potrebbe dire
per il fatto che si comportano in modo contrario a ciò ch’è
ragionevole, ma per la loro distorsione dalla ragione»… Come invece
anche nel moto della passione si usi della ragione, non rettamente
lo dice lo stesso Crisippo nel libro I del Delle passioni: «(la
passione) non procede sbagliando e trascurando qualcosa che è
secondo ragione, ma stravolgendosi e ribellandosi a questa». E di
nuovo dice le stesse cose nel libro terapeutico sulle passioni,
quelle che ho poc’anzi riferite, cioè il discorso nel quale spiegava
il suo intendere «irrazionale» in un senso che non è quello di
«contrario al ragionamento corretto»… Continuando dice: «per
esempio, sono intemperanti quegli stati in cui si è incapaci di
dominarsi, ma si è trascinati come lo sono quelli che corrono con
forza e non possono padroneggiare quel movimento. Invece coloro che
procedono secondo ragione, avendo questa per guida e secondo questa
reggendo il timone, sono padroni di un simile movimento, qualunque
esso sia, e degli impulsi che ad esso si riferiscono». … «Essi sono
padroni dei moti e degli impulsi che spingono a questi, sì che, se
qualcosa viene indicato loro, obbediscono, simili a persone che
camminano piuttosto che correre». Non bastandogli ancora, aggiunge:
«perciò i movimenti irrazionali di questo tipo sono detti passioni e
contro natura, in quanto scacciano via lo stato ragionevole».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 5, p. 364 Mùller = SVF III,
476
Non solo quindi gli altri, ma anche lo stesso Crisippo, nei suoi
scritti sulle passioni, non approda ad alcuna opinione sicura, ma
ondeggia come in una tempesta. Dice infatti che tutte le passioni
nascono indipendentemente dalla ragione, e poi invece che tutte
appartengono alla sola facoltà razionale e per questo non si
verificano negli animali privi di ragione; dice che nascono
alPinfuori del giudizio, e poi invece che sono esse stesse giudizi.
Talvolta cade anche nell’affermazione che i moti che si verificano
nelle passioni sono casuali, il che poi, se si va ad osservare
accuratamente il suo discorso, equivale a dire che non hanno una
causa257. Di seguito ai discorsi che abbiamo riportati prima, scrive
così: «E appropriato comprendere nel genere ’passione’ anche la
furia, per il fatto che in quello stato si è agitati e trascinati
alla cieca».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, IV, 6, p. 386 Mùller = SVF III,
478
Così, anche quando fa menzione del detto di Menandro «diedi di
piglio alla botte, perché la mia mente era sconvolta»258, in realtà
cita una affermazione che testimonia in favore della dottrina
antica; come quando, per spiegare che cosa significa «non essere in
sé», «non esser padrone di sé», dice: «ben a proposito si usa il
termine ’esser trascinati’ per quelli che in tal modo si adirano:
essi son simili a quei corridori che nella corsa si lasciano
trasportare ciecamente; gli uni oltrepassano il normale impeto del
correre, gli altri la retta ragione. E poiché così facendo non
riescono più a dominare i loro movimenti, non si potrebbe dire che
si muovano da sé, ma piuttosto che son mossi da una forza a loro
esterna». Riconosce dunque anche qui chiaramente che è una forza
quella che muove gli impulsi di coloro che sono in preda alle
passioni, ma dice che tale forza è esterna: avrebbe dovuto invece
riconoscere ch’essa si trova insita nell’essere umano… Non si
accorge, credo, Cri-sippo, che con tali esempi non fa altro che
addurre prove a favore di questo. Cita il dialogo scritto da
Euripide, fra Eracle e Admeto, che suona così: «che vantaggio può
esserci nel voler sempre piangere?» dice Eracle; e Admeto risponde;
«lo so bene; ma è come una voluttà che muove»259. E chiaro che tale
voluttà è una passione che ha la sua radice non nell’anima
razionale, ma nella parte appetitiva dell’anima, che spinge poi
tutta quanta l’anima e trascina l’uomo ad azioni opposte a quelle
che aveva in precedenza decise. Egli cita anche la parole di Achille
a Priamo: «sopporta, e non dolerti senza tregua nel tuo animo: /
niente otterrai, affliggendoti per il figlio, / non lo risusciterai,
e che tu prima non incorra in un’altra sventura!»260 E afferma che
Achille ciò dicendo è padrone di sé (così scrive proprio
testualmente) ma che non poche volte invece, nel corso dell’azione,
si allontana dai giudizi dati e, vinto dalle passioni, è incapace di
dominare se stesso. Anche a questo proposito, l’allontanarsi dai
giudizi, il non dominare se stesso, l’essere ora padrone di sé e ora
no, tutte le espressioni siffatte concordano pienamente con le
opinioni sostenute dai più antichi circa le facoltà dell’anima e le
passioni, non con quei principi che Crisippo stesso ha posti.
Similmente egli dice nel libro Delle passioni: «Il fatto di
agitarsi, stravolgersi, ribellarsi alla ragione è pertinente non
meno al piacere che alle altre passioni». E poi: «Usciamo di senno e
fuori di noi, e ci lasciamo acciecare dall’errore a un punto tale,
che talvolta, se ci troviamo ad avere in mano cose come una spugna o
un pezzo di lana, le solleviamo in alto e le scagliamo, come
credendo di fare chissà che cosa con quello; ma se avessimo in mano
una spada o un’altra arma, la useremmo allo stesso modo». E ancora;
«Ci avviene talvolta, posseduti da un simile acciecamento, se una
porta non si apre subito, di mordere le chiavi o bussare forte;
oppure, se sbattiamo contro una pietra, di scagliarci contro questa
come per punirla, spezzandola e gettandola via, e per di più
imprecando assurdamente». E di seguito: «Da tutto questo si può ben
capire l’irragionevolezza che c’è nelle passioni, e come in quei
tali momenti noi siamo acciecati e diveniamo quasi altri rispetto a
quel che eravamo prima, quando ragionavamo». Chi volesse leggere e
trascrivere tutto ciò che Crisippo scrive nel libro Delle passioni,
e addurre tutto ciò ch’è in contrasto con i principi posti
all’inizio e in accordo invece con l’opinione di Platone,
scriverebbe un libro di lunghezza immensurabile.
GALENO, De Hippoer. et Plat. plac, IV, 5, p. 366 Müller = SVF III,
479
Il suo discorso nel libro terapeutico Delle passioni è il seguente:
«In senso appropriato si dice che la passione è un impulso
eccessivo, e la si potrebbe anche dire un movimento eccessivo in
base a moti incapaci di dominarsi: questo eccesso si verifica in
essa per la sua distorsione dalla ragione che è sana se libera da
questo eccesso. L’impulso, passando oltre la ragione, nell’impeto
che lo porta di colpo contro questa, si può dire ben a ragione
eccessivo, e per via di questo eccesso contro natura e irrazionale,
come lo descriviamo».
GALENO, De Hippoer. et Plat. plac., IV, 5, p. 368 Müller = SVF III,
480
Già sopra abbiamo citato quelle frasi del libro I Delle passioni in
cui si dice che queste nascono ali’infuori del giudizio. Egli ripete
le stesse opinioni anche nel libro terapeutico261, come si può
apprendere da questo discorso: «Questo tipo di infermità non
consiste nel giudicare che simili cose sono dei beni, ma nel darsi
ad esse con maggior veemenza di quanto non sia secondo natura»… Che
cosa voglia dire veramente Crisippo apparirà chiaro da ciò che
segue: «Non irragionevolmente quindi diciamo che alcuni sono ’pazzi’
per cose come le donne o gli uccelli». Ma, per Zeus, forse qualcuno
potrebbe sostenere che la pazzia non deriva da una facoltà
irrazionale, ma dall’aver spinto il giudizio e l’opinione più oltre
di quanto non convenga; così come egli (Crisippo) diceva, che le
infermità di questo genere non sono determinate semplicemente dal
fatto di avere una falsa opinione circa ciò ch’è bene e male, ma dal
fatto che si consideri qualcosa un bene in maniera smodata, e si
creda addirittura che non valga la pena di vivere se privati di
quello.
RICERCHE ETICHE
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 20 = SVF III, 527
Essi ritengono che tutte le colpe siano uguali, secondo quanto dice
Crisippo nel libro IV delle Ricerche Etiche, e così pure Zenone e
Persèo262. Se non vi è un vero che sia più vero di un altro, né un
falso che sia più falso di un altro, allo stesso modo non vi è un
inganno che sia più inganno di un altro né un errore che sia più
errore di un altro. Infatti chi disti da Canopo cento stadi non si
trova in Canopo esattamente come chi ne disti uno stadio solo; e
allo stesso modo chi compia un erore, sia esso un errore più grande
o uno più piccolo, non si trova nella rettitudine.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 26, 10460 = SVF III, 210
In molti scritti ancora dice che «non sarebbe il caso di muovere un
solo dito per una saggezza effimera come il balenare di un lampo».
Basterà citare le cose da lui scritte a questo proposito nel libro
VI delle Ricerche etiche: dopo aver detto che «non ogni bene si
risolve immediatamente in gioia, così come non ogni retta azione in
glorificazione» aggiunge così: «se si dovesse conseguire la saggezza
solo per un tempo assai breve, solo per l’ultimo momento della vita,
non converrebbe, per una saggezza di questa fatta, tendere nemmeno
un dito».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 27, io46f = SVF III, 243
Ma nel libro VI delle Ricerche etiche Crisippo dice che non sempre
il buono è coraggioso né il cattivo è vile: per il fatto che,
presentandosi loro certe rappresentazioni, l’uno rimane saldo nei
suoi giudizi e l’altro se ne distoglie. E anche plausibile, dice,
che non sempre l’uomo da poco sia intemperante263.
Scholia in Eur. Androm., v. 276, II, p. 274 Schwartz = SVF III, p.
197
Crisippo, nel libro X delle Ricerche Etiche, dice che Paride,
ragionando a che cosa si debba attendere di preferenza,
all’esercizio della guerra o all’amore o al regno, inclinò verso
l’amore, e così diede luogo al nascere del mito del giudizio.
DELLA LEGGE
PLUTARCO, De Stoic. rep., n, 1037f = SVF III, 175
L’impulso, secondo lui (Crisippo), è ragione che prescrive all’uomo
ciò che deve fare, come scrive nell’opera Della legge; pertanto la
repulsione è ragione che vieta, e così pure l’atto di evitare
alcunché; (la cautela) è un atto di evitare ragionevole264, e si può
dire di conseguenza che la cautela è ragione che vieta qualcosa al
sapiente, giacché l’esser cauti è proprio di chi è sapiente, non di
chi è stolto. Se dunque altro è la ragione del sapiente e altra è la
legge, i sapienti hanno la loro ragione in contrasto con la legge;
ma se la legge non è altro che la ragione del sapiente, ne risulta
che la legge è ciò che vieta ai sapienti di fare ciò da cui già essi
per proprio conto si guardano.
MARCIANO, Inst., I (Dig., I, 3, de legibus senatusqueconsultis, 2,
I, p. 33 Mommsen-Krùger) = SVF III, 314
Anche quel filosofo della setta stoica superiore a tutti per
sapienza, Crisippo, comincia così il libro da lui scritto Sulla
legge: «la legge è regina di tutte le cose divine e umane265; essa
deve essere capo, signora e guida in merito alla distinzione fra il
decoroso e il turpe, e misura delle cose giuste e ingiuste,
indicatrice agli esseri viventi capaci di vita civile di ciò che sia
da farsi, proibitrice di ciò che non sia da farsi».
DELL’AMMINISTRARE LA GIUSTIZIA
PLUTARCO, De Stole, rep., 33, 1049e = SVF II, 1125
E invero egli dice nell’opera DeWamministrare la giustizia…266 che
«non è ragionevole pensare che la divinità sia concausa delle cose
turpi; allo stesso modo non si potrebbe dire che la legge sia
concausa dell’illegalità, né gli dèi dell’empietà» ecc.
PLUTARCO, De Stole, rep., 23, io45d SVF III, 699
Quello che però egli stesso ha detto di contro lo dirò con le sue
stesse parole, non essendo queste cose note a tutti: nell’opera DelV
amministrare la giustizia, supponendo che due corridori siano
arrivati insieme e che l’arbitro debba decidere che cosa bisogna
fare, dice: «E forse lecito all’arbitro dare la palma a quello dei
due che preferisca, secondo il criterio della maggior familiarità
che ha con uno dei due, quasi largisse generosamente qualcosa di
suo, o piuttosto, dal momento che la palma è un bene comune di
entrambi, dovrà darla quasi tirando a sorte secondo la sua
inclinazione casuale? e parlo di quella inclinazione casuale che si
verifica quando, poniamo, si hanno davanti due dracme perfettamente
uguali, e se ne sceglie una mossi spontaneamente verso di essa».
LA REPUBBLICA
PLUTARCO, De Stoic. rep. 9 21, 1044b= SVF III, 706
Nella Repubblica dice: «i cittadini non devono né fare né procurare
nulla al fine del piacere», e loda Euripide, citando questi suoi
versi: «Che cosa occorre infatti ai mortali, se non due cose, / la
spiga di Demetra e il flusso dell’acqua corrente?»267; e poco dopo
loda Diogene, il quale si masturbava in pubblico dicendo ai
presenti: «oh fosse altrettanto facile scacciar dal mio corpo la
fame!»268
PLUTARCO, De Stoic. rep., 21, 1044d SVF III, 716
Nella Repubblica, dopo aver detto che siamo arrivati quasi al punto
di fare pitture nei cessi, poco dopo dice «che alcuni abbelliscono i
loro poderi con rampicanti e piante di mirto, e allevano pavoni e
colombe e pernici, e anche usignoli, perché li allietino coi loro
schiamazzi» … ma per quale ragione egli vieta ai cittadini ogni
godimento della vista e dell’udito?
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 131 SVF III, 728
Ritengono che le donne debbano esser comuni presso i sapienti, come
dice… Crisippo nel suo Della repubblica … ameremo così tutti i
fanciulli dello stesso amore paterno, e sarà soppressa ogni gelosia
per gli adulteri.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 188 SVF III, 744
Nell’opera Della repubblica dice che ci si può unire alla madre,
alle figlie, ai figli.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 192 = SVF III, 745
Crisippo nella Repubblica dice testualmente cosi: «mi sembra che
anche queste cose debbano compiersi nel modo che anche ora si usa, e
non senza ragione, presso molti: che la madre possa generare prole
del figlio e il fratello dalla sorella269.
DELL’ESORTAZIONE (o DISCORSI PROTREPTICI)
PLUTARCO, De Stoic. rep., 17, 104Ie = SVF III, 139
Nel libro I dei Discorsi protreptici dice: «Questa dottrina
distoglie gli uomini da tutte quante le altre cose, delle quali
nessuna ci riguarda e nessuna ci aiuta in vista della nostra
felicità».
PLUTARCO, De comm. not., 5, ioóoe = SVF III, 139
Se Crisippo nel libro I del suo Dell’esortazione scrisse: «solo nel
vivere secondo virtù è anche il vivere felici, mentre tutte le altre
cose non hanno nessun valore per noi né ci sono di aiuto in vista di
ciò».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 30, 1048a = SVF III, 139
Dopo aver ricondotto assai vicino al bene il preferibile e aver
fatto una certa confusione tra l’uno e l’altro, altrove dice invece
che nulla di questo tipo in assoluto ha valore per noi, ma che anzi
cose di questo genere seducono e stravolgono la nostra ragione.
Questo, lo dice nel libro I dell’opera Dell’esortazione.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 17, 104Ie = SVF III, 69
La trattazione del bene e del male, che egli introduce e valuta
criticamente, dice che è «massimamente in armonia con le esigenze
della vita, e tocca le nostre prenozioni intimamente connaturate».
Dice questo nel libro III dei Protreptici.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 22, 1044f = SVF III, 753
Nel libro III (?)270 dei Protreptici, dopo aver detto che sono
biasimate senza ragione cose come unirsi con la madre, la figlia, la
sorella, o il mangiare determinati cibi, o l’andare a un luogo sacro
venendo direttamente dell’alcova o dal contatto con un morto, dice
che dobbiamo guardare alle bestie e da ciò che esse fanno trarre la
dimostrazione che non c’è nulla che sia assurdo né che sia contro
natura fra cose siffatte: a proposito cadono i paragoni con gli
altri animali, allo scopo di provare chiaramente che il divino non è
contaminato da nulla di ciò che possa avvenire nei luoghi sacri, si
tratti dell’accoppiarsi o del generare o del morire.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 14, 1039d = SVF III, 761
Nei libri Dell’esortare, riprendendo Platone per il suo aver detto
che per colui che non ha appreso a vivere né sa vivere sarebbe
meglio non vivere affatto, dice testualmente: «Questo discorso è in
contraddizione con se stesso e non è affatto esortatorio. In primo
luogo, col dimostrare che la cosa migliore per noi sarebbe il non
vivere affatto e in certo modo stimando preferibile la morte, ci
esorta a qualcos’altro che non alla filosofia; chi non vive,
infatti, non può filosofare; ma neanche è possibile arrivare alla
saggezza se non dopo aver vissuto molto tempo nell’ignoranza e nel
vizio». E poco più oltre: «anche per gli stolti è conveniente
rimanere in vita». Poi testualmente: «Sostanzialmente, si può dire
che la virtù non è per noi incentivo alla vita, come il vizio non lo
è alla morte».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 14, 1039e-f = SVF III, 167
Nella stessa opera a un certo punto, lodando Antistene per aver
detto che «bisogna aver senno oppure avere un laccio per
impiccarsi»271, cita anche Tirteo: «prima di raggiungere la linea
divisoria fra la virtù e la morte»272 (ma che cosa in realtà vuol
dimostrare questi, se non che è più vantaggioso il non vivere che il
vivere per i cattivi e stolti?); e correggendo i versi di Teognide
«occorre fuggire la povertà» dice che non così bisogna sostenere, ma
«bisogna fuggire il vizio, anche a costo di gettarsi da scogliere
impervie nei profondi abissi del mare»273.
DEI PROVERBI
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, i = SVF III, p. 202
(Zenone) era gracile, abbastanza alto, di colorito bruno, ragion per
cui lo chiamavano anche «clematide egizia», a quanto, nel libro I
dei Proverbi, racconta Crisippo.
Schol. Pind.y in Ithsm. II, 17, III, p. 215 Drachmann = SVF III, p.
202
Questo detto274 è inserito fra i proverbi da alcuni, è una massima
di Aristodemo, come dice Crisippo nei Proverbi. Pindaro non cita di
nome questo Aristodemo, come se fosse chiaro chi sia semplicemente
citando il proverbio; indica solo la patria, Argo.
DIOGENIANO Paremiografo,Cent. I, 62, II, p. 10 Lentsch = SVF III, p.
202
«Capra di Sciro»: Crisippo dice che il proverbio è scritto a
proposito di quelli che contraccambiano alla rovescia i benefici,
così come anche le capre, a volte, rovesciano i vasi.
ZENOBIO PAREMIOGRAFO, Cent. Ili, 40, I, p. 67 Lentsch = SVF III, p.
202
Il pestello cresce: Crisippo dice che lo si applica a quelli che non
crescono e a quelli che restano piccoli; infatti il pestello è
piccolo e tondo.
ZENOBIO PAREMIOGRAFO, Cent.V, 32, I, p. 132 Lentsch = SVF III, p.
202
«Non naviganti di notte»: si dice di quelli che fanno qualcosa senza
esatta cura. A quelli che vanno per mare, infatti, la notte offre
più aiuto alla precisione per i segnali che dànno le stelle. Ma
Crisippo toglie il non e dice «naviganti di notte».
PSEUDO-PLUTARCO, Prov. Alex., I, 3, I, p. 321 Lentsch = SVF III., p.
202
Andar indietro: questo termine Crisippo lo applica a quelli che
procedono per il peggio nelle loro imprese, per il fatto che vanno
sempre indietro.
PLUTARCO, Aratus, I, 1 = SVF III., p. 202
Il filosofo Crisippo, o Policrate, cambia l’antico proverbio,
temendo il suo cattivo significato, e lo presenta non quale è ma
quale sembra a lui che piuttosto dovrebbe essere: «chi loderà il
padre, se non i figli felici?» Ma Dionisodoro di Trezene275,
biasimandolo, riporta il proverbio quale è veramente: «chi loderà il
padre, se non i figli infelici?»
FRAMMENTO DA OPERA INCERTA?
Pap. Oxyr. 1241276
Anche chi è progredito (?) è preda ugualmente della (ce)ci-tà. Come
infatti anche chi, (in prece)denza cieco, ha fatto maggior
pro(gresso) è ancora preda della cecità, così (lo stolto, anche) se
ha compiuto qualche progresso, (non è) meno stolto (che se non)
avesse accolto in sé quel poco. Certo (da c)iò è (possibile vedere)
la loro stoltezza277. Alcuni aggiunsero) anche ciò che può chiarire
simili cose. Se in realtà chi si av(vicina) di più alla città278
(soprava)nza gli altri e tuttavia, pur trovandosi vi(cino) ad essa,
non pensa, in virtù di t(ale) progresso, di esser dent(ro di essa),
allo stesso modo neppure quel progresso che si proten(de verso la
virtù) arriva (a raggiungere) la saggezza (proveniendo) dalla
stoltezza279…
TESTIMONIANZE
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 40 = SVF II, 43
Altri posero prima la parte logica, poi la fisica, terza l’etica;
tra questi … è Crisippo280.
LOGICA
CICERONE, De finibus, IV, 4, 9 = SVF II, 45
E che? Le cose che ora riportano e insegnano i dialettici, non sono
state forse inventate dagli antichi? E di queste, se Crisippo ne ha
dato una accurata trattazione, tuttavia Zenone ne ha trattato molto
meno che non i filosofi precedenti. Inoltre alcune non le hanno
trattate meglio di questi; e altre le hanno del tutto trascurate.
GALENO, De differenza puls, II, 4, VIII, p. 578 Kuhn = SVF III, 47
Non ho trovato questo nome presso nessuno degli scrittori greci; sì
che non so di che cosa realmente parli Archigene281, tanto più che
egli non ha scritto niente sul suo proprio linguaggio, come fece
invece Crisippo per le espressioni di cui ha usato nella sua
dialettica.
ARRIANO, Epici, dissert., I, 17, 10 = SVF II, 51
Basta dire che la logica è quella che giudica e valuta tutte le
altre parti della filosofia, e in certo modo le pesa e le misura.
Chi dice questo? Forse solo Crisippo…?282
AEZIO, Plac, IV, 12, 1, Dox. Gr. p. 401 = SVF II, 54
In che cosa differiscono la rappresentazione, l’oggetto
rappresentato, 1 ’immaginazione, l’oggetto immaginato… Crisippo dice
che queste quattro cose sono ben diverse fra loro. La
rappresentazione è una affezione che si verifica nell’anima, che in
sé stessa indica anche ciò che la produce: così per esempio, quando
noi vediamo qualcosa di bianco, vuol dire che si verifica una
affezione nell’anima per mezzo della vista e in base a tale
affezione possiamo dire che esiste un qualcosa di bianco che provoca
in noi un mutamento; ugualmente si può dire per altre sensazioni
quali il tatto e l’olfatto… La rappresentazione (cpocvTaaioc) prende
la sua denominazione dalla stessa radice della parola «luce» (cps):
così come la luce rivela insieme se stessa e le cose che sono
comprese nel suo ambito, ugualmente la rappresentazione rivela
insieme se stessa e ciò che la produce. L’oggetto della
rappresentazione è ciò che produce questa: il bianco, il freddo,
tutto ciò che può provocare un mutamento nell’anima, tutto questo è
oggetto rappresentato. L’immaginazione ^OCVTOCCJTIXèV), invece, è
una vuota attrazione283, è un’affezione che si produce nell’anima
senza che vi sia, realmente esistente, nessun oggetto a produrla,
come sarebbe nel caso di chi stenda le mani verso una battaglia di
ombre, o verso il vuoto. Della rappresentazione è oggetto un
rappresentato reale, ma dell’immaginazione niente di reale. Oggetto
dell’immaginazione poi è ciò verso cui noi, in base a questa, siamo
vanamente attratti; questo si verifica nel caso di pazzia
melanconica o di furia; per esempio, l’Oreste della tragedia, quando
dice: «o madre, ti supplico, non scagliare contro di me / le vergini
sanguinose, irte di serpenti; / esse, esse mi feriscono da
vicino»284, dice tutto questo in stato di pazzia furiosa; non vede,
ma gli sembra di vedere; perciò Elettra gli dice: «o infelice,
rimani tranquillo sul tuo giaciglio; / ciò che ti par di vedere
chiaramente, in realtà non lo vedi»285. Così anche Teoclimeno in
Omero286.
AEZIO, Plac, IV, 9, 13, Dox. Gr. p. 398 = SVF II, 81
Crisippo definiva il piacevole secondo il genere287 una realtà di
ordine teorico, e quello secondo la specie, e che si verifica in
concreto, una realtà di ordine sensibile.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 228 = SVF II, 56
Cleante intendeva un’impressione reale, per entrata e uscita…
Crisippo però considerava assurdo questo. Egli dice che in tal modo,
se al pensiero si presentassero insieme le rappresentazioni di un
triangolo e di un quadrato, avverrebbe che esso dovesse assumere
temporaneamente la forma di due differenti figure geometriche,
insieme quelle di triangolo e quadrato e magari anche del cerchio,
il che è assurdo; quando poi sussistano in lei molte
rappresentazioni, l’anima dovrà assumere una gran quantità di
figure, il che è ancora peggio. Egli suppone perciò che Zenone
avesse detto «impressione» (tUTCCOCJ^) là dove invece avrebbe dovuto
dire «modificazione» (htpommq). Se definiamo la rappresentazione una
«modificazione dell’anima», non è più assurdo il fatto che uno
stesso corpo in un solo ed unico tempo, essendovi in noi numerose
rappresentazioni, subisca numerose modificazioni: così come l’aria,
quando molti parlano, ricevendo allo stesso tempo innumerevoli e
differenti percosse, subisce insieme anche molte modificazioni, così
anche la parte direttiva dell’anima, variamente affetta da
rappresentazioni, subisce qualcosa di analogo a questa.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 372 = SVF II, 56
Se si dovesse ammettere che l’anima subisse un’impressione in
concavità e convessità, conseguirebbero da ciò cose assurde, come
dice Crisippo e la sua scuola. Se infatti l’anima che subisce una
rappresentazione venisse impressionata da questa a mo’ di cera,
certamente l’ultima affezione sopraggiunta oscurerebbe le
rappresentazioni precedenti, così come l’impronta di un secondo
sigillo cancella quella precedente. Ma se si verifica questo, ecco
che viene a esser soppressa la memoria, eh’è il tesoro delle
rappresentazioni, e con essa viene a esser soppressa anche la
capacità tecnica di ogni tipo. L’arte infatti è complesso
organizzato e raccolta di rappresentazioni; ora, una volta ammesso
quanto precede, non sarebbe possibile che sussistessero insieme
nella parte direttiva dell’anima più e diverse rappresentazioni,
giacché le impressioni che in essa si producono si verificano in
occasioni diverse e in relazione a diversi oggetti. Se poi i
fenomeni sono uno spiraglio sulle cose al di là della sensazione, e
noi vediamo i corpi delle cose che cadono sotto i sensi e che sono
molto più spessi dello spirito vitale ma non possiamo conservare
alcuna impressione di quelle che da essi ci derivano, è ragionevole
pensare che neanche lo spirito vitale possa conservare una sola
impressione di quelle che gli derivano dalla rappresentazione.
CICERONE, De divin., II, 61, 126 = SVF II, 62
…soprattutto avendo Crisippo, nella sua polemica contro gli
Accademici288, affermato che sono di gran lunga più evidenti e certe
le cose che vediamo da svegli che non quelle che vediamo in sogno.
CICERONE, Acad. pr., 27, 87 = SVF II, 109
Esporrò largamente tutte quelle cose di cui sono pieni i libri non
solo dei nostri filosofi, ma anche quelli di Crisippo … del quale
gli Stoici son soliti lamentare che, pur avendo fatto tante ricerche
con risultati che vanno contro l’opinione comune e la consuetudine e
il ragionamento usuale, nel rispondere a se stesso non sia stato
alla stessa altezza; cosicché da lui ha tratto le sue armi Cameade.
CICERONE, Acad. pr., 24, 75 = SVF II, 109
In verità consideravo molesti per voi, ma di modesta portata,
Stilpone, Diodoro, Alessino, i cui sofismi sono contorti e acuminati
(aocpiau.aTa vengono infatti chiamate le argomenta-zioncelle
ingannatone). Ma perché far raccolta di esempi di questo tipo,
quando ho a disposizione Crisippo, che è considerato il sostegno
della scuola stoica? Quante cose egli dice contro la comune
esperienza dei sensi, quante contro quelle cose che sono
generalmente approvate nell’uso comune! Si dice: «ma è pur vero che
le confuta egli stesso». Ammettiamo pure che le confuti, benché a me
non sembri. Certo che non avrebbe potuto raccogliere tanti esempi,
che ci ingannano con la loro apparenza di accettabilità, se non
avesse visto che non è facile resistere a simili argomentazioni.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 62 = SVF II, 122
Dialettica è, come dice Posidonio, la scienza delle cose vere, false
e né vere né false; ed essa, come dice Crisippo, verte intorno ai
significanti e ai significati289.
CICERONE, Orator, 35, 155 = SVF II, 134
Io ritengo che chi sia attratto dalla gloria dell’eloquenza non
debba essere inesperto di questa disciplina (la logica), ma, sia
egli formato a una scuola più antica oppure a questa recente di
Crisippo, deve conoscere in primo luogo la natura, l’efficacia, i
generi delle parole, sia semplici sia composte; e poi in quanti modi
ciascuna cosa possa venir detta; con quale metodo si possa giudicare
la differenza fra vero e falso; quale sia l’effetto delle varie
argomentazioni, che cosa consegua necessariamente a ciascuna di
esse, che cosa sia contrario; e, dal momento che molte parole hanno
significato ambiguo, in che modo occorre suddividere e spiegare il
significato di ciascuna di esse.
VARRONE, De lingua lat., VI, 56, p. 77 Goetz-Schöll = SVF II, 143
La loquela ha preso il suo nome da quello di «luogo», giacché, chi
comincia appena a parlare, pronuncia i vocaboli e tutte le parole
prima di poterle dire ciascuna a suo luogo. Crisippo dice che chi è
in tali condizioni non parla, ma fa qualcosa che somiglia al
parlare: così come l’immagine di un uomo non è l’uomo, ugualmente
nei corvi, nelle cornacchie, nei bambini che appena cominciano a
esprimersi le parole non sono parole, perché essi non parlano
veramente290.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., VIII, 3, p. 673 Müller = SVF II,
148
(Platone) crede che il fuoco sensibile sia nel suo insieme un
complesso di piccoli corpi aventi la forma della piramide; ciascuno
di essi, egli dice, è un elemento del fuoco, come a dire che ogni
singolo fuoco è formato di un complesso di fuochi. Allo stesso modo
anche gli elementi della voce generano in primo luogo le sillabe,
poi da queste nascono i nomi, il verbo, la preposizione, l’articolo
e la congiunzione, quelli che Crisippo a sua volta chiama elementi
del discorso291.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 57 = SVF II, 147
Cinque sono le parti del discorso, come dice Diogene (di Babilonia)
… e così anche Crisippo: il nome, il predicato, il verbo, la
congiunzione, l’articolo.
GELLIO, Noci. Att., XI, 2 = SVF II, 152
Crisippo dice che ogni parola è ambigua per natura, poiché da una
stessa parola possono darsi due e anche più significati.
VARRONE, De lingua latina, VI, 1, p. 57 Goetz-Schòll = SVF II, 154
Qui dirò dei vocaboli in cui vi è un significato temporale, e di
tutto ciò che si verifica nella forma di azione o si riferisce a un
tempo determinato: per esempio «si siede», «si passeggia», «che essi
parlino»; e se poi a tali forme si aggiungano elementi di diverso
genere, ci atterremo alla parentela che c’è fra le forme verbali e
non alle incomprensioni di eventuali ascoltatori… In ciò seguo
Crisippo e anche Antipatro … i quali tutti scrivono che le parole
declinano in modo tale che alcune di esse assumono lettere diverse,
altre ne lasciano cadere alcune, altre ancora ne cambiano.
VARRONE, De lingua latina, X, 59, p. 196 Goetz-Schòll = SVF II, 155
Infatti talvolta l’uno sembra generarsi dall’altro, come scrive
Crisippo, e — allo stesso modo che il figlio è tale in relazione al
padre e il padre in relazione al figlio — così quando si tratta di
un fòrnice la parte sinistra non sta meno in funzione della destra
di quanto la destra non stia della sinistra. Per la stessa ragione
talvolta si possono ottenere dai casi retti gli obliqui e dagli
obliqui i retti, dai singolari i plurali, dai plurali i singolari.
Etymologìcum magnum, s.v. àXàaxcap, I, p. 256 Lasserre = SVF II, 156
àXocaxcop; è anche il colpevole, o, secondo Crisippo, l’uccisore:
per il fatto che è degno di andar errando (àXaaGoci) e vagando292.
Etymologìcum Orionis, s.v. àyxcóv, p. 17a Sturzius = SVF II, 159
Crisippo dice che in realtà è eyxcav, perché un osso si incastra
(eyxetaGai) nell’altro osso.
Etymologicum magnum, s.v. StBàaxco, p. 272 Gaisford = SVF II, 160
Erodiano dice che Crisippo trae il significato di StSàaxsiv,
insegnare, da àaxetv, esercitare: la formazione sarebbe avvenuta per
l’aggiunta di una 8 a Tè àaxcò, ’mi esercito in qualcosa’
(«Stàaxco», da cui poi SiBàcrxco).
Etymologicum magn., s.v. TCOcXaiarrj, p. 647 Gaisford = SVF II, 161
Si dice che una spanna si fa per stiramento, stirando cioè la mano
dal dito grande, il pollice, alla punta del mignolo: così dice
Crisippo, per il fatto che si stira (orcaoGai) tutta la mano.
VARRONE, De lingua lat.9 VI, n, p. 62 Goetz-Schòll = SVF II, 163
La voce «evo» deriva dall’età di tutti gli anni; di qui «evi-terno»,
che poi è divenuto «eterno»: è ciò che i greci chiamano octcav e che
Crisippo spiega come àeì òv.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 389, 18 segg. Kalbfleisch = SVF 11,
174
Dal momento che è anche possibile giustapporre senza alcun distacco
due espressioni quali «saggezza stoltezza», o mettere insieme nelle
definizioni voci contrastanti, come «scienza dei beni e dei mali e
delle realtà che non sono né l’uno né l’altro» e «stoltezza in
quanto ignoranza di tali cose», gli Stoici si chiedono se (i casi di
opposizione) siano quelli che riguardano le proposizioni semplici
soltanto o (anche quelli) che riguardano le definizioni293; e
Crisippo si ferma a considerare se l’opposizione si verifichi nelle
espressioni enuncianti e nei concetti semplici, mentre le
definizioni non rientrano in questo caso. In esse noi comprendiamo
diverse cose, articoli e congiunzioni e altre parti esplicative,
ciascuna delle quali potrebbe essere impropriamente rapportata a un
discorso vertente sui contrari. Egli stabilisce perciò che è giusto
dire che saggezza e stoltezza sono contrari, ma non, analogamente,
che la definizione dell’una è il contrario di quella dell’altra;
facendo riferimento a quei concetti contrari pongono anche in
relazione reciproca le definizioni.
STOBEO, Eclog., III, 28, 18, p. 621 Hense = SVF II, 197
Crisippo diceva che il giurare il vero è differente dal giurare
bene, e lo spergiurare è differente dal giurare il falso. Chiunque
giura, nel momento in cui lo fa, giura il vero o il falso. La cosa
giurata di per sé o è vera o è falsa, giacché di fatto è un
giudizio. Ma chi giura non si può dire in assoluto che giuri bene o
spergiuri in relazione al tempo in cui lo fa, se non sia precisato
anche il tempo entro il quale si deve mantenere il giuramento. A
quel modo che si dice che uno sta ai patti o non ci sta non riguardo
al momento in cui stringe il patto, ma quando arriva il tempo
convenuto, così si dirà anche che ha giurato bene o ha spergiurato
quando giunga il tempo entro il quale si è impegnato a compiere il
giuramento.
PLUTARCO, De Stole, rep., 46, iod = SVF II, 202
Il discorso di costui (Crisippo) circa i possibili non è forse in
contrasto con l’altro che fa circa il fato? Se infatti non è
possibile una cosa che è o sarà vera, come dice Diodoro, ma il
possibile è «tutto ciò che potrebbe avvenire, anche se poi in futuro
non avviene», ecco che sono possibili molte cose che non si
verificano per fato. O con ciò egli viene a distruggere quella forza
del fato invincibile, non piegabile, superiore a tutte le cose,
oppure, se essa è tale quale Crisippo la crede, spesso avverrà che
ciò che potrebbe essere cada nel campo dell’impossibile.
ALESSANDRO DI AFRODISIA,In Arìst. anal. pr. p. 177, 25 segg.
Wallies
= SVF II, 202
Quando Crisippo dice che niente impedisce che anche a un possibile
segua poi l’impossibile, non dice in realtà niente di valido contro
la dimostrazione data da Aristotele, ma si sforza di dimostrare con
mezzi non rettamente messi insieme qualcosa che in realtà non sta
cosi. Egli dice che dato un giudizio ipotetico del tipo: «se Dione è
morto, questi è morto», se viene poi mostrato a dito Dione in carne
ed ossa, l’antecedente «Dione è morto» è possibile, perché il fatto
che Dione muoia può avvenire in realtà, ma il conseguente «questi è
morto» è invece impossibile; infatti, una volta che Dione sia morto,
si vanifica il giudizio «questi è morto», perché non è più possibile
indicare l’oggetto del discorso mostrandolo a dito; si può dare
indicazione solo di un vivente e nei riguardi di un vivente. Se
dunque, per l’essere egli morto, non è più possibile dire «costui»,
né più sussiste Dione sì da poter dire di lui «costui è morto», ecco
che questa frase viene a costituire un caso di impossibile. Non
sarebbe infatti impossibile se ancora dopo la morte di Dione — quel
Dione di cui si poteva predicare il primo membro del sillogismo
ipotetico finché era ancora in vita — si potesse predicare di lui il
«costui»; ma poiché questo non si può, l’espressione «costui è
morto» è un impossibile. Lo stesso si può dire per un nesso come «se
è notte, questo non è il giorno»: anche in questo sillogismo
ipotetico, che, come si crede, è effettivamente vero, tuttavia, se è
possibile l’antecedente, non è possibile il conseguente.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 68-69 = SVF II, 203-204294
Tra i giudizi alcuni sono semplici e altri no, come dicono Crisippo,
Archedemo, Atenodoro, Antipatro, Crinide e i loro discepoli295.
Semplici sono quelli che constano di un giudizio non reduplicato296,
come «è giorno». Non semplici sono quelli composti di un giudizio
reduplicato o di più giudizi. Al primo caso appartiene il giudizio:
«se è giorno, (è giorno)297». Al secondo: «se è giorno, c’è luce».
Tra i giudizi semplici sono compresi quelli affermativi, negativi,
privativi, denegativi, predicativi, dichiarativi, indefiniti; tra
quelli non semplici il sillogismo ipotetico, il paraipotetico, il
complesso, il disgiuntivo, il causale, quello che indica il più e il
meno. (Giudizio negativo è quello composto di una particella
negativa)298 e di un giudizio, del tipo: «non è giorno».
Ma esiste un giudizio doppiamente negativo, che è una specie di
questo: esso consiste nella negazione della negazione, per esempio:
«non è (non) giorno»299, il che equivale a dire che è giorno. Il
giudizio denegativo è quello che è composto di un termine negativo e
di un predicato, per esempio: «nessuno passeggia». Il giudizio
privativo è composto di una parte privativa e di un giudizio
potenziale: per esempio «privo di umanità è costui». Il giudizio
predicativo si compone di un soggetto nel caso nominativo e di un
predicato: per esempio, «Dione passeggia». Il giudizio dichiarativo
si compone di un soggetto al nominativo che viene indicato, e di un
predicato, per esempio: «costui passeggia». Il giudizio indefinito
si compone di una parte o di più parti indefinite (e di un
predicato)300, per esempio: «qualcuno passeggia», «quello si muove».
GALENO, Intr. dialect., 4, 4, pp. 10-n Kalbfleisch = SVF II, 208
Se l’espressione viene detta in relazione ad altre cose, che non
sono conseguenti le une alle altre né ripugnano fra loro negandosi,
chiameremo un giudizio cosiffatto «giudizio complesso), come per
esempio: «Dione passeggia e Teone discorre». Questi due giudizi si
spiegano nel loro insieme mediante la congiunzione che li unisce,
non avendo essi né conseguenza né ripugnanza reciproca. E se sono
giudizi negativi, diremo senz’altro che quel discorso è una
complessione negativa o lo chiameremo «giudizio complesso
(negativo)»301 «… Crisippo e la sua scuola però, anche in questo
caso prestando più attenzione all’espressione che non al contenuto
di essa, chiamano «giudizi complessi» tutti quelli che sono uniti
fra loro mediante particelle congiuntive, implichino pure essi
conseguenza o ripugnanza reciproca; essi quindi usano con
trascuratezza i termini là dove si richiede esattezza
nell’insegnamento, mentre legiferano e inventano espressioni
peculiari là dove le voci non alludono a nessun particolare
contenuto specifico differenziato302.
PLUTARCO, De Stole, rep., 29, 1047C = SVF II, 210
Ma quegli (Crisippo) dice che le forme complesse che è possibile
ottenere fra dieci giudizi superano in quantità il milione… Tutti
gli studiosi di aritmetica confutano Crisippo, e tra di essi è
Ipparco303, il quale dimostra quanto sia enorme il suo errore nel
ragionamento, dal momento che quanto al giudizio positivo egli dice
che consta di centomila giudizi complessi, e ne aggiunge ancora
tremilaquarantanove, quanto al giudizio negativo ne conta
trecentodiecimilanovecentocinquantadue.
GALENO, De simpl. mei., II, 16, XI, p. 499 Kùhn = SVF II, 212
…quella premessa fepÓTacrt^) ipotetica che Crisippo e i suoi
chiamano «giudizio ipotetico» (auvrp|xsvov)
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 8 = SVF II, 224
Gli scrittori di arti retoriche dicono che la definizione, riguardo
alla pura e semplice articolazione, differisce dall’universale, pur
essendo virtualmente la stessa cosa. E ragionevolmente; chi infatti
dice: «l’uomo è un animale ragionevole mortale», rispetto a chi
dice: «se vi è un uomo, questo è un animale ragionevole mortale»,
virtualmente dice la stessa cosa, ma quanto alla forma
dell’espressione dice una cosa differente. Che le cose stiano cosi,
è evidente dal fatto che non solo l’universale comprende in sé tutti
i particolari, ma anche dal fatto che la definizione si applica a
tutte le specie dell’oggetto dato: così è per la definizione di uomo
rispetto alle specie di tutti quelli che sono uomini, e di cavallo
per tutti quelli che sono cavalli. Nel caso che soggiaccia al
discorso un errore, ne restano viziati sia l’universale sia la
definizione. Ma così come queste cose, diverse nell’espressione,
sono virtualmente le stesse, ugualmente, essi dicono, la divisione
perfetta, che ha efficacia universale, differisce dall’universale
solo per la sua articolazione. Chi divida in questo modo: «fra gli
uomini, alcuni sono greci, altri barbari» dice in realtà qualcosa di
equivalente a: «se vi sono alcuni uomini, essi sono greci e
barbari», infatti, se fosse reperibile un uomo che non sia né greco
né barbaro, la divisione sarebbe viziata e l’universale erroneo.
Perciò anche l’espressione: «delle cose che sono, alcune sono beni,
altre mali, altre realtà intermedie» secondo Crisippo equivale a
questo giudizio universale: «se vi sono alcune cose, esse sono o
buone, o cattive, o indifferenti».
GALENO, Adv. Lycum, 3, XVIII, p. 209 Kùhn = SVF II, 230
Le arti consistono nella conoscenza delle differenze caratteristiche
di ciascuna cosa esistente. Questo lo disse Platone all’inizio del
Filebo304; mantenne la stessa opinione Aristotele; così pure
ritennero Teofrasto, Crisippo, Mnesiteo305, e non c’ènessuno Che,
nello serivere sullèarte, non abbia fatto lo stessodiscorso.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., II, 3, p. 178 Mùller = SVF II,
234
E in questo differisce nella indicazione una proposizione di tipo
scientifico da una di tipo retorico o esercitatorio o sofistico; ma
su di esse Crisippo e Zenone con la loro scuola non ci hanno
insegnato nessun metodo né alcun retto esercizio. Sono mischiati
alla rinfusa nei loro libri tutti i più diversi tipi di
proposizione. Spesso la trattazione ha inizio, se così sembra, da un
motivo retorico, a questo ne segue uno esercitatorio e dialettico,
poi di seguito uno scientifico, e poi a casaccio uno sofistico;
giacché essi non sanno che le argomentazioni scientifiche sono
quelle che vertono intorno all’essenza dell’oggetto intorno al quale
si indaga.
DIOGENE LAERZIO, Vitae phìlos., VII, 79 = SVF II, 241
Vi sono alcuni ragionamenti detti non dimostrativi, per il fatto che
non si valgono di dimostrazione; i diversi filosofi ne fissano
diversi tipi, ma presso Crisippo ne troviamo fissati cinque, in base
ai quali si può comporre ogni tipo di argomentazione e che sono
usati nei ragionamenti concludenti, propriamente sillogistici e
modali. Il primo non dimostrativo è quello in cui l’insieme del
ragionamento si compone di un ragionamento ipotetico,
dell’antecedente dal quale comincia il ragionamento ipotetico, e del
conseguente che conclude: per esempio: «se è il primo, è il secondo;
ma è il primo; dunque, è il secondo». Il secondo non dimostrativo si
compone di un ragionamento ipotetico e dell’opposto del conseguente,
e ha per conclusione l’opposto dell’antecedente: per esempio: «se è
giorno, c’è luce; ma è notte; quindi non c’è luce». La premessa in
questo caso è costituita dall’opposto del conseguente, e la
conclusione dall’opposto dell’ antecedente. Il terzo non
dimostrativo si compone di un giudizio congiunto negativo e di uno
dei membri di questo stesso giudizio, e ha per conclusione l’opposto
dell’altro membro; per esempio: «Platone non è morto ma vive; ma in
realtà Platone è morto; quindi Platone non vive». Il quarto tipo di
ragionamento non dimostrativo si compone di un giudizio disgiuntivo
e di un membro dello stesso giudizio, e ha per conclusione l’altro
membro, per esempio: «o è giorno, o è notte; ma non è notte; quindi
è giorno»306.
GALENO, Intr. dialéctica, y, p. 16, 18 segg. Kalbfleisch = SVF II,
244
In questi sillogismi (= i «non dimostrativi»), le prime premesse
sono determinanti riguardo alle seconde. Nel giudizio disgiuntivo,
infatti, (non vi sono più di due premesse seconde, e nemmeno
nell’ipotetico)307; ma nel caso di una esclusione reciproca
imperfetta non si può porre altro che una sola seconda premessa.
Perciò Crisippo e i suoi seguaci chiamano simili giudizi non solo
determinanti, ma anche fondamentali (Tpom-xot) poiché su di essi si
fonda tutta la teoria del sillogismo come sulla carena (xponiq) di
una nave. Similmente fanno alcuni dei peripatetici, e così pure
Boeto308, che non chiama soltanto non dimostrativi i sillogismi
formati da prime premesse determinanti, ma anche primi. Essi invece
non ammettono che quei sillogismi non dimostrativi che sono
costituiti da prime premesse categoriche siano anche chiamati primi;
eppure sotto un altro aspetto bisogna pur dire che essi vengono
prima degli ipotetici, dal momento che le prime premesse che li
costituiscono sono sicuramente antecedenti (nessuno potrebbe
discutere sul fatto che ciò che è semplice viene prima di ciò che è
complesso).
GALENO, Intr. dial., 6, p. 15, 8 segg. Kalbfleisch = SVF II, 245
I dialettici chiamano «tropi» le figure dei ragionamenti, per
esempio quel sillogismo ipotetico che, da premesse formate la prima
da una implicazione di antecedente e conseguente e dall’antecedente
come seconda premessa, deduce il conseguente, quello che Crisippo
chiama il primo non-dimostrativo; una figura siffatta segue lo
schema: «se è A, è B; ma è A; quindi è B». Segue poi quello che ha
come prima premessa l’implicazione ipotetica di antecedente e
conseguente e come seconda premessa l’opposto del conseguente,
mentre si conclude con l’antecedente; Crisippo chiama questo secondo
non-dimostrativo: lo schema è: «se è A, è B; ma non è B; dunque non
è neanche A». Poi viene il terzo non-dimostrativo, avente a premesse
un giudizio complesso negativo e uno dei membri della negazione, e
avente per conclusione l’opposto dell’altro membro; lo schema è:
«non è possibile che siano A e B; (ma è A; non è quindi B)». Il
quarto non-dimostrativo, ha per premesse un ragionamento disgiuntivo
e uno dei membri della disgiunzione, e conclude con l’opposto
dell’altro membro; il suo schema è «o è A, o è B; ma è A; non è
quindi B». C’è poi ancora un quinto non-dimostrativo, che ha a
premesse un ragionamento disgiuntivo e l’opposto di uno dei membri
della disgiunzione, e a conclusione l’altro membro; lo schema è: «o
è A, o è B; (ma non è A; è quindi B 〉309».
GALENO, Intr. dial., 5, p. 13, 10 segg. Kalbfleisch = SVF II, 246
Data una prima premessa che consista in una implicazione
condizionale continua, quello che Crisippo e i suoi seguaci chiamano
«giudizio ipotetico» (awrpuivov)310 se noi poniamo a seconda
premessa il membro antecedente avremo poi a conclusione il
conseguente; se l’opposto del conseguente, avremo l’opposto dell’
antecedente; ma non prendendo a seconda premessa né il conseguente
né l’opposto dell’antecedente non avremo alcuna conclusione311.
GALENO, Intr. Mal, 19, p. 48, 23 segg. Kalbfleisch = SVF II, 247
E perciò non c’è bisogno ch’io indichi quelle forme raccolte da
Crisippo nelle tre trattazioni sillogistiche, dal momento che sono
inutili312; ho già dimostrato questo altrove, per esempio là dove ho
parlato delle forme da lui chiamate concludenti; anche di queste
alcune mi sono parse, e l’ho indicato, non essere un genere di
sillogismi diverso e a sé stante, ma tali da poter essere spiegate
come modificazioni di certe forme espressive, talvolta per
trasposizione della conseguenza …313 Quanto ai ragionamenti detti
«iposillogistici», si possono spiegare in base ad espressioni aventi
lo stesso valore di quelle sillogistiche. Secondo quei filosofi vi
sono poi infine ragionamenti che essi chiamano «ametodici», per
mezzo dei quali si argomenta senza che vi sia assolutamente alcun
discorso metodico314.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., II, 3, p. 182 Müller = SVF II,
248
Ora, come si risolvano i sillogismi mediante due o tre forme
tropiche e quelli che concludono in maniera indifferenziata315 o
alcuni altri simili, che si valgono della prima o della seconda
forma, è possibile a molti cogliere se si esercitino diligentemente,
come è anche possibile certamente anche ad altri, a quelli che si
valgono per la soluzione della forma terza e quarta. E in verità la
maggior parte di costoro hanno la possibilità di risolverli in altra
forma in maniera più concisa, come scrisse Antipatro316, oltre al
fatto che tutta questa connessione di sillogismi costituisce una non
piccola ricerca marginale intorno a cosa priva di utilità; di questo
è attestazione pratica lo stesso procedere di Crisippo, il quale,
per la dimostrazione dei suoi specifici principi dottrinali, nei
suoi scritti non ha avuto mai bisogno di valersi di sillogismi di
questo tipo. Ma come bisogna veramente distinguere le premesse
scientifiche da quelle dialettiche, retoriche, sofistiche, non lo
hanno mai scritto in maniera ragionevole Crisippo e quelli che a lui
si rifanno, né appaiono averne fatto rettamente uso.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 443 = SVF II, 249
Quanto al dire che Crisippo non ammette che ci possano esser
ragionamenti di una sola premessa, il che forse alcuni sosterranno
in risposta a questi rilievi, è del tutto privo di senso. Non è
necessario infatti obbedire alle espressioni di Crisippo come se
fossero ordini ispirati dalla Pizia, né è possibile attenersi alla
testimonianza di determinati uomini al fine di rifiutare qualcosa
che invece secondo testimonianze citabili in contrario appaiono
accettate: per esempio Antipatro, uno degli uomini più illustri
della setta stoica, dice che è possibile ammettere anche
ragionamenti di una sola premessa.
PLUTARCO, De comm. noi., 2, 1059d-e = SVF II, 250
Mi sembra che quest’uomo metta la massima diligenza a sovvertire
Pesperienza comune: giacché quale concezione dimostrativa o quale
anticipazione di prova non sovvertirebbe il negare che un
ragionamento congiunto formato di opposti in forma indefinita317 sia
un errore, e poi l’asserire che alcuni argomenti che hanno premesse
vere e conseguenze valide possano anche avere opposti delle loro
conclusioni che siano ugualmente veri?
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypot., II, 253 = SVF II, 275
E se quei dogmatici che si rifanno a Crisippo nella confutazione del
sorite dicono che nel corso del ragionamento bisogna fermarsi e
sospendere l’argomentazione, per non cadere in qualche assurdità,
ciò sembra esser molto più conveniente a noi che facciamo
professione di scettici e che fuggiamo con sospetto l’assurdità, il
non cadere nella discussione delle premesse ma piuttosto sospendere
l’argomentazione su ogni punto, fino a che non si abbia discussione
completa di tutto il ragionamento.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 416 = SVF II, 276
Poiché nel sorite viene giustapposta alla rappresentazione
catalettica giunta all’estremo una rappresentazione nel primo stadio
e ancora difficile a distinguersi, Crisippo e i suoi dicono che, nel
caso di rappresentazioni scarsamente differenziate, il sapiente
dovrà fermarsi e sospendere il suo giudizio; là dove cade maggior
differenza, dovrà assentire all’una delle rappresentazioni, quella
che ritenga vera.
CICERONE, Acad. pr., 29, 93 = SVF II, 277
Crisippo ritiene che, nel caso del ragionamento per gradi, in virtù
delle parole «se tre sia poco o molto», un po’ prima di giungere al
«molto» sia il caso di arrestarsi (essi dicono «star tranquillo»,
r\a\)xà^uv)318.
SIMPLICIO, In Arisi. Categ., p. 105, 8 segg. Kalbfleisch = SVF II,
278
Vale la pena di chiedersi, a proposito di quelli che dànno alle idee
consistenza reale e reale genesi, se si dovrà dire «queste cose
sono». Anche Crisippo si pone la questione se delle idee si possa
dire questo. Bisogna comprendere anche quale sia Fuso comune che gli
Stoici fanno delle categorie di qualità universali, come siano
presentati da loro i vari casi, e come presso di loro gli universali
siano detti dei «non-qualcosa» (oOTLVOC), sì che, per l’ignoranza
del fatto che non ogni sostanza significa un essere determinato, ne
nasce un sofisma che verte intorno al concetto di «nessuno»319: lo
schema di questa argomentazione è: se uno è in Atene, non è a
Megara; ma l’uomo non è questo uno320. «Uno» non è in realtà
l’universale; noi lo abbiamo accettato nel discorso nel puro senso
di «qualcuno»; ma da questa argomentazione ha tratto il nome quel
ragionamento ch’essi chiamano appunto «nessuno». Lo stesso avviene
per quest’altro sofisma: «ciò che io sono, tu non sei; ma io sono un
uomo; dunque tu non sei un uomo». In questo sofisma le espressioni
io e tu hanno significato di individui, mentre «uomo» non si
riferisce a nulla che sia particolare. L’errore consiste dunque nel
fatto che non si è interpretato «qualcuno» nel suo senso proprio.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 186 = SVF II, 279
Usava fare ragionamenti di questo tipo: «chi rivela i misteri ai non
iniziati è un empio: ma lo ierofante rivela (i misteri) ai non
iniziati; quindi lo ierofante è un empio». Oppure: «ciò che non è
nella città, non è neppure nella casa; ma non vi è un pozzo nella
città; quindi non vi è neppure nella casa». Oppure: «c’è un certo
tipo di testa; tu non l’hai; vi è perciò una testa (che tu non hai);
tu non hai quindi la testa». Oppure: «se non è a Megara, non è ad
Atene; ma c’è un uomo a Megara; quindi non c’è un uomo ad Atene»321.
Oppure: «ciò che tu dici passa per la tua bocca: ma tu dici ’carro’;
ecco quindi che un carro passa per la tua bocca». Oppure ancora: «se
tu non getti via una cosa, tu l’hai; ma tu non getti via le corna;
quindi hai le corna». Alcuni dicono però che questi ragionamenti non
sono di Crisippo, ma di Eubulide.
CICERONE, Acad. pr., 30, 96 = SVF II, 282
Che cosa te ne pare insomma di questa conclusione? «Se dici che ora
c’è luce, e dici il vero, (c’è luce; ma tu dici in effetti che c’è
luce, e dici il vero;) dunque c’è luce»322. Certo voi approvate
questo genere di argomentazioni e trovate che la conclusione è
assolutamente corretta. E quindi nel vostro insegnamento fate
apprendere anzitutto questo modo di argomentare. Ma, o approvate
tutto ciò che viene così argomentato, oppure dovrete riconoscere che
quest’arte non esiste. Guarda un po’ se tu puoi approvare questa
conclusione: «se dici che stai mentendo, ed è vero, menti. Ma dici
di mentire e dici il vero: dunque menti». Chi potrebbe non
approvarla, dopo aver approvato l’argomentazione di prima? Queste
sono questioni poste da Crisippo, e da lui stesso non risolte.
GEROLAMO, Epist. LXIX ad Oceanum, 2, p. 621 Hilberg = SVF II, 281
…ricordandosi subito del sofisma di Crisippo: «se menti, e dici la
verità dicendo che menti, menti»323.
CICERONE, Ad famil, IX, 4 = SVF II, 284
Sappi che, quanto ai possibili, io giudico al modo di Diodoro. E
perciò, se tu verrai, sappi che è necessario che tu venga; se non è
così, vuol dire che il fatto che tu venga è fra le cose impossibili.
Vedi ora quale giudizio ti piace di più, se quello di Crisippo, o
quello che Diodoro nostro324 non digeriva. Ma di queste cose
parleremo quando avremo tempo libero: anche questo rientra in ciò
che è possibile secondo Crisippo.
CICERONE, Acad. pr., 46, 143 = SVF II, 285
Nello stesso principio che i dialettici insegnano nella parte
elementare della loro disciplina, come si debba giudicare ciò che
sia vero o falso, se vi è un qualche nesso del tipo: «se è giorno,
c’è luce», quanta materia di discussione! Diodoro, Filone325,
Crisippo la pensano ciascuno diversamente. E del resto. Crisippo in
quante cose non dissente dal suo stesso maestro Cleante?
PLUTARCO, De aud. poèt., 13, 34b = SVF II, 100
Crisippo ha spiegato rettamente l’uso di quelle espressioni che si
dicono in senso ampio, mostrando come per esempio il concetto di
utile si debba estendere a tutte le cose di tipo analogo. Quando
Esiodo dice «non scomparirebbe nemmeno un bue, se non vi fosse un
cattivo vicino»326, intende dire lo stesso di un cane o di un asino
o di qualunque altro animale che possa scomparire. E quando Euripide
dice: «qual’è il servo che è indifferente di fronte alla morte?»327
avrebbe potuto dire lo stesso anche della fatica o della malattia.
CICERONE, De finibus, IV, 3, 7 = SVF II, 288
Tutto questo genere, Zenone e i suoi seguaci … non vollero o non
poterono curarlo … e certamente lo trascurarono. Tuttavia Cleante
scrisse un’arte retorica, e così pure una Crisippo328; ma tali che
chi desideri esser ridotto al silenzio, non ha che a leggere quelle.
QUINTILIANO, Inst. orat., II, 15, 34 = SVF II, 292
A questa sua realtà conviene benissimo la definizione «la retorica è
la scienza del parlare bene». Infatti essa comprende in sé tutte le
capacità del discorso e insieme i costumi dell’oratore, giacché non
può parlar bene se non chi è buono. Lo stesso significato ha quella
definizione di Crisippo, tratta da Cleante: «scienza del parlare
rettamente». Ve ne sono anche altre del medesimo filosofo, ma si
riferiscono ad altri problemi.
OLIMPIODORO, In Flatonis Gorgiam, p. 70, 1-7 Westerink329
Crisippo, aggiungendo a questa definizione «con rappresentazioni»
diceva poi che «l’arte è una disposizione a procedere con metodo per
mezzo di rappresentazioni». La retorica viene a ricadere sotto
questa definizione: essa è infatti disposizione a procedere con
metodo e ordine; perciò il retore prima si serve di proemi, poi
della posizione preliminare della questione e della posizione vera e
propria, prediligendo l’ordine anche nelle argomentazioni che
seguono.
ANONIMO, Ars rhetorìca, I, p. 454 Spengel = SVF II, 296
L’epilogo, secondo quanto dice Platone nel Fedro330, deve avere per
compito il ricordare le singole cose riassuntivamente, perché gli
ascoltatori possano trarre una conclusione circa le cose dette.
Crisippo è della stessa opinione: egli ritiene che l’epilogo debba
constare di una sola parte.
FISICA
STOBEO, Eclog., I, 13, ic, p. 138-139 Wachsmuth = SVF II, 336
Crisippo dice che ciò che è causa è ciò per cui una cosa avviene. E
questo è anche un corpo… Ciò che è causa è «ciò che», ciò di cui è
causa è ciò che si verifica per mezzo di qualcos’altro. La causa è
la ragione di ciò di cui è causa, o la ragione relativa a ciò che è
causa in quanto è causa331.
SIRIANO, In Arisi. Metaph., p. 105, 21 segg. Kroll = SVF II, 364
Le idee, presso quegli uomini divini332, non erano riportate al
livello dei nomi di uso comune, come credettero più tardi Crisippo,
e Archedemo333 e i più fra gli Stoici; molte differenze sussistono
fra le idee in sé e le cose che si dicono alla maniera ordinaria.
PROCLO, In pr. Enel. elem. librum, p. 395 Friedlein = SVF II, 365
Questo tipo di teoremi, ci dice Gemino, Crisippo paragonava alle
idee. Come quelle circoscrivono la genesi di entità infinite in
termini definiti, così anche in questi avviene la delimitazione di
infiniti in luoghi definiti. Così l’uguaglianza si dimostra per
mezzo di una simile delimitazione: immaginando che l’altezza dei
lati paralleli rimanga la stessa per quanti infiniti parallelogrammi
si possano costruire sulla stessa base, si dimostra che sono tutti
uguali fra loro334.
PLUTARCO, De def. orac., 29, 426a-b = SVF II, 367
Non avviene qui fra noi che vi sia un corpo composto, fatto di più
corpi separati, come una assemblea, un esercito, un coro? a questi
Crisippo ritiene che sia proprio il vivere, il pensare,
l’apprendere; ma che lo stesso avvenga per dieci o cinquanta, o
cento cosmi che esistano nell’universo … l’essere cioè ordinati in
vista di un’unica ragione … è impossibile.
GALENO, Meth. med. I, 2, X, p. 15 Kuhn = SVF II, 411
Ma se, portando gli Stoici in sinedrio, si desse loro il voto, in
base alle dottrine che essi professano darebbero la corona a
Ippocrate. Ippocrate è stato infatti il primo a introdurre il caldo,
il freddo, il secco e l’umido, dopo di lui Aristotele ne diede la
dimostrazione; infine Crisippo, con i suoi, accolse queste dottrine
già beli’e fatte e non polemizzò con esse: anch’essi dicono che le
cose sono miste di tali elementi, che questi agiscono e patiscono
reciprocamente, che la natura è artefice, e così pure accolgono
tutte le altre dottrine di Ippocrate sulla natura, ma al tempo
stesso scarsa è la differenza della loro dottrina da quella di
Aristotele. Poiché Ippocrate rettamente aveva detto che tutto il
corpo è percorso da un solo soffio e da un solo fluire, e che tutte
le parti degli esseri viventi collaborano concordemente fra di loro,
sia gli Stoici che Aristotele accolgono questo punto; differiscono
però fra loro in quanto Aristotele afferma che si compenetrano e si
mischiano fra di loro solo le qualità, gli Stoici non solo le
qualità ma anche le stesse sostanze.
STOBEO, Eclog., I, 10, 16e, pp. 129-130 Wachsmuth = SVF II, 413
Di Crisippo. Circa la sostanza degli elementi egli così insegna,
seguendo l’iniziatore della setta Zenone: dice che gli elementi sono
quattro, (fuoco, aria, acqua, terra, e da essi sono composti tutti
quanti gli animali) e le piante335 e tutto il cosmo e quanto in esso
è racchiuso; e che tutto si risolve poi in essi. (II fuoco)336 è
detto elemento per eccellenza, per il fatto che da esso in primo
luogo si generano le altre realtà, e in esso da ultimo dovranno
fondersi e risolversi, mentre esso non conosce soluzione o
risoluzione in altro…
Per tale ragione, il fuoco si dice elemento perfetto; non ha bisogno
di unirsi con alcun altro. In base al discorso precedente, inoltre,
è capace di produrre la formazione degli altri: dapprima infatti si
verifica per condensazione la trasformazione del fuoco in aria, in
secondo luogo di questa in acqua, in terzo luogo si procede
analogamente, condensandosi ancor più densamente Pacqua in terra. In
seguito, per processo opposto di fusione e dissoluzione, avviene la
prima risoluzione della terra in acqua, poi in secondo luogo
dell’acqua in aria, poi in terzo luogo dell’aria in fuoco. Fuoco si
dice ogni tipo di sostanza ignea, e aria di sostanza aeriforme, e
così similmente le altre cose. La nozione di elemento è trattata da
Crisippo in tre forme: sotto un aspetto l’elemento per eccellenza è
il fuoco, giacché di esso sono formate tutte le altre cose per
mutamento, e in esso sono destinate a risolversi; sotto un altro
aspetto, si parla di quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra (di
essi infatti, da uno, da alcuni o da tutti insieme, sono formate
tutte le altre realtà; da tutti e quattro gli esseri viventi e tutte
le altre cose che sono sulla terra; da due, certe realtà quali ad
esempio la luna, che è fatta di fuoco e di aria; da uno solo il
sole, che è fatto di solo fuoco; il sole non è altro infatti che
fuoco allo stato puro); sotto ancora un terzo aspetto, si dice
elemento… (Egli dice elemento?)337 anche tutto ciò che è costituito
originariamente in forma tale da dare generazione ad altro secondo
un certo ordine razionale, arrivando a un termine ultimo, a partire
dal quale avviene la risoluzione e la ripresa dello stesso ordine
razionale. Egli diceva anche che simili definizioni circa l’elemento
rispondono al fatto che esso è di per sé mobilissimo, ed è il
principio, e la ragione (seminale)338 e la eterna capacità attiva
che ha in sé natura tale da muovere se stessa, giù verso la
dissoluzione e poi su di nuovo nel ritorno da questa, circolarmente,
distruggendosi tutta in se stessa e da sé nuovamente ricostituendosi
con ordine e processo razionale.
PROBO, In Vergila EcL, VI, 31, p. 10, 33-11, 4 Keil = SVF II, 413
Che tutto sia stato formato in secondo luogo da questi quattro
elementi originari lo insegnano Zenone di Cizio, Crisippo di Soli,
Cleante di Asso, che ebbero in ciò a iniziatore quell’Empedocle di
Agrigento il quale così aveva scritto: «vi sono all’origine quattro
radici di tutte le cose»339.
PLUTARCO, De primo frigido, 17, 9520 = SVF II, 429
Infatti anche Crisippo, credendo che l’aria sia il primo freddo in
origine, dal momento che è oscuro, fece menzione di coloro che
avevano detto che l’acqua si allontana maggiormente dall’aria dalla
natura dell’etere; e volendo opporsi alla loro opinione, diceva:
«così dovremmo dire che anche la terra è in origine il primo freddo,
dal momento che è l’elemento che si allontana di più dall’etere»,
rigettando il loro discorso come non credibile e assurdo. A me
sembra che attribuire queste cose alla terra sia ragionevole e
credibile, se si sia preso l’inizio da quel punto che Crisippo
applica in particolare all’aria: e quale è questo? l’essere essa la
tenebra originaria (e il freddo originario)340.
PLUTARCO, De primo frigido, 9, 948d = SVF II, 430
Dal momento che il fuoco è insieme caldo e luminoso, la natura
opposta a quella del fuoco deve essere fredda e oscura; al luminoso
si oppone infatti la tenebra, come al caldo il freddo. Ciò che è
oscuro dà turbamento alla vista, come ciò che è freddo al tatto,
mentre al contrario il calore rallegra la sensazione di chi tocca
come la luminosità quella di chi guarda. Quindi la tenebra
originaria nella natura coincide anche con il freddo originario …
Che l’aria sia il freddo originario, non è sfuggito neanche ai
poeti: essi chiamano infatti l’aria tenebra: «era profonda l’aria
presso le navi, e la luna / non era comparsa in cielo»341 e ancora:
«essi, rivestiti di aria, visitano tutta la terra»342; e ancora:
«subito divise l’aria e ricacciò la nebbia, / e il sole splendette:
a tutti si mostrò la battaglia»343. Chiamano tenebra (xvraq) l’aria
senza luce, come a significare che essa è «vuoto di luce» (xevòv
cpàous), e nuvola (vécpo$) l’aria raccolta insieme e addensata, per
negazione della luce (9^); e il luogo invisibile (àeiSrjs) e senza
colore (axpooaxos) lo chiamano Ade e Acheronte. Come dunque, quando
venga meno il raggio di luce, l’aria resta tenebrosa, e quando se ne
vada il calore l’aria che rimane è fredda, essa in realtà di per sé
non è altra cosa; e lo stesso Tartaro si chiama così per il suo
essere freddo; lo rivela anche Esiodo, quando dice: «il Tartaro
pieno d’aria»344 e si dice che chi ha freddo rabbrividisce e trema
usando per questo il termine TOcpxapiCetv…
Dal momento che la distruzione non è altro che il cambiamento delle
cose che si dissolvono ciascuna nel suo contrario, vediamo se si
dice giustamente l’espressione «la morte del fuoco è la nascita
dell’aria»345. In realtà il fuoco muore come un essere vivente, o
spento con violenza consumandosi in se stesso. Lo spegnimento rende
più manifesta la sua trasformazione in aria: il fumo infatti è una
specie dell’aria, come dice Pindaro: «percuotendo l’aria col fumo
fragrante di odore delle vittime»346 quando parla della vampa e
dell’esalazione. E per non dire di altro basta pensare alla fiamma
che viene meno per mancanza di alimento, come si può vedere ad
esempio nelle lampade, ove la punta del fuoco si risolve in aria e
caligine e tenebra. Già a sufficienza dimostra la trasformazione del
calore in aria quel fumo freddo che si sparge intorno a coloro che
escono da un bagno caldo o a vapore, in opposizione naturale col
fuoco; il che consegue all’essere l’aria originariamente tenebre e
freddo…
Di tutte le cose che avvengono nei corpi per via del freddo
l’irrigidimento è la cosa più terribile e violenta: essa non è
un’affezione propria dell’acqua, ma è opera dell’aria: di per sé in
fatti l’acqua è diffusa, non compatta, non capace di stare insieme,
ma si indurisce e si rapprende solo quando è compressa dall’aria,
per il freddo che è proprio di questa; perciò si dice: «se noto
chiamerà borea, subito nevicherà»347. Il vento di noto infatti
provvede l’umidità come materia, e l’aria di borea sopravvenendo la
fa congelare.
Questo lo si comprende particolarmente se si guarda ai fiocchi di
neve, i quali cadono lievemente così perché comprendono in sé ed
esalano aria fredda e leggera. Aristotele dice che perfino le punte
dei dardi fatte di piombo si liquefanno e si sciolgono per via del
ghiaccio e del gelo invernale, e vede in questo solo un effetto
dell’acqua; ma è l’aria, sembra evidente, che facendo rapprendere
insieme i corpi per via del freddo li irrigidisce e li spezza.
TEMISTIO,Paraphr. in Arisi, phys., p. 104, 14 segg. Schenkl = SVF
II, 468
Ma in tal modo si va incontro a quella ch’è la cosa più assurda: un
corpo passerà attraverso un altro corpo per tutta la sua estensione
e due corpi occuperanno lo stesso luogo. Se infatti anche il luogo è
un corpo, ed è corpo tutto ciò che sta in esso, ed entrambi hanno
uguali dimensioni, il corpo sarà in un altro corpo uguale. Questo lo
si ricava dalla dottrina di Cri-sippo e degli altri seguaci di
Zenone348.
IPPOLITO, Refuiationes, 21, Dox. Gr., p. 571 = SVF II, 469
(Crisippo e Zenone) supposero che tutte le cose siano corpi e che un
corpo possa passare attraverso un altro, ma anche che vi sia
distruzione di essi; e che tutto sia pieno, e che non vi sia alcun
vuoto.
ALESSANDRO DI AFRODISIA, De mixtione, p. 216, 1 sgg. Bruns = SVF II,
470
Tra coloro che dicono essere la materia assolutamente una,
soprattutto gli Stoici sembrano fare particolari distinzioni circa
la mescolanza. Ed essendovi fra di loro varietà di opinioni (alcuni
dicono che la mescolanza si verifica in un modo, altri in altro),
tuttavia l’opinione che fra di essi sembra trovar maggior lode è
quella sostenuta da Crisippo. Di quelli che vengono dopo, gli uni
concordano con Crisippo, gli altri, che hanno potuto in seguito
ascoltare l’opinione di Aristotele, dicono circa la mescolanza molte
cose già dette da quello; fra costoro è Sosigene, compagno di
Antipatro349.
STOBEO, Eclog., I, 17, 4, pp. 153-155 Wachsmuth (Dox. Gr. p. 463) =
SVF II, 471
Crisippo sosteneva costantemente questo: che l’essere è spirito che
muove se stesso in sé e da sé, o spirito che muove se stesso in
senso progrediente e regrediente. Lo si concepisce come spirito per
il fatto che è aria che muove se stessa; una cosa analoga avviene
per l’etere, sì che per essi si può fare un discorso comune. A un
simile movimento credono solo quelli per i quali la realtà intera è
suscettibile di moto e di mescolanza, di unione, commistione,
fusione naturale e altri fenomeni analoghi. Gli Stoici ritengono
infatti che siano differenti fra di loro la giustapposizione, la
mistione, la commistione, la fusione. Giustapposizione (napàOecnc) è
contatto fra i corpi mediante le superfici, come vediamo avvenire in
un mucchio dove siano contenuti grani, orzo, fave, o altre cose
simili, oppure in mucchi di pietruzze o di sabbia. Commistione
(fjufo) è compenetrazione di due o più corpi, rimanendo intatte le
qualità adessi congeneri, per esempio il fuoco e il ferro che si
arroventa: per realtà siffatte si verifica una totale
compenetrazione. Così pure avviene per le nostre anime: esse sono
protese attraverso tutta Pestensione dei nostri corpi; gli Stoici
credono infatti che in generale un corpo possa estendersi attraverso
un altro. Chiamano poi mescolanza (xpocois) quella che avviene fra
due o più corpi umidi, rimanendo le qualità loro proprie (la
mistione può avvenire anche fra realtà secche, come il fuoco e il
ferro, oppure fra l’anima e il corpo che la contiene; la mescolanza
invece solo fra realtà umide350). Dalla mescolanza, infatti, sono
messe in risalto le qualità di ciascuno dei corpi che si mischiano,
come vino, acqua, miele, aceto e simili; e che in simili mescolanze
rimangano sussistenti le qualità dei corpi mischiati, è provato dal
fatto che spesso è poi possibile artificialmente separar questi gli
uni dagli altri. Se qualcuno, per esempio, immerga in un vino misto
con acqua una spugna intrisa di olio, Pacqua si separerà dal vino,
perché essa correrà verso la spugna. Fusione (auyxual?) di due o più
qualità è invece il cambiamento di queste nei corpi che dà luogo
alla nascita di un’altra qualità differente da esse, come si ottiene
per esempio mischiando fra di loro unguenti e farmaci medicinali.
ALESSANDRO DèAFRODISIA, De mixtione, p. 216, 14 segg. Bruns = SVF
II, 473
L’opinione di Crisippo sulla mescolanza è la seguente: egli suppone
che tutta la realtà sia tenuta unita da un soffio che la percorre
tutta, in virtù del quale il tutto sta insieme, resta unito ed è
concorde nelle sue parti. E quanto ai corpi che in essa si
mischiano, opina al modo seguente. Le mescolanze per
giustapposizione si verificano quando due o più sostanze sono poste
nello stesso luogo e collocate le une accanto alle altre come per
contatto estrinseco351 conservando ciascuna in un simile
accostamento, per tutto il suo perimetro, ogni sua essenza e
proprietà; così avviene, tanto per esemplificare, dei chicchi di
grano o di orzo posti gli uni accanto agli altri. Le mescolaze per
fusione si verificano quando per tutte le sostanze si distruggono
reciprocamente le qualità, come si dice che avvenga dei farmachi
medici, e per la distruzione delle qualità che si mischiano viene a
crearsi un altro e diverso corpo. Dice che avvengono poi certi tipi
di mescolanze quando tutta quanta la sostanza di certi corpi per
tutta la sua estensione e le qualità di questa si compenetrano
reciprocamente, e avviene che in una mescolanza del genere rimangano
sussistenti sia la sostanza qual era in precedenza sia le qualità:
questo è quel tipo che chiama in senso proprio una mescolanza
(xpáaiq). Di tutti i tipi di commistione, solo questa mescolanza,
egli dice, è quella che permette che due corpi si compenetrino a
vicenda per tutta la loro estensione in modo da conservare ciascuno,
nel loro mischiarsi, la sostanza che gli è propria e le qualità che
sono in essa: infatti in questo caso è proprio dei corpi commisti il
potersi nuovamente separare l’uno dall’altro, il che avviene solo
nel caso che nella mescolanza i misti conservino ciascuno la propria
natura… Che nelle mescolanze ci siano tali differenze, egli cerca di
provarlo per mezzo delle nozioni comuni (queste infatti, afferma,
sono il massimo criterio della verità che noi possediamo352). Noi
abbiamo infatti una certa rappresentazione in base alle cose che
stanno insieme in virtù di un legame estrinseco, un’altra diversa
delle cose reciprocamente fuse, che hanno perduto le proprietà
iniziali, un’altra ancora delle cose mischiate che si sono sì
compenetrate del tutto fra di loro, ma in maniera tale da conservare
ciascuna la natura propria; e non avremmo tale differenza nelle
nostre rappresentazioni se tutte le cose commiste fossero
semplicemente giustapposte per contatto estrinseco353. E suppone che
una simile compenetrazione dei composti possa avvenire quando i
corpi penetrano l’uno dell’altro, sì che in essi non vi è nessuna
parte che non partecipi di tutte le proprietà di un simile misto; se
non fosse così non avremmo una mescolanza, ma soltanto una
giustapposizione… Quelli che sono stati gli iniziatori di una simile
dottrina, offrono della loro convinzione prove basate sul fatto che
molti corpi conservano le loro proprietà pur essendo manifestamente
formati di particelle più o meno piccole e più o meno grandi: si può
vedere ciò, per esempio, dall’incenso, il quale nelPesalare, pur
assottigliandosi, conserva al massimo le sue proprietà; e vi sono
anche cose che, pur non essendo di per sé capaci di raggiungere
certe dimensioni, pure vi arrivano con l’aiuto di altre; l’oro, per
esempio, in virtù della sua commistione con determinati farmaci, si
fonde al massimo e si assottiglia fino a un punto al quale non
riuscirebbe ad arrivare di per sé. Anche noi, quelle cose che non
riusciremmo ad effettuare da noi stessi, le effettuiamo con l’aiuto
di altri: agganciandoci gli uni gli altri riusciamo a traversare i
fiumi e con l’aiuto di altri portiamo pesi che, se fossimo soli, non
ci riuscirebbe di portare dato il loro peso incombente. Anche le
viti, che di per sé non riescono a star ritte, riescono a starci
quando sono intrecciate le une con le altre. Stando così le cose,
essi dicono, non c’è nulla di strano nel fatto che alcuni corpi così
aiutantisi reciprocamente si uniscano poi del tutto, sì che, pur
conservandosi con tutte le proprietà loro connaturate, si
compenetrino reciprocamente per tutta la loro estensione, anche se
ve ne sono alcune che sono minori di volume e tali che non possono
arrivare a fondersi fino a tal punto conservando insieme tutte le
qualità proprie: così per esempio anche una coppa di vino si mischia
con una grande quantità di acqua e da questa è aiutata a estendersi
per un volume così vasto… Che le cose stiano così, lo confermano
prove evidenti, per esempio il fatto che l’anima, pur avendo una
sussistenza propria, così come dal canto suo il corpo che la
accoglie, scorre per tutto il corpo conservando però, nella mistione
con esso, la natura sua propria: infatti nessuna parte di un corpo
che contenga un’anima è inanimata. Similmente avviene per la natura
delle piante; e, per quelle cose che sono tenute insieme da una
disposizione, si può dire lo stesso di tale disposizione354. Anche
il fuoco, dicono, scorre per tutta l’estensione del ferro, pur
conservando entrambi la propria natura. Quanto ai quattro elementi,
essi dicono che due di questi, il fuoco e l’aria, leggeri e sottili
e facili alla tensione, scorrono attraverso gli altri due, l’acqua e
la terra, che sono invece spessi nelle loro parti, e pesanti, e
privi di tensione, e li penetrano per tutta la loro estensione,
conservando però gli uni e gli altri la propria natura e la propria
consistenza. E i farmaci nocivi e rovinosi e gli odori di questo
stesso tipo, dicono che si mescolano alle cose ne sono affette
anch’essi diffondendosi per tutta la loro estensione. Crisippo dice
che la luce si mischia così con l’aria; e in generale questa
dottrina della mescolanza è di Crisippo e di quelli che si attengono
alle sue teorie.
ALESSANDRO DèAFRODISIA, De mixtione, p. 213, 2 segg. Bruns = S VF
II, 481
Come si potrebbe accettare l’affermazione che, in una mescolanza
siffatta, ciascuno dei corpi misti possa conservare la sua
superficie originaria? e in maniera tale che nessuna delle parti che
li compongono di fatto sia separata di per sé da qualunque altra, ma
tuttavia ciascuna conservi la superficie che aveva prima di entrare
nella mescolanza? Questo che Crisippo sostiene supera anche le
stranezze dei miti; e così pure il fatto che le cose mischiatesi
possano poi nuovamente separarsi355.
AEZIO, Plac., I, 16, 4, Dox. Gr. p. 315 = SVF II, 482
Crisippo sosteneva che tutti i corpi possono esser divisi
all’infinito, e così pure quelle cose che assomigliano ai corpi,
come la superficie, la linea, il luogo, il vuoto, il tempo; e se
questi si possono dividere all’infinito, ne risulta che un corpo non
può esser composto da corpi infiniti, e così neanche una linea, una
superficie, né il luogo, (né il vuoto né il tempo)356.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 150 = SVF II, 482
La materia subisce affezioni, come quegli dice. Se fosse immutabile,
non nascerebbero da essa le cose in divenire. Di qui c(onseg)ue il
fatto che esiste la divisione all’infinito: ma Cri-sippo dice che
essa è infinita (e non che va all’infinito:) non c’è infatti un
infinito fino al quale possa procedere la divisione; piuttosto essa
è tale da non potersi afferrare con la mente357.
PLUTARCO, De comm. not., 38, 1079b = SVF II, 483
Dice Crisippo: «se ci chiediamo se non abbiamo parti, e quante, e
queste a loro volta di quali e quante parti siano composte, dapprima
facciamo una certa suddivisione, ponendo una certa zona di
compattezza, formati come siano da testa, torace, gambe; questo
sarebbe quanto ci si chiede e si indaga. Ma se poi spingiamo fino in
fondo la ricerca, fino cioè a quelle che sono le parti ultime, non
ci si può contentare di addurre simili argomenti: si deve dire che
noi non constiamo di determinate parti e analogamente che non
constiamo né di una quantità definita di esse né di una
indefinita»358.
PLUTARCO, De comm. not., 39, 1079d = SVF II, 489
Oltre a ciò, accumulando sciocchezze, ancora sostiene che «se una
piramide si compone di triangoli, vuol dire che le facce di essa che
si inclinano lungo il lato di congiunzione sono diseguali, tuttavia
non sporgono là dove sono più grandi». Così egli si attiene alle
nozioni comuni! Se c’è qualcosa di più grande che tuttavia non
oltrepassa ciò di cui è più grande, ci sarà an che qualcosa di più
piccolo che non è oltrepassato; e poiché Fuguale non è né in eccesso
né in difetto, ciò vorrà dire che l’uguale si identificherà col
disuguale, il maggiore non sarà più maggiore, il minore non più
minore359. Guarda in quale modo egli ha cercato di ribattere alla
questione che Democrito aveva posta da un punto di vista rispondente
a natura e a ragione360: «se un cono venisse tagliato da un piano
parallelo alla sua base, come bisognerebbe pensare che siano le
superfici nascenti da questo taglio, uguali o disuguali?» se
disuguali, essi renderebbero il cono irregolare, facendogli assumere
una forma con incisioni a mo’ di gradino e numerose asperità; se
uguali, uguali sarebbero i tagli e così il cono verrebbe ad assumere
le proprietà del cilindro, che è composto di superfici rotonde non
diseguali ma uguali fra loro; il che è manifestamente assurdo. A
questo punto Crisip-po afferma che Democrito non ha saputo
comprendere, e che in realtà le superfici non sono né uguali né
disuguali, ma che proprio per questo loro non essere uguali né
disuguali sono disuguali fra loro i corpi (= le sezioni del
cono)361.
STOBEO, Eclog., I, 19, 3, p. 165 Wachsm. (= ARIO DIDIMO, Dox. Gr.,
p. 459) = SVF II, 492
Crisippo dice che il movimento è un cambiamento rispetto al luogo,
interamente o in parte: oppure una trasposizione da luogo a luogo,
interamente o in parte. O in altra forma: il movimento è un
cambiamento di luogo o di figura; il moto dei corpi celesti è un
movimento rapido; Pimmobilità si può definire sia assenza di
movimento, sia disposizione di un corpo a restare uguale a se stesso
e nello stesso stato, prima e dopo rispetto a un determinato punto.
In più modi si possono intendere sia il movimento sia Pimmobilità,
di cui egli, nell’intento di chiarirne il significato, dà varie
definizioni. I movimenti originari sono due, quello diritto e quello
ricurvo; per la mistione di questi si verificano movimenti diversi e
di vario tipo.
GALENO, De nat. fac., I, 2, Scr. Min., III, p. 103 Helmreich = SVF
II, 495
Se non sanno tutte le cose che Aristotele e Crisippo dopo di lui
hanno scritto sul mutamento che avviene per tutta la sostanza,
bisogna invocare questi per rispondere ai loro scritti362.
STOBEO, Eclog., I, 18, 4d, p. 161 Wachsmuth (ARIO DIDIMO, Dox. Gr.,
p. 460) = SVF II, 503
Crisippo affermò che il luogo è lo spazio occupato da una certa
realtà per tutta la sua estensione, o che è ciò che è suscettibile
di essere occupato completamente da una o più entità. Se di quello
spazio suscettibile di essere occupato da una qualsiasi realtà una
parte è occupata e un’altra no, il tutto nel suo insieme non può
chiamarsi né vuoto né luogo, ma è un qualcos’altro non definito da
nome: il vuoto infatti è simile ai vasi vuoti, il luogo a quelli
pieni; quanto poi a quello spazio che chiamiamo xPa363) può dirsi
quello che sovrabbonda rispetto nota b: Crisippo intendeva
probabilmente dire che i concetti di uguale e disuguale non si
applicano ai piani taglianti, ma solo alle parti o segmenti del cono
risultanti dal taglio. Anche qui Plutarco ha forzato i toni giocando
sull’ambiguità della soluzione crisippea. al contenuto e quasi un
vaso che sia più grande rispetto al corpo che si trova in esso,
oppure un corpo più grande che ha funzione di recipiente. Il vuoto
si dice essere infinito; tale è quello che sta fuori del cosmo,
mentre il luogo è delimitato, per il fatto che nessun corpo è
infinito nelle sue dimensioni. E così come ciò che ha corpo è sempre
delimitato, ciò che è incorporeo è indefinito: senza limiti sono il
tempo e il vuoto. Come il nulla non può costituire alcun limite,
così non c’è un limite a quel nulla che è vuoto. Esso è privo di
limiti in virtù della sua stessa essenza; riceve una delimitazione
solo se viene riempito, ma, se sia rimosso ciò che lo riempie, non è
pensabile un limite che gli sia proprio.
TEMISTIO, Paraphr. in Arisi. Phys., p. 113, 8 segg. Schenkl = SVF
II, 506
Ne deriva che non è possibile dimostrare che l’intervallo
(Stàcrurpa) è uguale al luogo. Intervallo è ciò che si concepisce
come intermedio fra i confini del recipiente, per esempio la parte
centrale nella superficie cava di un’urna. Questa è una antica
opinione, che ben si addice a coloro che hanno ammesso il vuoto: la
sostenne Crisippo con il coro dei suoi seguaci, e più tardi364
Epicuro.
STOBEO, Eclog., I, 18, 420, p. 106 Wachsmuth (ARIO DIDIMO, Dox. Gr.,
p. 461) = SVF II, 509
Crisippo dice che il tempo è un intervallo del movimento, per cui
talvolta lo si dice misura della velocità e della lentezza; oppure
che è intervallo conseguente al movimento del cosmo, giacché secondo
il tempo le singole realtà si muovono ed esistono; a meno che non si
voglia poi addurre del tempo una doppia definizione, come si usa
della terra e del mare e del vuoto, considerati nella loro totalità
o nelle loro parti. Come infatti il vuoto è infinito in tutte le
direzioni, anche il tempo è infinito nei due sensi: infiniti sono
infatti il passato e il futuro. E questo dice con la più grande
evidenza come non esista il tempo in assoluto. Dal momento che
esiste la divisione all’infinito per le realtà continue, secondo
tale divisione anche il tempo ammette una divisibilità che va
all’infinito: sì che non esiste alcun tempo che possa dirsi tale in
senso perfetto, ma si parla di tempo in senso corrente. Quello che
esiste realmente, egli dice, è solo il tempo attuale: il passato e
il futuro sono, ma non esistono365. Si può dire del resto ugualmente
anche dei predicati: esistono veramente quelli che indicano cose che
avvengono attualmente: il passeggiare esiste realmente quando io
passeggio, quando mi pongo a giacere o sto seduto non esiste.
SIMPLICIO, In Arisi. Categ., p. 350, 15 segg. Kalbfleisch = SVF II,
510
Tra gli Stoici, Zenone disse che il tempo è semplicemente intervallo
del movimento; ma Crisippo precisava che lo è del movimento
cosmico366. Egli non unisce queste due definizioni in una sola, ma
dà una sola definizione, e avente un carattere suo proprio e
specifico per la negazione delle altre.
COSMOLOGIA
STOBEO, Eclog., I, 21, 5, p. 184 Wachsmuth (ARIO DIDIMO, Dox. Gr.,
p. 465) = SVF II, 527.
Crisippo afferma che il cosmo è un complesso formato da cielo,
terra, e dalla natura propria di questi; oppure dice anche che è un
tutto organico composto degli dèi, degli uomini e delle cose che
sussistono per opera degli uni e degli altri. Sotto un altro
aspetto, cosmo è anche la divinità per cui avviene e si compie
l’ordinamento del tutto. Del cosmo così definito secondo il suo
ordinamento, una parte si muove circolarmente intorno al centro,
un’altra parte resta immobile: si muove circolarmente l’etere, resta
invece immobile la terra, con le zone umide che sono su di essa e
l’aria. La parte più spessa della materia universale è infatti per
natura ciò che fa da sostegno a tutto il resto, così come lo sono
nell’animale le ossa; ed essa è chiamata terra. Intorno a questa
scorre l’acqua in forma sferica, poiché si trova a possedere una
forza omogenea. Poiché la terra ha alcune sporgenze anomale che si
elevano attraverso l’acqua, queste prendono il nome di isole; quelle
fra di esse che hanno maggior estensione sono chiamate terra ferma,
per l’ignoranza che si ha del fatto che anche queste sono circondate
di ampie distese di mare. L’aria evapora dall’acqua per esalazione,
e scorre rutt’intorno in forma sferica; al di sopra di questa sta
l’etere, che è più leggero e sottile. Quello che si definisce cosmo
in base al suo ordinamento, si suddivide in queste diverse nature.
L’elemento che si volge circolarmente intorno ad esso si chiama
etere, e in questo sono collocati gli astri, erranti e non erranti,
divini per natura, animati, governati da provvidenza. Inconcepibile
alla mente è la moltitudine degli astri non erranti; invece gli
erranti sono sette di numero; tutti gli astri erranti sono molto più
piccoli dei non erranti. Questi ultimi sono disposti su una
superficie, cosa che è anche manifesta alla vista; invece gli
erranti vanno dall’una all’altra sfera367; tutte le sfere degli
erranti sono poi contenuti dentro la sfera dei non erranti. La più
alta delle sfere degli astri erranti, subito dopo quella degli
altri, è la sfera di Crono; poi viene quella di Zeus; poi quella di
Ares; di seguito quella di Ermete, quella di Afrodite, quella del
Sole, poi infine quella della luna che confina con l’aria; per
questa ragione tale astro ha un aspetto più simile a quello
dell’aria, e la forza che emana da esso si estende alle regioni che
circondano la terra. Sotto la luna c’è la sfera dell’aria che si
muove di per sé, poi quella dell’acqua, da ultimo quella della
terra, posta nel punto medio del cosmo: questo è al fondo
dell’universo, ma da esso il tutto si diparte verso l’alto in
circolo in ogni direzione368.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 143 = SVF II, 531
Che il mondo sia uno lo dice … anche Crisippo.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 44, io54b = SVF II, 539
Che aU’infuori del cosmo c’è un vuoto infinito, e che l’infinito non
ha né principio, né fine, né mezzo, è detto da lui in più luoghi. In
base a questo motivo soprattutto essi negano che vi sia quel moto
all’ingiù supposto da Epicuro per gli atomi: non c’è infatti
nell’infinito alcuna differenza, per cui possa concepirsi un moto
verso l’alto e uno verso il basso.
TEMISTIO, Paraphr. in Arisi. Phys., p. 429, 130, 13 segg. Schenkl =
SVF II, 553
Bisogna chiedere questo a Crisippo e ai suoi, perché mai il cosmo
non è ugualmente trascinato verso qualsiasi parte del vuoto, per
quale ragione essi vogliono trattenerlo al suo posto? Riguardo al
non venir smembrato in più parti, potrebbe bastare la sua tendenza
interna a tenerlo insieme; ma quanto al rimanere tutto intero al suo
posto in base a questa stessa tendenza interna, come può essa far sì
che ciò avvenga?
ACHILLE, Isagoge, 4, p. 32 Maass = SVF II, 555
Sarebbe bene dar retta a Crisippo quando questi dice che la
struttura del tutto consta di quattro elementi, e che causa del suo
permanere immobile è l’equilibrio369. Poiché vi sono due corpi
pesanti, la terra e l’acqua, e due leggeri, l’aria e il fuoco, ne
risulta che causa dell’ordinamento del tutto sia la loro mistione.
Se il cielo fosse tutto pesante, si muoverebbe verso il basso, e se
tutto leggero verso l’alto; invece rimane fermo per il fatto che
l’elemento pesante e l’elemento leggero si equilibrano. L’etere e il
cielo — siano essi la stessa cosa o differenti — sono al di fuori, e
hanno forma sferica. Dopo di essi, all’interno, vi è l’aria,
anch’essa disposta sfericamente intorno alla terra. Più ancora
all’interno c’è una terza sfera, quella dell’acqua, intorno alla
terra, intermedia fra questa e l’aria; nel luogo che sta in mezzo a
tutto è la terra, che ha il posto e la grandezza del centro, come in
una sfera. Le altre tre o quattro sfere girano intorno; la terra
sola sta immobile.
…Quattro dunque essendo gli elementi, avviene che il fuoco e l’aria,
cioè i più leggeri, hanno l’impulso a muoversi verso l’alto e
ruotano intorno… Che poi terra e acqua siano pesanti, e con tendenza
a muoversi verso il basso, è cosa che non ha bisogno di prova,
perché l’esperienza stessa lo insegna.
…Per dire che la terra è immobile essi si valgono di questo
paragone: se qualcuno, dicono, gettasse in un sacchetto un grano di
miglio o una lenticchia, e poi soffiasse riempiendo il sacchetto
d’aria, accadrebbe che il grano, salendo verso l’alto, verrebbe a
trovarsi nel centro dell’otre; allo stesso modo la terra, spinta da
ogni parte dall’aria, sta in equilibrio al centro del tutto e ivi
resta. Oppure se qualcuno, prendendo un qualsiasi corpo, lo legasse
da tutte le parti con corde e lo desse da tirare ad alcuni
diligentemente, avverrebbe che, tirato ugualmente da ogni parte,
starebbe fermo e immobile.
STOBEO, Eclog., I, 20, ie, p. 171 Wachsmuth (ARIO DIDIMO, Dox. Gn,
p. 68) = SVF II, 596
Zenone, e Cleante e Crisippo ritengono che la realtà del tutto si
muti in fuoco come se questo fosse seme, sì che da esso nuovamente
debba poi rinascere l’ordinamento del tutto, nella stessa forma che
aveva precedentemente.
EUSEBIO, Praep. evang., XV, 18, 1-3 (ARIO DIDIMO, Dox. Gr. p. 468) =
SVF II, 596
Così gli stoici pensano circa la conflagrazione universale. I più
antichi filosofi di questa setta ritengono che tutto diventi
etere370 in determinati lunghissimi periodi, e che tutto si dissolva
in fuoco etereo… Da ciò è evidente che Crisippo non ha usato questo
termine nel senso di distruzione, ma in quello di cambiamento nel
contrario. Quando essi parlano di una distruzione che avvenga in
lunghissimi periodi per mezzo del fuoco, essi non prendono il
termine distruzione in senso assoluto, parlando della dissoluzione
del tutto, che chiamano conflagrazione; ma usano il termine
distruzione volendo intendere un cambiamento di natura. Ifilosofi
della Stoa ritengono che l’intera realtà del tutto si cambi in fuoco
come nel seme, sì che da questo nasca poi nuovamente l’ordinamento
così come era in precedenza. Questa teoria la sostennero per primi i
più antichi di quella setta, Zenone, Cleante, Crisippo.
FILONE ALESSANDRINO, De aternitate mundi, VI, pp. 100-101
Cohn-Reiter = SVF II, 611
Di necessità il corso deve mutarsi in fiamma o in luce; in fiamma
credeva Cleante; in luce, Crisippo371.
PLUTARCO, De comm. not., 35, ioyyb = SVF II, 618
Ma dicono che il fuoco è di volta in volta come il seme
dell’universo372, e che dopo la conflagrazione questo si muta come
in seme, con una diffusione assai ampia e riduzione della massa
corporea, e tale che occupa tutta una parte del vuoto con uno spazio
più esteso, distribuendosi per tutta la sua grandezza; al suo
rinascere, questa estensione di materia si ritira in se stessa e si
rapprende, sommergendosi e contraendosi nel processo del rinascere.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 19, 24, VI, p. 101.
Cohn-Reiter = SVF II, 618
Guarda ora, come dice Crisippo, come avvenga la rinascita del nuovo
ordinamento del mondo, per il fatto che quel fuoco che dovrà
nuovamente riformare il mondo ha proprietà di seme; le teorie
filosofiche che ha esposte a riguardo di esso non sono false, che
cioè la nascita avviene da seme e in seme avverrà la risoluzione,
che inoltre il cosmo ha la natura di un animale ragionevole, non
solo animato, ma dotato di pensiero e inoltre saggio; ma da queste
cose egli fa derivare poi il contrario di quello che intende, che
cioè il mondo non avrà mai fine.
CICERONE, De nat. deor., II, 14, 38 = SVF II, 641
Bene dice quindi lo stesso Crisippo, il quale, unendo insieme fra
loro le cose simili, insegna che è superiore tutto ciò che si trova
nelle realtà che sono perfettamente compiute, per esempio in un
cavallo piuttosto che in un puledro, in un cane piuttosto che in un
cucciolo, in un uomo piuttosto che in un fanciullo; e perciò, quello
che per tutto il mondo è perfettamente compiuto, deve valere come
assolutamente perfetto. Nulla è più perfetto dell’universo, e nulla
è superiore alla virtù: vi deve essere quindi una virtù propria del
mondo nel suo insieme. Né la natura dell’uomo è perfetta, tuttavia
in essa si compie la virtù: quanto più facilmente quindi ciò non
avverrà per l’universo! In esso è quindi la virtù, e dunque in esso
il sapiente, per questa ragione, è un essere divino.
EUSEBIO, Praep. evang., XV, 15, 8 (ARIO DIDIMO, Dox. Gr. p. 465) =
SVF II, 642
Ad alcuni di questa setta sembrò che la terra sia la parte direttiva
dell’universo373. Ma Crisippo diceva che l’etere, in quanto è la
parte più pura e raffinata di esso, è anche la più mobile, e quella
che dirige tutto il moto circolare del cosmo.
STOBEO, Ed, I, 25, 6 (ARIO DIDIMO, Dox. Gr., p. 467) = SVF II, 652
Crisippo dice che il sole è un’esalazione accesa dalle acque marine,
dotata di pensiero, e quanto alla figura di forma sferica374.
AEZIO, Plac, II, 29, 8, Dox. Gr., p. 359 = SVF II, 677
Crisippo dice che la luna è un’accensione raccolta che proviene dal
sole, di natura intelligente, che si forma dall’esalazione
proveniente dalle acque potabili, perché da queste stesse trae il
suo nutrimento; ed ha forma sferica. Si chiama «mese» il circuito
del suo corso. Il mese è ciò che della luna appare a noi, o la luna
stessa in quanto ci appare per una sua parte.
STOBEO, Eclog., I, 26, 3, p. 221 Wachsmuth = SVF II, 678
Crisippo diceva che l’eclissi di luna si verifica quando questa si
trova in posizione opposta alla terra e viene a cadere nella sua
ombra.
STOBEO, Eclog., I, 8, 42a, p. 106 Wachsm. (ARIO DIDIMO, Dox. Gr., p.
461) = SVF II, 693
Di Crisippo… La primavera è una stagione dell’anno commista di
inverno che viene meno e di estate che comincia; oppure è la
stagione che viene dopo l’inverno e prima dell’estate. L’estate è
quella stagione dell’anno in cui maggiormente si fa sentire
l’effetto della vampa del sole. L’autunno è la stagione dell’anno
che viene dopo l’estate ed è commista dell’inverno che la segue.
L’inverno è la stagione dell’anno in cui sente più l’effetto del
freddo, o più precisamente del freddo che viene dall’aria. In ogni
anno ci sono solo due giorni di uguali proporzioni (equinozi) e due
rivolgimenti (solstizi): i primi son quelli in cui il giorno e la
notte sono uguali, e di questi uno si verifica in primavera, l’altro
in autunno; i secondi si verificano l’uno in estate, l’altro in
inverno.
STOBEO, Belog., I, 31, 17, p. 245 Wachsmuth (ARIO DIDIMO, Box. Gr.,
p. 468) = SVF II, 701
Diceva Crisippo che la nebbia è una nuvola diffusa, oppure aria che
ha un certo spessore; la rugiada è umidità che vien giù dalla
nebbia; la pioggia è una incursione di acqua dalle nubi; la grandine
è frantumazione di acqua condensata; il rovescio è caduta violenta
di acqua in grande massa; l’acqua che si condensa sopra la terra è
il ghiaccio, rugiada condensata la brina.
AEZIO, Plac., III, 3, 13 Box. Gr., p. 369b = SVF II, 703
Crisippo diceva che il lampo è una accensione delle nubi sfregate le
une contro le altre oppure rotte dal vento, il tuono è il rumore che
esse fanno; tuono e lampo si verificano insieme, ma noi ci
accorgiamo prima del lampo perché la vista è più acuta che non
l’udito. Quando poi sopraggiunge un moto di vento molto violento e
infuocato, si verifica anche il fulmine; quando il vento spira più
raccolto e meno violento un pre-stère; quando sia meno infuocato, un
tifone375.
GALENO, Be foetuum formatione, 3, IV, p. 665 Kühn = SVF II, 712
E bisogna porsi qualche domanda circa la generazione delle piante;
in questo campo una cosa va saputa necessariamente, di quali e
quante cose necessita il germoglio, dal momento che è governato da
una sola anima, come avviene nelle piante. Quando non ci poniamo
precisamente questo come problema, noi siamo usi chiamare una tale
anima col nome di natura, nome che diamo alla comune sostanza del
tutto, come sostennero in minuziose ricerche Crisippo e i suoi.
GALENO, De foet. format., 4, IV, p. 674 Kuhn = SVF II, 761
Che cosa sostennero Crisippo e gli altri filosofi stoici, e anche
peripatetici se non che il cuore di tutte le parti dell’essere
vivente è quella che nasce per prima, e da essa poi nascono tutte le
altre, e che ad essa, come al primo organo che sia stato foggiato,
spetta di essere il principio delle vene e dei nervi?376
GALENO, De foet. format., 4, IV, p. 698 Kuhn = SVF II, 761377
Avanzano in primo luogo l’ipotesi che il cuore si sia formato per
primo; ne consegue la seconda ipotesi, che sia stato il cuore a
formare a sua volta le altre parti (come se chi lo ha formato fosse
morto e non esistesse più!); poi di seguito adducono come
conseguenza che in esso risiede la parte della nostra anima che è
capace di deliberare, e poi, se vi risiede questa, anche, essi
dicono, l’altra che concepisce i desideri dei cibi, delle bevande,
dei piaceri amorosi, delle ricchezze, e infine tutte le facoltà
degli impulsi e dell’ira.
PLUTARCO, De comm. not., 44, 1083a-c = SVF II, 762
Il ragionamento che verte sulla crescita è antico: risale, come dice
Crisippo, a Epicarmo378. E poiché gli Accademici ritengono che non
sia facile né alla portata risolvere la difficoltà che esso contiene
… (essi) li accusano e li investono con rimbrotti dicendo che la
loro filosofia va contro le anticipazioni e le nozioni comuni..379
(Ma poi a loro volta non solo non salvano le nozioni comuni), ma
sconvolgono pure la sensazione … Che cosa osano dire questi avvocati
dell’evidenza e norme viventi delle nozioni comuni? Che ciascuno di
noi è gemello, di doppia natura, duplice — non come i poeti
descrivono i Molionidi380, uniti in alcune parti e separati in altre
— ma tale da avere due corpi dello stesso colore, della stessa
forma, dello stesso peso e della stessa collocazione, cose mai viste
prima da nessun altro uomo (solo loro per primi si sono accorti di
questa composizione, duplicità, ambiguità): e ciò dal momento che
ciascuno di noi è due soggetti, uno la sostanza, l’altro la
qualità381; e di questi l’uno perennemente scorre e si muove ma non
subisce né accrescimento né diminuzione e in assoluto permane nella
sua essenza, l’altro permane e si accresce e diminuisce e subisce
tutte le affezioni reciprocamente contrarie, ed è connaturato e
armonizzato e commisto in se stesso, e mai offre appiglio alla
percezione della differenza.
NEMESIO, De nat. hom. 2, 32-33, P. G. XL, col. 545 segg. = SVF II,
790
Poiché anche di Cleante stoico e di Crisippo si riportano discorsi
non disprezzabili, bisogna esporre anche le loro spiegazioni…
Crisippo dice: «la morte è separazione dell’anima dal corpo;
tuttavia nessun incorporeo si separa da un corpo; infatti
l’incorporeo non può aver contatto con un corpo. Ma l’anima ha
contatto col corpo e se ne separa: l’anima è quindi un corpo».
TERTULLIANO, De anima, 5, p. 6 Waszink = SVF II, 791
Ma anche Crisippo gli porge (a Cleante) la mano, giacché stabilisce
che le realtà corporee non possano essere abbandonate del tutto
dalle incorporee, con le quali in realtà non potrebbero neanche
avere contatto (e di qui deriva il detto di Lucrezio: nessuna realtà
che non sia corpo può toccare alcunché o esserne toccata382);
avviene però che il corpo, abbandonato dall’anima, muoia; e quindi
bisogna dedurne che l’anima è una realtà corporea, perché non
abbandonerebbe il corpo se non fosse un corpo a sua volta.
PLUTARCO, De Stoic. rep. 41, io52f-io53d = SVF II, 806
Egli ritiene che il feto, nel ventre materno, sia nutrito dalla
natura come una pianta; nell’atto poi della generazione, raffreddato
dall’aria e temprato, il soffio vitale si cambia e assume carattere
animale: per cui non a torto l’anima ((|)uxr|) prende il suo nome
dal raffreddamento (c|)u![is). Tuttavia lo stesso (Cri-sippo), poi,
afferma che «l’anima è il soffio vitale allo stato più leggero e
tenue che vi sia in natura», e con ciò viene a contraddirsi… Il suo
discorso sulla nascita dell’anima ha una conclusione che contrasta
con l’insieme della dottrina. Dice che l’anima, all’atto della
generazione del feto, nasce in quanto il soffio vitale cambia natura
per il raffreddamento che subisce all’uscita dal corpo materno; e
come prova del fatto che l’anima è generata e nasce per ultima
adduce la somiglianza fra figli e genitori quanto a tipo e
carattere… Ma se qualcuno dicesse che questa somiglianza è dovuta
alle mescolanze fisiche, e che le anime si mutano in seguito,
distruggerebbe la prova della nascita dell’anima: è possibile
ritenere che l’anima, di per sé immortale, una volta che entri nel
corpo, subisca un mutamento per la mescolanza che produce tale
somiglianza.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 157 = SVF II, 811
Cleante dice che tutte le anime rimangono in vita fino alla
conflagrazione; Crisippo solo quelle dei sapienti.
Scholia in Iliad., XXIV, v. 65, II, p. 408 Maass = SVF II, 815
Descrive acutamente l’apparenza del sogno: infatti Achille ha ancor
fresca in mente l’immagine dell’amico. Perciò Antistene383 dice che
le anime hanno la stessa forma dei corpi che le contengono; Crisippo
ritiene che, dopo la loro separazione dai corpi, assumano forma
sferica.
GIAMBLICO, presso STOBEO, Eclog., I, 49, 33, pp. 367-368
Wachsmuth=SVF II, 826
Ma i filosofi seguaci di Crisippo e Zenone, e tutti quelli che
ritengono l’anima una realtà corporea, considerano le facoltà di
questa come qualità sussistenti in un soggetto e l’anima stessa come
una sostanza presupposta da tali facoltà; e da ambedue queste realtà
deducono una natura composta di elementi dissimili… Per coloro per i
quali vi è una sola vita dell’anima in quanto composta, cioè in
quanto l’anima è commista al corpo, come dicono gli Stoici … uno
solo è il modo di attuarsi di tali facoltà, il loro partecipare e
mescolarsi per tutto quanto l’essere vivente. E come si distinguono?
Secondo gli Stoici alcune per la differenza dei corpi loro soggetti:
essi dicono infatti che, partendo dalla parte direttiva, lo spirito
vitale si protende in forme diverse verso i diversi organi, in un
certo modo verso gli occhi, in un altro verso le orecchie, in un
altro ancora verso gli altri organi sensori. Alcune poi per il
carattere specifico della qualità in riferimento al soggetto: come
infatti una mela ha in sé nel suo corpo insieme dolcezza e profumo,
così anche la parte direttiva comprende in sé stessa
rappresentazione, assenso, impulso, ragione.
SENECA, Epist. ad Lue, 113, 23 = SVF II, 836
Non sono d’accordo Cleante e il suo discepolo Crisippo che cosa sia
la deambulazione. Cleante dice che si tratta di spirito vitale che
dall’egemonico scende fino ai piedi, ma Crisippo che è lo stesso
egemonico384.
STOBEO, Eclog., III, 55, III, p. 211 Hense = SVF II, 840.
Crisippo stoico disse che il pensiero è la fonte del ragionamento.
AEZIO, Plac, IV, 15, 3; Dox. Gr., p. 406 = SVF II, 866
Crisippo dice che noi vediamo in virtù della tensione dell’aria
interposta, giacché questa viene percossa dallo spirito visivo che
scorre dalla parte direttiva fino alla pupilla: esso protende
l’immagine in forma conica secondo un determinato impulso impresso
all’aria circostante, quando questa sia omogenea. Dalla vista si
versano raggi ignei, e non neri né opachi; per questa ragione anche
il buio diventa visibile385.
CALCIDIO, In Platonis Timaeum, 220, p. 232 Waszink = SVF II, 879
Gli Stoici concordano fra di loro nel dire che il cuore è sede della
parte direttiva dell’anima; non il sangue, il quale nasce insieme
col corpo. Zenone giunge alla conclusione che l’anima è spirito
vitale: ciò che, al suo recedere, causa la morte dell’essere
vivente, certamente è l’anima; ora, l’essere vivente muore proprio
quando il soffio vitale si allontana dal suo corpo; quindi questo
suo spirito naturale è al tempo stesso la sua anima. Similmente
Crisippo: è certo in virtù di una sola e medesima realtà, egli dice,
che noi siamo animati da spirito vitale ed esistiamo. Ma noi siamo
animati da soffio vitale secondo natura; viviamo quindi in virtù di
questo stesso soffio. Viviamo quindi in virtù dell’anima: giacché
l’anima si identifica di fatto con 10 spirito naturale. Vediamo
anche, egli prosegue, che l’anima si articola in otto parti. E
formata infatti dalla parte direttiva, dai cinque sensi, dalla
facoltà della voce e da quella di emettere 11 seme e generare386.
Quindi le parti dell’anima, emanando dalla sede del cuore come da
una sorgente, si diffondono per tutto quanto il corpo, riempiono di
spirito vitale tutte le membra, e le reggono e governano con
innumerevoli e diverse capacità, col nutrire, col crescere,
coli’imprimere moto, con il regolare i movimenti locali, con lo
spingere per mezzo della sensazione all’azione; e tutta l’anima
spande i sensi, che sono come i suoi ministri, come rami, dalla sua
parte direttiva a mo’ di un tronco, perché poi le riferiscano le
cose che avvertono; ed essa stessa, come un sovrano, giudica di
quanto essi le riportano. Gli oggetti della sensazione sono
composti, in quanto corpi; e i singoli sensi avvertono ciascuno un
certo tipo di realtà: questo avverte i colori, quest’altro i suoni,
un altro ancora discerne i sapori, questo gli odori, quello ciò ch’è
aspro o levigato al tatto. Ma tutto ciò si effettua nell’immediato
presente, giacché nessuno dei sensi di per sé è capace di ricordarsi
del passato o di prevedere il futuro. Appartiene a un atto interiore
di deliberazione e riflessione comprendere l’affezione sensibile nei
suoi singoli aspetti, e da ciò che per essa viene riferito arguire
che cosa sia l’oggetto avvertito, comprendere alcunché come
presente, ricordare ciò che non è più presente alla sensazione,
prevedere ciò che lo sarà. Lo stesso Crisippo definisce la
deliberazione della mente in questa forma; il moto interiore è la
forza razionale nell’anima. Anche gli animali senza favella hanno
una loro capacità direttiva dell’anima, in base alla quale
distinguono i cibi, possiedono una certa capacità di
rappresentazioni, sanno evitare le insidie, scansare luoghi scoscesi
e precipizi, riconoscere la parentela, non dico quella secondo
ragione, ma certo quella secondo natura. Fra gli esseri mortali, non
c’è che l’uomo che sia munito del bene principale, quello della
ragione, come dice sempre lo stesso Crisippo. «Come il ragno stando
nel mezzo della sua tela, tiene con i piedi tutti i capi dei fili,
per sentire da vicino qualunque colpo venga da piccoli insetti, così
anche la parte direttiva dell’anima, posta nel bel mezzo del cuore,
controlla tutti gli inizi delle sensazioni, per poter comprendere
immediatamente che cosa esse stiano per riferirle». Essi dicono che
anche la voce è emessa dall’intimo del petto, cioè dal cuore, perché
il soffio vitale esercita la sua forza in seno al cuore, là dov’è
come una porta stipata di nervi, la quale, col suo frapporsi, separa
il cuore da entrambi i polmoni e da altri organi vitali; e con tale
soffio, e con l’aiuto della lingua che colpisce le strettissime
fauci e contribuisce alla formazione dei suoni, e con gli altri
organi vocali, si emettono suoni articolati, che divengono parti del
discorso: così si rivelano i moti arcani della mente indovina. E
questo che egli chiama387 parte direttiva dell’anima.
TERTULLIANO, De anima, 15, 6, p. 20 Waszink = SVF II, 880
Sono di questo parere (che la parte direttiva stia nel cuore) anche
Protagora, Apollodoro, Crisippo388.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., V, 1, p. 404 Mùller = SVF II,
881
Dovremmo necessariamente esaminare il ragionamento che si fa circa
le passioni dell’anima anche di per se stesso; ma ancor più
necessario lo ha reso Crisippo con la sua scuola, i quali si valgono
della stessa parte direttiva dall’anima a dimostrazione di quale sia
il luogo che la contiene. Se essi indicano, secondo le loro
opinioni, il cuore come sede di tutte le passioni, dicono il vero,
ma solo per ciò che si riferisce alla parte dell’anima in cui si
generano gli impulsi; essi però vogliono poi sostenere che là dove
ci sono le passioni deve esserci anche la facoltà razionale, e
perciò portano a conclusione il loro ragionamento dicendo che questa
risiede pure nel cuore389.
GALENO, De Hippocr: et Plat. plac., II, 5, p. 208 Mùller = SVF II,
882
Questo sostengono Zenone e Crisippo insieme con tutto il loro coro;
che provenga dall’esterno a seconda di ciò in cui ci si imbatte
l’inizio del movimento all’anima, e che provochi nell’essere animato
la sensazione.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., II, 2, p. 170 Mùller = SVF II,
883
Quelli che seguono Aristotele si vergognerebbero di assumere
proposizioni di tipo del tutto comune o retorico in vista di
dimostrazioni scientifiche, mentre di esse sono pieni i libri di
Crisippo, nei quali vediamo chiamati continuamente a testimoni delle
proposizioni che egli avanza o persone inesperte, o talvolta poeti,
oppure quella che sembrò la migliore etimologia del nome, o
qualcos’altro dello stesso genere; tutte cose che non portano a
nessuna conclusione, ma che ci fanno spendere e disperdere invano il
tempo…
In un’altra trattazione, circa l’esattezza delle parole390, ho già
indicato come Crisippo abbia proposto false etimologie, fra l’altro
anche della parola «io». Ma c’è bisogno che ancora discorriamo di
tutto questo? Crisippo ama dissertare in differenti trattazioni a
proposito delle stesse cose non due o tre volte, ma anche quattro e
talvolta cinque; se ne guardi chi è fra quelli che non vogliono
perdere il loro tempo.
TEOLOGIA
DIOGENIANO presso EUSEBIO, Praep. evang., VI, 8, 8 = SVF II, 914
Crisippo crede poi di portare un’altra prova assai valida
dell’esistenza del fato adducendo la composizione di alcune parole.
Dice che il destino si dice rceTcpcouivrì perché è un governo del
tutto delimitato (TCSTiepaauivr)) e perfetto; oppure si chiama anche
ei[xap[xévY] perché è qualcosa di pronunciato (eipouivrj) o in virtù
della volontà divina o per qualsiasi altra causa. Prende anche il
nome di «moira» per il fatto che è articolato in parti (arcò TOU
fjtefxeptcrGoci) e distribuito così a ciascuno di noi. Perciò ciò
che cade sotto il destino ed è ad esso conveniente si chiama ciò
eh’è dovuto. Quanto al numero delle Moire, egli suppone tre tempi
nei quali le cose compiono il loro periodo e giungono a compimento.
Esse si chiamano Lachesi perché a ciascuno tocca (kayxàvti) il suo
destino; Atropo perché la distribuzione è immutabile e non
scambiabile; Cloto perché tutte le cose sono connesse e intrecciate
insieme come in un ordito (ouy-xexXaGoct), e non c’è che un solo
esito predisposto di esse. Con tutte queste chiacchiere vane, e
altre simili a queste, egli crede di aver dimostrato la necessità
universale.
PLUTARCO, De Stole, rep., 47, 105Ód = SVF II, 935
Non una sola volta o due, ma dappertutto, o soprattutto nelle sue
opere sulla fisica egli scrisse che le nature e i moti parziali
incontrano molti arresti e impedimenti, mentre la natura del tutto
non ne incontra alcuno.
PLUTARCO, De comm. not., 34, 1076C = SVF II, 937
Se, come dice Crisippo, nemmeno la più piccola parte del tutto si
comporta se non secondo quella che è la volontà di Zeus, ma tutto
ciò che è animato sta e si muove in virtù di questa, e secondo
questa si volge e regge ed è disposto … sarebbe cento volte meglio
credere che la realtà compia cose assurde per forza, data
l’impotenza e la debolezza di Zeus, contro la natura di quello,
piuttosto che credere che non vi sia incontinenza o malvagità di cui
Zeus stesso non sia causa391.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 47, 10560 = $VF II, 937
Alla fine afferma che nulla sta né si muove, neanche la parte più
infima, se non secondo la ragione di Zeus, che è lo stesso che il
destino.
CALCIDIO, In Plat. Timaeum, 160, pp. 193-195 Waszink = SVF II, 943
Dicono dunque che se la divinità sa tutto fin dall’inizio, prima che
le cose avvengano, (e non solo le cose che avvengono nei cieli, e
che sono regolate dalla felice necessità della loro perpetua
beatitudine come da un fato loro proprio, ma anche i nostri pensieri
e le nostre azioni volontarie); essa conosce sicuramente anche
quella natura incerta di tutte le cose presenti, passate e future, e
tutto ciò dall’inizio dei tempi; né si può ingannare la divinità: il
che significa che la totalità delle cose è stata ordinata e
predisposta con ordine fisso fin dall’inizio, sia le cose che si
dice siano in nostro potere, sia quelle fortuite e soggette al
caso392. Quindi, dal momento che tutto quanto è stato già stabilito,
tutto è anche vincolato da condizioni fissate per fato: giacché, se
è stabilito che qualcosa debba succedere a qualcuno, è insieme
stabilito anche ciò per cui mezzo, o per cui beneficio, debba
succedere (per esempio, se qualcuno troverà salvezza nel corso di
una navigazione, gli avverrà perché governa la nave non uno a caso,
ma esattamente quel nocchiero e non un altro; e se ad una città
accada di godere di buone istituzioni e di buoni costumi, ciò deve
derivare da determinate leggi, come a Sparta da quelle di Licurgo;
se avverrà che ci sia un altro giusto come Aristide, sarà in virtù
dell’educazione ricevuta dai genitori che costui raggiungerà la
giustizia e l’equità).
Ritengono che anche le arti siano sotto il decreto del fato; e che
per esempio sia già stabilito da prima in virtù di quale medico un
certo ammalato possa riacquistare la salute, ma anche che possa
avvenire di frequente che un malato sia guarito non da un medico ma
da un inesperto di medicina, purché tale sia la condizione dal
destino stabilita. Si può dire lo stesso per quanto riguarda le
azioni degne di lode, biasimo, riprensione, premio. Di frequente
avviene che le cose che si compiono contro il fato non solo non
ottengano lode, ma per contro siano apportatrici di biasimo e di
pene. Dicono anche che l’arte della divinazione dimostra chiaramente
come gli esiti delle azioni siano già stabiliti: se il decreto non
fosse stato già emesso da prima, gli indovini non avrebbero potuto
comprenderlo. Così gli uomini ottengono in sorte le cose che sono
stabilite, senza le quali non potrebbero agire, così come senza il
luogo non vi può essere né moto né quiete.
CICERONE, De fato, 4-5, 7-9 = SVF II, 950-951
Torniamo ai trabocchetti di Crisippo. E in primo luogo diamogli una
risposta a proposito della stessa parentela fra le cose… Noi vediamo
quale differenza ci sia fra i luoghi della natura: alcuni sono
salubri, altri malsani; in alcuni gli abitanti soffrono di catarro e
di obesità, in altri sono prosciugati e aridi. Molte altre
differenze ci sono da luogo a luogo: ad Atene il cielo è limpido, e
perciò gli uomini dell’Attica sono ritenuti più acuti di mente; a
Tebe l’aria e più densa, per cui i Tebani sono pingui e di bonaria
tempra. Tuttavia né quel cielo limpido e leggero farà sì che uno
diventi discepolo di Zenone, di Arcesi-lao, di Teofrasto; né l’aria
più densa farà sì che ottenga la vittoria piuttosto ai giuochi nemei
che agli istmici. Osserva ancora. La natura del luogo c’entra forse
in qualcosa nel fatto che noi camminiamo nel portico di Pompeo
piuttosto che nel Campo Marzio? O che io cammini con te piuttosto
che con un altro, o alle idi piuttosto che alle calende? Se qualcosa
è certo da riportarsi a certi caratteri naturali dei luoghi,
qualcos’altro non lo è affatto, e così allo stesso modo l’influenza
degli astri serve, se vuoi, a spiegare alcune cose, ma non certo
tutte393.«Ma, se è vero che vi sono diversità nelle tendenze
naturali degli uomini, sì che alcuni amano le cose dolci, altri
quelle amarissime, alcuni sono iracondi, crudeli, superbi, altri si
tengono ben lontani da simili vizi … dal momento insomma, egli dice,
che un carattere può essere tanto diverso da un altro, che cosa c’è
di strano nel fatto che queste diversità dipendano da diverse
cause?» Dicendo così, mostra di non capire né di che si tratti, né
in che consista la causa. Infatti, se alcuni sono propensi a una
cosa e altri ad un’altra, e ciò avviene per cause naturali
presupposte, ciò non significa che vi siano anche cause naturali
presupposte per i moti della nostra volontà e per i nostri desideri;
non avremmo alcuna libertà nelle nostre azioni se le cose stessero
così. Possiamo ammettere che il fatto di essere acuti o ottusi,
forti o deboli, non dipende da noi; ma chi da questo credesse di
poter dedurre che non sta in noi nemmeno il poter liberamente star
seduti o camminare, mostrerebbe di non saper far rettamente
discendere le conseguenze dai principi. Se infatti gli ingegnosi e i
tardi nascono tali per cause predisposte, e allo stesso modo i forti
e i deboli, non ne consegue che per cause fondamentali sia definito
e stabilito che essi debbano anche di volta in volta star seduti o
camminare o fare alcunché394.
CICERONE, De fato, 6, 11 = SVF II, 954
Affermazioni di questo genere saranno vanificate se col metodo
divinatorio si proverà la potenza e la natura del fato. Se infatti
esiste un’arte della divinazione, da quali principi teorici essa
prende le mosse? e chiamo principi quelli che i greci chiamano
GeÉoprjfxocTa. Non credo infatti che, come nessuno degli altri
artefici nel loro ufficio, così nemmeno quelli che professano la
divinazione basino i loro procedimenti su fondamenti teorici. Gli
assiomi degli astrologi sono di questo tipo: «se qualcuno — così per
dire — è nato al sorgere della canicola, non morirà in mare». Ma ora
sta’ ben attento, Crisippo, di non perdere la tua causa, per la
quale c’è grande contesa fra te e Diodoro395. Se infatti è vera una
connessione del genere: «se Fabio è nato al sorgere della canicola,
non morirà in mare» — e ciò perché si dà per accertato che Fabio sia
nato appunto al sorgere della canicola — la frase «Fabio morirà in
mare» diventa del tipo dell’impossibilità. Dunque tutto ciò che si
dice di eventi futuri come non vero appartiene all’impossibile. Ma
tu, o Crisippo, non intendi affatto questo, ed è proprio questo il
punto del tuo dissidio con Diodoro. Quegli dice che può avvenire
solo ciò che è vero o che sarà vero; e afferma che è necessario
qualunque evento futuro, e ciò che avverrà dice anche che è
impossibile che non avvenga. Al contrario, tu dici che le cose che
non avverranno potrebbero però pur sempre avvenire — ad esempio,
questa pietra preziosa potrebbe rompersi, anche se ciò non avverrà
mai — né necessariamente Cipselo doveva regnare in Corinto, anche se
ciò era stato già da mille anni annunziato dall’oracolo di Apollo.
Ma se tu affermi la verità di queste divine predizioni, e ritieni
che le cose che si dicono non realizzarsi in futuro non abbiano, in
effetti, possibilità di realizzarsi … ecco che, se tutto ciò che si
dice del futuro come vero vuol dire che esso necessariamente si
realizzerà, tu ricadrai in quell’opinione di Diodoro contro cui la
vostra setta polemizza. Infatti, se è vera la proposizione
congiunta: «se sei nato al sorgere della canicola, non morirai in
mare» e il primo membro di tale nesso («sei nato al sorgere della
canicola») è necessariamente vero (infatti tutte le cose passate che
si sono realizzate sono anche necessarie, come afferma Crisippo,
dissentendo in questo dal suo maestro Cleante, perché sono
immutabili, e non possono, una volta che si siano verificate,
convertirsi dal vero in falso396) ciò che è conseguente diviene
anche necessario. Tuttavia a Crisippo questo non sembra avere valore
universale: ma tuttavia, se c’è una causa naturale per cui Fabio non
può morire in mare, Fabio realmente non morirà in mare. A questo
punto Crisippo vaneggia, e spera di dimostrare che si ingannano gli
astrologi caldei e tutti gli altri che si servono di nessi logici
del tipo «se qualcuno è nato al sorgere della canicola, non morirà
in mare»; e propone che si dica: «non è possibile che uno sia nato
al sorgere della canicola e muoia in mare». O destrezze da
prestigiatore! per evitare di cadere per suo conto nelle posizioni
di Diodoro, insegna ai Caldei il loro mestiere397! Mi chiedo se gli
astrologi caldei dovessero parlare così — ponendo cioè negazioni di
infiniti nessi anziché infinite connessioni ipotetiche — perché non
potrebbero usare lo stesso metodo anche i medici, i geometri, tutti
gli altri? Che cosa c’è infatti che non possa esser trasformato da
connessione ipotetica a congiunzione di negazioni? Certo noi
possiamo esprimere le stesse cose in modi diversi…
Quelli che introducono una serie sempiterna di cause, legano l’anima
umana, privandola della libertà del volere, alla necessità del
fato398.
CICERONE, De fato, io, 20-21 = SVF II, 952
Crisippo infatti argomenta così: «Se vi è un moto che sia senza
causa399, non è vero che ogni giudizio — che i dialettici chiamano
à^icofxoc — dev’essere o vero o falso. Perciò non vi è alcun moto
senza causa. Ma se è così, vuol dire che tutte le cose che avvengono
avvengono in virtù di cause antecedenti. Ma se ciò è vero, vuol dire
che tutte le cose avvengono in virtù del fato. Ne deriva che
qualsiasi cosa avvenga, avviene in virtù del fato»… Pertanto
Crisippo tende tutte le sue forze a dimostrare che ogni à uofxoc è
vero o falso. Così come Epicuro temeva che, se avesse concesso
questo, avrebbe dovuto ammettere anche che tutte le cose che
avvengono avvengono in virtù del fato… così Crisippo temeva che, se
non avesse tenuto fermo al principio che tutto ciò che si enunzia è
o vero o falso, non avrebbe poi potuto continuare ad asserire che
tutto avviene per fato e in virtù delle cause eterne delle realtà
future400.
CICERONE, De fato, 12, 28 = SVF II, 953
Se poniamo che ogni affermazione sia o falsa o vera, non ne consegue
con questo che vi siano cause immutabili ed eterne che impediscono
che qualcosa accada o debba accadere in modo diverso: vi sono cause
fortuite, tali da far sì che sia vero ciò che in tal modo si dice
(per esempio: «Catone verrà in senato») pur non essendo incluse
nella natura delle cose e dell’universo; e tuttavia tanto è
immutabile il fatto che egli «verrà» quanto è vero quello che egli
«è venuto»; né questa è la ragione per cui bisogna temere che esista
la necessità o il fato. Bisognerà solo ammettere che se questo
enunziato: «Ortensio verrà al Tu-scolano» non è vero, ne consegue
che è falso. C’è chi ritiene che un enunziato del genere non sia né
falso né vero; ma ciò è impossibile401.
CICERONE, De fato, 13, 30 = SVF II, 956
Questa argomentazione è criticata da Crisippo402. Nella realtà, egli
dice, vi sono alcune cose semplici, altre congiunte. E semplice:
«Socrate morirà in quel tale giorno»: a costui, faccia alcunché o
non lo faccia, è fissato il giorno della morte. Se però sia stato
decretato dal fato: «Edipo nascerà da Laio», non si potrà dire: «sia
che Laio abbia rapporti con una donna sia che non li abbia»; questa
volta si tratta di una cosa connessa con la prima e confatale ad
essa. Perché ciò avvenga per fato, occorre infatti che Laio si
unisca con una donna e generi da questa Edipo; così, se si dicesse:
«Milone farà la lotta ai giochi olimpici» e qualcuno replichi: «ma
lotterà se si troverà di fronte un avversario o anche nel caso
contrario?», questi sbaglia: «farà la lotta» è una espressione del
tipo congiunto, giacché se non c’è un avversario non ci può essere
nessuna lotta. Tutti i cavilli di questo tipo sono da controbattersi
allo stesso modo. E capzioso dire: «sia che tu vada dal medico, sia
che non ci vada, guarirai»: è decretato dal fato, infatti l’andar
dal medico in connessione con il guarire. Cose di questo tipo, come
ho già detto, egli le chiama «confatali».
CICERONE, De fato, 17-19, 39-44 = SVF II, 974
Mi sembra che — date due dottrine degli antichi filosofi, l’una di
quelli che ritenevano che tutto avvenisse per fato e che questo fato
imponesse la forza della necessità, … l’altra di quelli cui sembrava
che vi fossero moti volontari dell’anima non retti da alcun fato —
Crisippo, come arbitro onorario, abbia voluto trovare un medio
termine; e, pur inclinando piuttosto dalla parte di quelli che
intendono liberare i moti dell’anima dalla necessità, usando le sue
argomentazioni scivola nelle difficoltà in modo tale che,
controvoglia, finisce col dare supporto alla tesi della necessità
del fato. Vediamo quale sia la dottrina per ciò che si riferisce
all’assenso… I filosofi antichi che ritenevano che tutto avvenga in
virtù del fato affermavano che esso si verifica forzato da
necessità; quelli che avevano parere contrario, rendevano libero
l’assenso dal fato, e dicevano che, se si ammettesse che l’assenso
ricade sotto il dominio del fato, non si potrebbe evitare di
pensarlo del tutto determinato… Crisippo, volendo rifiutare la tesi
della necessità assoluta, ma in pari tempo affermare che tutto
avviene per determinate cause, distingue più generi di queste, allo
scopo di sfuggire alla assoluta necessità, ma in pari tempo salvando
il fato. «Delle cause» egli dice «ve ne sono alcune perfette e
primarie, altre coadiuvanti e prossime. Perciò, quando diciamo che
tutto avviene per fato in virtù di cause antecedenti, non vogliamo
intendere ciò nel senso di ’cause perfette e primarie, ma di ’cause
coadiuvanti e prossime’». E a quel ragionamento secondo cui
argomentavo poc’anzi403, obietta così: «se tutte le cose si
verificano in virtù del fato, ne consegue che tutto avviene per via
di cause antecedenti, non però anche che tutto avvenga in virtù di
cause primarie e perfette; è sufficiente che si tratti di cause
coadiuvanti e prossime. E se queste non dipendono da noi, da ciò non
consegue che siano fuori dalla nostra portata anche i nostri
appetiti. Ne conseguirebbe nel caso che dicessimo che tutte le cose
si verificano per via di cause perfette e primarie, sì che, non
essendo tali cause in nostra facoltà, non lo sarebbero neanche
quelli. Tale argomentazione quindi ha valore contro chi introduce il
fato allo scopo di affermare l’assoluta necessità; non ha presa,
però, contro chi pone cause antecedenti, ma non le concepisce come
perfette e primarie». Come poi avvenga ciò che essi dicono — che
cioè i nostri assensi presuppongano solo cause antecedenti — pensa
di poterlo spiegare facilmente. Infatti, benché non si possa dare un
assenso senza esser mossi da qualcosa che si percepisce, tuttavia
questo oggetto percepito rappresenta una causa prossima, ma non
primaria, e quindi la cosa si attua nel modo anzidetto, così come
Crisippo afferma. L’assenso non può verificarsi se non ci sia nulla
dal di fuori a muoverlo (esso deve essere motivato da un oggetto
percepito); ma egli ritorna a quei suoi prediletti esempi del
cilindro e del turbine, che, se non ricevono una spinta, non possono
di per sé mettersi in moto. «Come colui che ha dato una spinta a un
cilindro» egli dice «gli ha dato con ciò l’inizio del moto, non però
anche la capacità di rotolare, così l’oggetto percepito impressiona
l’organo, e imprime quasi nell’anima la sua forma; tuttavia Passenso
è in nostro potere, così come abbiamo detto dei cilindro, il quale,
benché spinto dal di fuori, per il resto si muove in virtù della
capacità naturale che è in lui. Se potesse verificarsi qualcosa
senza cause antecedenti di sorta, sarebbe falso dire che tutto
quanto avviene per fato; ma se è verosimile che a tutto ciò che
avviene sia presupposta una causa, che obiezione si potrà addurre
contro la teoria che tutto avviene per fato? Tutto sta nel
comprendere quale sia la distinzione da porsi fra le cause e la loro
diversità»… Crisippo insomma, se concede che la causa prossima e
pertinente dell’assenso sia riposta nell’oggetto percepito, non
concede che in base a tale causa l’assenso debba necessariamente
verificarsi, perché in questo caso si dovrebbe ammettere che, tutto
avvenendo in virtù del fato, avvenga anche in virtù di cause non
solo antecedenti ma necessitanti404.
IPPOLITO, Refutationes, 21, Dox. Gr., p. 571 = SVF II, 975
Essi (Zenone e Crisippo) sostenevano la teoria secondo cui tutto
avviene per fato con questo paragone: quando a un carro si attacchi
un cane, se segue volontariamente, segue pur essendo trascinato, e
compie, insieme con l’adeguarsi alla necessità, anche un atto di
libertà; se invece si rifiuta di seguire, è semplicemente
trascinato405. Lo stesso si può dire degli esseri umani: anche se
non vogliono seguire, saranno puramente e semplicemente costretti ad
andare verso ciò eh’è fissato dal destino.
GELLIO, Noci. Att, VII, 2, 15 = SVF II, 977
E perciò Marco Tullio nel libro che scrisse sul fato, nelP affermare
che tale problema è oscurissimo e complicatissimo, afferma che anche
il filosofo Crisippo non è riuscito a venirne a capo, con queste
parole: Crisippo, sudando e faticando per spiegare in qual modo
tutto avvenga per fato e come in pari tempo ci sia qualcosa che
risiede nella nostra volontà, si inviluppa così nei nodi406.

Busto romano tradizionalmente ritenuto raffigurante Crisippo.
(Roma, Villa Albani).
ENOMAO presso EUSEBIO, Praep. evang., VI, 7, 4 = SVF II, 978
Per quello che riguarda i sapienti, se è andata in fumo quella
potestà che abbiamo sulla nostra vita — sia che uno preferisca
chiamarla timone, o sostegno, o base — se n’è andata dalla vita
umana quella che abbiamo posto come signora assoluta delle cose più
necessarie: Democrito, se non mi inganno, e Crisippo, immaginano di
rendere l’uno schiava, l’altro semischiava quello ch’è la più bella
fra le cose umane407.
ALESSANDRO DèAFRODISIADe fato, 13, p. 181, 13 segg. Bruns = SVF II,
979
Dopo aver eliminato la libertà di scelta e di azione fra cose
opposte nell’uomo, tuttavia dicono che è in nostro potere ciò che si
verifica anche408 per mezzo nostro. Dicono infatti che, dal momento
che le nature delle cose che esistono e che sono in divenire sono
altre e diverse fra loro (non sono infatti le stesse quelle degli
esseri animati e inanimati, ma non lo sono nemmeno quelle di tutti
gli esseri animati; essi identificano infatti le differenze degli
esseri secondo la specie con le differenze delle loro nature), ogni
cosa avviene per ciascun essere secondo la natura sua propria: ciò
che è prodotto dalla pietra secondo la natura della pietra, ciò che
è prodotto dal fuoco secondo la natura del fuoco, ciò che è prodotto
dall’essere vivente secondo la natura dell’essere vivente; e nulla
di ciò che avviene per ciascun essere secondo natura propria può
avvenire altrimenti, ma tutto ciò che avviene per opera di ciascuno
avviene necessariamente, non per via di una necessità che forza
dall’esterno, ma per il fatto che ciò che ha una natura di quel tipo
non può — le circostanze essendo tali quali è impossibile che non
siano a suo riguardo — muoversi diversamente da così. La pietra, se
vien gettata verso l’alto, non può non ricadere verso il basso, a
meno che non ci sia qualcosa a impedirlo; per il fatto che essa ha
in sé la pesantezza, e che questa è la causa secondo natura di una
caduta siffatta; quando siano presenti anche le cause esterne a
cooperare col moto naturale, non è possibile che la pietra non si
muova secondo quella che è la sua natura (sussistono per essa
necessariamente tutte le cause per cui debba così muoversi); e non
solo non può non muoversi sussistendo queste, ma si muove
necessariamente, e un simile movimento è movimento del fato che si
effettua per mezzo della pietra. Lo stesso discorso si può fare
anche per le altre cose; dicono infatti che tutto ciò che avviene
per gli esseri inanimati avviene anche per gli esseri viventi. Anche
per gli esseri viventi, infatti, esiste un dato movimento secondo
natura, ed è il movimento che deriva da impulso. Ogni essere vivente
in quanto tale si muove di moto per impulso; e tale moto è compiuto
dal fato per mezzo dell’animale. Così stando le cose, e poiché
movimenti e azioni si verificano nell’universo in virtù del fato,
gli uni per mezzo della terra se così capiti, altri per mezzo
dell’aria, o dell’acqua, o del fuoco, o di qualunque altra realtà, e
alcuni si verificano per mezzo di esseri viventi (e questi sono i
movimenti che avvengono per impulso), essi dicono che quelli che si
compiono per mezzo degli esseri viventi per opera del fato sono i
movimenti loro propri, così come quelli che si compiono di necessità
in tutti gli altri settori della realtà, per il fatto che devono
presentarsi in vista di essi anche determinate cause esterne, sì che
essi attuano così il movimento loro proprio secondo un certo
impulso, in certi casi necessariamente; in altri per impulso e per
assenso, mentre quelle degli altri esseri sono determinate da peso,
o calore, o altre (cause affini)…409 Essi dicono che questa è la
causalità relativa agli esseri viventi, diversa da ciascuna delle
altre, da quella della pietra come da quella del fuoco; e questa,
detto in breve, è la loro dottrina per ciò che riguarda i moti
volontari.
ALESSANDRO DèAFRODISIADe fato, 26, p. 196, 13 segg. Bruns = SVF II,
984
Quanto ai problemi che essi si pongono circa l’esser tale la libertà
del volere quale ha sempre creduto la comune anticipazione410 degli
uomini, non si può dire certo che il porseli sia cosa assurda, ma
quanto al sospendere il giudizio di fronte a tali problemi, come se
non fossero cose da tutti riconosciute, … e in base a cose che essi
stessi considerano problematiche condurre delle polemiche con gli
altri, non è forse del tutto assurdo?… Non è forse male che anche
noi prendiamo in considerazione e sottoponiamo ad esame le loro
aporie, delle quali tanto si vantano… Fra i loro problemi c’è anche
questo: «se» dicono «sono in nostra facoltà quelle cose di cui
possiamo compiere anche l’opposto, e in questo campo rientrano le
azioni passibili di lode e di biasimo, invito o divieto, punizione o
premio, non sarà possibile esser saggi e possedere le virtù per
quelli che le esercitano, dal momento che essi non accolgono in sé
in pari tempo anche i vizi che sono opposti a tali virtù; e così
allo stesso modo avverrà per i vizi nei riguardi dei cattivi,
giacché ad essi non è possibile far qualcosa che non sia cattivo. E
però assurdo l’affermare che noi non abbiamo libera facoltà di
scelta riguardo alla virtù e al vizio e che lodi e biasimi non
devono tributarsi a questi; perciò la libera facoltà del volere non
può consistere in quello che si è detto».
NEMESIO, De nat. hom., 35, P. G. XL, col. 291-293 = SVF II, 991
Quelli che dicono che la nostra libera facoltà del volere non è
affatto incompatibile col fato (a ciascuno degli esseri è dato dal
fato un qualcosa di sua proprietà, all’acqua l’esser fredda, a
ciascuna delle piante il portare un determinato frutto, alla pietra
il moto verso il basso, al fuoco quello verso l’alto, così allo
stesso modo all’essere vivente l’impulso e la facoltà dell’assenso;
quando a questo impulso nulla faccia da ostacolo dal di fuori o da
parte del destino, allora per esempio il camminare sta totalmente in
noi e cammineremo con tutta libertà) — quelli che così dicono, … e
fra gli Stoici sono Crisippo e Filopatore411 e altri molti e
illustri, non dimostrano in realtà niente altro se non che tutto
avviene per fato. Se infatti essi sostengono che gli impulsi sono
dati a noi dal fato e che talvolta dal fato sono anche ostacolati,
altre volte no, è chiaro che tutte le cose avvengono in virtù del
fato, anche quelle che sembrano essere in nostra libera facoltà… Se
infatti, sussistendo le stesse cause, come essi dicono, di assoluta
necessità devono verificarsi gli stessi eventi, né è possibile che
si verifichino una volta in un modo, una volta in un altro, per il
fatto che tutto quanto è stato filato dall’eternità, necessariamente
anche l’impulso dell’essere vivente deve assolutamente dar luogo
agli stessi effetti una volta che le cause si verifichino del tutto
e per tutto allo stesso modo… Se infatti essi ripongono la causa
dell’impulso nella nostra libera volontà, poiché lo possediamo per
natura, che cosa vieta di affermare che il fuoco liberamente brucia,
dal momento che il bruciare gli è insito per natura? Filopatore nel
suo Del fato arriva quasi a sostenerlo.
PLUTARCO, De Stole, rep., 47, io^óe = SVF II, 993
A parte ciò, se le rappresentazioni non avvengono in virtù del fato,
come (il fato non dovrebbe essere nemmeno causa) dell’assenso412? ma
se, per il fatto che esso può produrre delle rappresentazioni che
conducono all’assenso, si vuole affermare da parte loro che gli atti
di assenso derivano dal fato, come potrà non derivarne che questo
cada in contraddizione con se stesso, dal momento che spesso produce
rappresentazioni differenti e attrae il pensiero verso direzioni
contrarie? Essi dicono però che ciò avviene per un errore, quando si
dà l’assenso a una delle immagini invece di sospendere il giudizio;
se lo si dà a rappresentazioni oscure, si cade nella precipitazione;
se a rappresentazioni false, ci si inganna; se a rappresentazioni
generalmente incomprensibili, si cade in vana opinione. Pertanto,
date queste tre circostanze, si deve ammettere o che non ogni
rappresentazione è opera del fato, o che ogni atto di accettazione
di una rappresentazione e di assenso ad essa è priva di colpa, o che
allo stesso fato non è imputabile niente: ma non so come esso possa
essere esente da colpa se produce rappresentazioni tali che non
resistere ad esse né oppugnarle, ma seguirle e cedere ad esse è cosa
colpevole.
PLUTARCO, De Stole, rep., 47, io55f = SVF II, 994
Ma anche ciò che si dice delle rappresentazioni contrasta in maniera
puerile con l’ipotesi del fato. Volendo dimostrare che la
rappresentazione è una imperfetta spiegazione causale dell’assenso,
dice che «se le rappresentazioni fossero cause perfettamente
sufficienti degli atti di assenso, i sapienti produrranno un danno
ingenerando false rappresentazioni: giacché spesso i sapienti usano
di menzogna nei riguardi degli stolti e offrono una immagine
credibile, ma non tale da esser causa di assenso; se è vero quanto
si è detto, essa sarà invece causa di falsa supposizione e di
inganno».
PLUTARCO, De Stole, rep., 47, 1056b = SVF II, 997
Chi dica che Crisippo non considera il fato causa sufficiente di
questi moti, ma solo causa preparatoria, dimostrerà che è in
contraddizione con se stesso là dove loda smisuratamente Omero per
il fatto che dice di Zeus «per cui si accetti ciò che egli a
ciascuno può mandare di male»413 o di bene; o Euripide quando dice:
«o Zeus, come potrei dire che i mortali infelici / hanno pensieri?
Da te dipendiamo, / e compiamo ciò che tu hai in mente»414. Egli per
suo conto scrive molte cose in accordo con queste riflessioni, e
afferma alla fine che nulla sta o si muove neanche in minima parte
se non secondo la ragione di Zeus, che si identifica poi con il
fato. La causa preparatoria è più debole di quella sufficiente, e
non arriva a vincere le resistenze se le circostanze le si
oppongono; però Crisippo ha anche dichiarato il fato invincibile,
inevitabile, immutabile, lo ha chiamato Atropo, Adrastea, Necessità,
Destino, come ciò che pone un termine a ogni cosa.
ALESSANDRO DèAFRODISIA,De fato, 33, p. 205, 1 segg. Bruns = SVF II,
1001
Quanto al dire che errano coloro che non ritengono che la libera
facoltà del volere si possa salvare se non salvando la capacità
dell’essere animato di agire di proprio impulso, e perciò
argomentare chiedendosi se la libera facoltà del volere sia o no una
forma di atto (evépyrjfia)415, e una volta assodato questo tornare a
chiedersi se fra quelli che sono gli atti alcuni non sembrino
secondo impulso e altri sì; poi ancora, raggiunto questo punto,
aggiungere che la libera volontà non è da porsi fra gli atti, non è
da porsi fra ciò che avviene secondo impulso (il che anche
Aristotele ammette a questo proposito, stabilendo in generale che
tutto ciò che avviene in base a impulso si attua così in chi
esercita questo tipo di azione, dal momento che esso non risiede in
nessuna altra cosa che si attui altrimenti) e in base a tutto questo
affermare che una siffatta facoltà in noi può salvarsi anche secondo
la loro dottrina, e che c’è qualcosa la cui effettuazione dipende
assolutamente da noi — visto che le cose che così si attuano
appartengono a quelle che si verificano in base a impulso, come si
può dire che non siano discorsi di gente che ignora in assoluto
tutte le cose di questo genere?
ALESSANDRO DèAFRODISIADe fato, 34, p. 205, 24 segg. Bruns = SVF II,
1002
Supponendo che ciascuna delle cose che sono sussistano sia per
natura sia per fato tale qual è, fino a far coincidere ciò che è per
natura con ciò che avviene per fato, essi aggiungono: «dunque in
virtù del fato gli animali hanno sensi e impulso, e alcuni degli
animali hanno solo queste funzioni attive, altri invece compiono
anche operazioni di ordine razionale, e azioni che possono essere
errate o giuste: anche queste cose sono loro proprie secondo natura.
Se resta valida la distinzione fra gli errori e le azioni rette, e
non sono soppresse le proprietà naturali di simili esseri, sono
validi anche elogi, biasimi, punizioni e premi: lo richiede la
consequenzialità e l’ordine del tutto».
ALESSANDRO DèAFRODISIA,De fato, 35, p. 207, 4 segg. Bruns = II, 1003
Non trascuriamo poi quel discorso del quale essi si fanno forti,
convinti che serva a dimostrare ciò che hanno posto come premessa.
Dicono infatti: «non è possibile che tale sia il fato e non ci sia
il destino; (tale il destino,) e non ci sia la sorte; tale la sorte,
e non ci sia la nemesi; tale la nemesi, e non ci sia la legge416;
tale la legge, e non la retta ragione che indica ciò che si deve
fare, distolga da ciò che non si deve. In realtà noi abbiamo il
divieto di compiere errori e la prescrizione di compiere il dovere.
Ma se esistono doveri o errori, esistono anche la virtù e il vizio;
se esistono questi, esistono anche il decoroso e il turpe; e il
decoroso è da lodarsi, il turpe da biasimarsi. Non può darsi però
che sia tale il fato, e che non ci sia luogo per lode e biasimo. Le
cose lodevoli sono degne di premio, le biasimevoli di punizione; non
può però essere che tale sia il fato, e non ci sia luogo a premio e
punizione. Il premio è ricevere ricompensa, la punizione è essere
assoggettati a correzione; non è possibile che tale sia il fato, e
non ci sia luogo a ricompensa e correzione. Se tutte queste cose
(non) sono soppresse417, vuol dire che- sussistono ma che tutte
avvengono in virtù del fato, le azioni rette e gli errori, i premi e
le punizioni e le ricompense, le lodi e i biasimi418.
ALESSANDRO DèAFRODISIADe fato, 37, p. 210, 14 segg. Bruns = SVF II,
1005
Vediamo anche l’argomento che usano a questo proposito, se esso ha
la stessa forza probante. Suona così: «Se tutto non avviene in virtù
del fato, il governo dell’universo (xóau.o$) non è ineluttabile né
immutabile; ma se è questo, non c’è ordine (xóqxos); se non c’è
ordine, non ci sono dèi. Se ci sono dèi, questi sono buoni; ma se
ciò è, esiste la virtù; se esiste la virtù, esiste anche la
saggezza; se c’è questa, esiste anche la scienza circa ciò che si
deve o non si deve fare. Da farsi sono le azioni rette, da non farsi
quelle errate. Le azioni rette sono decorose, quelle errate sono
turpi; ciò ch’è decoroso è da lodarsi, ciò che è turpe da
biasimarsi. Non è quindi vero che, se tutto avviene in virtù del
fato, non ci possa più esser nulla che sia oggetto di lode o di
biasimo. Ma se è questo, c’è luogo per le lodi e per i biasimi. Ciò
che lo lodiamo lo premiamo anche, ciò che biasimiamo lo puniamo: chi
premia ricompensa, chi punisce corregge. Non è dunque vero che, se
tutto avviene in virtù del fato, non ci sia più nulla da premiare o
da punire».
ALESSANDRO DèAFRODISIAQuaestiones, II, 4, p. 50, 30 segg. Bruns =
SVF II, 1007
«Se per libera facoltà del volere si intendesse far ciò di cui
dipende da noi il poter fare anche l’opposto, ne conseguirebbe che
non è nostra facoltà far ciò di cui non possiamo fare anche
l’opposto. A ciò ch’è in nostra facoltà è opposto ciò che non lo è;
ma allora neanche la libera facoltà del volere dipenderebbe da noi.
Se però è così, non c’è nulla che dipenda da noi. Quelli secondo i
quali la libera facoltà del volere è il poter far ciò di cui
possiamo fare anche l’opposto, vengono a dire in realtà che la
libera facoltà del volere non esiste … Il fatto che qualcosa stia in
nostra facoltà è opposto al fatto che nulla sia in nostra facoltà.
(Ma che nulla sia in nostra facoltà)419 è impossibile; quindi è
impossibile che ci sia qualcosa di opposto al fatto che qualcosa è
in nostra facoltà. Ciò però il cui opposto è impossibile, si
verifica in virtù del fato, se è vero che ciò che si verifica in
virtù del fato è proprio ciò di cui è impossibile che esista o
accada qualcosa di opposto. Quindi anche la libera facoltà del
volere rientrerebbe nel fato; e così si salverebbe il principio
della libera facoltà del volere affermando che tutto avviene in
virtù del fato».
Etymologicum magnum, s. v. teXeirr], p. 750, 16 segg. Gaisford = SVF
II, 1008
Crisippo dice che i discorsi che si fanno intorno alle cose divine
possono ragionevolmente chiamarsi cerimonie misteriche: bisogna
infatti insegnarli da ultimi, in aggiunta a tutto il resto,
accogliendoli l’anima nel suo seno e impadronendosene ed essendo
capace di tacere di essi nei riguardi dei non iniziati: gran premio
è ascoltare giuste cose circa gli dèi e impadronirsi di esse.
CICERONE, De nat. deor., III, 10, 25-26 = SVF II, ion
E Crisippo, uomo senza dubbio esperto e intelligente, … ti sembrava
parlare acutamente. Egli dice infatti: «se vi è qualcosa che l’uomo
non può compiere, chi lo compie è superiore all’uomo. Ma l’uomo non
può esser l’autore delle realtà della natura; chi ha potuto esserlo,
certo è superiore all’uomo. Chi può però esser superiore all’uomo,
se non la divinità? Questa dunque esiste». E lo stesso Crisippo dice
che, se non vi fossero gli dèi, nella natura non vi sarebbe nulla di
superiore all’uomo; ma ritiene che da parte di un essere umano
l’esser convinto che non vi sia nulla di superiore all’uomo sia
indice di somma superbia… «Se c’è una cosa bella, dice, dobbiamo
comprendere che essa è stata costruita da uomini, non da topi; allo
stesso modo dobbiamo ritenere il mondo casa degli dèi»420.
CICERONE, De nat. deor., II, 6, 16 = SVF II, 1012
Crisippo, benché sia uomo di ingegno acutissimo, parla come le cose
che dice non fossero sue teorie personali, ma le avesse apprese
direttamente dalla natura stessa. «Se infatti» dice «vi è nella
natura alcunché di tale che non possa pensarsi effettuato dalla
mente, dalla ragione, dalla capacità o dal potere dell’uomo, bisogna
dedurne che certamente chi ha compiuto ciò è un essere superiore
all’uomo. Ora, le realtà del cielo e tutte quelle cose che si
volgono con ordine eterno non possono essere state fatte dall’uomo;
e quindi chi le ha fatte è superiore all’uomo. Ma questo qualcosa,
che potrebbe essere se non la divinità? Se non ci sono gli dèi, che
cosa potrebbe esserci nella natura che sia superiore all’uomo? In
esso soltanto è la ragione, di cui nuli’altro può essere superiore.
Che quindi vi sia un uomo il quale ritenga che nulla vi sia al mondo
di superiore a lui, sarebbe atto di stolta superbia. Dunque vi è
qualcosa di superiore; e questo qualcosa è la divinità».
LATTANZIO, De ira dei, 10, 36, p. 91 Brandt = SVF II, 1012
Se c’è un essere, dice Crisippo, capace di fare ciò che l’uomo,
anche dotato di ragione, non può fare, questo è maggiore, più forte,
più sapiente dell’uomo.
TEMISTIO,Paraphr. in Arisi, anal. post., p. 79, 1 segg. Spengel =
SVF II, 1019
Nelle dimostrazioni riscontriamo che l’essere è in più modi:
talvolta per accidente e lungi dalla sostanza della realtà, a volte
invece secondo la realtà stessa e il suo essere determinata in certo
modo; per esempio che «vi sono dèi» si può dimostrare per accidente,
dal fatto che vi sono altari, come dice Crisippo; in base alla
stessa realtà, nel senso che essi si curano di noi, prevedono il
futuro, si muovono di movimenti varii per un tempo infinito.
TEMISTIO, In Arìst. De an., p. 5, 13 segg. Heinze = SVF II, 1019
Come se qualcuno, volendo definire la divinità, partendo dal dato di
fatto che ci sono altari degli dèi, e sacrifici, e templi, e
immagini, credesse che questo sia importante per la dimostrazione
che riguarda l’essenza di ciò che si vuol dimostrare, come suppose
Crisippo; ma queste son cose che si distaccano troppo dall’essenza
degli dèi. E invece introduzione sufficiente alla loro essenza di
dire che essi si muovono perpetuamente, o che Apollo predice il
futuro, o che Asclepio risana, in quanto la divinità è un essere
vivente eterno che reca benefici agli uomini.
LATTANZIO, Divin. Inst., I, 5, 20, p. 17 Brandt = SVF II, 1025
Crisippo chiama divinità ora una forza naturale dotata di ragione
divina, ora la divina necessità.
IPPOLITO, Refutat., 21, Dox. Gr., p. 571 = SVF II, 1029
Zenone e Crisippo, che erano anch’essi stoici, accrebbero di
sillogismi la filosofia e ne delimitarono la trattazione in
definizioni sulle quali si trovavano quasi in perfetto accordo: essi
supposero che la divinità sia principio di tutte le cose, e consista
in una sostanza corporea purissima, e che la sua provvidenza scorra
per tutto l’universo.
PROCLO, In Fiat. Tim., I, p. 414, 1 segg. Diehl = SVF II, 1042
Questo cosmo è ben lungi dal dover essere paragonato a quello
costruito da Crisippo. Questi confonde insieme cause non partecipate
e partecipate, divine e intellettive, immateriali e materiali421:
per lui si tratta dello stesso dio che, pur essendo divinità prima,
penetra scorrendo per tutto il cosmo e la materia, ed è anima e
natura non separata da tutto ciò che governa.
FILONE ALESSANDRINO, DE providentia, II, 74, p. 94 Aucher = SVF II,
1150
Ma il numero dei pianeti è importante per il bene del tutto; è
proprio degli uomini che attendono agli studi enumerare Futilità che
c’è nelle singole cose. Son cose, queste, che si rendono note non
solo tramite la ragione, ma anche ai sensi, perché così fa essere la
provvidenza; quella provvidenza che, come dicono Crisippo e Cleante,
non ha trascurato nulla di quanto è parti-nente ad una distribuzione
delle cose più sicure e più opportune. Che se fosse stato migliore
un altro ordine della realtà universale, tale realtà avrebbe assunto
questa diversa disposizione, in quanto nulla sarebbe potuto
interporsi ad impedire a Dio di farlo.
ORIGENE, Contra Celsum, VIII, 49, p. 265 Kòtschau = SVF II, 1051
Per noi non è una realtà corporea la divinità: non vogliamo cadere
nelle assurdità in cui sono caduti quelli che seguono la filosofia
di Zenone e Crisippo.
STOBEO, Eclog., I, 1, 26, p. 31 Wachsmuth = SVF II, 1062
Di Crisippo. Sembra che Zeus abbia preso nome dal fatto che dà a
tutti la vita (Cf|v). Lo chiamano anche Aia, perché è causa di tutto
e per lui (Si’ OCUTèV) esistono tutte le cose.
PLUTARCO, De aud. poet., 3ie = SVF II, 101 e 1062
E Crisippo in molti luoghi fa cavilli, non perché faccia discorsi
scherzosi ma perché inventa espressioni di forma inverosimile
facendo violenza ai termini, come quando dice che chi è abile nel
parlare e vince per la forza del discorso è «Cronide dalla voce
possente»422.
GIOVANNI LIDO, De mensibus, IV, 48, p. 122 Wùnsch = SVF II, 1063
Crisippo (dice che lo si chiama Atoc) per il fatto che per lui (8t’
OCèTèV) sono tutte le cose.
PLUTARCO, De comm. not., 36, 1077e = SVF II, 1064
Dice perciò Crisippo: «somigliano all’uomo Zeus e il cosmo,
all’anima la provvidenza; quando sopraggiunga la conflagrazione,
poiché Zeus è il solo fra gli dèi che sia indistruttibile, egli si
riduce alla provvidenza ed entrambi, divenuti una sola cosa,
sopravvivono nella sostanza dell’etere».
CICERONE, De nat. deor., II, 24, 63 = SVF II, 1067
Secondo un altro ragionamento, anch’esso naturalistico, c’è stata
una grande e fluente, moltitudine di dèi, i quali, rivestite specie
umane, hanno fornito materia alle favole dei poeti ma hanno anche
riempito la vita degli uomini di ogni superstizione. Questa
trattazione, già toccata da Zenone, è stata poi più lungamente e in
più parole svolta da Cleante e Crisippo. Poiché la Grecia era piena
di antiche credenze secondo le quali il Cielo era stato mutilato dal
figlio Saturno, e poi a sua volta Saturno incatenato dal figlio
Giove, bisogna dire che un ragionamento fisico non inopportuno è
stato racchiuso in quelle empie leggende: si intendeva dire che
quella parte dell’universo di natura sublime e celeste, e perciò
anche ignea, dal momento che di per sé stessa è capace di generare
tutto il resto, è mancante di quel membro del corpo che ha bisogno
di congiungersi con un altro per procreare.
CICERONE, De nat. deor., III, 24, 63 = SVF II, 1069
Si assunsero, prima Zenone, poi Cleante, poi Crisippo, un compito
pesante e non necessario a voler rendere ragione delle menzogne
contenute nelle favole, e spiegare il perché per l’una e per l’altra
cosa fossero stati usati certi vocaboli. Facendo ciò si confessa
apertamente che le cose stanno ben diversamente da come va
l’opinione degli uomini, e che quelli stessi che vengono chiamati
dèi sono eventi della realtà naturale e non figure di dèi423.
TEOFILO, Ad Autolycum, III, 8, p. 210 Otto = SVF II, 1073
Crisippo, con tutte le sciocchezze che ha detto, come potrebbe non
trovar da spiegare che cosa vuol dire che Era si congiunga con Zeus
con la bocca impura?
ORIGENE, Cantra Celsum, IV, 48, I, p. 321 Kòtschau = SVF II, 1074
E che dovrei dire di quelle assurde storie dei Greci intorno ai loro
dèi, degne solo di vergogna, e che vengono spiegate allegoricamente,
come fa ad esempio Crisippo di Soli, quel filosofo che si ritiene
aver ornato la Stoa di molti acuti scritti; egli spiega la pitture
di Samo nella quale Era è rappresentata mentre fa turpitudini con
Zeus; e dice nei suoi scritti, quell’illustre filosofo, che la
materia accogliendo le ragioni seminali della divinità li riceve in
sé ad ordinamento del tutto: nella pittura di Samo Era simboleggia
la materia e Zeus la divinità424.
Etymologicum magnum, s. v. Péoc, p. 701, 24 Gaisford = SVF II, 1084
Crisippo dice che la terra viene chiamata Rea perché da essa
scorrono (pelv) le acque.
Scholia in Hesiodi Theog., vv. 135-136, p. 31, 6 segg. Di Gregorio =
SVF II, 1985
Reia è detta così dal rovescio delle piogge, secondo Crisippo, e la
terra Rea in quanto soggetta a distruzione, poiché ci risolveremo in
essa e perché scorrono via (Siappéooai) tutti quanti sono in essa. E
Themis è detta così in quanto posizione (Géais) del tutto, che non
subisce cambiamento; Mnemosyne dal permanere (emfxovrj) della
formazione degli esseri viventi… Febe, la purezza dell’aria; per
questo anche «corona d’oro», perché l’oro è puro. Teti l’amabile; il
mare che nutre o il mare navigabile, il mare che dà nutrimento in
virtù del guadagno.
Scholia in Hesiod. Theog., v. 459, p. 74 Di Gregorio = SVF II, 1089
Crono, dicono che ha avuto il suo nome dall’atto del mischiare
(xpav) e confondere (xipvav) tutte le stirpi fra di loro, e di unire
il maschio e la femmina; e Crisippo poi dice che, essendo piene di
umidità tutte le cose e venendo giù molti rovesci di pioggia, si
determina una secrezione (ixxptcuc;) che riceve il nome di Kronos.
Scholia in Hesiodi Theog., v. 134, p. 30 Di Gregorio = SVF II, 1086
Fanno spiegazioni allegoriche del nome di Geo (xoiocj che
indicherebbe la qualità (TCOIèTTIS) e di Crio (xpeiocj che
indicherebbe il giudizio (xpiaic); e così pure Iperione sarebbe il
cielo (00-pavòq) che si muove al di sopra (urcspàvoo) di noi; e
Iapeto significherebbe il moto del cielo, per il suo slanciarsi
O’ieaOat) e volare (7tÌTea0ai)425.
Ps. PLUTARCO, Amatorius, 13, = SVF II, 1094
Crisippo, nell’intento di spiegare il nome di questo dio (Ares),
compie un atto di accusa e di calunnia: dice infatti che Ares
equivale a distruggere (àvatpelv), dando appigli a quelli che
credono che si chiami Ares l’elemento combattivo, dissidente e
impulsivo che è in noi.
MACROBIO, Satum., I, 17, 7 = SVF II, 1095
Platone scrive che il sole è stato identificato con Apollo per il
suo dardeggiare raggi (à%onàXkziv xàq àx-uvaq); Crisippo «in quanto
non consta di sostanze del fuoco che siano comuni nè deboli», dando
alla prima lettera del nome il significato di un a negativo; o anche
perché è unico e non molteplice426.
GIOVANNI LIDO, De mensìhus, IV, 64, p. 116 Wùnsch = SVF II, 1098
Crisippo ritiene che essa sia da chiamarsi non Dione, ma Didone, per
il fatto che dà (BiBóvoci) i piaceri della generazione, che sia
stata chiamata Cipride perché causa la gravidanza (xóeiv), Citerea
perché causa la gravidanza non solo agli uomini ma anche alle fiere
(Oyjpia).
PLUTARCO, Quaest. conv., IX, 14 = SVF II, 1099
…poiché Tersicore, come dice Crisippo, ha in sorte l’elemento
rallegrante (èxctxepTOs) e grazioso (xexocpiauivov) per ciò che
riferisce ai ritrovi.
PLUTARCO, De Iside et Osir., 25, 36oe = SVF II, 1103
Meglio hanno detto coloro che, come Platone, Pitagora, Se-nocrate,
Crisippo hanno ritenuto che ciò che si racconta di Tifone, Iside e
Osiride non siano eventi relativi a dèi né uomini, ma a grandi
dèmoni, seguendo in ciò gli antichi teologi, i quali dicono che essi
sono molto più forti degli esseri umani e molto superiori a questi
per capacità quanto alla loro natura, ma che non possiedono qualità
divine integre e pure e, hanno avuto in sorte per natura dell’anima
e per sensazione del corpo la possibilità di accogliere in sé
piacere, dolore e tutte quelle passioni che, conseguenti a questo
mutamento, possono turbare gli uni di più, gli altri di meno427.
PLUTARCO, De defectu orac., 17, 419a = SVF II, 1104
Non solo Empedocle … ha ammesso che vi siano dèmoni cattivi, ma
anche Platone, Senocrate, Crisippo, per non dire di Democrito428.
PLUTARCO, De Stole, rep.,38, io5ie = SVF II, 1115
Egli combatte soprattutto contro Epicuro e tutti quelli che
sopprimono la provvidenza, in base alle nozioni che noi abbiamo
circa gli dèi e ci fanno credere che essi siano benefattori degli
uomini e loro amici. Poiché queste cose da quei filosofi sono
scritte e dette numerose volte, non è il caso di riportare citazioni
testuali.
ALESSANDRO DèAFRODISIAQuaestlones, II, 21, p. 68, 19 segg. Bruns =
SVF II, 1118
Certo a proposito del rapporto fra servo e padrone si deve dire che
vi è uno scambio reciproco fra l’uno e l’altro … ma quanto al dire
che la salvezza degli dèi esige l’azione umana, sembra essere del
tutto assurdo. E come potrebbe essere altrimenti? Assurdo più o meno
allo stesso modo è il dire che «il fine e il bene della divinità è
in vista dell’ordine e della provvidenza che si esercita sui
mortali»… Se la divinità esercita tutta la sua funzione non in vista
di se stessa, ma in vista della salvezza dei mortali, ciò vuol dire
che essa esiste in funzione dei mortali. E non dovrà proprio far
altro che questo la divinità, per coloro i quali ritengono che la
sua essenza consiste nell’e-sercitare la provvidenza. Che altro
infatti è il divino secondo chi scrive: «c’è qualcosa di residuo
della neve se si tolga da essa il bianco o il freddo, o del fuoco se
gli si tolga il caldo, dal miele se gli si tolga il dolce,
dall’anima se le si tolga il movimento, dalla divinità se le si
tolga la provvidenza?»
PORFIRIO, De abstin., III, 20 = SVF II, 1152
Ma questo, per Zeus, sarebbe da credersi dai discorsi di Cri-sippo,
che gli dèi abbiano generato noi uomini per se stessi e per noi l’un
con l’altro, gli animali li abbiano fatti per noi: i cavalli per far
la guerra con noi, i cani per fare la guardia per noi, le pantere,
gli orsi, i leoni per farci esercitare il coraggio. Quanto al
maiale, qui sta la più graziosa delle amenità — non fu generato se
non per essere ucciso, e la divinità mischiò al corpo la sua anima
come sale, studiandosi di offrirci un’ottima vivanda. Perché noi
avessimo abbondanza di brodi e contorni ci ha foggiato ostriche di
vario genere e conchiglie di porpora e generi vari di alati, non
attingendo altrove ma da se stesso producendo ogni sorta di
gradevolezze, superando ogni nutrice e riempiendo fittamente di
piaceri e godimenti il nostro abitacolo terrestre429.
CICERONE, De nat. deor., II, 14, 37 = SVF II, 1153
Sapientemente infatti Crisippo dice che, come l’involucro è fatto
per lo scudo e la vagina per la spada, così, se si eccettua il mondo
nel suo insieme, tutte le altre cose sono state generate per altri:
per esempio le messi e i frutti che nascono dalla terra per gli
animali, gli animali a loro volta per l’uomo, il cavallo per
trasportare, il bove per arare, il cane per la caccia e per la
guardia.
CICERONE, De nat. deor., II, 64, 160 = S VF II, 1154
Il maiale che cosa ha di per sé se non il godimento che può offrire?
Perché non imputridisse, l’anima, dice Crisippo, gli è stata data
come il sale. La natura in realtà non ha prodotto nulla di più
fecondo di questo animale in vista del nutrimento degli uomini430.
PLUTARCO, Quaest. plat., II, 1, iooof = S VF II, 1158
Non si chiama padre della membrana fetale chi ha dato il seme, anche
se pure questa da quel seme è stata generata.
PLUTARCO, De Stole, rep., 1, 1044e = S VF II, 1160
…colui che loda la provvidenza perché ci ha fornito pesci, e
uccelli, e miele, e vino431.
PLUTARCO, De comm. not., 13, 1065b = SVF II, 1181
«In un coro vi è armonia se nessuno in esso stona, e in un corpo
salute se nessun membro di esso soffre malattia. Però la virtù non
può aver luogo se non vi sia anche il vizio: così come ad alcune
prestazioni mediche sono necessari ingredienti come il veleno del
serpente o la bile della iena, così è in certo modo opportuna la
malvagità di Meleto perché si attui la giustizia di Socrate, la
sfrenatezza di Cleone per la bravura di Pericle; e come Zeus avrebbe
potuto generare un Eracle e un Licurgo se non ci avesse in pari
tempo generato anche Sardanapalo e Fala-ride?… In che differiscono
da quelli che fanno queste vacue chiacchiere coloro che affermano:
«non si verifica invano la sfrenatezza nei riguardi della
compostezza, la ingiustizia nei riguardi della giustizia?»
…O vuoi prendere in esame fino a che punto di piacevolezza arriva la
sua perizia e la sua credibilità? «Come le commedie» egli dice
«contengono versi ridicoli che di per sé sono deteriori, ma che in
qualche maniera conferiscono al buon effetto della composizione
poetica nel suo insieme, così si dovrebbe biasimare sempre il vizio
in sé e per sé, e tuttavia esso non è privo di utilità per
l’universo nel suo insieme».
CICERONE, De divin. II, 63, 130 = SVF II, 1189
Crisippo definisce la divinazione con queste parole: «capacità di
conoscere, vedere, spiegare i segni che dagli dèi sono offerti agli
uomini; il suo compito è quello di conoscere in precedenza quali
siano gli intenti degli dèi nei riguardi degli uomini, di che cosa
essi li avvertano, e in che modo si possa prevederli e scrutarli in
anticipo». Definisce anche in questa forma la comprensione dei
sogni: «capacità di comprendere e spiegare quali siano gli
avvertimenti che gli dèi mandano agli uomini nei sogni».
CICERONE, De divin., I, 38, 82-84 = SVF II, 1192
Che ciò avvenga veramente lo si argomenta con questo ragionamento
stoico: «Se ci sono gli dèi, nel caso che essi non rendessero chiare
agli uomini in precedenza le cose che dovranno avvenire, vorrebbe
dire che essi o non amano gli uomini, oppure che non conoscono il
futuro, o ancora che non ritengono di nessuna importanza per gli
uomini sapere quale il futuro sarà; o che non ritengono all’altezza
della loro maestà il far sapere agli uomini gli avvenimenti futuri,
o che non possono ri velarli nemmeno loro, che sono gli dèi. Ora,
non è possibile che non ci amino, giacché sono benefici e amici del
genere umano; né che ignorino cose che sono fondate e determinate da
loro stessi; e non è vero che non abbia alcun interesse per noi
sapere ciò che avverrà (se lo sapremo, ci comporteremo con maggior
cautela). Non è neanche possibile che essi considerino ciò alieno
dalla loro maestà; giacché nulla è più elevato della beneficienza.
Non è infine possibile che essi non possano conoscere in precedenza
il futuro. Non è possibile che essi siano dèi e non possano rivelare
il futuro: è quindi evidente che lo rivelano. Se lo rivelano, non è
neanche possibile che non ci offrano alcun mezzo per conseguire la
scienza di tale rivelazione: la loro rivelazione sarebbe in tal caso
vana. Né è possibile che ci offrano i mezzi e che non esista l’arte
della divinazione: ecco dunque che questa esiste… Di questo
ragionamento fanno uso Crisippo, Diogene, Antipatro432.
CICERONE, De divin., I, 20, 39 = SVF II, 1199
Ma passiamo ai sogni; discorrendo dei quali Crisippo, col suo
raccogliere molti racconti particolareggiati di singoli sogni, fa lo
stesso che Antipatro; egli ricerca e raccoglie una serie di dati
che, spiegati in virtù dell’interpretazione di Antifonte433,
rivelano l’acume dell’interprete; avrebbe però dovuto servirsi di
esempi più importanti.
CICERONE, De divin., I, 52, 118 = SVF II, 1209
Stabilito e concesso questo, che esiste una certa capacità che regge
la vita degli uomini, non è difficile arguire, per quelle cose che
comprendiamo con certezza che avverranno, in virtù di quale ragione
avvengano. Per esempio, quando si tratta di scegliere una vittima,
non è strano che si sia guidati alla scelta da una capacità
intuitiva che permea tutto l’universo, e che, qando si sia proprio
sul punto di immolare la vittima, si verifichi un cambiamento delle
viscere, di modo che qualcosa venga meno o sovrabbondi: in pochi
istanti molte cose la natura può foggiare, o mutare, o togliere434.
CICERONE, De divin., II, 56, 115 = SVF II, 1214
Ma vengo a te, o santo Apollo… Crisippo ha riempito infatti il suo
volume dei tuoi oracoli, in parte falsi, credo, in parte veri per
caso, così come avviene spessissimo di discorsi di quel tipo, che
sono in parte intricati e oscuri sì che un interprete deve ricorrere
a un altro interprete, e le sorti devono essere rinviate ad altre
sorti; in parte ambigui, e tali da dover esser dati da spiegare a un
esperto in dialettica.
CICERONE, De divin, I, 19, 37 = SVF II, 1214
Crisippo raccolse un numero stragrande di oracoli, e tutti corredati
da autorità e testimonianze ragguardevoli.
ETICA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 84 SVF III, 1
La parte etica della filosofia, la dividono in una trattazione
sull’impulso, una sui beni e i mali, una sulle passioni e sulla
virtù, una sul fine, e ancora altre sul primo e fondamentale merito,
sulle azioni, sui doveri, sulle esortazioni e sui divieti. Questa
suddivisione la fanno, con i loro seguaci, Crisippo, Archedemo,
Zenone, Apollodoro, Diogene, Antipatro, Posidonio.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 89 SVF III, 4
La natura in accordo alla quale si deve vivere, Crisippo la
definisce come natura universale e come natura umana in senso
proprio.
Commenta Lucani, II, v. 380, p. 73 Usener = SVF III, 5
Con questi versi egli dichiarò che Catone era uno stoico435; giacché
il fine, per i filosofi di questa setta (a quanto dice Cri-sippo) è
vivere in accordo con la natura.
CICERONE, De finib., IV, n, 28 = SVF III, 20
Crisippo poi, spiegando quale sia la differenza fra gli esseri
animati, dice che alcuni sono particolarmente prestanti per doti
fisiche, altri per quelle dell’anima, altri poi sono eccellenti
sotto entrambi questi aspetti; e poi discute il problema quale punto
massimo si possa stabilire per ciascuno dei vari generi di esseri
animati. Poiché ha posto l’uomo in quel genere cui più si conviene
l’eccellenza dell’anima, pone poi come bene supremo per l’essere
umano non semplicemente l’eccellere per doti dell’anima, ma
l’identificarsi addirittura con l’anima stessa nella sua essenza436.
CICERONE, Acad. pr.,45, 138 = SVF III, 21
Attesta spesso Crisippo che circa il limite estremo dei beni ci sono
tre teorie possibili a sostenersi. Egli elimina e taglia un gran
numero di opinioni possibili: in realtà o il fine è l’onesto, o è il
piacere, o è l’uno e l’altro insieme. Quelli che dicono che il sommo
bene si identifica con l’assenza di affanni, anche se rifuggono dal
nome loro sgradito di piacere, sono in realtà assai prossimi alla
sostanza della cosa; e lo stesso fanno quelli che credono di poter
congiungere questa medesima cosa con l’onesto; e nemmeno molto
lontano da ciò vanno quelli che all’onesto aggiungono i beni
primarii secondo natura437. Perciò egli ammette solo tre opinioni
che ritiene possano sostenersi con probabilità.
CICERONE, Acad. pr., 46, 140 = SVF III, 21
Resta una cosa: che è conveniente sia in dissidio il piacere con
l’onesto. Per questo, a quanto ho appreso, si batté molto Crisippo.
Se si corra dietro al piacere, molte cose vanno in rovina,
soprattutto la comunanza col genere umano, l’amore, l’amicizia, la
giustizia, tutte le altre virtù; nessuna di queste può sussistere se
non è disinteressata. Quella che è spinta al dovere dalla previsione
del piacere come compenso, non è virtù, ma una fallace imitazione e
simulazione di virtù438.
CICERONE, De finib., II, 14, 44 = SVF III, 22
Così, lasciate da parte le opinioni degli altri, mi rimane il
contrasto non fra me e Torquato, ma fra la virtù e il piacere.
Questo contrasto un uomo acuto e diligente come Crisippo non lo ha
certo considerato disprezzabile: egli ritiene anzi che tutta la
differenza del sommo bene dal resto sia da riporsi in esso.
PLUTARCO, De comm. not., 27, 107If = SVF III, 26
Vedi come Crisippo spinga Aristone su questo punto alla massima
perplessità, obiettandogli che le cose (non dànno luogo di per
sé)439 alla nozione di indifferenza fra bene e male se non c’è prima
in noi la nozione del bene e del male; l’indifferenza infatti in tal
modo sarebbe presupposta a se stessa, se non fosse possibile avere
nozione di essa senza prima aver nozione del bene, ma essa stessa in
pari tempo non fosse altro che il bene.
CICERONE, De finik, IV, 25, 68 = SVF III, 27
Dal momento che si conferma essere bene solo quello ch’è onesto, si
elimina la cura della salute, l’amministrazione diligente del
patrimonio, l’ordine nel condurre gli affari, tutti i doveri della
vita usuale; ma alla fine si dovrà abbandonare anche quell’onesto
cui secondo voi tutto si riduce. Queste cose sono dette con molta
esattezza da Crisippo contro Aristone.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 26, 10466 = SVF III, 53
Se egli avesse semplicemente ritenuto che la saggezza sia produttiva
di felicità, come Epicuro440, bisognerebbe prendersela solo con
l’assurdità e con la stranezza di questa dottrina; ma, dal momento
che la saggezza, a quanto egli ritiene, non è altra cosa dalla
felicità ma si identifica con la felicità stessa, non è forse
contraddittorio il dire che la felicità di un istante è da
scegliersi allo stesso modo che quella eterna, ma poi anche che la
felicità di un istante non è degna di nulla?
PLUTARCO, De comm. not., 8, ioóif = SVF III, 54
Quegli ultimi non solo dicono queste cose, ma ad esse aggiungono
anche che «il tempo avanzando non accresce il bene, ma, anche se uno
sia saggio per un istante di tempo, non la cede in nulla quanto a
felicità a colui che goda della virtù per l’eternità del tempo e
passi la sua vita felicemente in essa».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 26, io46e = SVF III, 54
…avendo (Crisippo) detto che non siamo più felici per il trascorrere
del tempo, ma allo stesso modo lo sono coloro che godono della
felicità per un tempo istantaneo.
STOBEO, Eclog., II, 7, ng, p. 98 Wachsmuth = SVF III., 54
Perciò dicono che i buoni sono sempre in assoluto felici, e infelici
i cattivi. E la felicità dei primi non differisce affatto da quella
divina, neanche la gioia di un istante, dice Crisippo, differisce da
quella di cui gode Zeus; la felicità di Zeus non è preferibile a
quella degli uomini sapienti, né è più bella né più elevata.
TEMISTIO, Oral Vili, ioid=SVF III, 54
Crisippo sembra abbia fatto sfoggio di ardire fino nelle sue
espressioni, dal momento che dice che per un uomo buono un solo
giorno, addirittura una sola ora vale più che non molti anni.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 18, 1042a = SVF III., 55
(Crisippo) in tutti i suoi libri fisici ed etici identifica la
cattiveria con Pinfeticità stessa, scrivendo e sostenendo
continuamente che essere nel vizio equivale a vivere
nell’infelicità.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 30 = SVF III., 73
La felicità è … come affermarono Zenone e Cleante e Crisippo, «buono
scorrere della vita».
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., Ili, 102 = SVF III., 117
Dicono che delle cose che esistono le une sono beni, le altre mali,
altre ancora indifferenti… Indifferenti sono quelle che non recano
vantaggio né danno: per esempio la vita, la salute, il piacere, la
bellezza, la forza, la ricchezza, la buona fama, la buona nascita; e
così pure i loro contrari, la morte, la malattia, il dolore, la
vergogna, la debolezza, la povertà, l’oscurità, la nascita umile e
tutto ciò ch’è di questo tipo. Lo dicono Ecatone nel libro VII del
suo Del fine e Apollodoro nell’Etica e Crisippo441. Questi non sono
beni, ma sono indifferenti che possono esser preferibili secondo la
specie: così come del caldo è proprio il riscaldare e non il
raffreddare, così del bene lo è il giovare, non il danneggiare; ma
la ricchezza o la salute non si può dire che di per sé giovino
piuttosto che nuocciano; né Puna né Paltra sono quindi un bene.
Dicono ancora: ciò di cui si può fare buono o cattivo uso, non è un
bene; ma della ricchezza e della salute si può fare buono o cattivo
uso; né la ricchezza né la salute sono quindi dei beni.
PLUTARCO, De Stole, rep., 31, 1048C = SVF III, 123
Fanno più chiara questa contrapposizione nella dimostrazione. Ciò di
cui è possibile far uso bene o male, dicono che non è né un bene né
un male di per sé. Ma della ricchezza, della salute, della forza
tutti gli stolti fanno cattivo uso. Nulla di tutto questo perciò può
essere un bene.
PLUTARCO, De Stole, rep., 30, io47e = SVF III, 138
Ma Crisippo rese tutta la questione più confusa: talvolta infatti
dice: «è folle chi consideri cosa da nulla la ricchezza e la salute
e Passenza di dolore e la integrità del corpo e non cerchi di
mantenersi simili cose»; talvolta invece, citando il verso di
Esiodo, «Lavora, Perse, stirpe divina», afferma che sarebbe da pazzi
raccomandare il contrario, e cioè: «non lavorare, Perse, stirpe
divina»442.
ALESSANDRO DèAFRODISIAIn Arisi. Top., p. 79, 5 Wallies = SVF III,
147
…sia la salute un bene o non lo sia come dice Crisippo.
CICERONE, De finlb., I, n, 39 = SVF III, 158
In Atene, come ho sentito dire da mio padre che prendeva in giro
garbatamente gli Stoici, c’è nel Ceramico una statua di Crisippo in
atto di porgere la mano443; quel gesto allude a una
argomentazioncina di cui egli si compiaceva: «Forse la tua mano,
trovandosi ad essere nella condizione in cui attualmente si trova,
desidera qualcosa? Certo nulla. Ma, se il piacere fosse un bene, lo
desidererebbe? Penso di si. Il piacere non è dunque un bene»444.
CICERONE, De finib., III, 17, 57 = SVF III, 159
Circa la buona fama (quella che essi chiamano eù8o•ia, mi sembra più
opportuno tradurlo con «buona fama» anziché con «gloria»), Crisippo
e Diogene dicevano che, se si tolga l’utilità che può arrecarci, non
c’è da porgere neanche un dito per essa; e mi trovo in perfetto
accordo con loro. Invece quelli che sono venuti dopo, non potendo
resistere agli attacchi di Cameade, hanno affermato che quella che
ho chiamata buona fama va perseguita e scelta di per sé445.
ALESSANDRO DèAFRODISIAQuaestiones, IV, p. 118, 23 sgg. Bruns = SVF
III, 165
«Se navigare bene è un bene, navigare male è un male, navigare non è
di per sé né bene né male; e così pure, se vivere bene è bene e male
è male, vivere non è di per sé né bene né male».
PLUTARCO, De Stoic. rep., 47, 1057a = SVF III, 177
Di che cosa Crisippo e Antipatro hanno fatto soprattutto questione
nei loro attacchi contro gli Accademici?446 Del non potersi dare
azione o impulso senza assenso; essi sostengono che argomentano
falsamente e fanno ipotesi vane quelli che credono che,
presentandosi una rappresentazione appropriata, la si possa seguire
immediatamente per puro impulso senza bisogno di assenso. Dice però
ancora Crisippo: «Sia la divinità sia il sapiente possono ingenerare
rappresentazioni false, poiché hanno bisogno non che noi diamo il
nostro assenso e li seguiamo ma solo che agiamo e moviamo di puro
impulso verso l’oggetto della rappresentazione; e noi, per la nostra
debolezza, poiché siamo dappoco, assentiamo a queste
rappresentazioni». E ben visibile il non coordinamento e la
contraddizione che sussiste fra queste diverse affermazioni. Quella
divinità o quel sapiente che non ha bisogno che colui cui presenta
le rappresentazioni dia l’assenso, ma solo che agisca, riconosce con
ciò che le rappresentazioni sono sufficienti per l’azione, gli
assensi superflui…
PLUTARCO, De Stole, rep., 42, 1038b = SVF III, 179
Perché Crisippo va ripetendo fino alla nausea in tutti i suoi libri
fisici ed etici che noi siamo apparentati anzitutto con noi stessi
fin dalla nascita, e con le nostre membra, e con la nostra prole?447
IEROCLE, Elemento, ethlces, pap. 9780, ecl. Vili, 10 segg., p. 37
Arnim-Schubart448
Due uomini della nostra setta, Crisippo e Cleante, accedono a
rappresentazioni diverse circa questo: e Crisippo dice: «una parte
delle proprie …449 all’inizio la rappresentazione è indeterminata
(àoptaTci)S7]s) e la percezione generica (óXoaxepr^)
ARRIANO, Epici, disseri., II, 6, 9 = SVF III, 191
Per questo dice giustamente Crisippo: «finché non mi sia chiaro il
futuro, mi attengo alle cose di miglior natura per poter raggiungere
ciò che è secondo natura; la divinità stessa mi ha formato atto a
scegliere queste cose. Se sapessi che è fissato dal destino che io
abbia una malattia, sarei portato dall’impulso a cercarla. Anche il
piede, se avesse facoltà di comprendere, sarebbe portato per impulso
a infangarsi».
PLUTARCO, De comm. noi., 8, 10Ó2a = SVF III, 210
Dicono ancora: «non c’è alcun vantaggio in una virtù di breve tempo.
Che giovamento porta il conseguire la virtù a chi sta per naufragare
o cadere in un burrone? Che importanza ha che passi dalla cattiveria
alla virtù un Lica che sta per esser colpito dalla fionda di
Eracle?»450
DIOGENE LAERZIO, Viiae philos., VII, 127 = SVF III, 237
Crisippo dice che la virtù può essere perduta, Cleante dice di no;
Crisippo ammette che la si possa perdere in caso di ubriachezza o di
pazzia, Cleante dice che non è possibile, perché poggia su atti di
comprensione sicuri451.
PLUTARCO, De comm. noi., 33, 107Óa = SVF III, 246
Ma secondo Crisippo non resta loro neanche questo: «Zeus non supera
in virtù Dione, e Zeus e Dione si recano vantaggio reciproco,
essendo entrambi sapienti, quando l’uno venga a contatto con
l’altro».
TEMISTIO, Orar. II, 270 = SVF III, 251
Se qualcuno ci dicesse che è un atto di adulazione paragonare il re
con Apollo Pizio, non gli darebbero ragione Crisippo né Cleante né
tutta quella setta di filosofi, il coro del Portico, i quali dicono
cbe sono uguali la virtò e la veritÀ nell’uomo e in dio452.
PLUTARCO, De virt. mor. 2, 44Ia = SVF III, 255
Sembra che anche Zenone di Cizio fosse propenso a questa opinione:
egli definisce la giustizia saggezza nella distribuzione, la
temperanza saggezza nella scelta, la fortezza saggezza nel
sopportare; quelli che lo sostengono spiegano che con saggezza
(cppóvrjcnc;) Zenone intendeva la scienza (ì%mxi\^r\). Crisippo
però, col suo ritenere che la virtù qualitativamente differenziata
avesse una sua sussistenza propria secondo queste sue determinate
qualità, non si accorse di suscitare, per dirla con Platone, uno
«sciame di virtù»453, in forma non usuale né rispondente alla
nozione comune. Poiché, come nel forte c’è fortezza, nel mite
mitezza, nel giusto giustizia, egli poneva nel grazioso la grazia,
nel nobile la nobiltà, nel grande la grandezza, nel bello la
bellezza, e foggiava virtù del tipo di destrezza, gentilezza,
piacevolezza, finì col riempire di molti nomi assurdi la filosofia
che proprio non ne aveva bisogno.
PLUTARCO, De Stole, rep., 7, 1034d = SVF III, 258
Non solo Zenone a questo proposito appare in contraddizione con se
stesso, ma anche Crisippo, il quale da un lato rimprovera Aristone
per aver detto che tutte le virtù non sono altro che modi di essere
di una sola, ma poi dà ragione a Zenone per aver definito in tal
modo le singole virtù.
DIOGENE LAERZIO, Vitae phllos., VII, 92 = SVF III, 261
Panezio dice che vi sono due virtù … quattro ne ammette Posidonio,
di più Cleante e Crisippo454.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 24, 53 = SVF III, 285
La fortezza è dunque una disposizione dell’anima che obbedisce alla
legge suprema che ordina di sopportare; oppure una conservazione del
proprio fermo giudizio in ordine al subire o al respingere ciò che
appare da temersi; o la scienza delle cose che sono da temersi e
delle loro contrarie, o di quelle del tutto trascurabili, che
mantiene fermo il giudizio su tutte queste; o più in breve, secondo
Crisippo — le definizioni precedenti sono infatti di Sfero455, uomo
fra i più abili nel dare definizioni, a giudizio degli Stoici: tutte
queste definizioni sono infatti abbastanza simili l’una all’altra,
però alcune più di altre manifestano chiarezza quanto alle nozioni
comuni — che cosa dice, infine, Crisippo? che la fortezza è la
scienza di saper sopportare le cose, oppure che è una disposizione
dell’anima ad obbedire senza timore alla legge suprema nel
sopportare e tollerare.
PLUTARCO, De Stole, rep., 27, 1046e = SVF III, 299
Egli dice che le virtù sono conseguenti le une alle altre; non solo
perché chi ne possiede una le ha tutte, ma perché, anche, chi compie
qualcosa secondo una di esse agisce secondo tutte. E dice che non è
uomo perfetto chi non abbia tutte le virtù, né è perfetta
quell’azione che non sia compiuta secondo tutte le virtù.
PROCLO, In Piai. Alcibiadem I, p. 148, 20 segg. Westerink = SVF III,
310
L’intero sillogismo inteso a dimostrare che il giusto è utile
procede in questo modo: «ogni cosa giusta è anche bella, ogni cosa
bella è anche buona; quindi ogni cosa giusta è anche buona; ma ciò
che è buono si identifica con l’utile; quindi ogni cosa giusta è
anche utile… Il bene dell’anima poi non consiste in altro che non
sia la virtù; e lo stesso si può dire per il bello; ma tutto ciò che
è buono si definisce in base al concetto di virtù; e il bello si
identifica col bene, e tutti e due sono giusti.Se si sia saggio e
forte, si deve essere anche giusto, secondo la connessione reciproca
delle virtù; non è possibile infatti esser saggi e al tempo stesso
vivere nell’ingiustizia; né esser forti e in pari tempo esser privi
di giustizia; la stessa specie di vita è propria di tutte le virtù».
CICERONE, Tusc. disp,, I, 45, 108 = SVF III, 322
Ma perché prestar tanta attenzione alle opinioni dei singoli, quando
si possono attingere tanti esempi dagli errori dei popoli? Gli Egizi
imbalsamano i morti e li conservano nelle loro case; i Persiani li
spalmano tutti di cera perché i loro corpi si salvino dalla
decomposizione il più a lungo possibile.
E costume dei Magi non seppellire i corpi dei loro defunti se prima
non li abbiano dati in pasto alle belve. In Ircania il popolo alleva
cani a spese pubbliche, e i più abbienti ne allevano nelle loro case
(notoriamente si tratta di cani di razza eccellente), ciascuno
insomma se ne procura secondo le sue possibilità, per esser dati
loro in pasto, sepoltura questa che essi stimano esser la migliore.
Molte altre cose del genere Crisippo raccolse, curioso come era
nella ricerca erudita: alcune di queste cose però sono così orrende
che si rifugge dal parlarne quasi con paura.
DIOGENIANO presso EUSEBIO, Praep. evang., VI, 8, 14 = SVF III, 324
Come puoi dire, (o Crisippo), che tutte le leggi positive e tutte le
forme di città deviano dal retto?456
SENECA, De beneficiis, III, 22 = SVF III, 351
Il servo, secondo la definizione di Crisippo, è un mercenario
perpetuo. Così come il mercenario offre un beneficio quando le sue
prestazioni superano il prezzo al quale è stato ingaggiato, così il
servo, quando nel servire il padrone oltrepassa la misura che
sarebbe propria della sua sorte e, elevandosi a qualcosa che sarebbe
degno di lode anche in uomini nati in condizione più felice, va
oltre le aspettative del padrone, si rivela come un beneficio
nell’ambito della casa.
CICERONE, De finib., III, 20, 67 = SVF III, 371
E così come ritengono che fra gli uomini ci sia la base per una
comunanza di norme giuridiche, allo stesso modo non ritengono che
questo sussista fra l’uomo e gli animali. Benissimo diceva Crisippo
che tutte le altre cose sono state generate in ordine all’esistenza
degli uomini e degli dèi, ma questi solo in ordine alla stessa
comunanza e società che vige fra loro; sì che degli animali gli
uomini possono valersi in vista della propria utilità, senza
commettere ingiustizia alcuna; infatti tale è la natura dell’uomo
che questi ha relazioni giuridiche nei riguardi del genere umano
quasi nei riguardi di concittadini, ed è giusto chi osserva questo
diritto, iniquo chi se ne discosta. Ma come, di un teatro, benché
sia aperto a tutti, purtuttavia si può dire che ciascuno può
legittimamente appropriarsi del posto che ha occupato per primo,
così nella città o nel mondo che è di tutti non vi è alcuna
disposizione di diritto contraria a che ciascuno possieda quel che
gli è proprio.
PLUTARCO, De virt. mor., 9, 440 = SVF III, 384
E dicono che, se si è in una circostanza di forzatura esterna «non è
un qualunque giudizio la passione, ma un giudizio mosso da impulso
violento e sovrabbondante»; e con ciò riconoscono che altra è in noi
la facoltà che giudica e altra quella che subisce affezioni, e che
stanno fra loro nel rapporto di movente e mosso. Lo stesso Crisippo,
in molti suoi scritti, per il fatto stesso che definisce la costanza
e la padronanza di sé atteggiamenti conseguenti alla ragione nel suo
atto di scelta, chiaramente dimostra di esser forzato ad ammettere
che altro è in noi ciò che è un atto conseguente da un atteggiamento
di persuasione rispetto a ciò che suscita resistenza non avendoci
persuaso.
CICERONE, Tusc. disp., III, 22, 52 = SVF III, 417
Resta l’opinione dei Cirenaici: i quali ritengono che la tristezza
d’animo si verifichi quando qualcosa avviene contro le
aspettative457. Questa è una cosa certo importante, come ho detto
sopra: anche Crisippo, a quanto so, riteneva che ciò che non è
previsto colpisca con maggior forza.
CICERONE, Tuse. disp., IV, 10, 23-24 = SVF III, 424
Così come, quando il sangue è corrotto e ridonda di catarro o di
bile, nascono nei corpi infermità e malattie: allo stesso modo il
turbamento prodotto da opinioni malvage e reciprocamente
contrastanti toglie all’anima la sua salute e lo affligge di
malattie. Dalle perturbazioni nascono in primo luogo quei malanni
che essi chiamano vocnpaTa, e poi quelle affezioni che sono
contrarie a tali malattie ma che arrecano nei riguardi di cose
sicure una forma di indisposizione e di fastidio, afflizioni si può
dire, che gli Stoici chiamano àppcoaTTjfxaxa, e similmente forme di
indisposizione opposte e contrarie a queste. Fin troppo impegno
mettono gli Stoici, e soprattutto Crisippo, nel paragonare
minutamente le malattie del corpo con quelle dell’anima. Ma
lasciando stare la descrizione particolareggiata di tutto questo,
che non è assolutamente necessaria, veniamo a trattare la sostanza
della cosa. Si deve comprendere che una perturbazione, per il vario
agitarsi delle opinioni, consiste in un moto incostante e torbido;
quando poi questa agitazione e concitazione dell’anima ha superato
un certo spazio di tempo e si è come depositata nelle vene e nelle
midolla, ecco che sorge la malattia, l’afflizione, le indisposizioni
nei due sensi opposti. Tutte le cose che dico si distinguono fra
loro concettualmente, nella realtà delle cose però sono congiunte, e
nascono dal desiderio e dall’esultanza. Quando infatti si desidera,
per esempio, il denaro, e non si fa uso subito della ragione come di
una medicina socratica, capace di sanare tale desiderio, il malanno
si diffonde per le vene e si annida nelle viscere, e sorge una
malattia e un’afflizione, e queste, se passa un certo tempo, non si
possono più estirpare; tale malattia ha il nome di avidità. Lo
stesso vanno le cose per le altre malattie del genere, il desiderio
di gloria, l’amore sfrenato per le donne, per chiamare così quello
che i Greci chiamano txoyuvia, e le altre malattie e afflizioni, che
nascono tutte allo stesso modo… Quelle tendenze che sono ad esse
contrarie, si ritiene che nascano dal timore: così per esempio
l’odio per le donne, come quello che è nel Misogino di Atilio458, o
l’odio per tutto quanto il genere umano, quale sappiamo essere stato
quello di Timone che viene chiamato il misantropo459, o l’avversione
per gli ospiti; afflizioni dell’anima che tutte quante nascono da un
timore di quelle cose che si vuol fuggire e che si detestano.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., IV, 4, p. 354 Mùller = SVF III,
440
…(Egli, Crisippo) che non concede che parole come ouaxóve-c9ai e
aìSetaOai (vergognarsi) o come ^BeaGoci e yaipuv (rallegrarsi) si
dicano ugualmente a proposito dello stesso soggetto, ma ritiene nei
suoi scritti che si debba usare di estrema esattezza anche nelle
parole.
GIROLAMO, Adversus Pelagianos, II, 6, P.L.XXIII, coli. 566-567
Quattro sono le perturbazioni da cui è tormentato il genere umano,
due relative al presente e due relative al futuro: due relative a
beni e due relative a mali. L’afflizione, che in greco si dice
XUTCT], e la gioia, che essi chiamano x«pé o rjSovri — benché per lo
più TQSOVTJ significhi «piacere» — si riferiscono l’una al male,
l’altra al bene. Oltrepassiamo la giusta misura se godiamo
eccessivamente di ciò di cui non dobbiamo godere, la ricchezza, il
potere, le cariche, le disgrazie dei nostri nemici o la loro morte;
oppure quando in maniera contraria e analoga, ci affliggiamo troppo
per i mali presenti, le avversità, l’esilio, la povertà, la
malattia, la morte dei nostri cari … e anche se desideriamo
avidamente quelli che crediamo essere beni, le eredità, le cariche,
la prosperità in generale, la salute del corpo, e tutto il resto per
cui godiamo se ci è concesso, e temiamo troppo tutte quelle cose che
riteniamo esserci contrarie; tutte cose delle quali per gli Stoici,
cioè Zenone e Crisippo, si può fare totalmente a meno, mentre per i
peripatetici è difficile e perfino impossibile460.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac, V, 6, p. 4^8 Mùller = SVF III,
460
«Quanto alla causa delle passioni, cioè della inconseguenza e della
vita infelice, essa consiste nel non seguire in tutto e per tutto il
dèmone che sta in noi di natura affine e simile a quello che governa
tutto il cosmo, e al pendere e lasciarsi trasportare verso quello
peggiore e animale. Ma costoro, trascurando questo, non individuano
meglio la causa delle passioni né, parlando della felicità e
dell’inconseguenza, dicono cose giuste. Non vedono che è nelPanima
stessa la facoltà di non lasciarsi guidare da ciò eh’è irrazionale,
infelice, empio». Chiaramente con ciò Posidonio ci insegna quanto
sbaglino Crisippo e i suoi seguaci, non solo nei loro ragionamenti
sulle passioni ma anche in quelli sul fine461. Il vivere in coerenza
con la natura non sta in quello che essi dicono, ma in quello che ci
ha insegnato Platone.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac, IV, 3, p. 349 Mùller = SVF III,
462
Non ha cercato di risolvere le questioni trattate contro l’opinione
degli antichi, confrontando questa con la propria; ora sembra
ritenere che le passioni si verifichino senza ragione né atti di
giudizio, ora afferma che non solo sono conseguenti a giudizi, ma
addirittura che siano giudizi esse stesse. Il non aver nessuna
relazione col giudizio è assolutamente contrario al fatto che la
passione sia una sorta di giudizio, a meno che, per Zeus, qualcuno
per porgergli aiuto non volesse dire che con la parola «giudizio» si
allude a più cose diverse, e nella spiegazione della definizione
volesse dire che con «giudizio» ha inteso qualcosa di simile a
«esame», sì che il dire «senza giudizio» equivalga a dire «senza
esame», e che, dove ha detto che le passioni sono giudizi, si
intendesse con giudizio l’impulso e l’assenso. Ma se si accetti
questo, la passione sarà pur sempre un assenso eccessivo; e
Posidonio potrà dirci di nuovo la causa di questo eccesso, oltre al
fatto che Crisippo ha commesso a questo proposito nel suo
insegnamento un grandissimo errore. Se in questo sta la forza
dell’argomento, nel chiarire la omonimia e nel dimostrare che sotto
un certo aspetto le passioni si producono senza giudizio, secondo un
altro sono esse stesse giudizi, dal momento che egli non lo ha fatto
nemmeno in uno dei quattro libri che ha scritto sulle passioni, come
si potrebbe non rimproverarlo?
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., IV, 4, p. 353 Mùller = SVF III,
462
Poiché dice che le passioni si generano per atto di ribellione e per
distorsione rispetto alla ragione, è assurdo che non si chieda se
non vi sia un’altra facoltà dell’anima per il cui moto esse si
generano così. Ma egli ritiene che quella che altri filosofi
chiamano facoltà impulsiva o appetitiva non sia tale, bensì che
tutta la parte direttiva dell’anima si indentifichi con la parte
razionale.
PLUTARCO, De virt. mor., 3, 441C = SVF III, 459
Insieme tutti questi (Aristone, Zenone, Crisippo) ritengono esser la
virtù una disposizione e una capacità della parte direttiva
dell’anima, derivante da ragionamento, ancor più, identifi-cantesi
col ragionamento essa stessa, e in forma solida e immutabile; e
ritengono anche che la parte affettiva e irrazionale dell’anima non
sia distinta dalla parte razionale per una specifica differenza e
natura, ma che la stessa parte dell’anima, che essi chiamano
pensiero e parte direttiva, volgendosi totalmente e mutandosi o in
passioni, o in forme che seguono una disposizione costante, divenga
alternativamente vizio o virtù, senza avere in sé nulla di
irrazionale; semplicemente si dice irrazionale, quando, essendo
divenuto eccessivo Pimpulso, e particolarmente forte e dominante,
sia trascinata verso un’azione assurda contro le scelte della
ragione. La passione non è altro che ragione malvagia e sfrenata,
che riceve forza e veemenza da un giudizio cattivo ed errato462.
GALENO, De Hippocr. et Fiat, plac., IV, y, p. 391 Mùller = SVF III,
481
Questa definizione, egli (Posidonio) dice, della vendetta, così come
molte altre di passioni, dette da Zenone e scritte da Crisippo,
chiaramente confuta la opinione di costui. Egli dice che il dolore è
«un’opinione recente di un male che sopravvenga a chi così pensa»; e
alcuni per esprimersi con più concisione dicono press’a poco così:
«il dolore è opinione recente della presenza di un male».
(Posidonio) dice che «recente» significa «vicino nel tempo»; la
causa per cui così dicono, ritiene che sia perché il senso
dell’imminenza fa contrarre l’anima e produce dolore, mentre quando
il lasso di tempo è più lungo non la fa contrarre del tutto o non
allo stesso modo. In verità non ci sarebbe stato bisogno che là
nella definizione si ponesse «recente», per vere che possano essere
le opinioni di Crisippo. Secondo l’opinione di questi si sarebbe
dovuto dire piuttosto che il dolore è l’opinione di un gran male
insopportabile o intollerabile, secondo i termini che egli era
solito usare, piuttosto che di un male recente463.
CICERONE, Tuse. disp., IV, 5, 9 = SVF III, 483
Crisippo e gli Stoici, quando dissertano sulle perturbazioni
dell’anima, sono impegnati per la maggior parte della trattazione
nella definizione e articolazione di queste: mentre parlano assai
poco e sporadicamente di quali siano i rimedi da usarsi perché le
anime non siano afflitte da perturbazione.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 29, 63 SVF III, 484
Ma noi abbiamo fatto ciò che Crisippo non vuole, l’applicare una
medicina a quegli stati «recenti», potremmo dire, di «tumescenza»
dell’anima464.
CICERONE, Tusc. disp., III, 25, 61 SVF III, 485
Bisogna sostenere in tutti i modi quelli che precipitano e non
possono reggersi per la immensità della loro afflizione. Questa
afflizione stessa Crisippo la chiama XU7cY, quasi fosse un
dissolversi (Xuoa) di tutto l’essere umano.
CICERONE, Tusc. disp., III, 31, 76 SVF III, 486
Crisippo poi ritiene che la cosa principale nelle consolazioni sia
il togliere tale opinione dalla mente di chi soffre, di modo che
possa pensare di svolgere un ruolo giusto e doveroso.
CICERONE, Tusc. disp., III, 25, 59 SVF III, 487
Perciò Cameade, come vedo che scrive il nostro Antioco, soleva
rimproverare Crisippo per aver lodato quei versi di Euripide465:
«nessun fra i mortali può non esser toccato dal dolore / o dal male:
molti devono seppellire i propri figli / per poi generarne di nuovi;
stabilita è per tutti la morte; / cose tutte che invano recan dolore
all’umanità. / La terra va resa alla terra: per tutti la vita / va
mietuta come le messi. Così comanda la Necessità». Ma Cameade diceva
che un discorso di questo tipo non serve in nulla ad alleviare il
dolore.
PLUTARCO, De comm. not., 23, 10690 = SVF III, 491
«Di dove devo cominciare? — egli dice. — Quale inizio posso prendere
per la definizione del dovere, quale materia per la virtù, lasciando
da parte ogni ricorso alla natura e a ciò che è secondo natura?»466
STOBEO, Eclog., IV, 39, 22, p. 906 Hense = SVF III, 510
Di Crisippo. Chi progredisce fino al sommo compie in assoluto tutti
i suoi doveri e non ne trascura alcuno. Dice che tale vita non è di
per sé felice, ma le si aggiunge la felicità quando queste azioni
intermedie467 aggiungano ad essa caratteri di solidità e di
sostanza, assumendo una consistenza propria.
PLUTARCO, De Stole. rep. n, 1037C = SVF III, 520
Dice che l’azione retta è comando della legge, l’azione errata è
proibizione della legge; per questa ragione la legge molte cose
proibisce agli uomini stolti, e nessuna ne comanda, giacché essi
sono incapaci di agire rettamente.
PLUTARCO, De comm. not., 10, ioÓ3a = SVF III, 539
«Sì, egli dice, ma così come chi sia immerso sotto la superficie del
mare di una spanna annega allo stesso modo di chi sia immerso per
cinquanta braccia, sono nel vizio non meno quelli che si avvicinano
in qualche modo alla virtù che non quelli che le sono grandemente
lontani; e così come i ciechi sono ciechi anche se può avvenire che
poco più tardi possano riacquistare la vista, così quelli che
compiono qualche progresso, fino a che non arrivano proprio alla
virtù, rimangono sempre stolti e cattivi».
STOBEO, Eclog., III, 7, 20, p. 314 Hense = SVF III, 574
Crisippo diceva che il sapiente soffre ma non è mai veramente
tentato: non cede infatti mai nella sua anima. E ha sì dei bisogni,
ma non si aspetta (jtpoaSexeTaO niente468.
DIONE CRISOSTOMO, Orat. LXIX, 4, II, p. 175 Arnim = SVF III, 584
Se l’anima è saggia e l’intelletto valido e siamo capaci di compiere
bene le cose che riguardano noi stessi e gli altri, necessariamente
si vive anche una vita felice, come uomini che vivono secondo la
legge e hanno in sorte un buon demone e sono cari agli dèi. Non è
infatti ragionevole pensare che quelli che sono saggi siano diversi
da quelli che sono esperti dei fatti della vita umana, che quelli
che sono esperti dei fatti della vita umana siano altri rispetto a
quelli che sono pii, che quelli che sono pii siano diversi da quelli
che sono cari agli dèi, che quelli che sono cari agli dèi siano
altri rispetto a quelli che sono felici. Di converso, gli uomini che
sono stolti non sono altri rispetto a quelli che ignorano le cose
che li riguardano; quelli che ignorano le cose che li riguardano non
sono altri rispetto a quelli che ignorano le cose relative agli dèi;
quelli che hanno stolte credenze circa gli dèi non sono altri
rispetto agli empi. Né è possibile che gli empi siano cari agli dèi,
né è possibile che quelli che non sono cari agli dèi non siano anche
infelici.
PLUTARCO, De comm. not., 22, 1068f-ioÓ9a = SVF III, 627
Se un sapiente, da una qualsiasi parte della terra, saggiamente
tenda un dito, tutti i sapienti della terra ne riceveranno
giovamento… Quindi erano pazzi Aristotele e Senocrate a dire che gli
uomini ricevono benefici dagli dèi, dai genitori, dai maestri,
ignorando questo mirabile giovamento che i saggi ricevono gli uni
dagli altri per un moto compiuto in base a virtù469, anche se non
stiano insieme e non abbiano alcuna opportunità di conoscersi.
PLUTARCO, De Stole, rep., 31, 1048e = SVF III, 662
E in verità Crisippo non indica come saggio nemmeno se stesso o
alcun altro della sua cerchia o anche dei suoi maestri; che dire poi
degli altri? essi ne pensano le cose che dicono: che sono pazzi
tutti quanti, che sono dissennati, empi, trasgressori delle leggi,
che giungono al massimo della sfortuna e dell’infelicità470. Ma è
possibile allora che le nostre cose siano rette da provvidenza
divina, dal momento che ci troviamo in uno stato così sciagurato? Se
gli dèi, cambiando idea, decidessero di danneggiarci e farci del
male e tormentarci, non potrebbero ridurci peggio di come siamo ora,
secondo quanto afferma di noi Crisippo, dal momento che secondo lui
la vita non ammette un grado di più alto di vizio o di infelicità
del nostro attuale: sì che, se avesse voce, direbbe le parole di
Eracle: «son pieno di mali e non vi è luogo ove possa pormi»471.
Quali discorsi si potrebbero trovare più in contraddizione fra loro
di quelli che Crisippo fa rispettivamente circa gli dèi e circa gli
uomini, che gli uni provvedono nella maniera migliore, che gli altri
si trovano nella situazione peggiore?
DIOGENIANO presso EUSEBIO, Praep. evang., VI, 8, 12 = SVF III, 668
E come dunque puoi dire (o Crisippo), che non c’è uomo, tranne il
sapiente, che non sia folle allo stesso modo di Oreste o
Alcmeone472? e dici al tempo stesso che non ci sono almondo che uno
o due sapienti, e tutti gli altri sono pazzi per uno stato di follia
eguale a quella dei personaggi anzidetti?… In primo luogo, di te
stesso affermi di non essere un sapiente.
PLUTARCO, De comm. noi., 21, 1068d = SVF III, 672
«Ma gli stolti, anche se si trovino in situazioni del genere, non
ricevono giovamento, né hanno benefattori, né perciò possono tener
in poco conto i benefattori». Allora però gli stolti non sono
nemmeno ingrati; e dal momento che non lo sono certo i saggi, vuol
dire che l’ingratitudine non esiste: questi infatti non devono
nutrire gratitudine se beneficati, quegli altri non possono per
natura ricevere benefici. Guarda ora che cosa essi dicono in
proposito: «la gratitudine si estende al campo delle cose
indifferenti; e se il poter giovare e ricevere giovamento è proprio
solo dei saggi, la gratitudine però è anche degli stolti»473.
SENECA, Episi, ad Lue., 9, 14 = SVF III, 674
Voglio citarti anche quella distinzione che fa Crisippo. Egli dice:
«il sapiente non è carente di nulla, tuttavia ha bisogno di molte
cose. Di contro, allo stolto nulla abbisogna - non sa infatti
valersi di alcuna cosa — ma è carente di tutto».
CICERONE, De off., III, 10, 42 = SVF III, 689
Sapientemente Crisippo dice questo, come molte altre cose: «Colui
che corre in uno stadio, deve sforzarsi e gareggiare al massimo per
poter vincere; ma non deve in alcun modo dare uno spintone o
respingere con la mano quello con cui gareggia. Così nella vita non
è iniquo cercar di ottenere per sé quello che sia di utilità, ma non
abbiamo il diritto di sottrarlo con la forza agli altri».
PLUTARCO, De comm. noi., 7, 10óid = SVF III, 691
Ma similmente, non è il sapiente, anche nel caso che gli venga meno
la salute, si ottunda la sua facoltà di sentire, vadano in malora le
sue sostanze, privo di preoccupazioni e scarsamente curante di tutte
queste cose? Oppure, al contrario, come dice Crisippo: «se è malato
paga la sua brava mercede ai medici, per cercare ricchezze viaggia
per mare alla volta di Leucone signore del Bosforo, e arriva fino ai
paesi di Idantirso Scita»? ed è vero che «vi sono sensazioni perdute
le quali non vi è più ragione di vivere»?474
STRABONE, Geographica, VII, 8, 2 = SVF III, 692
Guarda ciò che dice Erodoto …475 e ciò che dice Crisippo circa i re
del Bosforo al tempo di Leucone.
PLUTARCO, De Stole, rep., 20, 10436 = SVF III, 693
Che (il sapiente) fa queste cose per profitto e pecunia …lo ha già
reso chiaro da prima supponendo che «vi siano tre modi di far
ricchezza che si adattino in particolare al sapiente, uno dal re,
uno dagli amici, Paltro, che viene in terzo luogo, dal proprio
insegnamento».
STOBEO, Eelog., IV, 4, 29, p. 192 Hense = SVF III, 694
Crisippo, essendogli stato chiesto perché non partecipasse alla vita
politica, disse: «perché se si fa della cattiva politica si dispiace
agli dèi; se della buona politica, ai cittadini».
SENECA, Ad Serenum de otio, 8, 1 = SVF III, 695
Aggiungi, che secondo la legge di Crisippo è permesso vivere in
ritiro da affari pubblici: e non per necessità, ma per libera
scelta. I nostri dicono che il sapiente non accederà alla vita
politica in alcuna sua forma.
SENECA, De tranquillitate animi, 1, 10 = SVF III, 695
Prontamente e con disciplina seguo Zenone, Cleante, Crisippo; dei
quali tuttavia non ci fu nessuno che accedesse dire:tamente alla
politica, ma nessuno che non mandasse a farlo i propri seguaci476.
GELLIO, Noci Att.9 VI, 16, 6 SVF III, 706
…se ricordiamo quei versi di Euripide di cui fa uso così spesso il
filosofo Crisippo, che cioè (le raffinatezze?)477 sono state
inventate non per un uso necessario del vivere, ma per eccesso di
bramosia, tipico di chi disprezza le cose a disposizione e facili da
raggiungersi per malvagia avidità e mollezza.
ATENEO, Deipnosoph., I, 18b SVF III, 708
Omero indicava il conveniente quando rappresentava gli eroi
nell’atto di banchettare con sole carni, e dopo essersele preparate
da sé; non riteneva oggetto di riso o di vergogna il fatto che essi
si preparassero e si cuocessero da sé i cibi. Erano usi a servirsi
da sé, dice Crisippo, e si vantavano della loro abilità in questo
compito. Odisseo afferma di esser abile come nessun altro a trinciar
la carne e accendere il fuoco; Patroclo e Achille compiono da loro
stessi i riti nelle Preghiere478; quando Menelao celebra le nozze,
lo sposo Megapente versa lui stesso il vino479. Ora, invece, siamo
arrivati fino al punto di banchettare sdraiati.
ATENEO, Deipnosoph., III, 104b SVF III, 709
Guardando a ciò, amici, non si saprebbe non lodare quel gentile
Crisippo che aveva individuato così bene la natura di Epicuro e
diceva che la metropoli della filosofia di costui è la gastrologia
di Archestrato, quella che tutti i ghiottoni fra i filosofi dicono
esser per loro una specie di teogonia: una bella epopea davvero!
ATENEO, Deipnosoph., VII, 2780 = SVF III, 709
Crisippo, uomo versato nella filosofia e in ogni forma di cultura,
ritiene che quegli (Archestrato) fosse il maestro e la guida di
Epicuro e a quelli che seguono la sua dottrina, fondata sul piacere
che tutto corrompe; infatti Epicuro non fa mistero di ciò, ma
proclama a gran voce: «non potrei immaginarmi il bene se ne
sottraessi il piacere che deriva dagli umori e dalle gioie
veneree»480.
STOBEO, Eclog., III, 18, 24, p. 519 Hense = SVF III, 713
Di Crisippo: egli dice che l’ubriachezza è una piccola follia.
SENECA, De bene],, II, 17, 3 = SVF III, 725
Mi varrò della similitudine della palla, cara al nostro Crisippo: la
palla che, non c’è alcun dubbio, ricade o per errore di colui che la
lancia, o per errore di colui che la riceve, mentre compie bene il
suo corso quando è abilmente lanciata e abilmente ricevuta dalle
mani dell’uno e dell’altro. Perché sia così occorre che il buon
giocatore la lanci in un certo modo se il suo compagno di gioco è
lontano e in un altro se è vicino. La stessa regola vale per i
benefici: se il beneficio non si adatta ad ambedue le persone,
quella che dà e quella che riceve, non partirà dall’uno né arriverà
all’altro nel modo dovuto. Se abbiamo a che fare con qualcuno che
sia esercitato ed esperto, manderemo la palla con maggior slancio, e
comunque essa arrivi, la mano la rinvierà spedita ed agile. Se
invece abbiamo a che fare con un inesperto apprendista, va mandata
non con terza né con impeto, ma con più dolcezza, e si verrà
incontro pianamente a lui dirigendola alla sua mano. Lo stesso è da
farsi se si tratti di benefici: si cerchi di insegnare a qualcuno e
di giudicare bene se tentano, osano, vogliono. Per lo più suscitiamo
F ingratitudine altrui e la favoriamo se ci comportiamo come se
ritenessimo che i nostri benefici siano grandi solo se gli altri non
sono in grado di renderceli; ci comportiamo in questo caso come
giocatori maligni che abbiano il proposito di gettare la palla al di
là del compagno di gioco, naturalmente a tutto svantaggio del gioco
stesso, che non può continuare se non c’è accordo fra i
giocatori481.
SENECA, De bene]., II, 25, 3 = SVF III., 726
Chi vorrà rendere il beneficio in futuro, deve pensare come far ciò
nello stesso momento in cui lo riceve. Crisippo dice che questi,
come preparato a una gara di corsa e chiuso nello steccato, deve
attendere quasi il momento di scattare a un segnale dato. E certo
deve andar a gran velocità e impiegare molto sforzo per raggiungere
colui che lo precede.
GIROLAMO, Adv. lovinianum, I, 48, P.L. XXIII, coli.291-293 = SVF
III., 727
E ridicolo che Crisippo dica che il sapiente deve prender moglie per
non recare offesa a Giove Gamelio e Genetlio482. Ma allora tra i
latini non si dovrà prendere moglie, dal momento che essi non hanno
un Giove nuziale.
QUINTILIANO, Inst. orat., I, 1, 15-16 = SVF III., 733
Alcuni ritennero che quelli che hanno meno di sette anni non debbano
apprendere la grammatica, giacché è quella di sette anni la prima
età in cui si può comprendere qualcosa delle discipline di studio e
sopportare la fatica… Ma ancor meglio quelli che non ritengono che
ci sia tempo della vita che possa esser privo di occupazioni, come
Crisippo. Questi infatti, pur avendo assegnato tre anni di
educazione alle nutrici, ritiene che anche da esse la mente dei
bambini debba esser formata con ottimi insegnamenti.
QUINTILIANO, Inst. orai., I, i, 4 = SVF III, 734
Anzitutto non deve essere vizioso il linguaggio delle nutrici, che
Crisippo desiderava, se possibile, sagge, o almeno voleva che
fossero scelte fra le migliori che fosse possibile. Certamente
l’importanza maggiore l’hanno i loro costumi; ma è anche opportuno
che parlino bene; sono le prime persone che il bambino ascolterà e
ad imitazione delle quali cercherà di formulare le sue parole.
QUINTILIANO, Inst. orat., I, 10, 32 = SVF III, 735
Sappiamo che Pitagora, ordinando alla flautista di mutare la musica
in ritmi spondaici, riuscì a ridurre a ragione due giovani che
stavano per far violenza a una casta dimora; e ancne Crisippo indica
alle nutrici cui sono affidati i bambini un certo tipo di ritmo che
deve servire a placarli483.
QUINTILIANO, Inst. orat., I, 3, 14 = SVF III, 736
Che poi i discepoli fossero battuti non lo vorrei, anche se sia
generalmente ammesso e lo stesso Crisippo non lo disapprovi.
QUINTILIANO, Inst. orat., I, n, 7 = SVF III, 737
…dal momento che questa chironomia, che è, come dice lo stesso nome,
un gesto in cui si riassume una norma, è sorta nei tempi eroici, è
stata approvata dai più grandi uomini della Grecia e anche dallo
stesso Socrate, è stata posta fra le virtù civili da Platone484, e
da Crisippo non è stata trascurata.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 129 = SVF III, 738
Crisippo dice che è utile anche la cultura generale.
EPIFANIO, Adv. haeres., III, 39, Dox. Gr., p. 593 = SVF III, 746
Crisippo di Soli scrisse leggi empie. Disse infatti che i figli
devono congiungersi con le madri e le figlie con i padri. In questo
egli era in accordo con Zenone di Cizio; di suo aggiunse però la
prescrizione di mangiare carne umana; diceva infatti che il piacere
era il fine di tutto485.
PLUTARCO, De Stole, rep., 18, 1042d = SVF III, 759
Ma non in assoluto, dicono, Crisippo ritiene che la permanenza in
vita debba esser misurata alla stregua dei beni e dei mali:
piuttosto alla stregua degli indifferenti secondo natura. Perfino a
quelli che sono felici può esser conveniente talvolta suicidarsi, e
a quelli che sono infelici continuare a restare in vita.
PLUTARCO, De comm. not. 11, 1063d = SVF III, 759
Queste sono le prescrizioni che si dànno nella Stoa: cosicché molte
volte essi spingono al suicidio il sapiente per il motivo che è
meglio cessare di vivere quando si è felici, o trattengono dal
suicidio gli stolti perché è conveniente per loro vivere in stato di
infelicità. Il sapiente infatti è ricco, beato, felice, sicuro, al
riparo da pericoli; lo stolto è così dissennato da dover dire: «son
pieno di mali, né vi è luogo ove possa pormi»486. Tuttavia essi
ritengono che proprio per questo sia conveniente agli stolti il
restare in vita e ai sapienti il suicidio. E ben a ragione, dice
Crisippo: «la vita non va misurata alla stregua dei beni e dei mali,
ma di ciò che è secondo o contro natura».
STOBEO, Eclog., IV, 20, 31, p. 444 Hense = SVF III, 720
Poiché un tale diceva: «il sapiente non dovrà innamorarsi: ne fanno
fede Menedemo, Epicuro, Alessino», (Crisippo) disse: «e io mi varrò
di questa dimostrazione: se Alessino l’ignorante, Epicuro
l’insensibile, Menedemo il … dicono di no, vuol dire che il sapiente
dovrà innamorarsi»487.
PLUTARCO, Quaest. conv., I, 9, 62Óf SVF III, 546
Teone … pose una questione a Temistocle stoico: perché mai Crisippo,
rimproverato per via di sue affermazioni assurde e paradossali («il
pesce salato, se è bagnato con acqua marina, diventa più dolce», e
«i velli lanosi cedono meno a chi li strappa con forza che a chi li
stacca dolcemente» e «fa più fatica mangiare quando si è digiuni che
non quando si è già mangiato prima») non riuscisse in alcun modo a
spiegarle. E … Temistocle rispose che Crisippo diceva tutto questo
alludendo ad altro e a mo’ d’esempio, e che facilmente ma
irragionevolmente noi, schiavi della consuetudine, dissentiamo da
ciò che va contro di essa…
1. Cfr. 273 F 91 Jacoby; per Alessandro Poliistore, il grande
erudito di Mile-to che ebbe da Siila nell’82 a. C. la cittadinanza
romana, autore di opere di erudizione nei campi più disparati, cfr.
E. SCHWARTZ, Real-Encycl. I, 2, 1894, coli. 1499-1452. Secondo
Strabone (Geogr.XIV, 5, 8), di Tarso fu il padre di Crisip-o. Per il
probabile carattere artificioso della notizia secondo cui Crisippo
avreb-e ascoltato anche Zenone, oltre Cleante, cfr. H. DòRRIE,
Chrysippos, Keal-Encycl, Suppl. XII, 1970, coli. 148-155, in part.
150.
2. EPICURO, test. p. 87, 4 Us. Apollodoro in questo caso è
probabilmente l’epicureo detto il Kepotyrannos (= «signore del
Giardino»); cfr. ARNIM, Real-EncycL, I, 2, 1984, col. 2894, e
EPICURO, Opere, Torino, 19832, p. 102, nota 1.
3. Cfr. anche PAUSANIA, Descr. Greciae, I, 17, 2 (= SVF II, 3a).
DòRRIE, cit., col. 150, rimanda anche a CICERONE, De fin., I, 17,
39, in cui si parla della statua di Crisippo nel Ceramico in forma
diversa (in proposito già POHLENZ, Stoa, II, p. 17).
4. EURIPIDE, Orestes, v. 253 segg.
5. Odyss. X, v. 495.
6. Fr. 22 Wehrli; e commento ivi, pp. 53-54. E accettata per lo più
(cfr. Dòr-rie, col. 149) la notizia di un primo apprendistato di
Crisippo presso PAccademia di Arcesilao e Lacide, che avrebbe
formato in lui il gusto per l’esercizio dialettico.
7. Di 81 anni parla invece LUCIANO, Macrob., 20 (= SVF II, 1),
confermato da VALERIO MASSIMO, Vili, 7, 10, cfr. infra. Apollodoro è
qui Apollodoro ateniese, grammatico ed erudito del III secolo,
allievo di Aristarco di Samotracia, autore delle Cronache (cfr.
SCHWARTZ, Real-Encycl., I, 2, 1894, coli. 2855-2886, e 244 F 46
Jacoby).
8. Anth. Val. VII, 706.
9. Demetrio di Magnesia, cfr. supra, parte I, nota 52.
10. Cfr. parte III, nota 103; il DèRRIE, Chrys., coli. 149, ritiene
qui trattarsi del Filadelfo.
11. Riteneva confusa e ripetitiva questa lista WILAMOWITZ, Ant. v.
Kar., p. 325; ma accetta la distinzione fra i diversi Crisippi M.
WELLMANN, Real-Encycl., III, 2, 1899, coli, 2509-2511: sarebbero
effettivamente da distinguersi tre medici di questo nome, lo cnidio
scolaro di Eudosso e maestro del grande medico alessandrino
Erasistrato, un secondo Crisippo figlio di questi divenuto poi
medico di Tolomeo II Filadelfo, un altro dello stesso nome allievo
di Erasistrato, del quale peraltro nulla sappiamo.
12. Questi tipi di ragionamento sono riportati da Suida, Lex., s.v.
Χρύσιππος ὄνομα ϰύριον (IV, pp. 830-831 Adler); per Eubulide cfr.
DèRING, Megarìker, pp. 113-114, e il fr. 65 Döring = II B 13
Giannantoni. Più ampiamente infra, nota 20.
13. «Senocrate» è correzione del WILAMOWITZ[Ant. v. Kar., p. 8) al
posto di Ipsicrate, in base a PLINIO IL VECCHIO, Nat. Hist., XXXV,
68. Si tratta di un Senocrate scultore, allievo del più famoso
scultore Lisippo; per il quale cfr. R UMPF, Real-Encycl., IX A 2,
1967, coli. 1531-1532; per Polemone (di Ilio, pe-riegete, erudito di
scuola pergamena, III-II secolo a. C.) cfr. DEICHGRèBER,
Real-Encycl, XXI, 2, 1952, coli. 1288-1320.
14. Antigono di Carisio; cfr. WILAMOWITZ, Ant. v. Kar., p. 8 segg.
15. O, se si accetta la correzione del Gigante (μηδέν) «che il
filosofo non deve procurarsi mezzi di sostentamento».
16. L’ordinamento del catalogo, che contiene anche note critiche
(l’indicazione qua e là, ad esempio, di opere ritenute spurie),
risalirebbe ad Apollodoro di Seleucia detto ὁ ἔϕηλος (in proposito
CRòNERT, Kolotes u. Mened., p. 180; ARNIM, SVF I, p. XL VII segg.;
v. D. MèHLL, èMUS. Helv.», XX, 1963, p. 6 nota ioa, con richiamo a
DYROFF, Programm d. kòn. Neu. Gymnasium zu Würzburg, 189596; infine
DèRRIE, Real-Encycl., Suppl. XII, coli. 150-151). Apollodoro di
Seleu-cia è un allievo di Diogene di Seleucia o di Babilonia, cfr.
infra, parte V. Sulle possibili lacune interne del catalogo cfr. già
ARNIM, Real-Encycl., III, 2, 1899, col. 2504. Difficile
l’identificazione di molti personaggi dedicatari delle opere di
Crisippo, o talvolta avversari, contro cui queste sono dirette. Si
possono identificare con qualche sicurezza Aristocreonte, nipote e
scolaro di Crisippo, autore di un elogio funebre di questi e di un
epigramma, citato anche dall’Index Stoic. Herc. (col. XLVI, 3) e da
PLUTARCO, De Stoic. rep., 2; (cfr. POHLENZ, Stoa, II, p. 18)
Dioscuride, allievo di Crisippo e padre dello stoico Zenone di
Tarso; Zenone di Tarso, allievo di Crisippo e suo successore nello
scolarcato, maestro di Diogene di Babilonia, che condusse una
polemica contro Ieronimo, probabilmente il peripatetico, di Rodi (K.
v. FRITZ.Real-Encycl. X A 1, col. 122); Atenodoro di Soli, fratello
dell’astronomo Arato da non confondersi con i due Atenodori di Tarso
(KNAAK, Real-Encycl., II, 2, 1896, col. 2044). Un Sosigene è citato,
come εταρος di Antipatro di Tarso, in Ind. Stoic., col. LIV, 3, ma
ragioni cronologiche ne rendono difficile l’identificazione col
dedicatario dell’opera crisippea, così come difficile resta
l’identificazione di Zenodoto nonostante la presenza di altri stoici
di questo nome. Fra i megarici, contro i quali in maniera
particolare si dirige la polemica logica di Crisippo, il più noto è
Filone (v. FRITZ, Real-Encycl., XIX, 2, 1938, coli. 2533-2535;
DèRING, Megariker, frr. 101, 104, 144, e commento pp. 138-139)
allievo di Diodoro Crono; qualche notizia abbiamo anche di Filippo
(v. FRITZ, Real-Encycl., XIX, 2, 1938, col. 2367; DèRING, Megariker,
frr. 164a e p. 144, nota 6) e di Pantoide (SCHMIDT, Real-Encycl.,
XVIII, 3, 1949, coli. 777-778; DèRING, Megariker, frr. 145-146 e
commento p. 134, 139; quest’ultimo maestro del peripatetico Licone,
all’inizio del III secolo). Apollas non si sa se possa venir
identificato con lo scrittore pontico autore di opere periegetiche
(SCHWARTZ, Real-Encycl., I, 2, 1894, col. 2841); Eraclide potrebbe
essere l’Eraclide di Bargy-lia megarico che scrisse contro Epicuro
(DIOGENE LAERZIO, V, 94; NATORP, in Real-Encycl., Vili, 1, 1912,
col. 469); per ragioni cronologiche non è identificabile con
l’Eraclide stoico citato ancora da DIOGENE LAERZIO, VII, 121.
17. È usata qui l’espressione ϰατηγορευτιϰός, unico caso; essa è
probabilmente equivalente alla più commune ϰαγηγοριϰός (cfr. FREDE,
St. Log., p. 68, nota 15).
18. Per le opere di Filone περὶ σημασιῶν e περὶ τρόπων citate più
oltre nel catalogo cfr. DèRING, Megariker, pp. 138-139.
19. Seguo la più probabile lezione συμβαμάτων (proposta dall’ARNIM,
ad loc. e cfr. poi G iGANTE, «Par. Pass.», 1960, p. 426) anziché la
tràdita συναμμάτων per l’accostamento σύμβαμα – ϰατηγόρημα cfr.
infra, parte VI, nota 78.
20. Συνημμένα è espressione strettamente è espressione strettamente
tecnica in linguaggio stoico e crisip-peo; non credo possibile
l’interpretazione Materiale messo insieme in vista dell’introduzione
alle amfibolie, per cui cfr., sia pur dubitativamente, GIGANTE,
Diogene Laerzio2, p. 314 (in questo caso l’espressione sarebbe stata
probabilmente Συλλεγόμενα o alcunché di simile).
21. Il «mentitore» è un ragionamento capzioso megarico; cfr. in
proposito A. RUSTOW, Der Lügner. Theorie, Geschichte und Auflösung,
Diss. Erlangen, Leipzig, 1910. Per i testi CICERONE, Acad. pr., 29,
95-30, 96, e i frr. 51 A-B, 110 Döring (II Bi, II F 31 Giannantoni).
Il ragionamento negativo, di cui si parla nello stesso contesto, è
una sottospecie del ragionamento mentitore (in proposito DèRING,
Megariker, p. 109, nota 4). Cfr. infra, note 318 e segg.
22. Per altri tipi di ragionamento capzioso cfr. ancora DèRING, frr.
64, 109, no (II B 13, F 31 Giannantoni) e pp. 112-113 ivi. Il
ragionamento «velato» è citato da Aristotele in El. Soph., 166b
21-22. L’argomento κατ μικρίν (reso in latino da Cicerone con
«minutatim», cfr. Acad. pr. 16, 49) è il classico «sorite» basato
sul tema dell’accrescersi indefinito della quantità; da confrontarsi
con il ragionamento detto «del calvo» in ORAZIO, Epist., II, 1, vv.
45-47. Per il ragionamento detto «quiescente» (ἡσυχάζων) cfr.
CICERONE, Acad. pr., 29, 62; in proposito DèRING, Megariker, p. 112;
in generale sugli argomenti megarici vedi anche GIANNANTONI,
Socraticorum Reliquiae, IV, nota 6, p. 59 segg.
23. Altro tipo assai noto di argomento capzioso, cfr. ancora fr. no
Döring, II F 31 Giannantoni, e infra, note 320 e segg.
24. Il ragionamento «nessuno» (οὔτις) non è elencato da Diogene
Laerzio fra i sortiti megarici, di Eubulide in particolare, cfr.
Vitae philos., II, 108 (fr. 64 Döring, II B 13 Giannantoni). Per una
chiarificazione offertaci in proposito da Gellio cfr. infra, ancora
nota 320.
25. Cfr. la testimonianza di GALENO, De libris propriis, 11, XIX, p.
43 e 16, XIX, p. 47 Kühn; ove questi afferma di aver conosciuto
opere ricapitolative degli scritti sillogistici e logici di Crisippo
(SVF II, 231-232).
26. Arti e scienze, techne è infatti nel linguaggio stoico vocabolo
assai più generico che non in Aristotele (rimando a ISNARDI PARENTE,
Techne, p. 287 segg.). Incerto se il Metrodoro di cui qui si parla
possa essere il «teorematico», prima scolaro di Teofrasto e poi
passato alla scuola megarica (DIOGENE LAERZIO, e 113; v. FRITZ,
Real-Encycl., XV, 2, 1932, col. 1480).
27. Per il concetto e termine di ϰριτιϰοί cfr. supra, parte III,
nota 91.
28. Il catalogo delle opere etiche è qui interrotto e manca quello
delle opere di contenuto fisico. Si interrompe qui il libro di
Diogene Laerzio sugli Stoici, che dal cod. P, fol. 1, sappiamo
dovesse contenere anche numerose altre «vite» di Stoici posteriori a
Crisippo, dagli immediati successori Diogene di Babilonia e Zenone
di Tarso ai filosofi della media Stoa, Panezio, Ecatone, Posidonio.
29. La lettura dell’Arnim all’inizio è diversa. Apollonio è
Apollonio di Tiro, una delle fonti preferite di Diogene Laerzio, per
cui cfr. supra, parte I, nota 13.
30. Si segue per lo più la ricostruzione del Croenert accettata dal
Traversa. Per gli scritti sulla giustizia cfr. PLUTARCO, De Stoic.
rep. 9, 1035D e infra, note 207, 209.
31. Integrazioni Croenert-v. Arnim. Il participio femminile
(xevouaa, di sicura lettura, fa pensare che si trattasse della
fedele serva di Crisippo, per la quale cfr. DIOGENE LAERZIO, VII,
181 segg.
32. Integrazione Cobet, accettata dagli editori seguenti.
33. CARNEADE , fr. 1 Wisniewsky (= T 1 a Mette). Questo brano e il
seguente non figurano negli SVF. La frase di Carneade è
probabilmente modellata sulla frase corrente di scuola stoica per
cui cfr. SMALL>DIOGENE LAERZIO, VII, 183, «se non ci fosse stato
Crisippo, non ci sarebbe la Stoa».
34. Da vedersi anche ORIGENE, Contra Celsum, V, 57 (SVF II, 23).
35. Cfr. Fozio, Lexikon, s. ν. μέντoι (ove si ricordano i barbarismi
di Crisippo). La critica di Galeno si è rivolta anche contro Zenone,
cfr. parte I, -nota 40.
36. Frontone fa poi seguire nel testo le parole greche
corrispondenti (cfr. SVF II, p. 11, 23-24).
37. lliad. VI, v. 407.
38. Si tratta dell’inizio dell’opera di Plutarco, ove
l’interlocutore stoico esprime un punto di vista destinato ad esser
refutato, e che doveva far parte della tradizione della scuola
postcrisippea, fortemente antiscettica. Per le immagini di tipo
militare cfr. anche altri saggi di storiografia filosofica, ad es.
la descrizione della contesa fra Arcesilao e Zenone da parte di
Numenio, supra, parte I, nota 71; Plutarco qui imita ironicamente
modi e schemi che dovevano essere non inusuali.
39. Per la tyche come divinità venerata dalla città cfr. K. ZIEGLER,
Tyche, Real-EncycL, VII A 2, 1948, coli. 1643-1696; M. NILSSON,
Geschichte der Griechischen Religion, II, in Handbuch f.
Altertumswissenschaft, V, 2, Mùnchen, 1950, p. 190 segg. m
40. L’espressione riportata da Stobeo è ὑπογραϕὴ τοῦ λóγου: non
corrisponde a nessuno dei titoli laerziani, non è forse nemmeno un
titolo in senso tecnico. In ogni caso non sembra identificabile con
il Περί λγου you di cui parla Diogene Laerzio e ne costituiva forse
un riassunto, fatto dallo stesso Crisippo o da discepoli. Per la
definizione di ὑπογραϕἦ cfr. GALENO, Defin. med., XIX, p. 349 Kuhn
(«discorso che introduce in forma schematica alla conoscenza
chiarita dell’oggetto»).
41. Per la tripartizione della filosofia cfr. Intr., nota 8: in
Crisippo è già un’eredità dalla Stoa precedente. Eudromo è uno
stoico di epoca incerta, forse II sec. a. C, di cui Diogene Laerzio
cita una ’Ηθιϰἦ Στοιχείωσις (cfr. v. ARNIM, Real-EncycL, VI, i,
1907, col. 950).
42. Per il termine πρόληψις cfr. Intr., p. 43; e supra, parte I,
nota 194.
43. Per la polemica di Galeno contro Crisippo, non solo polemica di
carattere contenutistico e puntuale, ma riguardante tutta la sua
metodologia, e spinta, come già del resto si è visto, fino al suo
stile, cfr. anche SVF II, 883, infra, p. 534).
44. Fr. 186 Döring, II o 28 Giannantoni.
45. Non corrisponde con assoluta esattezza ai titoli di Diogene
Laerzio, VII, (nella seconda serie della trattazione relativa alle
parti del discorso).
46. Il contesto in cui compare il passo si riferisce a questioni di
carattere etico e cita opere crisippee di contenuto etico. Gli ‘Opoi
vengono citati nel catalogo crisippeo con la specificazione «a
Metrodoro»; ma dal catalogo sembra chiaro che esistessero tre
raccolte di Definizioni con tale specificazione, in sei libri; l’una
di semplici Definizioni, l’altra di definizioni «dialettiche»,
l’altra ancora di Definizioni secondo il genere.
47. Έν ταῖς διαλεϰτιϰοῖς, nel testo, di Diogene Laerzio; GIGANTE
«Par. Pass.» 1960, p. 427, propone peraltro l’emendazione ἐν τοῖς
διαλεκτιϰοῖς (ὅροις).
48. Il termine ἰδιον viene restituito sulla base di Schol. in
Dionysium Thr., p. 107 Hilgard. La teoria Dello ἰδιον è di
derivazione aristotelica, cfr. Top., 1, ioib 23 segg., io2a 18
segg.; Anal. pr., I, 43^ ecc. Per Antipatro infra, parte V, nota
165.
49. Per Antipatro e Archedemo di Tarso c•r. infra, parte V. Per la
confutazione di Diodoro Crono Intr.y note 58-59; il passo qui
riportato segue alla testimonianza su Cleante (supra, parte II, nota
53).
50. Anche questi passi plutarchei valgono a farci comprendere il
carattere spesso assai composito e vario delle opere di Crisippo:
l’opera Dei possibili non doveva contenere solo confutazioni logiche
di Diodoro sul tema della modalità o riflessioni sul fato, ma anche
una trattazione di carattere cosmologico.
51. Sono due diversi trattati, citati rispettivamente, nel catalogo
di Diogene Laerzio, come Delle negazioni ad Aristagora, libri III, e
Delle espressioni di forma privativa (o secondo privazione) a Team,
libri I (VII, 190). Simplicio dà qui della seconda un titolo
semplificato (e nello stesso contesto più oltre sembra riferirsi
anche ad un’altra opera, sull’opposizione o sugli opposti). Del περὶ
ἀποφατιϰῶν possediamo un tratto resoci dalla tradizione papiracea
ipap. Paris. 2), che appare un saggio estremamente tecnicistico di
esemplificazione letteraria volta a scopo logico; di esso, che
costituisce il fr. SVF II, 180 (la presenza dell’opera di Crisip-po
in esso era già individuata dal Bergk nel 1841) e il fr. 920-28
Hülser, non si dà qui la traduzione appunto per il suo carattere
estremamente tecnico, e si rimanda alla nuova edizione, con
traduzione e commento, fattane da W. CAVINI, La negazione stoica,
con Appendice, in Studi su papiri greci di logica e medicina,
Firenze, 1985, pp. 47-126.
52. ‘EÇtç, contrariamente ad altri luoghi della trattazione stoica e
crisippea, riprende qui il suo significato di «possesso» dall’uso
transitivo e più comune di ï%(ù,
53. Cfr. a proposito di questa riflessione crisippea GoULET, in Les
Stoïciens et leur logique, pp. 186-187: nella sua riflessione su
parole rese falsamente negative dall’à privativo, ma non negative in
realtà, Crisippo riconosce l’esistenza di certe non corrispondenze
del linguaggio alla realtà, il che è notevole rottura nella
compattezza della teoria stoica del linguaggio «secondo natura» (ma
è coerente all’impostazione crisippea: cfr. supra, Intr., p. 45).
54. E la παρακντησις, già nota agli antichi e da essi praticata, per
cui cfr. GALENO, Commentarti in Hippocratis de medici officina
librum I, 10, XVIII B, p. 681 e ps. GALENO, Introductio seu medicus,
19, XIV, p. 783 Kuhn.
55. Categ. 12 a 26 segg.
56. Cfr. la citazione, nel catalogo laerziano, di due trattati, uno
contro e l’altro in favore dell’uso comune, di cui ci viene data la
successione cronologica.
57. Ai frammenti qui raccolti si possono aggiungere forse i passi di
Galeno Introducilo dialettica, riportati infra, cir. note 288 segg.;
J. MAU, Galenos, Einführung in die Logik, Berlin, 1960, p. 63,
ritiene che con l’espressione ν τας τρισν συλλογιστικος (Intr. dial.
19, p. 48 Kalbfleisch) Galeno abbia voluto riferirsi all’opera
indicata da Diogene Laerzio (VII, 195) come Delle figure
(sillogistiche) in funzione introduttiva, a Zenone, libri III. Ma
l’identificazione non è certissima: nel catalogo figurano altre
opere sui sillogismi composte di tre libri. L’opera qui indicata da
Sesto potrebbe essere anche quella data come περὶ συλλογισμῶν
εἰσαγωγιϰῶν (DIOGENE L., ivi).
58. È da notarsi come Sesto riferisca a Crisippo solo un determinato
uso di ἀναπόδειϰτος, e non l’altro più generico che pure adduce;
cfr. diversamente in proposito MATES, St. Log., p. 63, e FREDE, St.
Log., p. 130 (il Frede, probabilmente a ragione, suppone che l’uso
più largo sia postcrisippeo).
59. Per il titolo cfr. v. ARNIM, Real-Encycl. III, 2, col. 2505;
DèRRTE, Real-Encycl. Suppl. XII, col. 150. Non è opera inseribile in
nessuna delle quattro serie citate da Diogene Laerzio; ma lo stesso
Diogene, VII, 199, cita altri 39 scritti non rientranti nell’ambito
di quelli sopra nominati; e le Ricerche logiche potrebbero esser
quelli di cui parla Valerio Massimo (VIII, 7, ext. 10) come dello
scritto che la morte avrebbe impedito a Crisippo di concludere. La
prima edizione è stata data da W. CROENERT, Die AOriKA ZHTHMATA des
Chrysippos und die übrigen Papyri logischen Inhalts aus der
herkulanensichen Bibliothek, «Hermes», XXXVI, 1901, pp. 548-579, pp.
552-565 per il testo (trad. it. a cura di E. LiVREA, in W. CROENERT,
Studi ercolanesi, Napoli, 1975, pp. 63-101). Letture e integrazioni
sono state proposte dall’Arnim, cfr. il testo quale è riprodotto in
SVF II, pp. 96-110, oggi le nuove letture proposte da L. MARRONE,
Nuove letture nel cap. herc. 307, «Cron. Ere», XII, 1982, pp. 13-18
e II problema dei singolari e dei plurali nel cap. 307, in «Atti del
XVII Congresso Internazionale di papirologia» (1983), Napoli, 1984,
pp. 419-427. Per l’esame del contenuto, oltre a quest’ultimo studio,
cfr. il già citato PACHET, Vimperati] stoïcien, in Stoïc. log., p.
361 segg., e D. SeDLEY, in «Elenchos», V, 1984, pp. 311-316.
60. Si opera qui una scelta drastica fra i frammenti iniziali
difficilmente leggibili. Il fr. 1 è reso leggibile dalle
integrazioni che l’Arnim ha compiuto sulla base di analogie col
seguito del testo. Per le coli. 1-2 cfr., oltre Arnim, le nuove
proposte della Marrone. Il carattere indefinito-infinito delle
proposizioni avente valore temporale discende direttamente dalla
concezione crisippea del tempo come incorporeo-indefinito (cfr.
Intr., nota 96).
61. EtpTìuivcov è lettura della Marrone.
62.Διαβαίνειν, secondo la lettura della Marrone; ma cfr. già il
διαβαίνοι all’ottativo, dell’Arnim.
63. La Marrone integra ϰατηγορήματα ϰαὶ ἀξιώματα sulla base del
tornare poco più oltre di queste due parole. Probabilmente qui
Crisippo argomentava per assurdo. Il testo, di difficile
comprensione, fu lasciato allo stato mutilo dal Crònert e integrato
poi dall’Arnim; oggi le nuove letture l’hanno reso relativamente più
comprensibile, ma non hanno certo appianato tutte le difficoltà. Per
la trattazione di singolare e plurale, attivo e passivo, cfr. i
significativi titoli in DiOG. L., VII, 195 segg.
64.’Αδέκαστος, lettura del Croenert.
65.Ὀρατά è parola integrata dall’Arnim, il quale rifiuta alcune
altre integrazioni già tentate dal Croenert; in realtà la parola
sembra in coerenza coli’altra, leggibile, ἀϰουστά. Άπτά
(«tangibili») è integrato dalla Marrone.
66. Tò ὅλον σῶμα è integrato è integrato in margine, del tutto
dubitativamente, dall’Arnim.
67. Si tralascia il testo iniziale della colonna, incerto; alcune
letture del Croe-nert, rifiutate dall’Arnim, sono del tutto
ipotetiche. Il paragone fra l’esercizio degli organi dei sensi e
l’esercizio tecnico delle arti, unico concetto che sembra emergere
con chiarezza dall’insieme, tornerà in Diogene di Babilonia: per
questo tema e la sua origine speusippea cfr. infra, parte V, nota
41.
68. Segue in questo caso la lettura del Croenert, νεος, più più
plausibile del νους («i giovani») dell’Amimi il quale forse pensa a
un motivo di carattere pedagogico; ma la sua presenza in questo
contesto è scarsamente plausibile. Il termine sarebbe comunque un
hdpax nel linguaggio stoico.
69. Leggibile forse, come suppone il Croenert, un ἐπιστήσαι τις.
TI?.
70. Δύω λέγωσιν (leggibile con una certa sicurezza) allude forse ad
ambiguità, perché tale è il significato del seguente διχῶς; cfr.
infra, nel testo. Si tralasciano le righe seguenti della colonna,
mutile, con integrazioni diverse e ipotetiche.
71. «passeggia» (περιπατεῖ) è integrato dal Croenert sulla base
degli esempi che seguono più oltre.
72. Seguo la proposta dell’Arnim συμβαλεν (implicante confronto o
controllo), mentre mentre συγϰαλεῖν propone il Croenert, ma ha
bisogno di spiegare il termine come un uso insolito per συνάγειν,
«dimostrare per inferenza» e «per induzione».
73. Έπίστασις è, letteralmente, «arresto»; cioè un punto che suscita
difficoltà e di fronte al quale ci si ferma. Il resto della colonna
non appare traducibile.
74. Seguo il δειϰνυμένους dell’Arnim.
75. Nel testo, di lettura assai incerta, Crisippo sembra prendere in
considerazione l’esattezza delle definizioni di frasi singolari o
plurali a seconda del carattere del soggetto o del predicato. Legge
èxcpopv la Marrone, contro lo ἐϰϕέρειν del del Croenert.
76. «Passeggiare» e «sedere» sono termini desunti all’uso del
linguaggio filosofico, designanti due diversi modi di far scuola.
Cfr. in proposito GIGON, Interpretationen der antiken
Aristotelesviten, «Mus. Helv.», XV, 1958, pp. 147-193, in part. 168.
77. Συγχωρούμενα Marrone contro lo ὁμοιούμενα dell’Arnim.
78. Λεκτῶν Arnim; ci si riferirebbe qui ai λεϰτά come espressioni
significanti. Ma è incerto.
79. Cfr. DIOGENE L., VII, 66 segg., e in proposito PACHET, U
impératif stoïcien, p. 362 segg., per queste forme del discorso che
non sono enunciazioni e non ricadono quindi direttamente sotto
l’antitesi verità-falsità.
80. Cfr. supra, nota 20, per l’opera di Crisippo dedicata in
particolare al ragionamento ϰατά μιϰρόν, citata nel catalogo
laerziano (VII, 195).
81. Μηδὲ τοῦτο Arnim, contro il (jtexà TOUTO («dopo questo») del
Croenert.
82. ’Entaxaotç è letto anche qui dal Croenert, in questo caso più
convincente che non lo èrctcpopà dell’Arnim. Per il significato
generale cfr. ancora PACHET, Impératif stoïcien, p. 363, con
richiamo a Schol. in Hesiod. Theog., v. 436 (=SVF II, 190). Venivano
distinte da Crisippo sotto l’aspetto logico una risposta ad un
ἐρώτῃμα o semplice interrogazione ed una a un rcuafjia, cioè ad una
richiesta di informazione più specifica.
83. Άποπλανᾶται Marrone: lett. «si allontanano».
84. «Ciò che si esprime (o si segnala, o si indica) in forma
Completa» τò τελέως σημαινόμενον.
85. Si accetti il προσελέγχει di Arnim ο il προςϰόπτει di Croenert,
la frase sembrerebbe richiedere la forma negativa. Crisippo sembra
qui porsi il caso della verità o falsità di ciò che si giura, caso
che costituisce un problema almeno a parte obiecti; ciò che egli
intende sostenere, è che verità e falsità non sono implicate da un
discorso del tipo del giuramento allo stesso modo che lo sono in un
discorso puramente enunciativo.
86. Il linguaggio crisippeo è qui estremamente tecnico, con la forma
auvrcapexcpatvetv. ‘Eaaic (con sfumature diverse a seconda dei suoi
composti) indica la «rivelazione» o puntualizzazione esplicita di un
contenuto,
87. E17uoc Croenert; che sembra giustificato dal participio al
singolare che segue più che lo etnàxw letto dall’Arnim.
88. Έν τόπῳ τινί è letto dalla Marrone.
89. L’Arnim propone συνεχέστερον, che indica qui ambiguità per
ridondanza (incomprensibile il testo per il Croenert). Seguo l’Arnim
anche nella lettura άναπηρτισμένως(;, che sembra anticipare a
Crisippo un’espressione che poi diverrà la prediletta di Antipatro
di Tarso (cfr. infra, parte VI, nota 161); la Marrone legge tuttavia
ἀναπηρτημένους.
90. Μήποτε διχῶς Arnim, μήπω δὶς διχῶς Croenert; in ogni caso è
attestata la presenza di una negativa. Subito dopo περιπάτεί
(imperativo) Arnim, rancarsi (indicativo) Croenert. Per il
significato d’insieme cfr. PACHET, Imp. st., p. 366: l’esser giorno
è condizione estrinseca, che non rientra nell’imperativo.
91. Pachet legge μετάλλαξιν là dove lo stesso Arnim aveva lasciato
la parola mutila (contro il ^eTapocXetv del Croenert): cfr.
Impératif st., p. 367.
92. Aia xou Taxous, letto dal Croenert.
93. Sono le argomentazioni rispondenti allo schema «di preferenza»;
le quali, secondo Crisippo, hanno un senso solo se espresse in forma
imperativa. PACHET, Impératif st., p. 366, parla di ordini
«gerarchizzati».
94. Cfr. ancora PACHET, ivi, p. 368, per questi «ordini indefiniti»
che per Crisippo non sono veri e propri imperativi in virtù della
loro assenza di contenuto. Non si segue qui Croenert per la lettura,
assai arbitraria, del seguito della colonna, ove ricorrerebbero
accenni anche a figure geometriche (xò (JXOCXY]VèV).
95. Il discorso verte qui sull’ambiguità di espressioni applicate a
soggetti diversi, che conferiscono ad esse significati differenziati
in senso «equivoco». PACHET, Impératif stoïcien, p. 365, fa un
paragone fra questo passo e GALENO, De sophism. ex eloc., 4, XIV, p.
595 K. = S VF II, 153, là ove Galeno parla del diverso significato
dell’aggettivo àvSpetoç in riferimento a un uomo (valoroso) o a un
chitone («da uomo»). Alquanto diverse alcune letture di singole
parole da parte della Marrone (oupoc anziché Gupoc, xôrcoç anziché
xotxoç). La seguente col. 15 è irricostituibile nell’insieme.
96. Titolo mancante nel catalogo laerziano, pur essendo qui citato
dallo stesso Diogene Laerzio, un altro indice di incompletezza nella
pur lunghissima serie di opere logiche. L’opera poteva non esser
considerata logica in senso stretto, pur trattando, a quanto sembra
di capire dal titolo, di questioni semantiche relative al testo
zenoniano. Il frammento in questione verte su terminologia di
carattere etico.
97. Potrebbe essere l’opera citata nel catalogo di Diogene L. come
7re.pl T% xoccà xàq Xi^tit; àva^aXtas. Sul famoso grammatico
alessandrino Aristarco di Samotracia cfr. oggi soprattutto PFEIFFER,
Class. Scholarschip, cap. VI (p. 210 segg.).
98. Più probabile la lezione eupr)fxévou, cfr. Volkmann-Arnim; ma
CHERNISS, Plutarch’s Mor., XIII, 2, p. 522, preferisce stpouivou
(cfr. la traduzione «conti-nuous speech»).
99. Spuria l’opera, cfr. ZIEGLER, Real-EncycL,XII, 1, 1951; coli.
636-902, in part. 812-814; incerto il riferimento, peraltro non in
contraddizione con la dottrina crisippea sul bene.
100. L’espressione è qui al neutro, Saifxóvioc, indica cioè
piuttosto forze anonime che non veri e propri Satfxoveç; per la
demonologia di Crisippo cfr. peraltro infra, nota 427 (Crisippo
viene citato con maggior precisione e accomunato con Platone e
Senocrate); e cfr. Plutarco anche altrove che non nelle opere di
polemica antistoica, p. es. in De Iside et Osiride, 25, 3Óod. Per la
possibile individuazione di riferimenti a opere crisippee anche là
ove non sia indicato il titolo specifico da Plutarco cfr. D. BABUT,
Plutarque et le Stoïcisme, Paris, 1969, p. 225 segg.
101. L’incendio appiccato dai seguaci di Cilone, uomo di parte
democratica, alla sede della scuola pitagorica (metà del V secolo
circa, cfr. K. v. FRITZ, Pytha-goreer, Real-Encycl. XXIV, 1, 1963,
coli. 209-268, in part. 211-212) non interessa ovviamente Pitagora,
ma i filosofi della sua scuola. è spesso in uso nella tradizione
dossografica «Pitagora» anziché «i Pitagorici».
102. Il nome di questo tiranno, che avrebbe condannato a crudele
morte Zenone di Elea, varia a seconda delle fonti (ora Nearco, ora
Diomedonte, ora Demi-Io; da alcuni addirittura confuso con Dionisio
I). Cfr. K. v. FRITZ, Zenon, Real-Encycl, X A, 1972, coli. 53-83, in
part. 54.
103. Antifonte tragico, caduto vittima dell’ira di Dionisio I; cfr.
DIETERICH,Real-Encycl., I, 2, 1895, col. 2526.
104. xoxecov è parola eraclitea; cfr. ERACLITO, 22 B 125
Diels-Kranz.
105. lliad. I, v. 5.
106. Osservazioni sulla teodicea stoica attraverso questi passi in
BABUT, Plut. et le Stoic., p. 288 segg. Il passo ioÓ5d (SVF II,
1181) è sicuramente da attribuirsi al Della natura per la sua
continuità col discorso precedente, anche se l’opera non viene
citata nuovamente.
107. Secondo la lezione opov del Rasmus, accettata dal Pohlenz e dal
Cher-niss; cfr. quest’ultimo, Plutarch ’s Mor. XIII, 2, p. 553, nota
c. Il Xóyov dei codici è probabile anticipazione scorretta della
parola Xóyov che compare invece a proposito nella linea seguente.
108. EURIPIDE, fr. 892 Nauck2; ripetuto da Plutarco anche più oltre;
cfr. GELLIO, Noctes Atticae VI, 16, 6-7.
109. Cfr. anche De comm. not., 1069C.
110. Motivo comune anche alla dottrina epicurea, cfr. fr. 602 Us.;
EPICURO, Opere2, pp. 501-502.
111. ESIODO, Opera, vv. 757-758.
112. 22 B 53 Diels-Kranz.
113. Cfr. infra, parte VI, per l’intera esposizione dossografica di
Diogene.
114. Per Fidentificazione fuoco-etere in Crisippo cfr. Intr., nota
95; e supra, parte I, nota 150, per i precedenti in Zenone di questa
teoria che peraltro Crisippo ha senza alcun dubbio approfondita (con
rapporto più stretto posto fra etere-fuoco ed rpfefAovixóv, cioè
pensiero, cfr. HAHM, Orig. St. Cosmol., p. 182, nota 72).v
115. E nel pensiero di Crisippo (almeno di nostra conoscenza) il
solo momento che richiami la teoria cleantea del «fuoco conico», per
cui cfr. supra, parte II, nota 61; teoria che in se stessa peraltro
era stata lasciata cadere da Crisippo (cfr. la chiara testimonianza
dossografica su Cleante, che l’avrebbe sostenuta «solo fra gli
Stoici»).
116. Lo èvoocav di questo punto sembra richiedere più oltre una
emendazione del tradito ovra in evóvxoc; cfr. R. M. Jones, seguito
da CHERNISS, ad. loc.
117. PLATONE, Tim., 70c-d, 91 a. La teoria è rifiutata anche da
Aristotele, De part. anim., 664b 6-19; mentre è difesa da PLUTARCO,
Quaest. conv., 698a-70ob. Cfr., per altre citazioni, CHERNISS,
Plut., Moralia, XIII, 2, p. 525 (nota d).
118. Gioco sulle due parole àvaToXrj ed imxoXri, la seconda di
significato più tecnico; cfr. GEMINO, Astron., I, 3, 3.
119. Per la differenza fra U7càpxtv e t^eaxàvat cfr. Intr. nota 106;
e GoLDSCHMIDT, «Rev. Et. Gr.», 1972, p. 331 segg., oggi in Ecrits,
I, p. 187 segg.
120. Viene qui apertamente testimoniato da Plutarco per Crisippo il
concetto (e la relativa espressione) di 7upó(; TItz(ù(; e’xetv,
assai importante nella dottrina stoica delle categorie; per questa
cfr. Intr., nota 86, e infra, parte VI, note 252 e segg. (essa non
ci viene mai altrove indicata esplicitamente a nome di Crisippo). Il
testo, integrato dal Pohlenz poco più sopra, è accettato con tali
modifiche dal Cherniss. Il senso dell’attacco polemico di Plutarco è
che l’argomentazione di Cri sippo, plausibile - in quanto tende ad
assicurare continuità e stabilità all’universo - se contenuta entro
i limiti della teoria aristotelica della sostanza, è poi resa
assurda e contraddittoria da altre concomitanti teorie stoiche,
quale ad es. quella dell’infinito spazio vuoto o quella della
conflagrazione.
121. Gir. per la presenza indubbia di Crisippo in questo passo
BABUT, Plutar-que et le Stoicisme, p. 236; il plurale è spiegabile
inquanto nel discorso almeno Cleante è compreso allo stesso modo. Il
plurale viene del resto usato spesso dagli antichi, com’è noto,
anche a indicare la dottrina di un autore, in quanto questi è
considerato facente tutt’uno con la sua scuola o la sua cerchia.
122. Iliad., XXIII, vv. 78-79.
123. Iliad., XX, vv. 127-128.
124. Iliad., VI, v. 488.
125. Odyss., I, v. 7.
126. Odyss., I, vv. 32-34. Eusebio cita, contro Crisippo, l’epicureo
del E secolo d. C. - di cronologia peraltro incerta - Diogeniano, la
cui polemica anti-crisippea ci è nota solo da questa testimonianza.
Cfr. in proposito A. GERCKE, Chrysippea, «Jahrb. f. Klass. Philol.»
Suppl. XIV, 1885, pp. 693 segg., frr. pp. 748 segg.
127. Per la creazione del termine rjyejjLovtxóv cfr. ADORNO, «La
Parola del Passato», 1959, p. 31 segg. il quale attribuisce senza
esitazione il termine a Zenone, contro opinioni più antiche; lo
segue oggi HAHM, Orig. St. Cosmol., p. 177 nota 32. Crisippea è
comunque l’identificazione dello Ypfefxovixòv xou xóajxou con
l’etere (contro la concezione solare di Cleante, cfr. supra, parte
II, nota 62).
128. Non del tutto sicuro il testo; sospetta una lacuna l’Arnim.
129. Così viene citata in maniera insolita la Epistola ad
Erodoto(DIOGENE LAERZIO, X, 35-83) che contiene appunto una sorta di
epitome della fisica di Epicuro in forma epistolare. Per il passo
cfr. p. 2. Us. e il fr. 27 Us., 15 Arr.2, che parla di una Mixpà
èmxofxr (ma non è detto che tale opera si debba identificare con
VEpistola ad Erodoto).
130. Filodemo usa l’espressione auvoixtcaat?, che appartiene
certamente al suo linguaggio tecnico (soprattutto il verbo
ouvotxeioOv è da lui usato frequentemente nel contesto del De
pietate) ma non sappiamo fino a che punto appartenga al linguaggio
tecnico stoico. La parola non compare in relazione agli stoici se
non in questo contesto, e non è registrata dall’Adler nell’Index.
Sembra quindi opportuno darle un significato che non vada oltre a
quello di «combinazione» o «identificazione».
131. Integr. Cherniss. (leggermente diversa quella proposta
anteriormente dal Pohlenz, qxcjjuxov xòv xóafxov).
132. L’aggiunta «terrea» voluta dal Pohlenz sembra inessenziale,
cfr. CHERNISS, ad loc.; nella tradizione eracliteo-stoica l’anima è
àvaGufxtaais (cfr. parte I, nota 175), ed è connessa con l’elemento
umido.
133. L’originale crisippeo (se compiamo il confronto con i più
esatti riferimenti di Plutarco) è stato notevolmente semplificato da
Gellio che non affronta in pieno il problema della causalità.
134. Citazione preziosa, perché ci dice che Crisippo conosceva già
il Carmen aureum (per il carattere antico di questo cfr. A. DELATTE,
Études sur la littérature pythagoricienne Paris, 1915). Cfr. Carmen
Aureum, v. 54 (in Jamblichi Vita Pythagorae, ed. A. N aUCK, Lipsiae,
1884, pp. 204-207).
135. Odyss., I, vv. 32-34.
136. PLATONE, Phaedo, 6ob-c.
137. Il testo dà il titolo in forma doppia; incerto se ci si
riferisca a due opere distinte (Della provvidenza e Degli dèi) come
forse sarebbe più plausibile ritenere.
138. Gioco di parole sul rapporto fra l’accusativo Zfjvoc e il verbo
Crjv, «vivere», e sull’accusativo Aia e la congiunzione Sta, che può
significare «per» in senso locativo (lo scorrere dello Ttveùpioc
divino per tutto l’universo) o «per» in senso causale (la potenza
causativa dello reveGfia - Zeus), per la teoria stoica del
linguaggio «secondo natura» cfr. Intr., p. 45.
139. Cioè la legge divina che regge l’universo: ignea, quindi
anch’essa fisica, sì che spiega il suo allineamento, a tutta prima
curioso, con realtà fisicoastronomiche.
140. Teoria che sembra essere stata già sostenuta da Persèo, cfr.
supra, parte III, nota 12; per gli antecedenti in Prodico di Ceo (ma
fino a che punto la dottrina sia già matura in Prodico di Ceo è
problematico) cfr. 84 B 5 Diels-Kranz e UNTERSTEINER, Sofisti2, II,
p. 191 segg., con ampio commento.
141. Cicerone compie qui un’assimilazione del titolo crisippeo a
quello del proprio De natura deorum.
142. Correzione dello Hartman per lo ewaivelv dei codd.
143. Fr. 292 Nauck2.
144. Fr. 254 Nauck2.
145. ESIODO, Theog., v. 902.
146. EURIPIDE, Electra, vv. 1282-1283; Helene, vv. 38-40; Orestes,
vv. 1639-1642.
147. Il passo è completato dalla testimonianza immediatamente
antecedente dello stesso Plutarco su Antipatro, il quale aveva
affermato esser l’immortalità parte essenziale della definizione del
divino: cfr. infra, parte V, nota 167.
148. Integrazione Cherniss.
149. Le citazioni di Plutarco dal Degli dèi confermano solo in parte
la descrizione ciceroniana dell’opera (cfr. De nat. deor., I, 15, 39
segg.). Il libro II doveva contenere giustificazioni letterarie e
poetiche, ma non solo queste, e nel III, oltre che deduzioni etiche,
sembrano trattate questioni di ordine fisico-teologico (ad es. la
questione del «nutrimento» degli dèi).
150. Fa parte di un contesto riguardante non solo Crisippo, ma anche
Archedemo di Tarso (cfr. infra, parte V, nota 215), in cui Plutarco
rimprovera a quest’ultimo di aver dissolto la realtà del tempo
definendo l’attimo (xò vuv) come un puro limite fra passato e futuro
(la teoria è probabilmente di origine accademica, cfr. SENOCRATE fr.
9 Heinze, 87 Isnardi Parente). Rimprovera poi di contraddizione
Crisippo per aver in un primo tempo affermando l’esistere (u7tàpxiv)
del solo presente, e poi per aver in un’altra opera affermato di
fatto l’inesistenza dello stesso presente, col definirlo come
composto di futuro e passato. Cfr. supra, nota 109.
151. Il concetto di qualità, già importante nella filosofia di
Zenone (supra, SVF I, 91; I, 200; Intr., p. 14 segg.), ritorna in
Crisippo, inserito sistematicamente nell’ambito della divisione
categoriale quadripartita; cfr. in proposito M REE-SOR, The Stoic
Concepì of quality, «Am. Journ. PhiloL», 1954, p. 44 segg. e The
Stole Categories, «Amer. Journ. Philol.», 1957, p. 62 e segg.
152. È la παραϰέντησις, contrapposta a quella di xotvcòs notóv
(qualità individuale e specifica, qualità comune); cfr. per questa
differenziazione REESOR, Stoic Concepì of Quality, p. 46: si
tratterebbe della contrapposizione fra il fattore comune presente in
tutti i membri del genere e la differenziazione particolare di
ciascun membro di questo. La teoria che qui riporta Filone è
comunque assai difficile da spiegarsi (cfr. la posizione aporética
assunta in proposito da F. H. COL-SON, Philo’s Works, IX,
London-Cambridge M., 1941, pp. 528-529) e sembra in contraddizione
con quella riportata da Plutarco, Comm. noi., 36, 1077d = SVF II,
396. La REESOR, art. cit., pp. 46-48, tenta un accordo fra i due
passi e una spiegazione sulla base del carattere paradossale del
passo filoniano, dando maggior valore al passo plutarcheo. Cfr.
ancora parte VI, note 248-249.
153. Sull’importanza e la diffusione di quest’opera cfr. BREHIER,
Chrysippe, p. 18. Una ricostruzione del libro Iè stata tentata da
ANTOINETTE VIRIEUX-REYMOND, Pour connaître la penséé des Stoïciens,
Paris, 1976; esso doveva contenere la trattazione della questione
più generale e fisica, quella del retto collocamento dell’anima nel
corpo umano. Nel libro II erano invece probabilmente trattate le
questioni di ordine conoscitivo (cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 50,
infra).
154. Si tralascia qui la serie, che segue, di riprese
dell’argomentazione, con osservazioni di Galeno circa la prolissità
e l’intrinseca contraddittorietà della trattazione crisippea (cfr.,
passim, pp. 297-317 Muller; S VF II, p. 238).
155. Tim. yoe («nella regione sotto il diaframma che è delimitata
dall’ombelico»); in yib segg. si precisa che la vera sede dell’anima
irrazionale è nel fegato (organo collegato ai problemi della
divinazione e del sogno). Naturalmente l’anima per Platone è
incorporea, non segue le leggi comuni del mondo fisico, e la
«collocazione» del Timeo è fatta secondo il discorso probabile e non
con intenti strettamente teoretici, cosa che qui Galeno non sembra
prendere in considerazione.
156. E implicito il paragone con Platone, soprattutto col Platone
della Repubblica, che ha dato scarso peso alla trattazione specifica
dell’irrazionale.
157. Iliad., XVIII, v. 109.
158. Trag. adesp., fr. 175 Nauck2.
159. Trag. adesp., fr. 176 Nauck2.
160. Seguo la lezione ftàvxec, accettando la quale tuttavia il
termine va trasposto nel testo; cfr. v. ARNIM, ad loc.
161. La polemica di Crisippo contro i grandi medici ellenistici a
favore dell’antico cardiocentrismo (cfr. infra, nota 166) è
probabilmente desunta da Galeno a Posidonio, come poi più
chiaramente lo sarà quella del Delle passioni (cfr. infra). Per la
posizione di Posidonio riguardo al cardiocentrismo dell’antica Stoa
cfr. THEILER, Poseidonios, Fragmente, II, p. 337 segg.; per altre
citazioni di Posidonio in Galeno a proposito delle facoltà
dell’anima cfr. fr. 395b Theiler, e II, p. 326 segg.
162. Diogene di Babilonia; per la cui assai importante teoria della
voce cfr. infra, parte V, nota n e segg.
163. Richiamo a ZENONE, SVF I, 148; supra, parte I, nota 192.
164. Qualcosa è caduto nel testo, ma è forse troppo ampia
l’integrazione proposta dal Müller («nel dire: ’a me questo
conviene, questo io dico’ - allo scopo di rivelare ecc.»).
165. Il giuoco di parole allude alla forma epica xpaStTj piuttosto
che a quella del linguaggio comune.
166. Per quanto questo passo, come il precedente, non contenga
citazioni esplicite dall’opera di Crisippo, essi si riferiscono con
ogni evidenza allo stesso contesto degli altri di Galeno, e li si
può considerare riferimenti dal Dell’anima crisippeo.
Particolarmente interessante la notizia relativa a polemica di
Crisippo contro il grande medico ellenistico Erasistrato; il quale
Erasistrato si trovava su posizioni moderate, attribuendo al cuore
la funzione di fonte dello spirito vitale in senso puro, se non
delle facoltà intellettive. Cfr. POHLENZ, Sto a, II, p. 51; SOLMSEN,
Kleine Schriften, I, p. 569 segg., per l’importanza della scoperta
del sistema nervoso nella medicina ellenistica e le reazioni stoiche
in merito. Per la collocazione particolare dell’egemonico nel
ventricolo sinistro, che qui sembra attribuita a Crisippo, cfr.
parte VI, nota 538: la posizione degli Stoici in proposito non
sembra esser stata univoca.
167. Prassagora, fr. n Steckerl; per il commento F. STECKERL, The
Fragments of Praxagoras of Cos and his school, Leiden, 1958, p. 18;
a proposito della citazione fatta da Crisippo ivi, p. 4. Per
Prassagora (il medico di Cos maestro di Erofi-lo) arterie e nervi
sono ancora in realtà un solo corpo, con transizione graduale; ciò
spiega l’ipotesi del cuore come origine del sistema nervoso. La
peculiarità di quest’ultimo sarà poi individuata dai medici
seguenti, Erofiio ed Erasistrato.
168. La parola Suváfxet? per indicare il dolore e la gioia è
piuttosto del linguaggio platonico che di quello stoico; per il suo
uso in Posidonio, cui forse è da attribuirsi, cfr. THEILER,
Poseidonios, Fragmente, II, p. 329.
169. Cfr. per questo la ripresa del motivo in altre opere crisippee,
ad. es. il Delle passioni, per cui si veda Posidonio, fr. 417
Theiler (incompleto in Edelstein-Kidd) = SVF III, 460, da GALENO, De
Hippocr. Plat. plac, V, 6, p. 448 segg. Mùller - passo in cui è
nominato anche il Del fine. Cfr. per queste opere infra.
170. litad., XIV, vv. 315-316.
171. Iliad., IV, v. 24
172. Iliad., XVIII, v. 108. Cfr. anche ivi, p. 231 Mùller, SVF II,
905, che ripete questo stesso discorso, aggiungendovi alcuni altri
versi omerici.
173. La prima parte del frammento così come figura nella raccolta
dell’Arnim è costituita da un lungo brano in cui sono ripetute
argomentazioni dei frr. precedenti, con citazioni assai ampie da
Omero ed Esiodo. Cfr. SVF II, pp. 252-254: si tratta di una lunga
lista di citazioni poetiche, una delle quali dall’Arnim non
identificata, per la maggior parte appartenenti all’epica omerica;
per le due citazioni esiodee cfr. i frr. 234-235 Rzach e Theog., v.
641. Il riferimento di Galeno può qui interessare solo a
dimostrazione dell’amplissimo uso di esempi letterari fatto da
Crisippo.
174. PLATONE, Resp., IV, 4356-4456, in cui viene trattata la famosa
teoria della tripartizione dell’anima.
175. Manca qui il riferimento a un verso particolare; si può pensare
a passi quali Med., vv. 1078-1079, per cui cfr. anche infra, nota
253.
176. TIRTEO, fr. 13 Bergk.
177. Passo assai tormentato e certo corrotto, in cui la parola
teogonia compare prima al plurale e poi al singolare (la Teogonia di
Esiodo? o allusione ad altri scritti teogonia.?) Cfr. ARNIM, ad
loc., p. 256, il quale preferisce, seguendo il Pe-tersen, espungere
la forma al plurale.
178. Theog, v. 886 segg. e v. 900.
179. Theog., v. 924 segg. Ma i versi che seguono non appartengono
più alla Teogonia esiodea quale essa ci è giunta (son due versi
relativi a Themis, inseriti estrinsecamente nel contesto di cui
rompono l’unità).
180. Per la xiyyr iztpl xòv piov cfr. infra, parte V, e Intr., p.
65.
181. Potrebbe trattarsi di Cleante (cfr. infra, parte VI, nota 537),
ma non è escluso che possa anche trattarsi di Posidonio, come
vorrebbe il THEILER, Fragmente, II, p. 337.
182. Integrazione Spengel. ’AGpTjvótv è «esente da lutto, dolore»,
indicante quindi l’impassibilità dello Tj-fefAovixóv. Pur non
recando alcuna indicazione dell’opera crisippea, il passo di
Filodemo denota una stretta unità con le argomentazioni riportate da
Galeno come appartenenti al Dell’anima e ne continua la
dissertazione intorno al mito di Atena; sembrerebbe quindi da
riportarsi senza difficoltà a quest’opera.
183. È una delle varianti del titolo, qui dato come %tpl xfj^
àpxata; (poatxiji;.
184. Integrato in base a Schol. in Homeri Iliad., XXI, v. 483, che
non porta peraltro il nome di Crisippo.
185. Per il rapporto fra quest’opera e quella più generale Sugli dèi
cfr. PHILIPPSON, Philodemos, Real-Encycl., XIX, 2, coli. 2460-61:
sono forse tre libri aggiunti all’opera di soggetto più generico.
Per il testo del brano cfr. DiELS, «Abbandl. Akad. Berlin», 1916, 1,
pp. 25-26.
186. Integr. Diels.
187. Cfr. anche SUIDA, Lexikon (s.v. -ctfxcopouvTo?), IV, p. 559
Adler.
188. Cfr. De divin., I, 51, 116, ove si parla di un’opera di
Antifonte il Sofista sui sogni, «artificiosa somniorum Àntiphontis
interpretatio»; per i frammenti cfr. 87 B 78-81 a Diels-Kranz.
189. Dalla testimonianza ciceroniana sembra di capire che il libro
Sui sogni e quello Sugli oracoli formavano un’unità. Per Diogene
cfr. infra, parte V.
190. Cfr. però diversamente sopra, ove è attribuito al libro Sui
sogni.
191. Gioco di parole su x(Pl$ (beneficio) e il nome Charites o
Grazie, in base alla consueta teoria linguistica stoica.
192. La frase denota il distacco di Seneca dalla teoria linguistica
della Stoa antica. Per Ecatone (che sembra esser la fonte immediata
di Seneca) cfr. supra, parte I, nota 6.
193. Cfr. Intr., nota 32.
194. Il «non», oux, è stato espunto a torto da Zeller, seguito a suo
tempo dall’Arnim e oggi ancora dal LONG, ad loc., Cfr. invece Cobet
e oggi GIGANTE, D. L.2, p. 537, nota 132. (AèT•)) è integrazione
dell’Arnim.
195. L’Arnim considera crisippeo tutto il brano; tuttavia può darsi
che, a parte la citazione iniziale, vi sia un certo adattamento da
parte di Origene (cfr. ad es. la doppia possibilità della
conflagrazione o dei cataclismi, mentre solo la prima ipotesi
appartiene strettamente all’ortodossia stoica).
196. Per il concetto di «preferibile» Intr., nota 35.
197. Integr. Sandbach, cfr. CHERNISS, Plutarch’s Mor., XIII, 2, ad
loc.
198. Qui citata come Ilept xà-faGou anziché Ilepì TàyaGwv; ma il
riferimento è con ogni probabilità alla stessa opera.
199. Per la polemica qui contenuta contro Erillo cfr. POHLENZ, Sto
a, II, p. 70.
200. Il riferimento del titolo dell’opera rende sicura
l’attribuzione a Crisippo stoico (per una possibilità, ma si direbbe
remota, di attribuzione a Crisippo di Tiana, edifagetico del I sec.
d. C, cfr. LIDDELL-SCOTT-JONES, s.v. àSptocTixóc).
201. lliad., II, v. 231.
202. Odyss., VIII, v. 306 segg.
203. Sono, insieme con quello citato dallo pseudo-Plutarco, tre
differenti titoli di opere sulla virtù, che sembrano integrarsi a
vicenda: differenziazione e attribuzione di qualità alle virtù, ma
anche loro taottpua, loro uguale valore ed equipollenza assiologica.
Per la polemica contro Aristone cfr. IOPPOLO, Aristone, p. 222
segg.; la quale tuttavia tende forse ad avvicinare troppo il punto
di vista aristoneo a quello zenoniano e ad interpretare come
tendenziosa e deformata l’interpretazione che di Zenone dà Crisippo.
Analisi del brano di Galeno da parte di D. TSEKOURAKIS, «Hermes»,
Einzelschr. XXXII, 1974, p. 105 segg.
204. Il izaXctiòt; \óyo(; è certamente quello di Platone. Cfr.
POSIDONIO, fr. 422a Theiler (= T 64 Edelstein-Kidd) e commento, II,
p. 350 segg.
205. Opera, vv. 242-243.
206. Per il concetto di oixetcoat?, sicuramente crisippeo ma
probabilmente zenoniano in origine cfr. quanto già Intr., nota 33;
parte II, nota 104; e infra, parte VI, nota 634.
207. Citata in questa forma solo in questo passo; probabilmente
coincidente con l’opera Della giustizia.
208. Non è chiaro se si tratti di pitagorici contemporanei di
Crisippo o -come forse è più probabile - di neopitagorici
contemporanei di Plutarco, cui questi allude anche altrove (cfr.
Quaest. Conv. 727D-C; in proposito CHERNISS, Plutarch’s Mor, XIII,
2, pp. 538-539). A parte la nota posizione dei pitagorici in favore
dell’astensione dal cibo a base di carne di animali vi è una
posizione di particolare reverenza per il gallo, cfr. lo stesso
PLUTARCO altrove, Quaest. conv. Ó70c-d; DIOGENE LAERZIO, Vili, 34;
ecc.
209. Forse facente parte - così come la seguente che riguarda
Aristotele dell’opera Della giustizia; anche se non si può escludere
che si trattasse di opere indipendenti, dato il carattere prolifico
della produzione crisippea.
210. Resp.y I, 35id segg.
211. Resp., I, 330c! segg.
212. Fr. 991 Nauck2.
213. Secondo la lezione àptaxàc, di un solo ms. (àpexà(; negli
altri) cfr. CHER NISS, ad loc. Per Aristotele cfr. il fr. 86 Rose,
3a ed., De iustitia, fr. 4 Ross, p. 98 (anche se da alcuni il
frammento è stato rivendicato al Protreptìco, cfr. R. WALZER,
Aristotelis Dialogorum Fragmenta, Firenze, 1934, che ne fa il fr. 17
di quest’ultima opera).
214. TIMONE, frr. 13-14 Diels (Poèt. Philos. Fragm., p. 187); ove
tuttavia il Kaibel, seguito dal Diels, espungeva l’aggettivo
Zrjvioveiov, che invece sembra dare alla frase un colorito efficace.
215. CRATETE, fr. 6 Diels (ivi, p. 20). Per le massime di Crisippo
cfr. le notizie circa la sua gran frugalità in DIOGENE LAERZIO, VII,
185.
216. Gioco di parole su xeipw, «radere», e il soprannome Kórses.
217. ALESSI, fr. 264 Kock.
218. E Crisippo filosofo, come chiarisce lo stesso ATENEO, Vili, 355
(«il capo della Stoa»); anche se l’avvicinamento con i due scrittori
di gastronomia potrebbe nuovamente ingenerare confusioni con
Crisippo di Tiana.
219. Dei due citati il più noto è Archestrato di Gela (cfr.
WELLMANN, Real-Encycl., II, 1, 1895, coli. 459-460), autore
appartenente al IV secolo a. C; la sua opera è tramandata sotto
varii titoli, Hedyphagetica è quello adottato da Ennio nella sua
traduzione. E opera probabilmente satirica, nella forma di viaggio
epico-gastronomico. Sotto il nome di Filainide o Filenide era
diffusa in periodo ellenistico un’opera analoga (MAAS, in
Real-Encycl., XIX, 2, 1938, col. 2122).
220. Tiranno di Pisa, il cui nome è legato alle storie delle guerre
messeniche, insieme con quello dei figli Demofonte e Pyrrhos. Cfr.
T. LENSCHAU, Real-Encycl, XVIII, 3, 1949, coli. 687-688.
221. L’Arnim introduce di seguito altri brani che non
necessariamente si riferiscono a quest’opera.
222. In greco gioco di parole (qui irriso da Plutarco) fra Béovmt e
IvBeovxat.
223. Integr. Meziriac, accettata da CHERNISS, ad loc.
224. MENANDRO, fr. 567 Kock.
225. Leucone è il re del Bosforo alleato di Atene nel IV secolo,
cfr. GEYER, Real-Encycl., XII, 2, 1925, coli. 2280-2282. Per
Idantirso, re degli sciti nel VI secolo, attaccato da Dario, cfr.
ERODOTO, Hist., IV, 76, 120, 126-127.
226. Nell’opera Della natura, citata nel contesto immediatamente
precedente; il secondo accenno si riferisce al libro I del Dei
generi di vita.
227. L’Arnim accetta l’integrazione aXXwv (aXXou(;), sulla base di
una proposta di A. Emper. I codd. danno aXXco? TÙrfioQ per
l’integrazione (r\Tò)fàffioq cfr. R. G. Bury, e CHERNISS, ad loc.
228. Riferimento, ancora, al Della natura, per cui cfr. supra.
229. Seguendo la lezione fjjjBev; cfr. GIGANTE, D. L.2, ad loc.
230. Se l’uno degli autori contro cui si polemizza implicitamente è
Epicuro, l’altro, che avrebbe presentato la teoria in forma più
mitigata, è leronimo di Rodi, peripatetico del IIIsecolo,
sostenitore della teoria della àoyXr\aioL o assenza di dolore come
sommo bene (cfr. WEHRLI, Schule des Aristo teles, X, 1959, frr.
8-18).
231. Espressione tipicamente platonica, cfr. Resp., I, 3523 segg.,
ma per la definizione della giustizia come xàIOCUTOG Ttparceiv IV,
433a.
232. È il solo frammento fra quelli che possediamo a far preciso
riferimento all’opera Dell’impulso; esso non è citato però
dall’Arnim nel suo elenco dei frammenti crisippei ordinati secondo
l’appartenenza alle singole opere, SVF IH, p. 201. Per il contesto
in cui ricorre cfr. supra, nota 43.
233. Opera complessa, costituita da tre libri logici, o di
definizione dell’essenza del tOXGOS, e di uno terapeutico o
normativo (come guarire dalle passioni dell’anima, secondo
l’analogia, di derivazione socratica, mali del corpo / mali
dell’anima, medicina del corpo / medicina dell’anima, medico /
filosofo. Quest’ultimo libro sembra sia stato detto da alcuni anche
«etico», cfr. SVF III, 461 e altrove). Il riferimento più esauriente
ce ne è fornito da Galeno, il quale a sua volta desume la sua
trattazione da Posidonio (fr. 31 segg. Edelstein-Kidd, 405 segg.
Theiler (e commento ivi, II, pp. 351-360). Cfr. I. G. KIDD,
Posidonius on Emotions, in Problemi in Stoicism, p. 200 segg.
234. pr\hì tv tJPOCIèV: per l’espressione cfr. Iliad., II, v. 380;
Odyss., III, v. 14; e altrove. Legge rj (Baióv («o ben poco»)
INDELLI, «La Scuola di Epicuro» V, Napoli 1988, p. 63.
235. Integr. Wilke. Per Bione di Boristene cfr. KINDSTRAND, Bion, T
io, e commento pp. 151-152.
236. Così ragionevolmente integra Mùller sulla scorta di altri passi
analoghi.
237. Cfr. per la posizione di Zenone supra, parte I, nota 136. La
netta contrapposizione Zenone-Crisippo compiuta dal Pohlenz (Zenon
und Chrisipp, 1938, pp. 1S7 segg.) è certamente da sfumare, giacché,
a quanto risulta dalla testimonianza di Posidonio-Galeno, Crisippo
ha accettato anche la definizione della passione come «impulso
sovrabbondante» data da Zenone; cfr. su questo passo THEILER,
Poseidonios, Fragmente, II, p. 353. Ma è certo anche che Crisippo,
pur non intendendo andar direttamente contro nessuna definizione
data dal fondatore della Stoa, intende rifondare le definizioni date
da questi alla sua maniera intellettualistica; l’interpretazione di
fondo del Pohlenz non esce infirmata da questa accettazione della
definizione zenoniana.
238. Fr. 410 Usener; ma il riferimento a Epicuro è polemico e
impreciso.
239. E questo il contesto in cui Galeno cita opere quali il
Dell’impulso (supra, nota 232) e le Definizioni secondo il genere
(supra, nota 46). Crisippo riprendeva evidentemente le definizioni
che gli apparissero fondamentali in sede di trattazioni filosofiche
diverse.
240. Pur se non intercorre la solita citazione dell’opera, il branp
è certo derivante dal Delle passioni. Crisippo vuole probabilmente
intendere, in coerenza alla teoria stoica che pone una divisione
rigida fra vizio e virtù, che non esiste «potenzialità» alla maniera
aristotelica, e che chi ha «tendenza al vizio» è un (pocuXo(;
(stolto, cattivo), irrimediabilmente lontano dal bene. Per la
presenza di uno schema logico di derivazione megarica dietro questa
impostazione cfr. Intr., nota 84.
241. Cfr. per tutto questo in particolare Posidonio, fr. 413 Theiler
(163 Edelstein-Kidd) s commento in THEILER, Fragm., II, p. 355. Si
tenta qui ovviamente di focalizzare ciò che oggettivamente, nella
dissertazione posidoniana ripresa da Galeno, può riferirsi a
Crisippo.
242. Iliade XXIV, v. 514 (ma cfr. anche Odyss., IV, v. 541).
243. Odyss., IV, v. 103.
244. EURIPIDE, ir. 576 Nauck (= 563 dei Tr. Gr. Fr.2). La lezione di
Galeno non coincide con quella di STOBEO, Ecl., IV, 38, 16, p. 102
Hense: forse Galeno ha citato avendo in mente ESCHILO, Prom., v. 637
(non si può peraltro escludere che la sua lezione sia quella
esatta).
245. Odyss. IV, v. 113.
246. EURIPIDE, Elee tra, vv. 125-126.
247. Seguendo la lezione del Mùller, àvàXoyà -uva (mentre l’Arnim
preferisce leggere àvàXoyóv -ava, riconnettendo la parola al xpó cov
che segue).
248. La definizione di ójxcavufxov come ciò che ha uguale il nome e
diverso il concetto (kóyoq) risale ad ARISTOTELE, Categ. ia, 30,
ecc. Galeno, parlando della teoria crisippea, usa con promiscuità i
termini di omonimia, analogia o proporzione, somiglianza
(ófxoiÓTr](;) che non hanno certo la stessa valenza; né possiamo
aver la sicurezza che si tratti della terminologia effettivamente
usata da Crisippo.
249. La definizione più antica della salute come proporzione
simmetrica degli elementi sembra risalire ad Alcmeone, il medico
crotoniate di tendenza pitagoriz-zante: cfr. 24 B 4 Diels-Kranz, ove
compare anche la parola xpaaig (aufXfxetpovbaatv TCSV mnv
«mescolanza proporzionata delle quattro qualità»): i Trota sono ^ i
umori, che però per Alcmeone non sembrano consistere solo nei
quattro tradizionali corrispondenti ai quattro elementi, come qui in
Crisippo, più coerente alla tradizione ippocratica, giacché Alcmeone
parla anche del dolce, dell’amaro ecc. Il concetto di «simmetria» è
in ogni caso di origine chiaramente pitagorica; è accettato anche da
Platone nel Timeo (82a-b).
250. Non è riportato dal Theiler fra i riferimenti da Posidonio; ma
la critica è anche’essa probabilmente posidoniana, mentre è
deduzione di Galeno - con accostamento di Posidonio questa volta non
a Platone ma ad Aristotele - il passo che costituisce il fr. 414
Theiler, p. 432, 5-15 Mùller, anch’esso relativo alle «parti» o
«facoltà» (Suvàfiet?) dell’anima: ivi Galeno insiste sulla divisione
dell’anima non solo in facoltà, ma in vere e proprie parti
differentemente localizzate nel corpo. Cfr. anche a proposito del De
anima crisippeo, supra.
251. La parte relativa al Canone di Policleto è stata posta in nota
dall’Arnim, pur non nascondendo questi la propria inclinazione a
considerare anche questo un riferimento da Crisippo. La notizia è
antica e rara, e quasi certamente crisip-pea anch’essa. E il passo
in cui abbiamo il riferimento più aperto all’opera famosa dello
scultore del V secolo, cfr. 40 A 3 Diels-Kranz; l’altro passo che ce
lo cita, anche se meno chiaramente (40 B 1 Diels-Kranz = PLUTARCO,
De project, virt., 17, 86a) è, cosa significativa, anch’esso
collegato ad una testimonianza su Crisippo. Cfr. anche lo stesso
PLUTARCO, Quaest. Conv., II, 3, 2, 636c.
252. EURIPIDE, Androni., vv. 629-630.
253. EURIPIDE, Medea, vv. 1078-1079.
254. Il libro terapeutico conteneva quindi polemica antiepicurea
(circa il tema del piacere) e antiperipatetica (per i tre tipi di
beni cfr. Eth. Nicom., I, 1098 b 13 segg.).
255. EURIPIDE, fr. 341 Nauck (= 340 N.2).
256. EURIPIDE, fr. 668 Nauck (= 650 N.).
257. E un argomento volto a cogliere Crisippo nella suprema
contraddizione con se stesso; per la teoria della causalità
crisippea, teoria che domina la sua concezione fisica, cfr. Intr.,
nota 99., e infra, parte VI, p. 897. Cfr. anche parte VI, nota 371
per la polemica antiepicurea della Stoa incentrata proprio sul
motivo dell’assurdità di porre una xCvrjct? àvaixios, un moto senza
causa, con la teoria del clinamen.
258. MENANDRO, fr. 753 Kock. Si riferisce probabilmente, come il
Kock suppone, a Diogene Cinico, ed è una satira della famosa
«botte».
259. Alcest., v. 1079.
260. lliad., XXIV, vv. 549-551.
261. Il Müller espunge a questo punto la frase «che si intitola
anche etico», frase effettivamente troppo spesso ripetuta per non
esser considerata glossa. Per la continuazione (contrapposizione
polemica posidoniana) cfr. il fr. 409 Theiler.
262. Cfr. GELLIO, Noci Att., XIX, 1, 15 segg. Per il concetto di
Btaaxpo cfr. GRILLI, «Acme», XVI, 1963, pp. 87 segg.
263. In generale per questa tematica cfr. Intr., p. 65.
264. Così FArnim, ad loc.; ma l’integrazione non è sembrata
sufficiente al Pohlenz né più tardi al Cherniss, che ne propongono
di più lunghe e complesse; cfr. CHERNISS, Plutarch’sMot., XIII, 2,
ad loc. e p. 451 nota c.
265. E una ripresa di PINDARO, fr. 152 Bowra, il famoso frammento
sul vópux; (BaatXeu? assai spesso citato nella letteratura antica.
266. Congiunta ad una citazione dal Sugli dèi, eh. supra, p. 000.
L’opera relativa al BixàCeiv si fondava evidentemente in primo luogo
su motivazioni di ordine religioso.
267. EURIPIDE, fr. 884 Nauck (= 892 N.2) I versi sono riportati più
ampiamente da GELLIO, Noctes Att., VI, 16, 6, in un contesto in cui
cita Crisippo, ma senza indicare il titolo dell’opera da cui desume.
268. Cfr., per l’episodio relativo a Diogene Cinico, DIOGENE
LAERZIO, VI, 46 e 69 = V B 147 Giannantoni. A proposito
dell’interpretazione di Crisippo, CHER-NISS, Plut. Mor. XIII, 2, p.
501, nota d.
269. Al di là di Platone, che nella Repubblica aveva cercato, pur
prescrivendo nozze comuni, di evitare il più possibile l’incesto;
cfr. Resp., V, 461D segg.
270. «Terzo», ipotizzato dal Rasmus a integrazione della lacuna
indicata dallo Xylander.
271. ANTISTENE, fr. 67 Decleva-Caizzi (= V A 105 Giannantoni).
272. TIRTEO, fr. 14 Bergk2.
273. TEOGNIDE, V. 175; Crisippo parafrasa il testo teognideo
tralasciando il nome del dedicatario, Kyrnos.
274. Il proverbio xPW®^ àvrjp, per cui cfr. ALCEO, fr. 49 Bergk2.
Aristodemo di Argo è personaggio poi annoverato fra i sette saggi:
cfr. B. NIESE, Real-Encycl., II, 1, 1895, coli. 920-921.
275. Dionisodoro di Trezene, grammatico di età alessandrina,
paremiografo; cfr. COHN, Real-Encycl., V, 1, 1905, col. 1005.
276. Si pone qui un segno dubitativo questo passo per l’ipotesi di
attribuzione che di esso fu avanzata dalla prima editrice di questo
papiro di Ossirinco, A. M. COLOMBO, «La Parola del Passato», IX,
1954, pp. 376-381 (p. 377 per il testo). L’ipotesi è tuttavia oggi
considerata non più sostenibile con probabilità da F. Decleva
Caizzi, sulla cui successiva ricostruzione ci si vale qui
prevalentemente per la traduzione; cfr. F. DECLEVA CAIZZI - M. S.
FUNGHI in Aristoxenica, Menandrea, Fragmenta Philosophica, Firenze
1988, p. 85 segg.
277. Seguo le integrazioni a(uw)v) e (tetv èox)iv della Funghi;
diversamente Colombo, p. 378.
278. Et? àoru veniva interpretato dalla Colombo in senso astratto,
come «verso la vita civile»; in questo caso la frase avrebbe un
significato universalistico («l’uomo, col darsi cura della vita
civile, si protende verso il proprio progresso») o alcunché di
simile. Se diamo invece ad occrru il suo usuale significato concreto
di città, le risultanze sono diverse. Questa è l’ipotesi avanzata
dalla Decleva Caizzi, che adduce a paragone DIOGENE LAERZIO, VII,
120 = SVF III, 527, ove si parla dell’eguaglianza di virtù e vizi:
chi dista dalla città (nel caso specifico Canopo) cento stadi non è
a Canopo allo stesso modo di chi ne dista un solo stadio. Per la
problematica generale della 7tpoxo7crj cfr. LUSCHNAT, Fortschritt,
cit., Intr., nota 45.
279. Integrazioni Decleva Caizzi. Si tralascia l’ultima parte assai
mutila e incerta, in cui la Decleva Caizzi pensa di poter leggere un
altro esempio del paragone dei cagnolini ciechi presente in
CICERONE, De fin., III, 14, 48 = SVF III, 530.
280. Crisippo è in questo accomunato a Zenone e allo stoico Eudromo
(per cui v. ARNIM, Real-Ezicycl., VI, 1, 1907, col. 950 e supra,
nota 41). Cfr. per Zenone SVF I, 46, e Intr., note 28-29. E tuttavia
chiaro che la logica non è per Zenone quello che sarà poi per
Crisippo, cioè una compiuta e articolata dottrina sillogistica, e
che la priorità didattica della logica nei due filosofi non ha lo
stesso significato. Cfr. POHLENZ, Stoa, I, p. 37 segg.
281. Archigene è medico famoso di età traianea, appartenente alla
scuola eclettica; cfr. in proposito WELLMANN, Real-Encycl., II, i,
1895, coli. 484-485. Il problema è quello dell’espressione usata per
indicare la pulsazione. Difficile dire se Galeno si esprima in senso
generico, come il testo sembrerebbe suggerire, oppure se esso
contenga una citazione dal Circa i nomi usati nella dialettica, a
Zenone, I, (cfr. il catalogo laerziano, supra) come vorrebbe il
FREDE, Stoische Logik, p. 28.
282. Cfr. Zenone, SVF I, 48, e Cleante, SVF I, 483.
283. Per questo concetto cfr. SESTO EMPIRICO, Adv. log. I, 241 (SVF
II, 64). Il concetto di 9àvTaafxa in particolare ha subito un netto
cambiamento rispetto all’uso fattone da Aristotele; quello che era
il ^àvraqia aristotelico corrisponde piuttosto qui a 9avxaaxóv.
Questa distinzione fra le forme del conoscere sensibile apparteneva
probabilmente al De anima crisippeo, se guardiamo a quanto ci dice
DIOGENE LAERZIO, VII, 50 (= SVF II, 65, cfr. supra).
284. EURIPIDE, Orestes, vv. 255-256. L’esempio è uno dei più
ricorrenti quando si tratti di indicare rappresentazioni fittizie.
285. Ivi, vv. 258-259.
286. Odyss. II, v. 350 segg.
287.eH8u è congettura del Petersen. La terminologia del passo è in
verità più aristotelica che stoica: la specie è contrapposta al
genere come dotata di maggior realtà concreta, con sensibile
vicinanza alla teoria di Categ., 28b segg.
288. Per Pargomento degli Accademici scettici cfr. CICERONE, Acad.
priora, 15, 47. Su questo passo PEASE, Cicero, De divinatione, Univ.
of Illinois, 1923, II, 2, p. 552.
289. POSIDONIO, F 454 Theiler (=188 Edelstein-Kidd). Ma cfr. il
commento del THEILER, Vragni., II, p. 399: Diogene Laerzio dà spesso
come posidoniano ciò che è genericamente stoico. Cfr., per la stessa
definizione, ancora DIOGENE LAERZIO, VII, 42.
290. La prima parte del passo di Varrone, ovviamente, non ha alcuna
relazione con la seconda, fondandosi, come è evidente, su una
analogia di parole latine (locus - loquor).
291. Per il rapporto fuoco-piramide PLATONE, Tim., ^óa-b. L’immagine
della formazione pluralistica della realtà secondo il modello delle
parti della parola, lettera e sillabe, è già di tradizione antica,
atomistica e democritea: per un riflesso di ciò cfr. PLATONE,
Theaet. 203a-c.
292. Si omettono altre glosse, analoghe, a Esiodo e ad Omero; per
cui cfr. SVF II, 157-158; III, 769-777.
293. Integrazioni del Kalbfleisch; leggermente diverso il testo dato
dall’Ar-nim.
294. Il brano, ancorché mediato attraverso la ’EttiSpofir) di Diocle
di Magnesia (dalla quale deriva il passo DIOGENE LAERZIO, VII,
48-82), ha probabilmente come fonte ultima le Definizioni
dialettiche a Metrodoro. Cfr. supra, a proposito di DIOGENE LAERZIO
VII, 71 (SVF II, 207).
295. Per Antipatro e Archedemo di Tarso cfr. infra, parte V.
Atenodoro, ugualmente di Tarso (ove doveva trovarsi un centro
importante di filosofia stoica) è noto come sovrintendente della
biblioteca pergamena, e visse poi a Roma dal 70 a. C. presso Catone
l’Uticense (PLUTARCO, Caio minor, 10, 16); cfr. v. ARNIM,
Real-Encycl., II, 2, 1896, col. 2045. Crinide fu forse allievo di
Archedemo di Tarso; è autore di una Arte dialettica di cui dà
notizia Diogene Laerzio, VII, 71, e si colloca probabilmente nella
seconda metà del II sec. a. C: cfr. ancora v. ARNIM, Real-Encycl,
XI, 2, 1922, coli. 1865. Cfr. infra, parte V, Appendice.
296. Espunto dal Rossius, cfr. oggi LONG, ad loc., r e? àfrwpiàTcov.
297. Integr. del Valesius, cfr. LONG., ad loc.
298. Una lacuna fu denunciata a questo punto dal Cobet: i tentativi
di integrazione sono stati numerosi. I codici più antichi dànno un
xocì àStwfxaxo?, contro il più facile xocì a7co90CTtxóv dei codici
più recenti; forse correzione semplificante di uno scriba. Questa
seconda forma è peraltro accolta nell’edizione del Long.
Un’integrazione più lunga è proposta dal GOULET, in Les Stoi’ciens
et leur logique, p. 178. Con «denegativo» traduciamo àpvr|Tixóv,
distinto da àmKpomxóv.
299. Anche qui il testo richiede di essere integrato; cfr. già EGLI,
in FDS, III, p. 1140; FREDE, Stoische Logik, pp. 71-72; GOULET, in
Stole. Log., pp. 180181, circa la diversa posizione delle due
negazioni (oùyl r\\iipa (oux) i’axi proponevano Arnim e Long, mentre
propendono per ou%ì (oùx) riM-épa eaxt gli studiosi più recenti
della logica stoica).
300. Integr. Hicks, accolta dal Long.
301. Integr. Kalbfleisch.
302. Cfr. GELLIO, Noct. Att., XVI, 8, 9 (SVF II, 213) con un esempio
di ouvrjfxfxévov («se Platone cammina, Platone si muove» o «se è
giorno, c’è il sole sopra la terra»).
303. Per quanto Plutarco definisca qui lTpparco da lui citato un
«aritmetico», e per quanto il ragionamento che gli attribuisce sia
difficilmente ricostruibile, deve trattarsi di Ipparco di Nicea, il
famoso astronomo del II secolo; questi è citato da Plutarco anche
altrove, De Pyrh. orac., 402f, De jacie in orbe lunae, 92 id,
Contro. Epic. beat., 1094C. Cfr. CHERNISS, Plutarch’s Mor., XIII, 2,
pp. 527-528, nota e.
304. PLATONE, Phileb.,
305. Medico e autore di opere dietetiche in Atene, seconda metà del
IV sec. a. C, che Galeno cita più volte; cfr. in proposito
DEICHGRABER, Real-Encycl. XV, 2, 1932, coli. 2281-2284. nessuno che,
nello scrivere sull’arte, non abbia fatto lo stesso discorso.
306. Da SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 223 (SVF II, 242, cfr. supra)
abbiamo un’indicazione dell’opera in cui questa tematica veniva
trattata da Crisippo come «prima introduzione ai sillogismi»; Galeno
parla poi di «tre trattazioni sillogistiche» (infra, SVF II, 247):
forse un’opera sillogistica divisa in tre libri? Cfr. supra, nota
57, per le osservazioni già fatte. La distribuzione precisa del
materiale logico a noi giunto sotto il nome di Crisippo, data la
stragrande ricchezza della sua produzione, è assai difficile.
307. Integrazioni Kalbfleisch (Galeni Introductio Dialéctica,
Lipsiae, 1896) accettate, nella sua traduzione (cfr. supra, nota
51), dal MAU, p. 9.
308. Boeto, peripatetico del I sec. a. C, cfr. P. MORAUX, Der
Aristotelismi bei den Griechen, I, Berlin-New York, 1973, pp.
143-179 (da non confondersi con lo Stoico omonimo).
309. Integrazioni del Kalbfleisch.
310. Cfr. MAU, Galenos, Einführurg, p. 17, con riferimento a SESTO,
Pyrrh. Hypot., II, 149 e Adv. phys., I, 433.
311. MAU, Galenos, Einführung, p. 16, nota che il ragionamento non è
tipicamente stoico né crisippeo, e che lo si può già trovare in
ARISTOTELE, Top., 11, 113b 17 segg.
312. Espunto dal Kalbfleisch un precedente àxpa-cot? che l’Arnim
emenda, conservandolo, in v.yjfysxoxìc, («ch’io indicai come
inutili»).
313. Lacuna nel testo, variamente integrata. Da vedersi in proposito
BALDASSARRELogica Stoica, VII A, p. 46, in nota.
314. Per queste figure di «sillogismo non metodico» MAU,
Einfiihrung, p. 63, rimanda ad ALESSANDRO DèAFRODISIAIn Arist. Anal,
pr., pp. 21, 30; 68, 22; 345, 24 Wallies; In Arist. Top., p. 14, 20
Wallies.
315. Abbiamo qui due espressioni strettamente tecniche del
linguaggio logico stoico: per 8ià 8uo xpomxv cfr. BECKER, Unters.
ant. Log., 1957, p. 36 segg., p. 37 nota 13; FREDE;St. Log., p. 182:
sono sillogismi con due premesse ipotetiche (o tre addirittura;
difficile l’interpretazione; cfr. anche KNEALE, Development anc.
Log., 1962, p. 173). Isillogismi àSta(pópo)? Ttepaivovres sembrano
esser sillogismi in cui la conclusione è uguale a una delle premesse
(FREDE, St. Log., p. 184, nota 21).
316. Cfr, infra, parte V, nota 188.
317. ’Aoptcrros (contro la lezione ò apta-ce di alcuni codici)
ampiamente giustificato dal CHERNISS, Plutarch’s Mor., XIII, 2, p.
667, nota c, con riferimento ad AMMONIO, In Arisi, da interpr., p.
138, 15 segg.
318. Sembra la risposta di Crisippo al ragionamento megarico xocxà
puxpóv (cfr. supra, nota 22), tale da postulare un punto d’arresto
nell’indefinitezza del suo procedere. Lo TjauxàCtiv di questo
riferimento non ha niente a che vedere coi ragionamenti «quiescenti»
di cui a proposito dei Megarici cfr. supra, ancora nota 22.
319. Per il sofisma «nessuno» (otrn?) cfr. supra, nota 24. Qui
Simplicio si vale di un gioco di parole fra l’accusativo di OòèTK;
(oUTIVOC) e il neutro plurale ouxtva.
320. Il passo di Simplicio richiama quello di DIOGENE LAERZIO, VII,
86, con maggior chiarezza peraltro, perché nel sillogismo qui
riferito è espressa la parola ouxti; che gli dà esattamente il nome.
Per il sillogismo seguente cfr. GELLIO, Noci. Att. XVIII, 13 («quod
ego sum id tu non es / homo autem ego sum / homo igitur tu non es»).
321. Cfr. un tentativo di più ampia ricostruzione di questo
sillogismo in FREDE, Stoische Logik, p. 56 (ma dubitativamente
GOULET, in Sto’ic. et leur logique, p. 193, nota 46). Integrazioni
dello Hübner e del Menagius.
322. Integrazioni antiche, già del Manuzio.
323. Cfr. anche LUCIANO, Vitarum audio, 22 (SVF II, 287): il quale
fa nominare dal personaggio Crisippo i sillogismi «mietitore»,
«dominante», «Elettra», «velato», spiegando i due ultimi, che
ricadono nel tipo del ragionamento megarico (Elettra sa che Oreste è
suo fratello ma non lo riconosce, dunque sa e non sa che Oreste è
suo fratello; per il «padre velato» cfr. ancora supra, nota 22). In
Icarom., 24, p. 108 Rabe (fr. 1202 Hùlser) troviamo da Luciano tutti
i sillogismi crisippei definiti aocptqxaxcóeis, senza distinzione
fra il sillogismo stoico e il confutato sillogismo megarico.
324. E il filosofo stoico maestro sia di Cicerone sia di suo figlio,
vissuto molti anni nella sua casa; citato più volte nelle Epistulae,
e anche in Tusc. Disp., V, 113, e Brutus, 309. Cfr. per le scarne
notizie H. v. ARNIM, Real-Encycl., V, 1, 1903, col. 715.
325. Per Filone di Megara cfr. supra, parte I, nota 23.
326. ESIODO, Opera, v. 348.
327. EURIPIDE, trag. ine., fr. 959 Nauck (= 958 Nauck2).
328. Cfr., per Cleante, SVF I, 491-494. Secondo quanto si dice nel
frammento posto qui di seguito, Crisippo in questo campo non avrebbe
fatto compiere, rispetto a Cleante, un notevole progresso.
329. Il passo compare negli SVF solo per la parte che si riferisce a
Cleante. Cfr. in proposito J. MANSFELD, «Greek Rom. Byz. St.», XXIV,
1983, p. 57. segg.: criticando la definizione dell’arte data da
Cleante, Crisippo avrebbe avvertito l’esigenza di aggiungere una
precisazione sotto l’aspetto gnoseologico, con l’espressione u.•-cà
(pavT(xaicòv. Il più solenne e letterario TCOCVTOC òcvuouaa viene
inoltre sostituito dal più comune TCOIOGOOC.
330. Cfr. Phaedr., 2Ó7d (ove Platone usa peraltro il termine
inàvohot; e non quello di •7ciXoyo(;).
331. E impossibile rendere adeguatamente in italiano il gioco di
parole del testo fra ama e il più concreto amov.
332. Sono i platonici, verso i quali il commentatore neoplatonico
Siriano si dimostra sempre particolarmente ossequiente, impegnato
com’è nella loro difesa costante contro Aristotele e, in questo
caso, contro gli Stoici.
333. Cfr. infra, parte V, nota 213.
334. La testimonianza è di Gemino, forse di Rodi, allievo di
Posidonio, stoico vissuto fra I sec. a. C. e I d. C, probabilmente
da identificarsi con l’astronomo coevo dello stesso nome (TITTEL,
Real-Encycl., VII, 1, 1910, coli. 1026-1050). Che cosa significhi il
paragone fatto da Crisippo delle idee con certe entità geometriche
non è tuttavia facile da comprendersi. E un tentativo di Crisippo
che tende a dimostrare la analogia fra dottrina delle idee e teoria
geometrica, o contiene anche una nota svalutativa per entrambe?
335. Integrazione del DIELS, cfr. Dox. Gr., ad loc., in nota.
336. Integr. di Heeren e Usener.
337. Si accetta solo una parte dell’integrazione del Wachsmuth, la
fine della frase precedente «e tutto ciò che è simile all’elemento»
essendo assai ipotetica.
338. Integr. Usener.
339. Cfr. già supra per Zenone, parte I, nota 140.
340. Integr. Patzigius, accettata dal Bernardakis.
341. Odyss., IX, vv. 143-144.
342. ESIODO, Opera, v. 255.
343. Iliad. XVII, vv. 649-650.
344. ESIODO, Theog., v. 119.
345. ERACLITO, 22 B 76 Diels-Kranz (da più fonti).
346. PINDARO, Itsm. IV, v. 112.
347. CALLIMACO, fr. 787 Schneider.
348. È argomentazione erronea di Temistio; il quale trascura il
fatto che per gli Stoici il luogo è un àaw(jiocTOv.
349. Sosigene è uno stoico poco noto, citato, oltre che qui da
Alessandro, in Index Stoic. col. LIV; cfr. REHM, Real-Encycl., III,
A i, 1927, col. 1153. Che Sosigene e Antipatro di Tarso abbiano
potuto meglio apprendere l’opinione di Aristotele è accenno alla
riscoperta tardiva delle opere acroamatiche (per i passi relativi
alla tormentata tradizione delle opere aristoteliche I. DèRING,
Aristotle in the ancient biographical Tradition, Goteborg, 1957, T
66b e T 66c, (da STRABONE, XIII, 1, 54 e PLUTARCO, Sulla, 26). A
proposito comunque della scarsa perspicuità di questo passo cfr. R.
TODD, Alexander of Aphrodisias on Stoic Physics, Leiden, 1976, p.
188.
350. E considerato dal Wachsmuth una glossa.
351. àpuTjv Bruns (accettato oggi dal Todd) contro lo òp\ir\v dei
codici.
352. Cfr. circa la critica che Alessandro fa alla introduzione della
nozione comune a questo proposito TODD, Alexander of Aphrodisias, p.
195: Crisippo ha dato come «nozione comune» quella interpenetrazione
dei corpi che è in realtà inconcepibile all’intelletto.
353. Forse polemica antimeccanicistica, diretta contro una teoria
corpuscolare che non può essere che l’epicurea.
354. Per la distinzione fra (puai(; ed efo cfr. più esplicitamente
infra, parte VI, nota 494 (e supra, nota 151).
355. Cfr. analogamente p. 220 Bruns (= Todd, pp. 124-126). TODD,
Alex of Aphr., p. 181, accenna a una possibile analogia con Ierocle
stoico [Ethische Elementarlehre, pap. 98 jo, ed. v. Arnim, Berlin
1906, col. IV, 4-10) senza che però possiamo vesser certi che
Alessandro lo conoscesse direttamente.
356. E integrazione dello Heeren, accettata dall’Arnim. Per
un’analisi recente di questo passo cfr. DUMONT, Mos geometria, mos
physicus, in Les Stoïciens et leur logique, pp. 121-134, in part.
127 segg.; il Dumont intende dedurne la teoria del carattere
incorporeo delle realtà geometriche. L’espressione -uà TOèè
acbfxaaiv TCpoaeotxÓTa è certamente ambigua, ma non ci autorizza ad
una simile deduzione. C•r. parte VI, nota 257, a proposito del passo
di Simplicio in cui si parla di «tensione» nella figura geometrica,
il che riporta questa nell’ambito della corporeità).
357. Integr. v. Arnim, accettate dal Long. La distinzione di
Crisippo traduce in altri termini quella, fatta da Aristotele, fra
una divisione all’infinito in atto (che non ha luogo) ed una in
potenza, che va affermata e sostenuta: cfr. De gen. et con. I, 316a
13 segg. (critica a Democrito, cfr. 68 A 48b Diels-Kranz).
358. Il discorso tende alla negazione della possibilità di fissare
parti ultime; pe distorsioni della teoria stoica nella polemica
plutarchea su questo punto cfr. CHERNISS, Plutarch’s Mor. XIII, 2,
p. 814, nota a. BABUT, Plutarque et le Stoi’c., p. 230, suppone che
questo frammento e il seguente provengano dall’opera Ricerche
fisiche.
359. Su questo passo cfr. SAMBURSKY, Stoic Physics, pp. 94, 140-141,
che segue in parte S. LURIA, «Quell. St. Gesch. Math.», 1933, pp.
171-172. I due autori sono propensi ad accettare la testimonianza di
Plutarco come fededegna, mentre una deformazione del pensiero di
Crisippo la ritiene CHERNISS, Plutarch’s Mor., XIII, 2, p. 818, nota
c (Crisippo non avrebbe inteso dire altro se non che le facce della
piramide non si sporgono al di là del loro angolo di incontro,
nonostante che tali facce siano più grandi verso la base). Plutarco
fa in realtà un gioco di parole basato sui concetti di ùntpo%r\ -
eXXei^n; cari alla tradizione platonica: poiché u7C•p•xov -
UTcepexó[i.evov sono considerati equivalenti a jilya - fitxpóv (cfr.
ARISTOTELE, Metaph.. XIV, 10873 4 segg.), egli si rifiuta di
ammettere che un u7cepexo% non sia anche. Ambiguamente, egli ignora
il fatto che U7i•px•tv qui ha il significato di eccedere per
sporgenza («sporgere oltre») e non per grandezza.
360. Cfr. per Democrito il fr. 68 B 155 Diels-Kranz; è questa la
prima importante attestazione della presenza di una riflessione
circa la figura del cono nelle pagine di un filosofo. La soluzione
data da Democrito al problema ci è ignota; per ipotesi matematiche
in proposito nella letteratura critica cfr. CHERNISS, Plut. Mor.,
XIII, 2, p. 820, nota a.
361. Il testo non sembra sostenere un’interpretazione come quella
del LURIA, «Queflen Studien Gesch. Math.», Abt. B, II, 133, p. 139
segg., secondo il quale Crisippo avrebbe inteso con ciò assumere un
termine intermedio fra finito e infinito; cfr. la più sobria
interpretazione del CHERNISS, Plut. Mor., XIII, 2, p. 821,
362. E uno dei rari momenti in cui Crisippo sembra citato
benevolmente da Galeno, e in concomitanza con Aristotele, dal quale,
in sostanza, non discorderebbe. La polemica del De naturalibus
facultatibus è diretta prevalentemente contro gli erasistratei,
peraltro anch’essi oppugnati da Crisippo, cfr. supra, nota 166.
363. Il primitivo significato di x^poe è quello di intervallo; ma ha
forse influito su questo uso stoico l’accostamento del termine
%(Z)p(x, luogo, spazio, a quello di uTtoSoxri, recipiente, in
PLATONE, Tini., 51 a.
364. E errore cronologico di Temistio; a meno che lo uaxepov del
testo non sia da intendersi - ma appare forzato - nel senso di
«inoltre».
365. Cfr. già Intr., nota 107.
366. Cfr. parte VI, nota 308.
367. Correzione Diels, invece del (popa$ dei codici.
368. Da questa descrizione cosmologica, che manca di alcune
caratteristiche più tipiche presenti altrove nella dottrina stoica,
risaltano molte sostanziali analogie con la cosmologia aristotelica;
analogie che sono state del resto più volte rilevate dalla critica,
da BRèHIER(Chrysippe et Vancien stoïcisme, p. 136) a POHLEMZ[Stoa,
1, p. 81) a HAHM(Orig. St. Cosmol., p. 91).
369. Platone aveva parlato, per la terra tuttavia e non, per il
cosmo, di taop-po7ua (qui nel riferimento di Achille taopapéç); cfr.
Phaedo, 109a. La parola usata per Zenone è taoxpaxéç (cfr. supra,
parte I, nota 149): a Zenone in realtà sembra risalire la teoria,
cfr. HAHM, Orig. St. Cosmol., p. in segg. La teoria crisippea più
tipica non è quella della sussistenza stabile per equilibrio
interno, ma piuttosto quella della eÇtç che tiene insieme i corpi,
le varie parti di un organismo ecc. E il mondo è, per gli Stoici e
per Crisippo, un organismo vivente. Cfr. ancora HAHM, Orig. St.
Cosmol., p. 119 segg., e p. 135, nota 71.
370. Ȁ una confusione di etere con fuoco, del resto autorizzata
dallo stesso Crisippo con la sua teoria dell’etere; cfr. supra, nota
114, e Intr., nota 95.
371. E ancora un altro scivolamento del concetto di etere-fuoco in
quello di etere-fuoco-luce, il fuoco essendo (cfr. PLATONE, Tini.
310) la fonte della visibilità. Nell’Accademia l’identificazione del
quinto elemento con la luce piuttosto che col fuoco sembra essere
stata tipica di Eraclide Pontico (cfr. la teoria dell’animaluce, fr.
983-99 Wehrli. Filone dipende probabilmente da fonte accademica
(Antioco di Ascalona?) che riporta teoria stoica in un particolare
adattamento.
372. Per la «cosmobiologia» degli Stoici cfr. in generale Intr.,
nota 19.
373. È teoria singolare, per cui il DIELS(Dox. Gr., p. 465) ha
supposto che yfjv possa essere un errore del copista per oupocvóv,
«cielo», il che ci riporterebbe a teoria posidoniana; ma- è
soluzione difficile, perché anche Crisippo sosteneva una teoria
simile, e qui gli vengono contrapposti «altri della scuola».
Potrebbe invece essere allusione alla teoria eterodossa di Archedemo
di Tarso, per cui cfr. infra, parte V, nota 216, supponente (forse)
presenza di fuoco al centro della terra; il fuoco costituirebbe così
il vero centro dell’universo, e la terra che lo contiene si
identificherebbe con la parte direttiva (il che può esser deduzione
dalla concezione del carattere dinamico e potenzialmente espansivo
del cosmo, a partire dal suo centro).
374. Teoria già forse di Zenone, certo di Cleante, che faceva
riferimento a Eraclito; cfr. supra, parte I, nota 187, parte II,
nota 31.
375. Spiegazioni analoghe sono presentate da EPICURO, Epist. ad
Pyth., 100-105, ma Epicuro presenta tali spiegazioni affermando di
seguire il rcXeovaxòs TpÓTCOs, il «metodo multiplo», in base al
quale tutte le ipotesi circa fenomeni lontani che non contrastano
con i dati dell’esperienza sensibile sono da accettarsi
relativamente, senza operare una scelta dogmatica fra di essi, per
impossibilità di verifica. Tale aspetto sembra assente dalla
meteorologia stoica, o almeno in Crisippo, che presenta invece
opinioni certe anche in relazione a fenomeni lontani: il che vuol
dire che per lo stoico anche di questi è possibile una
rappresentazione comprensiva. Più incerta la cosa per Zenone; cfr.
parte I, nota 96.
376. Per la teoria secondo cui il cuore è primo a nascere, ultimo a
morire nel corpo umano cfr. già ARISTOTELE, De gen. anim., II, 735a.
L’accostamento vene-nervi è di carattere decisamente pre-ellenistico
e preerasistrateo; cfr. Intr., note 109 e segg.
377. Cfr. ancora, in appendice al passo citato, GALENO, De forni,
foetuum, IV, pp. 677 e 698 Kiihn, che costituiscono però atti di
polemica dello stesso Galeno o della sua fonte più che riferimenti
da Crisippo.
378. EPICARMO, 23 B 2 Diels-Kranz; cfr. lo stesso Plutarco anche
altrove, De sera numinis vindicta, 15, 5593.
379. Deriva forse dal Ilept auljavoptivou; in proposito CHERNISS,
Plut. Mor., XIII, p. 846, nota c; BABUT, Plutarque et le Stoicisme,
p. 230.
380. Cfr. per questi APOLLODORO, Bibliotb., II, 7, 2, [Myth. Gr.,
Lipsiae, 1894, I, p. 93 Wagner).
381. Integrazione CHERNISS, ad loc.; ove (TCOIèTTè?) era stato già
integrato dal Wyttenbach. La qualità specifica, lo lU(x)qTTOIèV, è
essa stessa un corpo, il che dà luogo alla facile obiezione degli
avversari qui fatta propria da Plutarco; che non tiene conto del
carattere non necessariamente, e solo secondariamente
tridimensionale della corporeità per gli Stoici, qui come altrove.
Per altre osservazioni sul carattere corporeo delle qualità cfr.
REESOR, Stoic Concepì of Quality, p. 45.
382. LUCREZIO, De rer. nat., I, v. 305. Cfr. WASZINK, Tert. de
anima, pp. 130-131 per Crisippo; ivi, Intr., p. 46, circa Lucrezio
come fonte.
383. Fr. 57 Decleva Caizzi = V A 193 Giannantoni. La teoria di
Crisippo, o che viene qui attribuita a lui, desta qualche
perplessità: se Crisippo credeva nell’esistenza di «cattivi dèmoni»,
non è probabile che negasse la sopravvivenza delle anime dei
malvagi; cfr. infra, nota 427, circa la testimonianza di Plutarco
sulla demonologia crisippea. Se poi Crisippo riteneva veramente il
sapiente un modello teorico, attuabile rarissimamente nel giro di un
ciclo cosmico (cfr. DIOGE-NIANO presso EUSEBIO, SVF III, 668, e
analogamente Plutarco; infra e Intr., nota 116), la teoria si
presenta come ancor più difficilmente credibile.
384. Dipende dalla teoria crisippea dello r\yt\iovixòv rcobç l’xov
(per cui cfr. ancora POHLENZ, Zenon und Chrysipp, p. 187 segg.).
Tutti questi brani, in particolare PLUTARCO, Stoic. rep., 1052c
segg., per cui cfr. BABUT, Plutarque et le Stoïcisme, p. 231,
potrebbero derivare dal De anima.
385. Il cono è, come già si è rilevato, figura importante per gli
Stoici (cfr. supra, parte II, nota 61, e Intr., nota 52). Per la
teoria crisippea della visione, e della sensazione in genere, cfr.
GOULD, Chrysippus, p. 52, che pone l’accento sulla funzione
essenziale, in essa, della «corrente pneumatica» che si diparte
dall’anima, cioè, di fatto, dall’organo sensorio. La teoria sarà poi
confutata da Posi-donio (fr. 395b Theiler).
386. Cfr. suprc, per teorie analoghe in Zenone, Intr., p. 18.
387. Dalla Stoa in genere si passa qui nuovamente a Crisippo. Ma la
teoria dello TpfSfjiovtxóv è stata elaborata da Zenone anche se
perfezionata da Crisippo. Cfr. HAHM, Orìg. St. Cosmo!., p. 112, e
supra, nota 127.
388. Il DIELS, Dox. Gr., p. 204, proponeva di leggere «Pythagoras»
anziché «Protagoras»; cfr. però WASZINK, Tert. De an., p. 229: si
tratta probabilmente di Prassagora, questo medico del IV secolo
essendo anche altre volte associato con Crisippo (cfr. CELSO,
Praef., 2; PORFIRIO, in Schol. ad lliad., XI, v. 515) ed è da
leggere «Praxagoras». Impossibile definire se Apollodoro sia
Apollodoro di Cizio, o Apollodoro di Taranto, o ancora Apollodoro
autore di un trattato irept O-rjpuov, III sec. a. C. (per cui
WELLMANN, Real-Encycl., I, 2, 1894, col. 2895).
389. Il passo potrebbe riferirsi al Delle passioni, ma nulla esclude
che si riferisca invece al De anima, per la tematica del
cardiocentrismo.
390. E una citazione imprecisa e non un titolo specifico. Potrebbe
riferirsi all’opera su Come Zenone usasse specificamente i nomi,
cfr. supra: ma anche ad altra opera di Crisippo sul linguaggio.
391. Cfr. l’analogia con quanto citato da Plutarco con più espresso
riferimento al Della natura, supra.
392. Cfr. Ps. PLUTARCO, De fato, n, (SVF II, 912); infra, parte VI,
p. 897.
393. Cameade è quasi certamente la fonte di questa contrapposizione
polemica a Crisippo sui temi della «natura del luogo» e della
«natura dell’uomo». Perle fonti del De fato (Cameade presumibilmente
per la prima parte. Antioco per la seconda) cfr. A. LèRCHER, De
compositione et fonte libri Ciceronis qui est de fato, Diss. Halle
1907; più di recente BAYER, Marci Tullii Ciceronis De fato, München
1963, p. 113.
394. Cameade doveva qui attaccare a fondo la caratteriologia
crisippea, forzandone ovviamente le argomentazioni. Il passo,
certamente carneadeo, non si trova nella raccolta del Wisniewsky né
più tardi in quella del Mette. Per quello che possa essere stata la
reale argomentazione di Crisippo cfr. infra, a proposito del tema
del libero arbitrio individuale e della funzione che anche in questo
Crisippo fa giocare alla natura (testimonianze di Alessandro
d’Afrodisia, SVF II, 979-980, e infra, p. 917 segg.).
395. Per la polemica contro Diodoro Crono cfr. ancora Intr., note
58-59.
396. Per la diversa posizione di Cleante circa il problema del
possibile cfr. ancora lntr. nota 53, e parte II, nota 59.
397. Il valore della doppia negazione, indicante una «necessità
attenuata», è stato messo in esatta luce da D. SEDLEY, The negateci
conjunction in Stoicism, «Elenchos» V, 1984, pp. 311-316.
398. Certamente ancora argomentazione di Cameade, che viene del
resto a coincidere, in questo caso, con l’argomentazione epicurea
presente in Lucrezio (De ver. nat., II, vv. 254-255: «ne causam
causa sequatur»).
399. E polemica antiepicurea; cfr. PLUTARCO, De animae procr.,6,
1015C (EPICURO, fr. 281, p. 201 Us.). Cicerone continua infatti (De
fato, 10, 22 = fr. 281, p. 200 Us.) con un’esplicita polemica contro
il clinamen, considerato dagli Stoici quel «motus sine causa» che
provocherebbe una soluzione di continuità nell’ordine dell’universo,
basato per l’appunto su una connessione causale, e farebbe sì che si
giungesse all’assurdo di ammettere la produzione di alcunché dal non
essere. Anche qui fonte è sicuramente Cameade, avversario peraltro
sia del clinamen epicureo, sia del determinismo causalistico
crisippeo.
400. Ripreso anche più oltre, cfr. De fato, 16, 38.
401. Allusione a Epicuro; cfr. De fato, 10, 21 = fr. 376 Us., p. 254
(non riportato nella raccolta dell’Arrighetti) e Acad. pr., 30, 97
(= fr. 376. o. 253 Us., 190 Arr.2).
402. L’argomentazione (De fato, 13, 29) è quella detta àpj^ lóyoq,
«genus hoc interrogationis ignavum atque iners nominatum est»; è il
ragionamento del tipo: «se è tuo destino che ti riprenda da questa
malattia, ti riprenderai sia che chiami il medico sia che non lo
chiami». La «ratio ignava» è una radicalizzazione della dottrina
crisippea del fato, cui lo stesso Crisippo aveva risposto per mezzo
di una serie di sottili distinzioni (cfr. infra quanto riportato da
Alessandro di Afrodisia e lo stesso CICERONE, De fato, 17, 39
segg.).
403. Ancora la «ratio ignava», di cui poco sopra. Per il
ragionamento di Car-neade cfr. De fato, 14, 31-33 (= fr. 103
Wisniewski). Il passo di Cicerone è da confrontarsi con quello di
GELLIO, N.A., VII, 2, il quale, quando parla della catena delle
cause, parla di esse come di cause perfette, giacché tali che,
cessando la causa, cessa l’effetto, citando un passo dello stesso
Crisippo verbatitn, senza introdurre il problema della causa
«prossima» o semplicemente «coadiuvante», o «incoativa»; e ciò pur
nell’intento di rivendicare a Crisippo almeno un tentativo di
salvare il libero arbitrio e la libertà del volere. Per la questione
di una possibile esegesi di Crisippo in corso nella Stoa e raccolta
da Cicerone cfr. infra, nota 413.
404. Cfr. in proposito DONINI, Crisippo e la nozione del possibile,
«Riv. filol. Istr. Class.», CI, 1973, p. 333 segg., per la
testimonianza di Alessandro d’Afrodisia infra.
405. Supra, parte II, nota 80, a proposito dei versi cleantei, e del
verso sene-chiano «nolentem fata trahunt».
406. Cfr. De fato, 17, 39.
407. Fonte dichiarata di Eusebio è su questo punto il cinico
Oinomao, filosofo del periodo adrianeo; cfr. H. J. METTE,
Real-Encycl., XVII, 2, 1937, coli. 2249-2251. L’accostamento
Democrito-Crisippo a proposito del determinismo è di stampo
epicureo: gli immediati successori di Epicuro hanno continuato in
senso an-ticrisippeo la polemica antidemocritea del maestro, cfr.
Epist. ad Men., 133-134 (sensibile ancora in DIOGENE DI ENOANDA, fr.
30 Grilli; cfr. EPICURO, Opere2, p. 324).
408. Una glossa marginale spiega il xoct, omesso da alcuni codici,
ma necessario per la migliore intelligenza del contesto.
409. Lacuna nel testo di Alessandro.
410. xoivoct 7tpoXrjc])•i(; sta qui al posto di xoivocì svvotat; per
l’interscambiabilità dei termini cfr. SANDBACH in Problems in
Stoicism, pp. 30 segg.; GOLDSCHMIDT, in Stoi’c. et leur logique, p.
161 segg. Già prima, del resto, cfr. BRèHIER, Chrysippe, p. 66 segg.
411. Filopatore, la cui collocazione cronologica resta incerta, è
citato solo qui; cfr. H. J. METTE, Real-Encycl., XX, 1, 1941, coli.
75-76.
412. Integr. CHERNISS, ad loc.; proponeva iz(b(; atxia l’Arnim; più
ampiamente il Bernardakis «come potremo dire che il fato è la
causa?»
413. lliaà., XV, v. 109. Il passo presenta anzitutto il problema del
senso da darsi a ó hi Xeycov; un generico «chi dica» o uno specifico
«colui che dice»? A SCHMEKEL, Positive Philos., II, p. 269 segg., ha
interpretato questo passo (confrontandolo con quelli paralleli di
Cicerone e di Alessandro d’Afrodisia) come una esegesi di Crisippo
compiuta da Antipatro di Tarso, il quale avrebbe rinforzato gli
argomenti crisippei in favore del libero arbitrio attenuando la
funzione causante e necessitante del fato. Sono scettici in
proposito W. THEILER, Tacüus und àie antike Schicksallehre, in
Phylloholia für P. v. d. Müh II, Basel, 1946, pp. 35-90, in part. p.
64, nota 1; e CHERNISS, Plut. Mor., XIII, 2, nota b a p. 594.
Nuovamente in favore oggi P. L. DONINI, in Aspetti dello Stoicismo e
dell’Epicureismo in Plutarco, Ferrara, 1988, p. 23 segg. Cfr. per
Antipatro infra, parte V, nota 190.
414. EURIPIDE, Suppl, v. 734 segg.
415. Nel testo hipyr^ia, parola comunque di tradizione peripatetica
e non si sa fino a che punto appartenente al vocabolario crisippeo.
416. Integrazione, che il Bruns dava dubitativamente in nota; Arnim
l’accetta nel testo.
417. Ancora integrazione Bruns.
418. Analogo motivo in Epicuro, cfr. Ilept cpuaewi;, liber incertus,
fr. 34.25 Arr.2, che riecheggia poi in Diogene di Enoanda (fr. 33
Grilli).
419. Integrazione Arnim. Per l’argomentazione cfr. supra, p. 547.
420. Per le risposte confutatorie di Cameade a questo tipo di
argomentazione (per cui anche da vedersi il fr. seguente, De nat.
deor., II, 6, 17), cfr. SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 138 segg.,
180 segg. (fr. 3 Mette; e commento del METTE in «Lustrum», XXVII,
1985, p. 134 segg.).
421. Il linguaggio di Proclo è platonizzante; cfr. il
riallacciamento, in funzione polemica antistoica, al concetto
platonico di partecipazione o ui9ejjt(; (Parm., 141 a segg. e
altrove).
422. Frequente in Omero, cfr. EBELING, Lexikon Homericum, s.v., ma
non è del tutto chiaro l’etimo (se da G 3 C]), «vista», «sguardo», e
cioè «dai grandi occhi», o da òc|), espressione poetica per «voce»,
e cioè «dalla voce potente»).
423. La frase fa parte di un attacco generalizzato mosso
dall’interlocutore Cotta (per la descrizione dei personaggi
dell’opera cfr. PEASE, Oc. Nat. deor., I, Intr., pp. 27-29) al
metodo della razionalizzazione del mito col ricorso a spiegazioni
etimologiche.
424. Cfr. già supra, p. 332.
425. Anche il secondo di questi due passi, pur se usa il plurale
àXXrjyopouat, sembra potersi riportare a Crisippo; per altre
spiegazioni allegoriche, probabilmente crisippee, cfr. anche infra,
parte VI. Per il secondo scolio seguo il testo più ristretto dato
dal Di Gregorio (ma cfr. l’edizione del Flach, p. 224, per un
ulteriore glossema sul nome di Iapeto; così compare in SVF). La
spiegazione grammaticale della variante xotov TCOTOV è offerta da
CORNUTO, Comp. Theo!. Gr., 17.
426. Il problema etimologico del nome di Apollo va assai oltre la
Stoa, come dimostra tutto il contesto di Macrobio; la Stoa sembra
ereditarlo dalla scuola di Platone (per Speusippo cfr., dallo stesso
Macrobio, il fr. 61 Lang = 152 I. P.).
427. Per Senocrate cfr. il fr. 24 Heinze = 225 I. P. Ciò che segue
nel testo di Plutarco è da attribuirsi a Senocrate. La demonologia
stoica, non richiesta in verità dall’economia del sistema stoico nel
suo immanentismo rigoroso, e tuttavia documentata a più riprese
soprattutto da Plutarco, è forse eredità accademica. Per i limiti
dell’attribuibilità delle posizioni qui descritte a Crisippo cfr.
BABUT, Plut. et le Stoic., p. 389 segg., in part. p. 400.
428. Cfr. 68 A 78 Diels-Kranz in particolare per Democrito; per
accostamenti analoghi a quelli qui indicati (Pitagora, Empedocle) le
testimonianze raccolte in 31 A 14 Diels-Kranz. Ma va ricordato che
intorno a Democrito esiste una tradizione spuria affidata al nome di
Bolo di Mende, detto appunto Bolo Democrito; cfr. in proposito
WELLMANN, Real-Encycl, III, 1, 1899, coli. 676-677. Alcune
testimonianze sulla demonologia democritea sono da ascriversi a
questa tradizione (cfr. p. es. 68 B 300, 10, Diels-Kranz).
429. L’accusa di Porfirio, che liceità di uccidere gli animali per
nutrirsene ed edonismo sono strettamente apparentati, e che la
ricerca del piacere genera empietà e violenza, SPpi?, àcéjkta, è
diretta sia contro gli Epicurei, che di edonismo fanno professione
aperta, sia contro gli Stoici, che vi cadono ugualmente per il loro
atteggiamento verso gli altri viventi. Cfr., per la polemica
antiepicurea di PORFIRIO, De abst., I, 7-12, III, 12 segg.; e in
proposito V. GOLDSCHMIDT, La doctrine d’Epicure et le droit, Paris,
1977, pp. 55-56.
430. I numerosi passi in cui ricompare questo curioso punto di
vista, anche senza citazione espressa di Crisippo, sono elencati da
PEASE, Cic. Nat. deor., I, p. 960. v
431. E la stessa accusa che farà poi agli Stoici Porfirio,
riprendendo nel De abstinentia temi del De esu carnium plutarcheo; è
uno smascheramento dell’edonismo che si cela nella stessa lode che
si fa della provvidenza cosmica. Il motivo non è forse abbastanza
sottolineato nel pur assai esauriente cap. IV di BABUT, Plutarque et
le Stoïcisme, sulle critiche di Plutarco alla religiosità stoica.
432. Per Diogene di Babilonia e Antipatro di Tarso cfr. infra, parte
V.
433. Per Antifonte cfr. già supra, nota 188.
434. Cfr. anche De divin. II, 15, 35, con citazione di POSIDONIO
(fr. 379 Theiler =106 Edelsiein-Kidd. A. SCHMEKEL, Die Philosophie
der Mittleren Sto a, Berlin, 1890, p. 246 nota 2, ha notato nelle
parole «adfingit aut mutat aut detra-hit» un riferimento alle forme
del mutamento secondo Posidonio (STOBEO, Ecl.I, 17, Dox. Gr. p.
462): la sostanza del frammento, nonostante il riferimento a
Crisippo, sarebbe quindi posidoniana. La teoria della «simpatia» non
è più comunque oggi, come già lo fu da K. REINHARDT(Poseidonios,
München, 1921 e altrove) rivendicata esclusivamente a questo autore
(cfr. infra, parte VI, p. 928 per il comparire del termine e
concetto in un contesto presumibilmente vetero-stoico).
435. Cfr. LUCANO, Pharsalia, v. 380: «hi mores, haec duri immota
Catonis / secta fuit, servare modum finesque tenere / naturam sequi»
ecc.
436. E un TèTCOè; di derivazione platonica, cfr. Alcib. I, 130c.
437. Crisippo polemizza forse contro tesi accademiche: la terza di
queste tesi, più tardi accettata da Antioco di Ascalona (cfr.
CICERONE, Acad. pr., 131 =fr -1» potrebbe esser riferimento di
polemica contro il concetto speusippeo di dcoxATjaioc (SPEUSIPPO,
fr. 57 Lang = 101 I. P.).
438. Probabile polemica antiepicurea; per le tesi epicuree volte a
conciliare al massimo grado utilità e virtù cfr. CICERONE, De fin.,
I, 13, 41 segg. = fr. 397 Us.
439. Integrazione Bernardakis. Per la polemica di Crisippo contro
Aristone cfr. Intr., pp. 50-51, e infra, VI, nota 533. In proposito
di questo passo IOPPOLO, Aristone, p. 166 segg.; BABUT, Plutarque et
le stoic, pp. 340-341.
440. Fr. 515 Us.; la tesi è sostenuta da EPICURO in Epist. ad Men.,
132, e Ratae Seni., V.
441. Per Ecatone cfr. supra, parte I, nota 6, e per Apollodoro
infra, parte V.
442. ESIODO, Opera, v. 299.
443. Per la statua di Crisippo nel Ceramico, DIOGENE LAERZIO, VII,
182, e supra, nota 3.
444. Ancora, circa le contraddizioni su questo punto e le capziose
distinzioni per evitarle, PLUTARCO, De comm. not., 23, ioyoa = SVF
III, 123.
445. Incerto se ci si riferisca ad Antipatro di Tarso o a Panezio
(cfr. in proposito già MADVIG, M. T. Ciceronis De finibus, Hauniae,
1869, ad loc.).
446. Pur essendo la citazione globale, si tratta di due diversi
bersagli, Arcesi-lao per Crisippo, Cameade per Antipatro. Ancora per
la polemica Accademia -Stoa, oltre il già citato A. M. IOPPOLO,
Opinione e scienza, passim, cfr. G. STRICKER, Sceptical Strategies,
in Doubt and Dogmatism, p. 54 segg.
447. E allusione alla dottrina della otxeicoats, cfr. Intr., nota
33.
448. Già citato supra, parte II, nota 104, Ierocle è filosofo stoico
forse di età adrianea (H. v. ARNIM, Real-Encycl., Vili, 2, 1913,
col. 1479) del quale, oltre i passi di GELLIO, Noctes Att., IX, 5,
8, e di Stobeo che ci rende numerosi excerpta, la tradizione
papiracea ci ha reso buona parte del pap. 9780, prezioso per la
conoscenza della dottrina della otxe-icoai? nella tradizione
dossografica stoica (ed. ARNIM-SCHUBARTH, Hierokles: Ethische
Elementarlehre, Berlin, 1906).
449. Cfr. già supra, parte II, nota 104. Pur essendo il passo
mutilo, il contesto è sufficiente a farci capire che Cleante e
Crisippo si differenziavano fra loro circa la prima percezione della
olxeuooig, circa cioè il verificarsi della ouvetSrjats. Ciò è di
conforto all’opinione dell’origine zenoniana della teoria.
450. Cfr. SOFOCLE, Trachiniae, v. 772 segg.
451. Cfr. supra, p. 273.
452. Supra, p. 570 e altrove (è da rilevarsi l’analogia con la
dottrina di Epicuro).
453. Meno, 72a. Ha rilevato fra gli altri l’importanza della
categoria della qualità nella concezione crisippea della virtù il
RIETH, Grundbegr. St. Ethik, p. 84 e segg.; per altre osservazioni
cfr. supra, nota 151.
454. Cfr. Intr., nota 40; e parte II, nota ni.
455. Cfr. supra, parte III, nota no.
456. Altro tratto della testimonianza di Diogeniano, per cui supm,
nota 126.
457. Fr. 208 Mannebach (in nota) = I B 61 Giannantoni. Il Mannebach
tende a chiarire la non pertinenza della dottrina ad Aristippo, e ad
attribuirla a Cirenaici ulteriori, forse a Teodoro l’Ateo.
458. Autore di commedie palliate; cfr. F. MARX, Real-Encycl., II, 2,
1896, col. 2076. La commedia Misogino è imitazione da Menandro.
459. Circa questo singolare e mitizzato personaggio di età periclea
(notizie su di lui nella Lisistrata aristofanea, cfr. più tardi
CICERONE, Tusc. disp., IV, n, e Laelius, 24; Plutarco in numerosi
passi) cfr. LENSCHAU, Real-Encycl., VI A 2, 1937, coli. 1299-1301.
460. Analogamente per Zenone supra (Epìst. 132 = SVF III, 4).
Girolamo contrappone alla teoria stoica quella peripatetica della
[xe-cpiorcxOia, mediata certamente attraverso fonti latine, in primo
luogo Cicerone, considerando quest’ultima corrispondente alla Sacra
Scrittura (egli cita in proposito Macchab. IV, 3, 5; com’è noto, il
IV libro dei Maccabei è testo imbevuto di filosofia greca).
461. Fr. 405 Theiler = 30 Edelstein-Kidd.
462. Cfr. già supra e anche infra, parte VI, nota 692. Che nel De
virtute morali Plutarco rechi tracce dell’opera crisippea Delle
passioni è opinione, plausibile, del BABUT, Plut. et le stoìc., p.
231.
463. Fr. 410 Theiler =165 Edelstein-Kidd; Theiler accetta come
sicuro il 7Cpóa90CTO• di p. 392, 5 Müller. Il seguito del passo è
posidoniano e non più crisip-peo, cfr. ancora THEILER, Fragm., II,
p. 354; e non si riporta qui il passo SVF III, 483, che appare
ugualmente posidoniano. Sul significato di 7ipóc9aTo(; come
«acerbo», «fresco», cfr. supra, parte I, nota 222, e infra, parte
VI, nota 698.
464. Il «tumor» ciceroniano traduce il greco q)\zyp.ovr\; vedi a
confronto GALENO, De plac. Hippoer. Pkt., IV, 7, p. 398 Müller. Cfr.
WILSON DOUGAN-HENRY, Cic. Tusc. Dìsputationes, Cambridge, 1934, vol.
II, ad loc., per l’ipotesi di fonte accademica, Crantore; ipotesi
già formulata dal POHLENZ, «Hermes», XLI, 1906, p. 336, in base
all’analogia con PSEUDO-PLUTARCO, Consolatio ad Apollonium, 1, ove
di Crantore accademico si fa citazione espressa.
465. Hypsipyle, fr. 757 Nauck (e Fragm. Trag. Gr., Nauck2).
466. Dal Ilepì TOè xaGrjxovxo; secondo FArnim e cfr. anche BABUT,
Plut. et le stoìc., p. 230. Hanno supposto trattarsi di polemica
contro Aristcne anche in questo caso BONHòFFER, Eth. st. Epikt., p.
185; DYROFF, Eth. alt. St., p. 43.
467. Per il concetto di fxeaoci npàluq cfr. infra, parte VI, nota
680.
468. npoafcexofjuxi ha qui un significato assai affine a quello di
TtpoaBoxàco, «aspettarsi». Appare indicato come un hapax in ADLER,
Index, s.v.; ma è da notarsi che l’Index non registra nemmeno il
sostantivo, più volte usato invece nella prosa stoica; cfr. (anche
lasciando da parte la dubbia testimonianza su Zenone di SVF I, 70,
supra, parte I, nota 130) per Erillo SVF I, 411, per gli Stoici in
generale II, 130; sempre nel senso tuttavia di «ricezione»,
«accoglimento».
469. CHERNISS, ad loc., integra con (uTT’). Per Senocrate cfr. fr.
94 Heinze = 251 Isnardi Parente.
470. Per una espressione analoga di pensiero cfr. anche De comm.
mot., 10760, e Intr., p. 64 segg.
471. EURIPIDE, Herc. Furens, v. 1245.
472. Alcmeone è indicato come esempio di follia insieme con Oreste
per le analogie fra le saghe dei due eroi: eroe della saga tebana,
anch’egli uccisore della madre per far vendetta del padre Amfiarao;
era il personaggio degli Epigoni, tragedia perduta di Eschilo (ne
esiste una omonima di Sofocle). Cfr. BETHE, Real-Encycl., II, 1,
1894, coli. 1551-1554.
473. Cfr. SENECA, De benef., V, 12, 3-4, con argomento analogo.
474. Cfr. supra, nota 225; forse dal Dei generi di vita.
475. ERODOTO, Hist., IV, 76, 120 e 126-127; cfr. già supra, nota
212.
476. Il passo si attaglia piuttosto a Zenone, maestro di Persèo, e a
Cleante, maestro di Sfero (supra, parte III) che non a Crisippo; fra
le prestazioni politiche di filosofi che discendono da lui si può
citare solo l’assai tardiva, e non significativa di vera e propria
attività politica, ambasceria romana di Diogene di Babilonia, per
cui cfr. supra, nota biografica in proposito, e infra, parte V, p.
603.
477. EURIPIDE, fr. 884 Nauck (= 892 Nauck2; i versi seguono nel
testo di Gellio. Fra la dottrina stoica cui qui si allude e la
dottrina epicurea dei desideri «naturali e necessari» (Epist. ad
Men., 127-128, Ratae Seni., XXIX) non si può negare una sostanziale
somiglianza.
478. Cfr. rispettivamente Odyss., XV, v. 321; Iliad., IX, v. 202
segg.; da notarsi che questo libro dell’Iliade è indicato col nome
antico di Atxat (Preghiere), titolo tradizionale e anteriore alla
numerazione dei libri secondo le lettere dell’alfabeto.
479. Odyss., XV, v. 141.
480. Fr. 67 Us.
481. Questo passo, e il seguente, sono probabilmente tratti
dall’opera crisip-pea Bei benefici, per cui cfr. supra.
482. Appellativi, soprattutto il secondo, di origine e significato
incerto (cfr. E. FEHRLE, in Rose ber Lexikon f. Gr.-Ròm. Mythologie,
VI, 1924, coli. 615-616).
483. Testimonianza non raccolta da DIELS-KRANZ, Vorsokratiker né da
M. TIMPANARO CARDINI, Pitagorici. L’importanza del ritmo musicale
per il regolamento dei costumi è comunque teoria assai antica, e
certamente di origine pitagorica; cfr. PLATONE, Resp., Ili,
398^3993; più tardi POLIBIO, a proposito degli Arcadi, Hist., IV,
20-21; il tema sarà ampiamente svolto da Diogene di Babilonia, infra
parte V, nota 81 e segg. a proposito della ricca testimonianza dal
De musica di Filodemo.
484. PLATONE, Leges, Vili, 830C.
485. E una deformazione cristiana assai evidente della teoria
crisippea del TèXO$. Si riferisce certamente alla Repubblica; per il
confronto con la Repubblica di Zenone cfr. Intr., p. 66. La liceità
di cibarsi di carne umana è attribuita a Zenone e anche a Cleante da
alcune fonti, come già si è visto; cfr. p. es. TEOFILO, Ad
Autolycum, III, 5 = SVF I, 254 e 584; supra, p. 261.
486. EURIPIDE, Herc. Furens, v. 1245.
487. Prevalentemente polemico; per Epicuro cfr. DIOGENE LAERZIO, X,
118-119 (fr. 574 Us. = 1 Arr.2); per Alessino fr. 80 Dòring = II C 7
Giannanto-ni. Menedemo è probabilmente Menedemo di Eretria, ma non
si potrebbe escludere che si trattasse invece di Menedemo cinico
(cfr. K. v. FRITZ, Real-Encycl., XV, 1, 1931, coli. 794-795). Per
colmare la lacuna, Cobet proponeva o Xfjpo?, «il fatuo»; cfr. in
proposito USENER, Epicurea, p. 332.
PARTE V
I
discepoli e i successori di Crisippo:
DIOGENE DI BABILONIA,
ANTIPATRO DI TARSO, APOLLODORO
DI
SELEUCIA, ARCHEDEMO DI TARSO,
BOETO DI SIDONE
Diogene di Babilonia (o di Seleucia)
Nacque nella ellenistica città successa all’antica Babilonia,
Seleucia, pur se le fonti lo danno per lo più col nome di
«Babylonios». I dati biografici sono scarsissimi; dovette nascere
intorno al 240, e aver vita lunghissima, se nel 156/155 a. C. lo
troviamo a Roma, facente parte dell’ambasceria dei tre filosofi cui
appartenevano anche Cameade accademico e Critolao peripatetico,
incaricati di ottenere la remissione di un ingente debito. Allievo
di Crisippo, gli successe non direttamente, dato lo scolarcato
intermedio di Zenone di Tarso. Ebbe diversi allievi illustri, fra
cui Panezio (che doveva esser allievo poi anche di Antipatro di
Tarso e succedere a questi nello scolarcato), Antipatro di Tarso,
Boeto di Sidone. Della durata della sua vita ci è data da una fonte
l’indicazione nella misura di ottantotto anni; la sua morte si
collocherebbe quindi intorno al 150.
Antipatro di Tarso
Di questo filosofo, fiorito sotto lo scolarcato di Diogene di
Babilonia, e quindi suo successore, abbiamo dati biografici ancora
più scarsi; del tutto incerto è l’anno della nascita; le fonti lo
dànno suicida in avanzata vecchiaia, ancora vivente il suo
principale avversario Cameade, che schernì la sua morte, prima
quindi del 129/8 a. C, anno della morte di Cameade stesso. Panezio,
suo condiscepolo alla scuola di Diogene, fu seguace della Stoa
durante il periodo del suo scolarcato; questo dato riallaccia
strettamente Antipatro alla Stoa di mezzo, cui già la sua dottrina,
sotto molti aspetti, prelude.
DIOGENE DI BABILONIA1
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
DIOGENE LAERZIO,Vitae philos., VI, 81 = SVF III, D. B., 2
Il quarto Diogene fu lo stoico, di Seleucia2 quanto alla stirpe, ma
detto di Babilonia per esser questa molto vicina a Seleucia.
Index Stole. Herc., coli. XLVIII-LII, pp. 66-72 Traversa = SVF III,
D. B. 3) n-12.
Furono della sua cerchia3 Diogene di Artemidoro, di Seleucia sul
Tigri, che fu successore di Zenone quale capo della scuola…
e discepoli di questo furono …di Alessandria nella Troade, Panezio
di Nicànore, di Rodi, Mnesarco di Onesimo, ateniese, Dardano di
Andromaco, ateniese, Apollodoro di Seleucia sul Tigri, Boeto di
Sidone…4
…figlio della figlia, e costui divenne anche areopagita; e poi
Apollonide di Smirne, Crisermo di Alessandria in Egitto, Dionisio di
Cirene. Quest’ultimo fu assai valente nello studio della geometria;
ed è lui che rispose polemicamente al retore Demetrio…5
PSEUDO-GALENO,Hist. philos., 3, Dox. Gr.y p. 600 = SVF III, D. B. 1
Diogene di Babilonia, divenuto discepolo di questi (Crisip-po), fu
poi a sua volta maestro di Antipatro6.
LUCIANO,Macrob., 20 = SVF III, D. B. 4
Diogene di Seleucia sul Tigri, filosofo stoico, visse ottantotto
anni.
PLUTARCO,De Stole. rep.y 2, io33d-e = SVF III, D. B., 5
Chi più di Crisippo, Cleante, Diogene, Zenone, Antipatro passò la
vita immerso nella vita scolastica? Tutti questi lasciarono la loro
patria non perché avessero subito da essa qualche torto, ma per
vivere in pace nell’Odeon o al capo Zoster7, facendo vita di scuola
ed esercizio di filosofia.
CICERONE,Cato Maior, 7, 23 = SVF III, D. B., 6
Forse, dopo Zenone, Cleante o quel filosofo che voi pure avete visto
a Roma, Diogene stoico, la vecchiaia costrinse qualcuno a ridurre al
silenzio i suoi desideri? o in tutti questi Timpeto dei desideri
ebbe durata uguale a quella della vita?
PLUTARCO,Cato, 22 = SVF III, D. B., 7
Quando egli già era avanti negli anni, vennero a Roma come
ambasciatori da parte degli Ateniesi, col loro seguito, Cameade
accademico e Diogene stoico; essi avevano da parte dell’assemblea
ateniese l’incarico di chiedere la remissione del debito di
cinquecento talenti che era stato loro inflitto per aver devastato
Oropo, dietro istanza degli abitanti di Oropo stessa e col voto
contrario dei Sicionii. Subito quelli fra i giovani che più amavano
i dibattiti andarono verso quegli uomini, ascoltandoli con
ammirazione.
GELLIO,Noct. Att, VI, 14, 8 = SVF III, D. B., 8
Si notò una triplice varietà in quei tre filosofi che gli Ateniesi
avevano mandati in deputazione al senato romano, per impetrare la
remissione della multa che era stata loro inflitta per la
devastazione di Oropo; ed era, tale multa, di circa cinquecento
talenti. Questi filosofi erano Cameade dell’Accademia, Diogene
stoico, Critolao peripatetico. Introdotti in senato, si valsero come
interprete del senatore C. Acilio. Prima però, a parte, per ottenere
benevolenza, avevano discettato in mezzo a una gran moltitudine.
Rutilio8 e Polibio dicono che destasse in quella sede ammirazione
l’eloquenza dei tre, ciascuno per il suo tipo peculiare. «Cameade»
dicono «parlava in maniera violenta e rapida, Critolao in forma
ricercata e morbida, Diogene in modo modesto e sorbio».
CICERONE,Acad. pr., 45, 137 = SVF III, D. B., 9
Ho letto presso Clitomaco, che quando Cameade e lo stoico Diogene
stavano in Campidoglio di fronte al senato, Aulo Albino, che in quel
tempo, sotto il consolato di Publio Scipione e di Marco Marcello,
era pretore, disse per scherzo a Cameade: «a te, Cameade, non parrà
che io sia veramente pretore, dal momento che non son sapiente; né
questa una città, né quella che è in essa una cittadinanza». Ma
quegli replicò: «è a questo stoico che tu non sembrerai tale!»9
CICERONE,Tuse. disp., IV, 3, 5 = SVF III, D. B., 10
Durante la giovinezza di costoro (Lelio e Scipione), a quanto so,
furono mandati come ambasciatori dagli Ateniesi al senato lo stoico
Diogene e Paccademico Cameade; i quali, non avendo mai partecipato
alla vita politica sotto nessun aspetto, ed essendo Tuno di Cirene,
l’altro di Babilonia, non sarebbero mai stati tirati fuori dalle
loro scuole ed eletti a quell’ufficio se non ci fossero stati a quei
tempi alcuni capi politici che apprezzavano grandemente gli studi
filosofici.
CICERONE,De finibus, II, 8, 24 = SVF III, D. B., 14
…né quel Lelio, che in giovinezza aveva ascoltato Diogene stoico, e
più tardi Panezio.
CICERONE,Acad. pr., 30, 98 = SVF III, 13
Quando accadeva alcunché di questo genere Cameade soleva argomentare
scherzosamente cosi: «se la mia conclusione è giusta, mi attengo a
questa; se essa è errata, Diogene pagherà una mina». Infatti egli
aveva appreso gli esercizi dialettici da questo stoico10; e tale era
il pagamento che si dava ai maestri di dialettica.
DA SINGOLE OPERE
TRATTATO DELLA VOCE
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 55 = SVF III, D. B., 17
La voce è aria percossa, oppure Poggetto della sensazione che è
propria dell’udito, come dice Diogene di Babilonia nel suo Trattato
della voce. La voce di un animale è aria percossa sotto la spinta di
un semplice impulso, la voce dell’uomo invece è articolata ed emessa
in base a un atto di pensiero, dice ancora Diogene; e la facoltà di
pensare è completa al quattordicesimo anno.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 55 = SVF III, D. B., 17
La voce è aria percossa, oppure Poggetto della sensazione che è
propria dell’udito, come dice Diogene di Babilonia nel suo Trattato
della voce. La voce di un animale è aria percossa sotto la spinta di
un semplice impulso, la voce dell’uomo invece è articolata ed emessa
in base a un atto di pensiero, dice ancora Diogene; e la facoltà di
pensare è completa al quattordicesimo anno.
SIMPLICIO, In Arist. phys., p. 426, 1 segg. Diels = SVF III, D. B.,
19
Quelli che dicono che la voce è aria percossa, come Diogene di
Babilonia, sbagliano; in tal modo la voce sarà un corpo, dal momento
che rientra nella specie dell’aria; essi dànno così l’oggetto
paziente, cioè in questo caso l’aria percossa, al posto
dell’affezione, quale sarebbe la percossa11.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 55 = SVF III, D. B., 18
E la voce secondo gli stoici è un corpo, come dicono Archedemo … e
Diogene, e Antipatro; tutto ciò che produce un effetto, infatti, è
un corpo; e lo produce la voce su chi la ascolta provenendo da chi
la emette.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 56-58 = SVF III, D. B., 20-22
Come dice Diogene, per gli stoici l’espressione è una voce
articolata in lettere: per esempio, «giorno». Il discorso è unavoce
che ha un certo significato, emessa in base a riflessione, (per
esempio: è giorno)12. Il dialetto è un linguaggio che varia a
secondo delle stirpi e dei popoli ellenici: e le espressioni sono di
diversi paesi anch’esse, cioè varie secondo il dialetto: quello che
in attico si dice θλαττα in ionico si dice r\[iipr\, e così via.
Elementi dell’espressione sono le ventiquattro lettere. Ma «lettera»
ha poi tre significati: può intendersi come elemento del discorso,
segno indicativo di tale elemento, nome di quel segno, per esempio
«alpha». Sette delle lettere sono vocali: α, ε, η, ι, ο, υ, ω. Sei
sono le lettere mute: p9 β, γ, δ, π, κ, τ. Voce ed espressione sono
due cose differenti: voce è anche un puro suono, mentre espressione
è solo un suono articolato. Ma l’espressione poi differisce dal
discorso, perché questo ha sempre un significato, l’espressione può
esserne anche priva, per esempio: «blityri»13; il discorso non può
mai esserlo. E il parlare è diverso dall’emettere suono: anche le
semplici voci vengono emesse, ma il parlare è esprimere cose; e
queste si dicono anche significati (λεκτ).
Cinque sono le parti del discorso, come dice Diogene nel Della
voce14 e anche Crisippo: il nome, l’appellativo, il verbo, la
congiunzione, l’articolo… Secondo Diogene l’appellativo è quella
parte del discorso che indica una proprietà generica, per esempio
«uomo», «cavallo». Il nome è quella parte del discorso che indica
una proprietà specifica, per esempio «Diogene», «Socrate». Il verbo
è quella parte del discorso che indica un predicato semplice,
secondo Diogene, secondo altri invece è un elemento del discorso non
soggetto a variazione di caso; esso significa qualcosa di coordinato
con qualcos’altro o con più altre cose, per esempio «scrivo»,
«parlo». La congiunzione è quella parte del discorso non soggetta a
variazione di caso, che lega fra di loro le altre parti. L’articolo
è quell’elemento del discorso soggetto a variazione di caso che
serve a distinguere i generi dei nomi e il loro plurale e singolare,
per esempio «il, la, i, le»15.
ARTE DIALETTICA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 71 = SVF III, D. B., 26
Delle proposizioni non semplici quelle ipoteticamente congiunte,
come dice Crisippo nelle Definizioni dialettiche e Diogene nell’Arte
dialettica, è quella che consta di un «se», congiunzione collegante;
questa congiunzione preannunzia che una seconda parte segue alla
prima, per esempio «se è giorno, c’è luce».
DELLA PARTE DIRETTIVA DELLèANIMA
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac, II, 5, p. 201 Mùller = SVF III,
D. B., 29
Quanto a quel discorso di Zenone molto ammirato fra gli Stoici, che
Diogene di Babilonia scrisse proprio all’inizio dell’opera Della
parte direttiva deWanima … lo potrai capire meglio quando lo avremo
trascritto; esso suona così: «La voce passa attraverso la gola. Se
venisse dal cervello, non passerebbe attraverso la gola. Ora, dov’è
il discorso, là è anche la voce; ma il discorso viene dal pensiero;
ciò significa che il pensiero non ha sede nel cervello». Diogene
sostenne lo stesso ragionamento argomentando in altra maniera, e
cioè così: «Il luogo donde viene la voce, anche quella articolata, è
lo stesso che quello donde viene la voce articolata che significa
alcunché. Questo è il discorso, e quindi anche il discorso deriva
dallo stesso luogo donde deriva la voce. Ma la voce non proviene
dalle regioni cerebrali, è evidente piuttosto che proviene dal
basso; è quindi evidente che proviene dall’arteria. Perciò anche il
discorso nonproviene dalla testa, ma da regioni più basse. Ma è
anche vero che il discorso deriva dal pensiero. Alcuni ne dànno come
definizione: quella ch’è una voce dotata di significato emessa dal
pensiero; è verosimile che il discorso sia emesso dopo essere stato
impresso di segni e impressionato dalle nozioni che sono nel
pensiero, e che si estenda tanto nel tempo quanto dura l’atto del
pensare e, insieme, l’atto del parlare. Quindi anche il pensiero non
è nella testa, ma in luoghi più bassi, in particolare nelle regioni
che si trovano intorno al cuore». Questo è il discorso di Diogene,
discorso che non fa altro che render più lungo nelle espressioni
quello di Zenone, di modo che, se a quello mancava forse qualcosa
degli enunciati necessari, questo ne sovrabbonda16.
GALENO, De Hippoer. et Plat. plac., II, 8, p. 246 Müller = SVF III,
D. B., 30
Non è valido nessuno di questi argomenti, nemmeno quello in cui
Diogene dice: «la parte direttiva si trova in quell’organo che più
di ogni altro attinge al soffio nutritore; ma questo organo è il
cuore»… Allo stesso modo egli si è valso anche di argomentazioni sue
proprie esclusive. «Ciò che fa muovere l’uomo di moti volontari è
l’esalazione psichica; ma ogni esalazione viene dal nutrimento; è
chiaro quindi che ciò che è alla base dei nostri moti volontari e
ciò che ci nutre deve essere la stessa e identica cosa»… E poi,
dimenticandosi lui stesso dei suoi propri principi, dice che l’anima
è sangue, come già hanno sostenuto Empedocle e Crizia17. Se avesse
seguito Cleante, Crisippo e Zenone, i quali dicono che l’anima si
nutre di sangue, ma che sua sostanza è il soffio vitale, come
avrebbe potuto sostenere che ciò che nutre e ciò che muove è la
stessa e identica cosa? Quello che nutre è il sangue, quello che
muove è il soffio vitale.
ATENA
FILODEMO, De pietate, 15, p. 82 Gomperz = SVF III, D. B., 33
Diogene di Babilonia, nell’opera Atena, dice che il cosmo è identico
a Z(eus) e che comprende Zeus in sé come un uomo (la sua a)nima; che
Apollo non è altro che (il so)le e Artemide la luna, e che è
d(iscorso) puerile e assurdo quello che afferma che gli dèi sono di
forma simile all’umana18. Ciò che di Zeus si estende nel mare prende
il nome di Posidone, ciò che si estende nell’aria quello di Era,
come dice Platone stesso19; si che spesso se uno dice «aria» vuol
dire «Era», se «e(te)re» «Atena». Questo è il significato di «dalla
(tes)ta» e «Zeus è insieme maschio e femmina»20. Alcuni degli Stoici
dicono che la parte direttiva dell’anima è nel cervello; è infatti
l’intelligenza, per cui si chiama anche Metis; ma Crisippo dice che
la parte direttiva sta nel petto, e che là è nata in effetti Atena,
essendo l’intelligenza, e che si dice «dalla testa» perché la voce è
emessa dalla testa, e «da Efe(sto» per)ché l’intelligenza diviene
poi arte; e che Atena dovrebbe piuttosto dirsi «Ath(re)na»21, e
(Trito)nide in quanto «Tri(togen)ia», essendo essa divisibile in tre
trattazioni, fisica, logica, etica. Tutti gli altri (appellativi e
attributi di Atena li adatta ugualmente e molto brillantemente
all’intelligenza.
CICERONE, De nat. deor., I, 15, 41 = SVF III, D. B., 34
Diogene di Babilonia, seguendo Crisippo, nel libro che si intitola
Minerva22 toglie ogni elemento di favola al parto diGiove e alla
nascita della vergine, traducendolo in termini di scienza della
natura.
SULLA DIVINAZIONE
CICERONE, De divin., I, 3, 6 = SVF III, D. B., 35
Diogene di Babilonia, seguendo Crisippo, del quale era discepolo,
fece un’opera di un sol libro (Sulla divinazione).
CICERONE, De divin., II, 43, 90-91 = SVF III, D. B., 36
Ad essi (i Caldei) lo stoico Diogene concede qualcosa, tutt’al più
che possano predire di quale natura uno sarà e a quali cose
particolarmente adatto; non concede però in alcun modo che essi
possano sapere quali cose farà di conseguenza. Dei gemelli ad
esempio le forme sono simili, ma la vita e la sorte per lo più
dissimile. Per esempio Proclo ed Euristene, re di Sparta, erano
gemelli, ma non vissero nemmeno lo stesso numero di anni (Proclo
visse un anno di meno), e inoltre Proclo superò di molto il fratello
per la gloria delle sue gesta23. Io poi, quelle cose stesse che il
saggio Diogene concede ai Caldei quasi in via eccezionale, nego che
essi possano comprenderle.
CICERONE, De divin., I, 39, 84 = SVF III, D. B., 37
Di questa argomentazione fanno uso sia Crisippo24, sia Diogene, sia
Antipatro.
ETICA
ARRI ANO, Eplcteti disseti., II, 19, 13 = SVF III, D. B., 39
«Delle cose che sono, alcune sono beni, altre mali, altre
indifferenti». Beni sono le virtù e tutte le cose che di esse
partecipano, mali i vizi e tutto ciò che partecipa del vizio,
indifferenti tutte le cose intermedie, la ricchezza, la salute, la
vita, la morte, il piacere, il dolore». Donde hai tratto la
conoscenza di ciò? «Lo dice Ellanico nelle Egiziache»25. Che
differenza c’è da quello che dice Diogene nell’Etica, o Crisippo, o
Cleante?
DELLA NOBILTÀ
ATENEO, Deipnosoph., IV, 168e = SVF III, D. B., 52
Diogene di Babilonia, nei libri Della nobiltà, dice: «non vi era
alcuno degli Ateniesi che non odiasse Foco, il figlio di Fo-cione. E
chiunque lo incontrasse gli diceva: ’o disonore della tua stirpe!’
Spese tutto il patrimonio paterno in dissolutezze; dopo di ciò si
mise ad adulare quello che stava a Munichia, per cui fu caricato di
nuovo biasimo universale. Un giorno che si portavano contributi,
arrivando all’assemblea disse: ’contribuisco anch’io’ e gli Ateniesi
in coro gli gridarono: ’alla sciagu-ratezza’. Una volta, in
occasione della sua vittoria nella gara a cavallo per le Panatenèe,
il padre invitò gli amici a banchetto; splendido era l’apparato, e a
tutti quelli che entravano venivano portati bacili per lavare i
piedi pieni di vino con aromi. Vedendo questi, il padre chiamò Foco
e gli disse: «tu non faresti smettere quell’amico che rovina la tua
vittoria?»26
DELLE LEGGI
ATENEO, Deipnosoph., XII, 5260 = SVF III, D. B., 53
Teopompo, nel libro XV delle Storie, dice che a Colofone mille
uomini giravano per la città con stole di porpora, cosa allora
illustre e preziosa per gli stessi re; la porpora era infatti
valutata alla stregua dell’argento. Per una simile condotta di vita,
caduti in lotte intestine e tirannidi, andarono in rovina essi e la
loro patria. Di essi racconta ciò anche Diogene di Babilonia nel
libro I dell’opera Delle leggi27.
DELLA MUSICA
FILODEMO, De musica, I; pap. 411, col. IX, 71, fr. 10, p. 6 Kemke,
87 Rispoli =. SVF III, D. B., 528
…dicendo che le melodie sono alcune belle, sagge e forti29, altre
fiacche e scomposte o del tutto turpi, come se la musica potesse
ingenerare (in noi) disposizioni di tal genere; né esse potrebbero
apparire se non fossero tali in realtà, né potrebbe apparire più
curativa una cosa (se non appartenesse) alla medicina30, né più
proprio dell’ippica (se non appartenesse) all’ippica…
pap. 1572, col. XI, 80, fr. 12, p. 7 Kemke, 109-115 Rispoli = SVF
III, D. B., 56
(dice) che questa era l’opinione degli antichi legislatori; i quali
si trovano d’accordo sul fatto che non è indifferente che l’attività
dei citaristi vi sia o non vi sia31, e che la comprensione del ritmo
è utile per l’educazione, non in quanto contribuisce alla vita ma
(all’educazione per la vita)32.
pap. 411, col. IX, 70, fr. 9, 4 segg., p. 7 Kemke, 115 Rispoli=SVF
III, D. B., 56
nel?indagare se la musica apporti particolari virtù o particolari
godimenti33, fa l’esempio di Damone, (quello che chiamano) «il
musico»34: il quale riteneva, per suo conto, che li apportasse
(entrambi)35, sostenendo che a un giovane che canta e suona la cetra
conviene non solo…
ivi, col. IX, 70, fr. 8, p. 8 Kemke, 121 Rispoli = SVF III, D. B.,
58
…secondo le i(re) e le passioni che ci toccano comunemente con
piacere e dolore: perché delle nostre proprie disposizioni le cause
le abbiamo in noi, e non dall’esterno. E (diceva) che la musica
appartiene (alle realtà) di ordine generale: tutti la pratichiamo,
Greci e barbari, e, per così dire, ad ogni età della vita: (già
prima) che abbiamo raggiunto la facoltà di ragionare, la musica ha
la capacità di raggiungere la nostra comprensione…
ivi, col. IX, 69, fr. 7, pp. 8-9 Kemke, 125 Rispoli = SVF III, D.
B., 57
Il saper abituare il corpo a muoversi opportunamente e
opportunamente riposare, che è proprio della (ginnastica, rende
capaci di giudizio36 anche le sensazioni che sono connesse a tali
atti: dall’arte di dipingere, poi, la vista è educata a saper
discernere con arte molte delle cose visibili; quanto alla musica,
essa da un lato possiede l’elemento necessario in misura minore e
dall’altro l’elemento piacevole in misura più alta rispetto a
queste, se la si usi per la (condotta della vita)37
ivi, col. IX, 67, fr. 5, pp. 9-10 Kemke, 133 Rispoli = SVF III, D.
B., 59
…se a tutti coloro che pongono una legge sia necessario se(rvirsi di
essa) (la musica) uni(versalmente), e che nessuno) se ne distacchi
per introdurre qualcosa di nuovo: è proprio perché se ne sono
distaccati che gli uomini hanno adesso questa prevalente
disposizione (negativa). Se qualcuno prendesse in considerazione i
modi del ditirambo e della musica che vi era ai tempi di Pindaro e
di Filosseno38, troverebbe che grande è apparentemente la differenza
dei caratteri emotivi, ma che la forma è però la stessa…
pap. 1572, col. XI, 77, fr. 9, p. 10 Kemke, 141 Rispoli = SVF III,
D. B., 60
…cominciando) dai Mantineesi e dagli Spartani, e dagli abitanti di
Pellene, presso questi per primi e soprattutto vi èstata la più
grande diligenza in questo esercizio e nell’esercizio di ogni altro
tipo di musica…39 Una volta che si sia verificata una simile
educazione e ci si sia dati da ogni parte una simile cura, grande e
nobile, sì da renderla ancor più appropriata e da toccare
direttamente (la natura)40, non vi sarà più luogo per gli avversari
di opporre che non si produrrà ciò che ci si aspetta in virtù di
costumi e posizioni…
ivi, col. IX, 66, fr. 4, B (XI, 76, fr. 8), p. 11 Kemke, 149 Rispoli
= SVF III, D. B., 61
… con (corda) ndo con quello41 nel ritenere che in alcuni casi
occorre un tipo di sensazione (inn)ata, in altri un tipo di
sensazione scientifica; per esempio il caldo e il freddo li si
distingue per mezzo della sensazione innata, ma l’armonico e il
disarmonico per mezzo di quella scientifica. Vi è poi un altro tipo
(di sensazione?), connessa con una siffatta, e che le consegue per
la maggioranza dei casi, e per mezzo di essa (cogliamo quel piacere
che consegue a ciascuna delle cose sensibili; essa può consistere in
(piac)ere, ma anche in dolore, e non è (per tutti) la stessa42. Là
dove si trovino unite due sensazioni, avviene che esse concordino
nel loro riferimento ad uno stesso oggetto, come ciò che è a(cuto) o
r(igido), però discordino quanto all’effetto di piacere e dolore che
ne con (segue)43…
pap. 411, col. IX, 65, fr. 3, p. 12 Kemke, 161 Rispoli = SVF III, D.
B., 62
(la musica può indurre?44) ad una dispos(izione) tale quale essa è
capace di suscitare per natura mediante una melodia appropriata). Ma
poiché non tutti sono mo(ssi) allo stesso modo dalla stessa
musica45, (possono esser mossi) in maniera contraria, ad una
disposizione e(sagitata) ed esaltata oppure ad uno stato d’animo di
placamento e di pace; essa può farci passare da uno stato d’animo ad
un altro46 o anche semplicemente a produrre aumento o diminuzione)
dello s(tato d’animo) che è già in noi…47
ivi, col. IX, 64, fr. 2, pp. 12-13 Kemke, 169 Rispoli = SVF III, D.
B., 64
Nel libro III si diffonde più a lungo e più in particolare sul
carattere demonico della musica, non procedendo per dimostrazioni ma
in base a indagine di fatti e spiegazione dei medesimi. Di questo
basterà che parliamo in forma concisa.. Dice che la musica se(ria),
quella secondo le leggi48, è stata disposta peronorare gli dèi e per
dare un’educazione degna di uomini liberi: che essa abbia una
relazione col divino (θεον) lo dimostrano gli stessi nomi di
«vedere» (uno spettacolo) (θεαμαι), di «spettatore» (θεατς), di
«teatro» (θαθρον))49. E (dice anche) che non c’è nessuna
testimonianza più antica del fatto che la musica sia stata composta
(per l’educazione)…50.
pap. 1572, col. XI, fr. 6, p. 14 Kemke, 177 Rispoli = SVF III, D.
B., 66
…circa le azioni bel(liche) o ginnastiche e atletiche, per lo più
nel passato, di meno ora: infatti per le azioni di guerra
comunemente la maggior parte del popolo greco si vale del suono
della tr(omba), ma alcuni si valgono anche del suono del flauto; per
le azioni atletiche la norma della gara, (quella che) si deve
seguire, è annunziata anch’essa per (lo più) con la tromba; nelle
gare si fa poi uso del flauto per la doppia corsa e per il
(sal)to…51.
pap. 411, col.IX, 63, fr. 1, p. 14-15 Kemke, 183 Rispoli = SVF III,
D. B., 66-67
E per la pantomima del pugilato si suona sul flauto la melodia che
porta appunto quel nome. Gli Argivi hanno (intro)-dotto l’uso del
flauto anche nell’atletica… La musica viene usata anche nelle
(dan)ze52 di fanciulle e giovinetti nudi, in quelle con i cori
tragici armati e con i cori satireschi o comici;tra queste la più
b(ella) di tutte è la danza tragica; (delle altre) due più bella la
comica, mentre la satiresca,..53
pap. 1572, col. XI, 73, fr. 5, p. 15 Kemke, 195 Rispoli = SVF III,
D. B., 68-69
(La musica) di ogni genere riesce a do(minare) la materia, piegando
con la sua forza le nostre (capa)cita54 e talvolta (serve) alla
predizione di cose convenienti, poiché la melodia di sua natura
invita e muove all’azione; e quando si favoleggia di Orfeo che
incenerisce) le pietre in realtà ciò non avviene, ma vuol dire che
egli incita (coloro che) compiono un’opera (fati)cosa: non a caso
Tolomeo comandava a Isme(nia) di suonare una melodia col flauto per
incitare coloro che stavano trascinando grandi pesi55. Non solo le
anime, infatti, sono suscettibili di incitamento (all’azione), ma
anche gli stessi (cor)-pi. Quando un giovinetto suoni sul flauto una
certa melodia…
ivi, col. XI, 72, fr. 4, p. 16 Kemke, p. 203 Rispoli = SVF III, D.
B., 76-79
…e invitare all’(unione)56 uomini e donne, e (bei giovinetti) a
darsi come amasii e a quella parte di femmine per cui i comici
accusano violentemente Agatone e Democrito57; e(Fattore) Nicandro è
poi additato come colui che ha insegnato ciò con la dimostrazione
pratica… «L’amore è per molti fòmite di incendio (malvag)io»58. Che
la musica (conferisca alla) capacità erotica, (lo dimostra a
sufficienza anche il fatto che una delle Muse siachiamata, per
l’appunto, Erato… Ma sembra che la musica (conferisca) anche alla
efficienza dei simposii…
pap. 225, col. Vili, 142, fr. 4, p. 16 Kemke, 213 Rispoli = SVF III,
D. B., 79-81
(quanto all’amore e all’erotismo?) non potresti trovare nessun altro
intrattenimento o tipo di educazione più adatti a suscitarli negli
uomini liberi di quanto non sia il cantare, suonare la cetra,
danzare: o altrimenti il vino non sarebbe stato definito
«suscitatore di vari stati d’animo, abile a produrre il canto, (il
dolce riso,) la danza59»… E una vera e propria (attrazione
dell’anima60 quella che esercitano con una sorta di costrizione
coloro che inventano ritmi melodici e sanno usarne con abilità; e
non a torto Cameleonte indica come i comici facciano allusione a
qualcosa del genere quando parlano dei caratteri, con parole che
indicano (amori e pia)ceri61… (La musica) ha anche qualcosa di
appropriato all’amicizia; si è dimostrato che tende all’amore, ed è
anche in rapporto con lo scopo di questo; ma è fatta anche per i
(simp)osi e per quel loro fine che è un sentimento di generale
benevolenza62; se tende verso questa, chiaramente, (ha anche come
fine) l’amicizia. In generale si puòdire che distende (l’anima) e la
ra(sserena)…63 Terpandro, cantando in forma oracolare nei banchetti
pubblici, fece cessare ogni discordia fra gli Spar(tani); e di
Stesicorc si racconta che, essendosi i (cittadini) divisi in due
fazioni64, egli, ponendosi fra coloro che facevano i mediatori,
(cantasse un canto d’invocazione, e così riuscisse, in virtù di
quella melodia, a (riconciliarli e a riportare fra loro la p(ace)…
Né per altro motivo Pindaro scrive: «qualcuno dei cittadini ha
riportato la bonaccia) nella città»; e così suona anche il detto di
Sofocle negli Epigoni65.
ivi, col. VIII, 142, fr. 2, p. 19 Kemke, 229 Rispoli = SVF III, D.
B., 86-87
…disporre certe melodie non solo in modo tale da rendere onore
appropriato agli dèi in generale, ma anche secondo le differenze
delle di(vinità) fra di loro66… E dice poi che la musica è utile
anche all’intelligenza, e che nella scienza dell’armonia sono
contenute molte de (finizioni), divisioni logiche, dimostrazioni)…67
pap. ined. 424, fr. V, V.H.XI, 70, fr. 2, pp. 19-20 Kemke, 237 segg.
Rispoli = SVF III, D. B., 88-89
Se si rifletta sulle cose dette da alcuni68 circa ciò ch’è
conveniente o (sconveniente nelle melodie, e sui caratteri virili o
effeminati, e le azioni adatte o disadatte ai personaggi loro
soggetti, e agli strumenti adatti o inadatti ad una certa armonia,
tutte cose che concordemente costoro dicono non esser lontane dalla
trattazione filosofica… è chiaro che la musica è di grande (utili)
tà per (tut)te le parti della vita e che — così sembra a costui! —
Pesercizio intelligente di essa può disporci a più (vir)tù, e
persino a tutte. E, in base a ciò che egli cita di (Dice)arco69, si
può dedurre tutto ciò che egli (intende) dire circa il comune
presupposto che gli antichi (rite)nevano sapienti gli aedi; ciò è
chiaro, (dice), da quanto apprendiamo a proposito di
Clitennestra…70. E dice che (ben) sa tutto questo colui che abbia
ascoltato qualcuna di queste cose. Perciò, dice, i più concordano
sul fatto71 che oltre a tutte (le altre sue capaci)tà, la musica ha
la virtù di porre a una pausa a contese e disordini e si vede
chiaramente come essa riesca ad ammansire (uomi)ni ed animali;
ragion per cui Archiloco dice: «non vi è chi si lasci incantare
dalla melodia»72. Tra i Ca(rii), quando, nelle assemblee, si
verificano tumulti, alcuni cominciano a suonare canti dolcissimi, il
canto si propaga poi ad (altri), e da ultimo si diffonde (fra
tutti); e così la contesa che è in atto si dissolve…73
FILODEMO, De musica,IV, pap. 1497, col. Ili, 18 segg., p. 65 Kemke,
40 Neubecker = SVF III, D. B., 63
Ma la musica non è una forma mimetica, come ta(luni) dicono
vaneggiando, e non è vero che — come afferma in particolare costui —
non solo abbia in sé i modelli di tutte quante le forme di azione
possibile ma addirittura ri(vel)i con evidenza74 tutti i diversi
caratteri di tutti gli affetti, fra cui il nobile e il meschino, il
virile e l’effeminato, il temperato e il tracotante; non più di
quanto li riveli l’arte culinaria!75
ivi, col. V, 14 segg., pp. 67-68 Kemke, 43 Neubecker = SVF III, D.
B., 65
Poiché ormai si è parlato a sufficienza intorno all’opinione che
l’educazione si possa impartire per mezzo della musica, faremo lo
stesso per ciò che riguarda gli encomi. Questi dipendono dai versi
poetici, e non da quella musica su cui abbiamo finora indagato; ma
anche (dipendendo) da quelli sono di nessun valore e privi di
significato per coloro che sono oggetto di lode. E questo è comune
agli autori di opere retoriche e agli scrittori in genere76. Per le
noz(ze) si assumono anche cuochi e ar(tig)iani; e negli imenei sono
le poesie, e non la musica, a fornire quelle prestazioni di cui essi
parlano; scarsa è la primizia del genere, e valida per alcuni, non
per tutti, forse per coloro che si sposano, ammesso che lo sposarsi
possa dirsi un bene77. Per il fatto che oggi gli epitakami sono
quasiscomparsi, nessuno direbbe (che) siamo peggiori! Quanto alla
passione d’amore… (essa non è certo) santa, ma essi stessi concedono
che vi sia in questa un elemento perturbante; le cose poi che costui
dice verificarsi, non si verificano in virtù della musica ma dei
versi poetici; e l’amore non riceve stimolo né dalla musica né dalla
poesia, ma si accende nella maggior parte delle persone per una
varietà di ragioni. Ciò che costui dice verificarsi in chi è preso
da passione amorosa l’una e l’altra cosa può provocarlo, ma anche se
il (disco) rso taccia, e in ogni altro modo. Quanto poi ai
la(men)ti, essi sono una forma di poesia che non certo per tutti è
medicina del dolore; talvolta lo calmano ma talvolta ne accrescono
la tensione…
col. VII, 22 segg., pp. 70-72 Kemke, 46 Neubecker = SVF III, D. B.,
68
E ora passando ad altro dico che, delle cose raccolte da Diogene78,
soprattutto il dire che (per natu)ra79 la melodia ha in sé qualcosa
che mu(ove e incita) alle azioni, se significa che ciò si verifica
perché si è spinti dal (pensier)o80, è (fuori luogo) prenderlo in
considerazione: ma se intende che anche per la melodia avviene come
per il fuoco, che, essendo atto per natura a bruciare, ha natura
caustica, per Giove, ecco che dice una gran menzogna… L’incitamento
alle azioni è una sorta di impulso e di scelta; ma la melodia non ha
la stessa funzione (del discorso) e non si deve ritenere che sia
(suscitatrice di sc(elta)…81 E infatti definendo la melodia dice che
per natura è capace di incitare. In ordine a questa così sciocca
(congettura, dice che essa sembra esser capace di tirare quelli
chemandano avanti le navi e mietono e vendemmiano, e di far compiere
opere agli strumenti di molti altri che compiono lavori faticosi; e
cita, costui, l’esempio di Tolomeo che così operava su quelli che
traevano pesi82. Ma questi che tirano in ballo la musica non
comprendono rettamente: non è vero che con la musica si lavora di
più e senza si compie ci meno; la realtà è che si diviene più
ri(lassati) nei riguardi della fatica e si lavora più agilmente se
si mischia (al lavoro) un qualche piacere). E se dessimo ragione al
nostro stoico quando dice che è un mito che Orfeo lenisse le pietre
e gli alberi con l’eccellenza della melodia, come usiamo dire per
iperbole, mentre lo faceva in realtà mediante i suonatori di flauto
nelle triremi, ecco che lo renderemo simile a un qualunque artigiano
che diriga un lavoro83; questo sarà giusto, non i delirii di costui!
E ameno, poi, che egli dica che la musica non solo esercita
un’azione sulle anime, (ma) sui corpi, in quanto provoca in essi
te(usuane … forse, guardando agli atteggiamenti del corpo, avrebbe
potuto offrirci qualcosa di ancor più paradossale, dicendo: «non
solo il corpo, ma anche l’anima fa disporre in un certo modo». Ma la
sua espressione non stupisce; da ciò che dice, indica chiaramente
che si tratta anche del corpo…
coli. IX-X, pp. 74-75 Kemke, 49 Neubecker = SVF III, D. B., 71
Da queste stranezze arguisce poi altre mirabilia, dicendo che è
(più) atto a esercitare un’azione (il poema cantato che non quello
solo recitato)84… E dice che la poesia di Cresso85, pur non essendo
di per sé disarmonica, appare molto più solenne se le si aggiunge la
melodia; e che gli inni cantati in Efeso e nei cori spartani non
producono quasi nessun effetto se venga in essi abolito l’elemento
melodico. E (ritie)ne che ciò possa bastare ai fini della
dimostrazione che la musica è più atta a produrre effetto…
col. XII, p. 78 Kemke, 55 Neubecker = SVF III, D. B. 75
…passiamo a quello che dice delle passioni amorose. In pr(i-mo)
luogo, mentre tutti i Greci riconoscono che l’(eccitamento amoroso è
un gran male, egli in modo oltre misura (ridicolo riti(ene) che vi
sia una virtù (ero)tica; e di conseguenza crede in modo altrettanto
ridicolo che le melodie contribuiscano a in(diri)zzare (rettamente
l’amore86…
…(E quanto dice per) riconnettere l’amore a nomi di uomini liberi,
affermando che Timoteo con i suoi (p)oe(mi) per i nobili giovinetti,
e in certi casi per le etère87 … non è secondo natura e risponde a
vuote disposizioni… Né costui adduce solo gli esempi di uomini
siffatti, ma parla dei contenuti verbali — considerando, secondo le
sue parole, puramente aggiuntiva la melodia — e dice che Ibico e
Anacreonte non hanno pervertito i giovani con le melodie, ma solo
col contenuto verbale delle loro opere88.
col. XVIII, 33 segg., p. 83 Kemke, 65 Neubecker = SVF III, D. B. 83
Non seguiremo certi stolti nel sostenere che gli Spartani si
trovarono una volta nella necessità di chiamare Taleta, sacerdote
delfico, e, quando questi fu giunto, cessò fra di loro ogni
discordia; se essi affermano così, non han fatto che seguire
(altri)89 che così raccontano, inventori di anti(che storie) e
amanti della musica; ma altri dicono il contrario, (e affermano?)
che egli si vantava (semplicemente di ciò) mediante una tavoletta di
offerta, se veramente la dedicò con l’iscrizione che questi
dicono90.
col. XX, 28 segg., p. 88 Kemke, 67 Neubecker = SVF III, D. B. 86
…sì che, se passiamo ora a dire quello che egli scrive della pietà
verso gli dèi, potremmo arrivare alla concl(usione) che, se, per il
semplice fatto che il divino è onorato dalle moltitudini per mezzo
della musica, se ne dovesse dedurre che la musica è affine alla
pietà religiosa, dovremmo dire che le è affine anche l’arte della
cucina, e quella di far corone, e unguenti, e vivande; e così
(l’agri)coltura, l’architettura, la pittura, la scultura; (quasi
tutte) le arti insomma… Ma se (poi si se)guisse (l’opinione di
questo fi)losofo, ne risulterebbe che essa (non è appropriata) (a
uno stoico), e che da essa nessun (dio) viene veramente onorato91:
infatti, per gli Stoici, la moltitudine è nemica degli dèi, in
quanto si compone di stolti, e questi non possono nemmeno
immaginarsi in sogno le vere forme di onore, quelle degli uomini
(migli)ori…92 A meno che Diogene non voglia dire che a ciascuno dei
differenti dèi convengono vere e proprie differenti forme di musica!
E che altro potrebbe sorprendere, detto da lui? Egli crede infatti
che la musica siautile all’intelligenza, e che nell’arte armonica vi
siano definizioni e divisioni logiche e dimostrazioni93…
col. XXII, io segg., p. 90 Kemke, 68 Neubecker = SVF III, D. B. 88
Quando dice che coloro che praticano la musica praticano una forma
di conoscenza che ha qualcosa di simile alla critica, non solo egli
ignora quanto la pretesa critica di costoro, se riposta in melodie e
ritmi, manchi della capacità di discernere ciò che vi è in essi di
decente e di indecente, di bello e di turpe, ma anche come — se
qualcosa di simile fosse vero — egli verrebbe a negare la facoltà
del giudizio a quelli che esercitano la filosofia — e non si rende
conto, per Giove, di come egli conceda la facoltà della critica, o
ciò che di simile a questa possederebbe in sé la musica, non ai
filosofi, ma a quelli che si usa chiamare, per l’appunto,
«critici»!94 E quando scrive che la musica è analoga alla poesia,
quanto a imitazione e a genere e ad invenzione, non riesce a
dimostrare quel che riguarda l’imitazione, e quanto all’invenzione
dice cose che si adattano ad ogni tipo di arte.
col. XXIII, 27 segg., p. 92 Kemke, 69 Neubecker = SVF III, D. B. 88
Quanto a ciò che dice Diogene, che cioè, se noi riflettiamo alle
cose già scritte da Eraclide95 sulla melodia conveniente
osconveniente, e i costumi vi(rili) o effeminati, e le (azi)oni
armoniche o disarmoniche rispetto ai personaggi che concerne, siamo
portati a (rite)nere che la musica non aborre dal congiungersi con
la filosofia, per l’utilità) che offre per la mag-(gior parte) delle
cose della vita, e che Pes(ercitarsi) intorno ad essa dispone a più
virtù e forse a tutte, esponendo tutto ciò, e cose dette da altri in
forma affine, nel III libro degli Schizzi, noi abbiamo già
dimostrato di quanta stoltezza sia pieno96.
col. XXXIV, 23 segg., p. 105 Kemke, 84 Neubecker = SVF III, D. B. 90
Ma nessuno degli (dèi) è stato inven(tore) della musica né donatore
di essa agli uomini; questi l’hanno appresa gradatamente, nel modo
che prima si è detto. Nessuno che davvero sia pio cre(derà) mai che
la ragione, l’intelligenza, la scienza si identifichino con Ermete,
Atena, le Muse97. Se la ragione o98 il ragionamento son pervenuti a
inventare la musica, non per questo ne consegue che essa sia
(uti)le, perché la ragione è anche causa dell’invenzione delle cose
peggiori99.
DELLA RETORICA100
FILODEMO, De rhetorica, pap. 1004, col. Ili, 4 segg., I, p. 329
Sudhaus = SVF III, D. B. 91
(essa), dice, può lodare in maniera persuasiva quel regime di vita
che vogliamo, e allo stesso modo di contro, se così ci sembri,
biasimare un altro: sì che il nostro discorso, volto ad asserire che
certi regimi sono salubri o che lo sono più di altri, riesce a
(persua)dere colui che intenda risanarsi. Un’arte che può operare
così nel campo della medicina, (egli di)ce, non potrebbe esser
definita inutile, anche se non ha in sé niente che si riferisca
specificamente alla salute…101.
col. XVII, 2 segg.; XIX, 4 segg.; pp. 333-335 Sudhaus = SVF III, D.
B., 95
E al tempo stesso dichiarano di esser capaci di for(mare) uomini
politici, utili alla città e agli amici; e difendono la loro
posizione circa quell’arte col dire che non essa in sé è cattiva, ma
lo sono quelli che ne fanno un cattivo (us)o: sì che diviene
possibile asserire che pur essendo tali quali si deve essere, utili
alla città e agli amici, si può poi essere trasportati
sconsideratamente…
…senza (criterio) qualche uomo malvagio si vale di quest’arte nelle
città. Però una volta che si sia qu(ali) si deve essere, utili alla
città e agli amici, (no)n è più lecito valersi di questi mezzi
sconsideratamente, quando li si sappia usare rettamente; né è
possibile essere insieme sconsiderati, malvagi e corrotti da un
lato, dall’altro u(tili) alla città (e agli amici)…102
col. XLIV, 3 segg., I, p. 344 Sudhaus = SVF III, D. B., 97
…sarebbe (ridicolo?)103 che a chi è capace di esser filosofo si
prescrivesse di esercitare le stesse cose che a gente volgarmente
indaffarata104, a danzatori o pubblicani o gente che vende la
propria giovinezza; se ha prescritto poi di non lasciarli dire ma di
contrapporsi (ad essi) con l’azione, con ciò rende il ris(urtato)
più scarsamente (credi)bile(?)…105
col. XLII, 12 segg., I, p. 343; col. XLVIII, 2 segg., I, p. 346
Sudhaus = SVF III, D. B., 99
…nulla è (cosi) persuasi(vo co)me la verità e l’esperienza (delle)
cose quando (non è) soggetta ad (erro)re106… Ma ciò non si può dire
dei retori, né tanto meno di questa teoria professata da Diogene e
dai suoi simili in difesa dell’oratore e nel senso che solo chi è
sapiente può esser retore e insieme è capace di veramente
contraddire107…
col. LV, 3 segg., I, p. 350 Sudhaus = SVF III, D. B., 103
…e quanto al fatto che quelli che, dopo aver iniziato, sono
capaci108 di (tace)re, come è avvenuto a Senocrate109, siano anche i
soli capaci di parlare — giacché l’uria cosa e l’altra sono proprie
della stessa persona — in virtù di chi o che cosa, per gli dèi,
potremmo crederlo, dal momento che, al contrario, Senocrate davanti
ad Antipatro e nelle assemblee parlò (così come) ci racconta il
Sofista del Falerò nella sua (Retorica)?110
col. LXIV, 1 segg.-LXV, 13, I, pp. 355-356 Sudhaus = SVF III, D. B.,
107
e in verità qualcuno potrebbe vantarsi di avere mezzi abbondanti e
forza del co(rpo) e bellezza e (miglia) ia di altre qualità che
dànno spesso aiuto per compiere torti verso gli altri uomini, ma
sono in onore presso il volgo per l’utilità che può derivarne; e
anche Diogene dice che queste sono cose (posi)tive. Se realmente il
vero retore è quello che è capace di esporsi in (ga)ra e di
(serbare) il sile(nzio) … come è possibile (che gli) Stoici, e non
solo essi ma tutti i filosofi, non vedano che costoro sono capaci sì
di parlare, ma dimostrino che tuttavia, pur essendolo, non sono veri
oratori?111 E poi una vera ingenuità che costui, nella previsione di
andar soggetto a incredulità e di essere contraddetto, aggiunga: «a
meno che uno non sia inferiore) all’assunto per sua propria
na(tura)»…112
coli. LXVI, 1 - LXVIII, 13, I, pp. 357-358 Sudhaus = SVF III, D. B.,
108-109
così (come) in Sp(arta) si è data la colpa al fatto che là sono
(comparsi i retori; ma altre disgrazie ed altri misfatti, in ogni
caso, si sono verificati per conto degli uomini, e (traía) scio di
dire come anche molti di quelli che sono partiti dalla filosofia si
potrebbero additare come colpevoli o complici113di cose simili a
quelle anzidette. Ma avranno successo se diranno che è invenzione
dei retori il cambiare le tirannidi in democrazie, e i n(emici) in
protettori, e le sconfitte p(eggio)ri in successi114…
…similmente in Atene son nate (stirpi?) di tiranni115, là dove ci
sono stati anche più retori che in tutto il resto della terra; ma
può essere anche vero che, per Zeus, nessun r(egi-me) i retori hanno
fatto cambiare da democrazia in tirannide. Taccio anche del fatto
che le cause, quelle che egli ha scritto essere (malvage)?116,
accade siano comuni a tutti i popoli…
…se E(schine) non avesse rimproverato gli Ateniesi perché non
avevano sottoposto a giudizio Demostene (il quale aveva condotto
l’Eliade come quei nocchieri che causano il naufragio), dovremmo
dire che Diogene ha torto quando afferma: «gli Ateniesi non si
valgono dei loro stessi oratori»117.
col. LXX, 1 segg., I, pp. 359-360 Sudhaus = SVF III, D. B., no
Atene ha e(spulso) e ha condannato a morte certi oratori. Se alcune
(città?) vietarono ai retori di svolgere attività politica, (ve ne
sono altre?) che si son valse di essi non solo per deliberazioni ma
per veri e propri uffici. E inoltre non tutti i retori, come egli
dice, sono millantatori…118 Degli altri quali hanno commesso
misfatti, quali hanno saputo persuadere cose buone119…
FILODEMO, De rhetorica, Hypomnematikos, (papp. 1426/1506) cOL. I, 22
segg., II, pp. 202-203 SUDHAUS = SVF III, D. B., ni
quanto all’esser colmi di ogni virtù, quali voi dite debbano essere
i veri politici, nessuno, neanche lo stesso Focione, si potrebbe
così definire, lui che Demostene diceva …120 per mezzo dei suoi
discorsi; neanche questi sarebbe (col)mo di tutte le vi(rtù) secondo
Diogene.
col. Ili, 4 segg. II, p. 204 Sudhaus = SVF III, D. B., 113
E vi aggiunge di seguito qualcosa di altamente incredibile: «(è
chiaro che essi non partecipavano (di tali sc)ienze, né impiegavano
tempo e d(enaro) e impegno per simili cose, né si sottoponevano mai
a chi facesse professione di simili cose».
col. V, 13 segg., II, p. 207 Sudhaus = SVF III, D. B., 114
Quanto al (di)re che i retori appaiono passar la vita nel sottoporre
altri a giudizio e nell’(esservi) stessi sotto(posti), è proprio di
uomini che indulgono121 a malignità e ol(traggio). Che uomini
illustri fra di essi abbiano fatto l’una cosa e l’altra, già lo
abbiamo ammesso, e poi è la vita (pol)itica stessa che comporta il
f(are) e il (sub)ire cose del genere…
col. IV, 9 segg., II, pp. 208-209 Sudhaus = SVF III, D. B., 115-116
Se il solo Dio (gene) ha scritto su di essi122 in forma d’indagine
che (di essi) nessuno è stato vero (uomo d’a)zione, che essi parlano
sempre per conquistarsi il favore del popolo, e (dànno) il teorico,
e di(stribuis)cono in modi consimili denaro pubblico; (noi
preferiamo)123 quelli che non hanno mai scritto nulla in forma
d’indagine circa i retori; in realtà, che alcuni di essi siano stati
tali, e che tuttavia molti di essi abbiano anche saputo prendere
deliberazioni pratiche, abbiano avuto disegni precisi, abbiano
(svolto attività po) litica con molta libertà di parola e abbiano
saputo com(battere) contro chi dilapidava le sostanze pubbliche,
riteniamo che la storia ce lo attesti. Di seguito a questo egli
dice: «Il politico deve esser capace a sufficienza di reggere le
cariche pubbliche; il retore non lo può»…124.
col VII, I-VIII, 29, pp. 209-212 Sudhaus = SVF III, D. B., 116-117
Non certo per questo colui cui si può dare L nome specifico di «uomo
politico» deve (esten)dere le proprie capacità alle funzioni di
stratego o di navarco…125 Egli dice ancora, risibilmente: «poiché
non ogni vero politico — e non esso solo — si contrappone alla
retorica126»… Chi sa ben :n(dirizzare) la mente saggia alla
filosofia127 non solo sa (essere) buon dialettico, buon grammatico),
buon (poe)ta, buon retore — insomma, chi è buono è uno che sa
esercitare il metodo in ogni tipo di arte — ma si indirizza anche
all’utile comune della città. Egli non è utile solo (a coloro che
vivono ad) Atene o a Sparta: mentre (tra gli stol)ti non vi è vera
città né legge128, (vi è)(?) nel cosmo, inteso come complesso
organico di uomini e dèi, (una città) in cui (il saggio?) è re e
stratego per ma(re)e per (ter)ra e tesoriere e esa(ttore) e capace
di (gestire) tutte le altre cariche, poiché di necessità il vero
politico deve avere scienza di tutto ciò129.
col. XII, 10 segg., II, p. 216 Sudhaus = SVF III, D. B., 119
«Gli Spartani» egli dice» pur deridendo la retorica, sanno
rettamente trattare quello che vogliono, secondo la circostanza
corrente». Ma in primo luogo non si potrà ammettere che gli Spartani
sappiano trattare quello che vogliono secondo la circostanza
corrente né si dirà che essi sanno fare rettamente le ambascerie e
in pari tempo (non) lo sanno130 fare perché non hanno esercizio di
retorica; tutto questo è af(fermato) da Diogene irragionevolmente.
col. XIV, 6 segg., II, pp. 218-219 Sudhaus = SVF III, D. B.,
120-121.
Se per tale ragione egli (nega)131 che la politica sia in tutto e
per tutto retorica, dal momento che alcuni sanno far bene le
ambascerie pur non essendo retori, come potrà asserire che la
retorica non sia al tempo stesso anche politica? «Per Zeus, ma anche
gli Ateniesi, dice, pur essendo tanto amici della retorica, spesso
si urtano per i discorsi to(rtuosi) e contro chi sa troppo di arte e
(di scuo)la». Ora, dire che gli Ateniesi si urtano contro questi è
ridicolo.
col. XV, 7 segg., II, pp. 220-221 Sudhaus = SVF III, D. B., 122-123
Ma vi sono (anche fi)losofi (che) hanno abitudine di parlare a
vuoto, come fai tu132 e come fa Critolao: ascolta invece chi parla
chiaramente. «L’esperienza dei retori politici, la cuisostanza sta
nella (congettura) del momento favorevole133, s(pesso) insegna a non
estendere tanto in (lunghe)zza i discorsi, altre volte a parlare con
virulenza, altre volte ancora a non aprir nemmeno le labbra». Egli
dunque, dal momento che sopprime la maggior parte dei precetti
trasmessi in base a scienza ed esperienza, per il semplice fatto che
alcuni di essi falliscono nello scopo, si rende ridicolo. «Ma se
essi sono capaci di far accordare e rendere all(eate) fra loro le
città, perché non dovrebbero esser capaci di conciliare fra di loro
dei condiscepoli che siano in contrasto reciproco, o la moglie
ribelle col marito, o un amante (con chi lo ama?)134 ed essere
insomma in qualche modo (opera)tori di amicizia? (E) proprio della
stessa capacità dovuta ad esperienza render amici i singoli fra loro
e render amici fra loro (i popoli), così come lo è armonizzare una
lira con un’altra o più lire con altre».
col. XVIII, 20 segg., II, pp. 223-224 Sudhaus = SVF III, D. B., 124
Se poi (dice) che nessun retore s(arà) mai capace di far concordare
fra loro le (città?) e di sanare le loro inimicizie, come il musico
porta una lira all’ac(cordo) con molte altre, (si può obbiettare
che?) gli oratori politici non si prefiggono tale scopo, di sanare
le inimicizie (fra le città). E quindi egli dice: «non ne ricordo
uno, di costoro, o per meglio dire nessuno, che abbia saputo
condurre bene ambascerie a vantaggio della propria p(atria»)…
col. XIX, 30-31, II, p. 225 Sudhaus = SVF III, D. B., 124
«nemmeno uno di costoro» egli dice «è passato alla storia (per
essere stato un buo)n cittadino»135.
col. XX, 9 segg., II, pp. 225-226 Sudhaus = SVF III, D. B., 124
Dirò che non solo degli oratori veri e propri, ma anche dei comuni
abitanti delle città non po(chi sono dive)miti buoni oratori
politici (senza bisogno di filo)sofia. Ma tu (o Diogene?) dici136;
«(mol)ti, (per non dire tut)ti, sono sciagurati; non ce n’è uno
onesto, mite, amante della pa(tria), nessuno che abbia altre (vir)tù
buone per la vita comune, per non dire di quelle (per)fe(tte)». E
tuttavia, se si prò(fessi)no virtù del genere per natura o per
educazione), è possibile (esser politico) anche senza filosofia, e
così pure (oratore): e come quindi non potrà essere che senza
filosofia si possa diventare oratore po(litico)?
col. XXI, 15 segg., II, pp. 226-227 Sudhaus = SVF III, D. B., 125
Essi di(cono)137 che Foratore, anche se possieda esperienza, senza
filosofia non può degnamente governare la sua patria. Però Pericle —
che quegli (dice) essere stato il più intollerabile dei retori — era
stato a scuola da Anassagora e anche (da alcuni altri filosofi)138;
forse ad essi egli lo paragona, che non sono filosofi stoici certo,
anzi hanno opinioni del tutto opposte circa la natura dell’uni
(verso): ed è solo la filosofia stoica che secondo Diogene forma
buoni cittadini…
TESTIMONIANZE SULLA DOTTRINA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 39 = SVF, III, D. B., 16.
Dicono che la trattazione della filosofia si articola in tre parti:
essa ha una parte fisica, una etica, una logica. Così per primo
divise Zenone di Cizio … e poi Diogene di Babilonia.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 15, 77, VI, p. 97 COHNREITER
= SVF III, D. B., 27.
Anche Diogene si dice che, finché fu giovane, sottoscrivesse alla
credenza nella conflagrazione universale, ma poi, avanzato negli
anni, sospendesse il giudizio in proposito139.
AEZIO, Piatita, II, 32, 4, Dox. Gr., p. 364 = SVF III, D. B., 28
Eraclito fissava il grande anno in diecimila e ottocento140 anni
solari, Diogene Stoico nella misura di trecentosessantacinque volte
tanto rispetto al grande anno di Eraclito.
AEZIO, Piatita, I, 7, 17, Dox. Gr., p. 302 = SVF III, D. B., 31
Diogene e Cleante141 e Enopide142 affermavano che dio è Fani-ma del
cosmo.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 133 = SVF III, D. B., 32
Zenone argomentava in questo modo: «si devono ragionevolmente
onorare gli dèi; ma non sarebbe ragionevole (onorare)143 chi non
esiste; quindi gli dèi esistono». Il ragionamentonon fu poi
accettato dagli Stoici che seguirono, per la semplice ragione che
questo si sarebbe potuto dire anche del sapiente, quel sapiente
ch’essi dichiaravano non esistere nell’effettiva realtà144. Ma
Diogene, per ovviare alla difficoltà, dice che la seconda premessa
del ragionamento zenoniano suona in effetti così: «ma non sarebbe
ragionevole onorare esseri che per natura non esistono»; e posta la
cosa in tal modo, è chiaro che «gli dèi per natura esistono145». E
se è così, essi anche sono. Se infatti una volta furono, anche
adesso sono, così come, se gli atomi una volta furono, anche adesso
sono — tali realtà sono infatti indistruttibili ed eterne secondo la
comune nozione dei corpi. Il discorso porta quindi ad una
conclusione conseguente. I saggi, invece, non si può dire che, se
esistono per natura, anche ci siano effettivamente.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 84 = SVF III, D. B., 38
Nella parte etica della filosofia … fanno suddivisioni Crisip-po e
la sua cerchia … e Diogene146.
CICERONE, De fin., Ili, 10, 33 = SVF III, D. B., 40
Il bene … si spiega per mezzo della definizione. Le loro definizioni
differiscono radicalmente; e tuttavia tendono al medesimo fine. Per
mio conto consento con Diogene, il quale ha definito il bene «ciò
ch’è assoluto per natura». E coerentemente a ciò disse che anche
quello che giova (potremmo chiamare ciò còcpéXrifjLa) è uno stato di
moto o di quiete che si regola su ciò ch’è assoluto per natura.
CICERONE, De fin., III, 17, 57 = SVF III, D. B., 42
Della buona fama (che essi chiamano euSoiJtoc; in questa sede mi
sembra più preciso dire «buona fama» che «gloria») Crisippo e
Diogene dicevano che, se si toglie Futilità che può ricavarsene, non
vale la pena di porgere un dito per ottenerla147.
CICERONE, De fin., III, 15, 49 = SVF III, D. B., 41
Diogene poi pensa che la ricchezza non abbia in sé solo la capacità
di condurre al piacere e alla salute, ma che già contenga in sé
queste cose; non è come nel caso della virtù o delle altre arti, cui
il denaro può condurre, ma che non contiene certo già in sé;
pertanto, se il piacere o la salute fossero da considerarsi beni,
bisognerebbe considerar tale anche la ricchezza; ma se la sapienza è
bene, non ne consegue che dobbiamo considerare bene anche la
ricchezza. In nessuna cosa che non sia un bene può esser compreso
ciò che è un bene; e perciò, giacché le cognizioni e comprensioni
delle cose in base alle quali si formano le arti muovono la facoltà
appetitiva, non essendo la ricchezza un bene, nessuna arte può esser
compresa nella ricchezza. Se concediamo questo a proposito delle
arti, per la virtù non si può fare lo stesso ragionamento; e questo
perché la virtù abbisogna della massima ammonizione ed
esercitazione, il che non avviene per le arti; e perché la virtù
abbraccia in sé una stabilità, una fermezza, una costanza che si
estende a tutta la vita, né nelle arti vediamo alcunché di simile.
EPIFANIO, Adv. baeres., III, 40, Dox. Gr., p. 593 = SVF III, D B.,
43
Diogene Babilonio diceva che tutte le cose si assommano nel
piacere148.
STOBEO, Eclogae, II, 7, 6a, pp. 75-76 Wachsm. = SVF III, D. B., 44
Quanto alla definizione del fine… Diogene la dava nella forma
«ragionare correttamente nella scelta (e, diversamente nel rifiuto)
delle cose secondo natura»149.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 88 = SVF III, D. B., 45
Diogene dice poi espressamente che il fine consiste nella scelta
delle cose che sono secondo natura.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Sfrontata, II, 21, 129, 1, p. 183 Stàhlin =
SVF III, D. B., 46
(Diogene Babilonio)150 riteneva che il fine risiedesse nella scelta
delle cose secondo natura.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7f, p. 84 Wachsm. = SVF III, D. B., 47
La stima, Diogene ritiene che sia un giudizio per stabilire quanto
una realtà sia secondo natura o quanto porti utilità alla natura.
Dava la definizione dell’ «estimatore»151 non nel senso corrente, di
chi fornisce opere vagliate, ma di chi sottopone le opere a vaglio;
dice che un uomo siffatto è l’estimatore dello scambio. E se questi
sono i due giudizi di valore per cui diciamo che qualcosa è
superiore quanto a valore, mentre il terzo verte su ciò che
affermiamo avere un valore particolare in sé, il che non si dà per
gli indifferenti, ma solo per le cose veramente buone. Dice che
talvolta noi usiamo del nome di valore invece di «ciò che compete»:
come è chiaro dal giudizio sulla giustizia, quando si dice che essa
è «abito a distribuire a ciascuno secondo il suo valore»; il che
equivale a ciò che compete a ciascuno.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5 h, p. 64 Wachsm. = SVF III, D. B., 48
Diogene dice che in due modi si può parlare di cose da scegliersi di
per sé, quelle che sono da scegliersi in vista del fine, come quelle
ordinate nella divisione anzidetta152, e quelle che hanno in sé la
causa stessa del loro essere da scegliersi, il che è proprio di ogni
cosa che sia bene.
CICERONE, De officiis, III, 12, 50-56 = SVF IH, D. B., 49
Ma, come ho detto sopra, incorrono sempre ragioni per cui Futile
sembra cozzare con Fonesto, sì che bisogna star bene attenti se
veramente ci sia questa incompatibilità o le due cose possano andar
d’accordo… In caso di ragioni di questo tipo, diversa è l’opinione
di Diogene di Babilonia, stoico grande e severo, da quella di
Antipatro… Antipatro ritiene che bisogna dire apertamente tutto, sì
che il compratore non ignori del tutto ciò che invece il venditore
sa; Diogene è dell’opinione che il venditore deve dire i difetti
della merce per ciò che è previsto dal diritto civile, per il resto
può trattare senza esser accusato di frode e cercar di vendere, in
quando vende, alle condizioni più vantaggiose153… Diogene risponderà
forse così: «Altra cosa è nascondere, altra è tacere; certo io non
ti nascondo niente se non ti dico quale sia la natura degli dèi, o
il fine dei beni, cose la cui conoscenza ti potrebbe giovare assai
più che la denuncia dello scarso valore del frumento. Non sono
tenuto a dirti tutto ciò che ti gioverebbe ascoltare». «Ma tu
saresti tenuto a farlo», può dirti l’altro, «se ricordi che fra gli
uomini esiste una associazione e parentela naturale». «Lo ricordo
bene» egli dirà «ma questa associazione è tale da togliere a
ciascuno il suo vantaggio individuale? Se le cose stessero così; non
si dovrebbe più vendere niente, ma farne dono»… Diogene di contro:
«Ma chi ti ha costretto a comprare, se nemmeno ti he esortato a
farlo? Quello ha messo in vendita ciò che non voleva più; tu hai
comprato quello che volevi avere. E che? quelli che mettono in
vendita una bicocca dicendo che è una casa bella e bene edificata,
non si ritiene che siano in colpa, anche se essa poi non sia affatto
bella né bene edificata; molto meno lo è, chi non abbia fatto le
lodi di quella casa. Là dove sussiste il giudizio del compratore,
come può esservi frode da parte del venditore? Se non bisogna
attenersi a tutto ciò che si dice, pensi che ci si debba attenere a
ciò che non si dice? Che cosa può esserci di più stolto, se non che
il venditore racconti i difetti di ciò che vuol vendere? che di più
assurdo, se non che il banditore, per comando del padrone, dichiari:
’vendo una casa malsana’»
SENECA, De ira, III, 38, 1 = SVF III, D. B., 50
Qualcuno ti ha fatto un’offesa; e quale può esser maggiore di quella
che fu fatta al filosofo stoico Diogene, al quale, mentre parlava
soprattutto a proposito dell’ira, un giovane protervo sputò addosso?
Egli sopportò la cosa con dolcezza e saggezza: «non per questo,
disse, mi adiro; semplicemente mi chiedo se … non sia il caso di
adirarsi».
QUINTILIANO, Inst. Orat., I, 1, 8 = SVF III, D. B., 51
Ancora questo sugli educatori, perché o siano pienamente eruditi … o
sappiano di non esserlo. Il loro errore non nuoce di meno ai
costumi: dal momento che Leonide, il pedagogo di Alessandro154 —
come ci tramanda Diogene Babilonio — instillò in lui alcuni difetti
che continuarono ad affliggerlo anche quando fu adulto e già gran
re, per conseguenza dell’educazione ricevuta nella fanciullezza.
ANTIPATRO DI TARSO
TESTIMONIANZE BIOGRAFICHE
STRABONE, Geogr., XIV, 5, 13 = SVF III, A. T., 1
Di questa città furono uomini della setta stoica, come Anti-patro,
Archedemo, Nestore, i due Atenodori155.
Ps. GALENO, Philos. Hist., 3, Dox. Gr., p. 600 = SVF III, A. T., 2
Diogene di Babilonia, che era stato allievo di questi (Crisip-po),
fu poi maestro di Antipatro; e di questo fu poi discepolo Posidonio.
CICERONE, Tusc. Disp., V, 37, 107 = SVF III, A. T., 3
E in realtà l’esilio …in che differisce da un soggiorno fuori patria
che non abbia fine? In esso consumarono i loro anni filosofi
nobilissimi… Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro … i quali, una
volta che furono partiti, non tornarono mai alla loro patria.
CICERONE, Acad. post., presso Nonio, p. 65, n = SVF III, A. T., 4
…su che cosa Antipatro duelli con Cameade in tanti volumi156.
PLUTARCO, De garrulitate, 23, 5i4d = SVF III, A. T., 5
Lo stoico Antipatro, a quanto sembra, poiché non poteva né voleva
restare indietro rispetto a Cameade, il quale inveiva contro la Stoa
con la più grande facondia, fu chiamato, per aver scritto e riempito
di risposte polemiche a questi molti libri, «quello che grida con la
penna».
CICERONE, Acad. pr., 47, 143 = SVF III, A. T., 6
E che? due quasi primi fra i dialettici, Antipatro e Archedemo,
uomini molto fertili di dottrine, non sono forse in discordia fra
loro in molte cose?
NUMENIO, presso EUSEBIO, Praep. evang., XIV, 8, io, fr. 27 Des
Places = SVF III, A. T., 6
Con la sua parola Cameade attirava le anime157 e le rendeva schiave.
Senza renderlo evidente, egli compiva veri e propri furti, e si
mostrava un vero predone, afferrando, come faceva, anche i più
premuniti, con l’inganno o con la forza. Così vinceva sempre la sua
opinione e mai quella degli altri, giacché quelli contro cui lottava
non avevano la sua capacità oratoria. Il suo contemporaneo Antipatro
avrebbe dovuto cimentarsi a scrivere contro di lui; in realtà però
non espose in pubblico nessuna risposta a quei discorsi che Cameade
ogni giorno andava facendo contro di lui; né nelle scuole né nei
portici gli si udì dire o emettere qualcosa che somigliasse anche a
un grugnito; invece si dava da fare a polemizzare per iscritto e
standosene in un angolo scriveva una gran quantità di libri da
lasciare ai posteri, roba che non ha alcuna efficacia oggi, e ancor
meno ne aveva allora, contro un uomo che appariva così grande ai
suoi contemporanei e aveva fra di loro tale prestigio, come Cameade.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., IV, 64 = SVF III, A. T., 7
E quando (Cameade) apprese che Antipatro era morto per aver bevuto
veleno, ne fu spinto a farsi coraggio per ben morire, e disse:
«datelo anche a me». Ma quando gli chiesero: «che cosa?» rispose:
«vino con miele»158.
STOBEO, Eclog., IV, 52, 19, p. 1078 Hense = SVF III, A. T., 7
Cameade, quando Antipatro si suicidò, vecchio d’età, si versò due
calici, uno di cicuta, uno di vino con miele. E, esortando tutti gli
altri Stoici a bere quello con la cicuta, per suo conto vuotò quello
con il vino melato, irridendo le cure di coloro che volontariamente
abbandonano la vita.
CICERONE, De finibus, I, 2, 6 = SVF III, A. T., 8
Fra gli Stoici, che cosa mai non trattò Crisippo? Tuttavia leggiamo
anche Diogene e Antipatro.
ARRIANO, Epist. diss., II, 17, 40 = SVF III, A. T., 10
Non saremo più vicini al progresso anche se scorreremo tutte le
introduzioni e le trattazioni sistematiche di Crisippo insieme con
Antipatro e Archedemo159.
Index Stoic. Here., coli. LIII-LX, pp. 74-82 Traversa = SVF III, A.
T., n-12
(Panezio?) lo ascoltò e divenne successore nello scolarcato ad
Antipatro; e poi Dardano di Andromaco, ateniese, … e Apollo-doro di
Atene160… (Panezio), che pure era capace di sostenere una dottrina
propria per la sua grande disposizione al filosofare, non sostenne
opinione alcuna senza prima sottoporla ad Antipatro; così facendo
fino alla fine (non) venne (mai) meno al discepolato. Quegli, per
lungo tempo, a causa della vecchiaia resse la scuola restandosene a
casa; e i (condiscepoli) pregavano Panezio di assumere la loro
guida…161.
PLUTARCO, Tiberius Gracchus, 8 = SVF III, A. T., 13
Lo fiancheggiavano il retore Diofane e il filosofo Blossio162, … e
Antipatro di Tarso, che nella città gli era statocompagno ed era da
lui onorato con la dedica di opere filosofiche.
ATENEO, Deipnosoph., V, i86a-c = SVF III, 14
Nella città163 vi sono diverse associazioni che si richiamano a
Diogene, ad Antipatro, a Panezio… Il filosofo Antipatro una volta
tenendo banchetto dispose per norma che tutti i convenuti facessero
dissertazioni filosofiche.
PLUTARCO, De tranquillitate,9, 4696 = SVF III, A. T., 15
Antipatro di Tarso poi, trovandosi alla fine della vita, nel passare
in rassegna i beni che aveva avuto, non tralasciò nemmeno la buona
navigazione che aveva fatto dalla Cilicia per Atene.
PLUTARCO, Marius, 46, 2 = SVF III, A. T., 16
Dicono che Antipatro di Tarso, giunto alla fine, passando in
rassegna i momenti felici che aveva avuto, non si dimenticasse della
buona navigazione fatta nel venire ad Atene dalla sua patria, in
quanto aveva grande riconoscenza per ogni dono della sorte amica
della virtù, e tutto conservava fino alla fine nella sua memoria,
ch’è il tesoro più sicuro dei beni che all’uomo sia stato dato.
DA SINGOLE OPERE
DELL’ESPRESSIONE E DEI DETTI
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 57 = SVF III, A. T., 22
Vi sono cinque parti del discorso …il nome, il nome comune, il
verbo, la congiunzione, l’articolo; ma Antipatro, nella suaopera
Dell’espressione e dei detti, aggiunge anche un termine medio164.
DELLE DEFINIZIONI
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 60 = SVF III, A. T., 23
La definizione, dice Antipatro nel libro I del Delle definizioni, è
un discorso espresso in maniera analitica e in forma delimitata…
Invece lo schizzo è un discorso che introduce all’oggetto in forma
schematica, oppure un discorso che esprime la portata della
definizione in forma più semplice.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 42, 27 sgg. Wallies = SVF
III, A. T., 24
Quelli poi che sostengono esser la definizione un discorso espresso
in maniera analitica e ben delimitata, e per analisi intendono la
spiegazione per capi distinti dell’oggetto da definire, per forma
delimitata intendono il fatto che non contenga nulla di troppo né di
nulla manchi, in realtà non dicono niente di diverso dal rendere la
definizione con «espressione della proprietà dell’oggetto»165.
DEI POSSIBILI
DEL DOMINATORE
ARRIANO, Epict. diss., II, 19, 9 = SVF III, A. T., 29
Ne parlò anche Antipatro, e non solo negli scritti Dei possibili, ma
particolarmente anche in quelli Sul dominatore166.
DELLA SOSTANZA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 150 = SVF III, A. T., 32
Per loro corpo è la sostanza limitata, come dice Antipatro nel libro
II del Della sostanza.
SUGLI DÈI
PLUTARCO, De Stole, rep., 38, io5if-io52b = SVF III, A. T., 33"34
Antipatro di Tarso, nell’opera Sugli dèi, scrive testualmente:
«All’inizio della trattazione ragioneremo in breve della certezza
razionale che abbiamo circa la divinità: pensiamo questa come essere
vivente beato, immortale, benefico verso gli uomini». E spiegando le
singole parti della definizione: «che essi siano immortali, lo
credono tutti»… Voglio ancora aggiungere a ciò in breve alcune
affermazioni di Antipatro: «quelli che escludono dagli attributi
divini il potere di beneficare, contrastano in parte con la
prenozione che di essi noi abbiamo, così come farebbe chi li
ritenesse passibili di nascita e morte»167.
DELL’UNIVERSO
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 140 = SVF III, A. T., 43
Dicono che uno è il cosmo e limitato, e che ha figura rotonda;
questo tipo di figura è la più adatta al movimento, come dice
Posidonio …168 e anche Antipatro nel Dell’universo.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 148 = SVF III, A. T., 44
Sostanza per Zenone è Finterò universo e il cielo, similmente
Crisippo … e Antipatro, nel VII libro del Dell’universo, dice che la
sostanza di questo è aeriforme169.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 142 = SVF III, A. T., 45
Circa la nascita e la distribuzione del cosmo scrivono Zenone … e
Antipatro nel libro X del Dell’universo.
SULLA DIVINAZIONE
CICERONE, De dlvinatione, I, 3, 6 = SVF III, A. T., 37
Seguendo Crisippo, Diogene di Babilonia scrisse (sulla divinazione)
un sol libro, Antipatro due.
CICERONE, De divinatlone, I, 54, 123-124 = SVF III, A. T., 38
Molte delle predizioni di Socrate sono state raccontate da
Antipatro, ma le trascurerò… Tuttavia, tra ciò che riguarda quel
filosofo, è magnifico e quasi divino il fatto che, condannato a
morte con sentenza iniqua, affermò che moriva in tutta serenità,
giacché né quando usciva di casa, né quando saliva la pedana su cui
aveva perorato la sua causa gli era stato dato dal dio — come era
solito fare — alcun segno di avvertimento che stesse per
incogliergli un qualsiasi male170.
DEI SOGNI
CICERONE, De divinatione, I, 20, 39 = SVF III, A. T., 41
Veniamo ai sogni: Crisippo, discorrendo di essi col passare in
rassegna minutamente una gran quantità di casi, fa lo stesso che
Antipatro, ricerca cioè sogni che, spiegati con l’interpretazione di
Antifonte171, rivelano l’acume dell’indovino; si sarebbe dovuto però
far uso di esempi più importanti.
CICERONE, De divinatione, II, 70, 144 = SVF III, A. T., 42
Eche? le stesse congetture degli indovini non rivelano forse meglio
l’acume di questi stessi che non la capacità e l’accordo della
natura? Un corridore che medita di recarsi a Olimpia crede di vedere
in sogno se stesso portato da una quadriga. Al mattino va
dall’indovino. Quello gli dice: «vincerai: il sogno indica la
rapidità e la forza dei cavalli». Si reca poi da Antifonte; e
questi: «ti toccherà una sconfitta. Non vedi che avrai quattro
corridori davanti a te?» Ed ecco un altro corridore … di questi e
simili sogni sono pieni sia il libro di Crisippo sia quello di
Antipatro…
DELL’ANIMA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 157 = SVF III, A. T., 49
Zenone di Cizio e Antipatro, nelle loro opere Dell’attinia … dicono
che l’anima è soffio caldo: da questo noi siamo percorsi e da questo
siamo mossi.
Scholia in Homer Illiad., XI, 115 (EUSTAZIO, p. 834, 58 segg.) = SVF
III, A. T., 50
«gli rapì il tenero petto»: per questo Aristotele e il medico
Antipatro dicono che l’anima si accresce e diminuisce col corpo. E
ciò spinse gli Stoici, e in particolare Antipatro nel libro II
dell’opera Dell’anima, a dire che l’anima cresce insieme col corpo e
poi torna a diminuire con esso172.
DEGLI ANIMALI
PLUTARCO, Aetla Physlca, 38, VI, p. 400 Bernardakis = SVF III, A.
T., 48
Perché le lupe partoriscono tutte in un periodo fisso dell’anno,
nello spazio di dodici giorni? Nel libro Degli animali, Antipatro
dice che le lupe partoriscono quando alle querce cadono i fiori,
perché dopo aver mangiato quelli si schiude loro l’utero; quando non
hanno possibilità di mangiarne, il feto muore dentro di loro e non
riesce a venire alla luce. Per tale ragione quei paesi che non
producono querce né ghiande non sono devastate dai lupi.
CHE SOLO IL BELLO è BUONO SECONDO PLATONE
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, V, 14, 97, 6, p. 390 Stàhlin = SVF
III, A. T., 56
Antipatro Stoico, avendo scritto tre libri dal titolo Che solo il
bello è buono secondo Platone173, dimostra che anche quel filosofo
riteneva che la virtù sia autosufficiente in vista della felicità;
ed espone anche diversi altri suoi principi come coerenti con quelli
degli Stoici.
DELLA CONVIVENZA CON LA DONNA
STOBEO, Eclog., IV, 20, 103, p. 539 segg. Hense = SVF III, A. T., 62
Bisogna far la prima richiesta di matrimonio, in primo luogo, non
alla leggera ma in base a ragioni serie, non guardando alla
ricchezza, né a boriosi titoli di nobiltà, né ad alcun altro vano
orpello, e nemmeno, per Zeus, alla bellezza: questa infatti è causa
in generale di superbia e di carattere prepotente; bisogna invece in
primo luogo preoccuparsi del costume e carattere del genitore, se
questi è persona civile e accorta e ben pensante, e ancora se è
saggio e giusto, inoltre se è alieno da frivolezza, e procede con
cautela174 e se offre quei requisiti che sono necessari per
acquistarsi degli amici. Quindi bisogna preoccuparsi anche dela
madre, dalla quale la futura sposa è allevata e sul cui costume, per
lo più, si modella. Dopo di ciò bisogna ancora vedere se costoro
hanno allevato la figlia in coerenza con questi loro costumi, e non
sono stati inferiori al compito allontanandosi da ciò che è
conveniente per troppo amore; e fare indagine in proposito
variamente, per mezzo di servi e di liberi, all’interno della casa e
all’esterno, per mezzo dei vicini o di altri che hanno accesso alla
famiglia, di amici che hanno rapporti con essa come convitati o in
altro modo, come macellai o come falegnami o come sarti o come
artigiani e artigiane in generale; a tutta questa gente si dà spesso
anche troppa facilità di accesso e si ha fiducia in loro e li si fa
maneggiare cose importanti al di sopra di quello che è il loro
valore.
STOBEO, Eclog., IV, 22, 25, p. 507 Hense = SVF III, A. T., 63
Il giovane di buona stirpe e di buono spirito, ben educato e portato
alla vita pubblica, vedendo che una cosa non può essere perfetta, né
può esserlo una vita, se non con una donna e con figli (imperfetta è
infatti una casa, come una città, non solo nel caso che si componga
di sole donne, ma anche di soli uomini, a quel modo che non può
esser buono il gregge in cui non avviene generazione né può esser
buona una mandria, e quindi tanto meno una casa e una città); avendo
ben compreso ciò l’uomo bennato, avendo compreso cioè che ciò che è
per natura atto alla vita cittadina deve portare accrescimento alla
patria — in nessun altro modo infatti le città potrebbero saivarsi,
se i migliori per natura fra i cittadini, figli di uomini generosi,
dissolvendosi i padri e scomparendo come le foglie di un
bell’albero, non andassero a nozze quanto il tempo sia opportuno,
per lasciare dei successori di se stessi, a mo’ di generosi
germogli, alla loro patria, e farla così sempre fiorire e
conservarle intera la sua prosperità, e non lasciarla in stato di
debolezza di fronte ai nemici, per quanto sta in loro, cercando di
difenderla e aiutarla con la loro vita e con la loro morte — ecco
che essi ritengono che tra i più cogenti doveri e primari sia quello
di unirsi in matrimonio, intesi a compiere tutto ciò che per natura
ci si addice, soprattutto poi quello che torna a salvezza e
accrescimento della patria e ancor più a onore degli dèi. E infatti,
se viene meno la stirpe, chi più potrà far sacrifici agli dèi? Forse
i lupi, o quella «stirpe dei leoni uccisori di tori»175?
Accade anche che chi non ha alcuna esperienza di matrimonio e di
figliolanza sia ignaro della più vera e schietta forma di affetto.
Le altre amicizie, gli altri affetti, somigliano a mescolanze per
giustapposizione come quelle dei legumi o altre cose del genere,
l’unione del marito e della moglie invece somiglia a una mescolanza
completa, come quella del vino quando si mescola all’acqua e
penetrandola la pervade tutta. Essi infatti hanno comunanza non solo
del patrimonio e dei figli, quei figli che sono a tutti carissimi,
ma anche, e in maniera esclusiva, dei loro stessi corpi. Tale
comunanza è la più grande anche sotto un altro aspetto. Tutte le
altre conoscono diverse forme di distrazione; «queste invece di
necessità guardano a un’anima sola»176, all’anima del marito cioè
(infatti così dicendo ci si riferisce, insieme, all’anima di un
padre e di una madre che abbiano senno), e il fine e lo scopo che si
prefiggono è uno solo, piacere a lui, dal momento che i genitori,
l’un verso l’altro spontaneamente, convengono di tributare il più
alto affetto il marito alla moglie, e la moglie al marito. Non
sconsideratamente a proposito della convivenza con la moglie anche
Euripide, guardando a tutto questo e mettendo da parte la misoginia
consueta nei suoi scritti, così ha detto: «dolcissima cosa è una
donna per il consorte nelle sventure e nelle malattie, se ben
governi la casa: essa addolcisce l’ira e libera l’anima
dall’afflizione; dolce cosa anche la seduzione degli amici»177.
La cosa ha anche un aspetto eroico; ora, in alcune città, in
concomitanza con la generale dissoluzione esistente e con l’anarchia
e con la precipitosa tendenza verso il basso, anche lo sposarsi è
diventata una cosa delle più difficili; la gente crede divina la
vita178 da celibe, che dà la più gran licenza per l’intemperanza e
il godimento di tutta una varietà di piaceri ignobili e di breve
gioia, mentre ritiene l’accedere alle nozze qualcosa come
l’introdurre in una città una guarnigione di custodia.
Verosimilmente a parecchi sembra infelice la vita coniugale per il
fatto che non sanno dominare se stessi, ma sono schiavi dei piaceri;
gli uni affascinati dalla bellezza, gli altri dalla dote,
assecondano la moglie di per sé e non le insegnano nulla circa il
governo della casa, né come la casa possa progredire, né quale sia
lo scopo della loro unione, né ingenerano in lei buone opinioni
circa gli dèi, la pietà e lo scrupolo religioso, né le fanno
presente come la dissolutezza porti alla rovina e i piaceri non
compensino, né la abituano a vigilare sulla vita presente e ad
arguire con retta opinione il futuro, e non essere ciecamente e
stoltamente piena della speranza che, se il marito così voglia,
possano realizzarsi tutti i suoi desideri, e non a contare solo
sulla presenza del marito, ma a giudicare anch’essa insieme il dove,
il come, se sia salutare, se sia giovevole in tutto e per tutto.
Poiché, se si potessero davvero compiere tutte queste cose e anche
altre contemplate e annunziate dai filosofi, la donna unita in
matrimonio apparirebbe un peso dei più dolci e lievi. E del tutto
simile a quello che può avvenire a chi, avendo una sola mano, se ne
vedesse aggiungere un’altra, o avendo un solo piede ne acquistasse
un altro dall’altra parte; così come costui potrebbe subito molto
più facilmente andare dove vuole e aver impulso a muoversi, così chi
introduca nella sua casa la moglie potrà più facilmente soddisfare
le necessità salutari e giovevoli. Invece di due occhi disporranno
insieme di quattro, invece di due mani di ancora altre due, con le
quali più facilmente compiere tutto d’un colpo l’opera che delle
mani è propria. E così se due sono inferme si potrà curarle ad opera
delle altre due, e l’insieme, duplice anziché uno, potrà meglio
assolvere a tutti i compiti della vita.
Perciò, chi crede che l’entrata della moglie nella sua casa debba
rendergli più pesante la vita ed essergli fonte di ostacoli, mi
sembra che si trovi in una situazione simile a quella di colui che
rifiutasse di acquistare più piedi per non doverne trascinare di più
quando si debba molto camminare, o che considerasse un limite
l’avere più mani, ritenendo che dal maggior numero di queste si
possa essere ostacolati neh"agire. Ugualmente, se uno acquistasse
quasi un doppio di se stesso (e qui non fa nessuna differenza che si
tratti di un uomo o di una donna), certo potrebbe compiere tutte le
azioni molto più facilmente e agevolmente. Per un uomo amante del
bene, e che desideri attendere liberamente o alla cultura, o alla
politica, o ad ambedue queste, questo è un punto assolutamente
fermo. Quanto più egli personalmente si distrae dal governo della
casa, tanto più dovrà lasciar l’amministrazione di questa a una
compagna disposta ad assumerlo e (render) se stesso179 inattaccabile
quanto alle cose necessarie. Non male il poeta comico compendia ciò
nella forma seguente:
«egli ama la vita contemplativa; però io credo debba prender moglie
/ chi è solerte e capace di governare un buon numero di persone», e
in risposta: «ma può prender moglie anche chi è alquanto trascurato,
ma desideroso / di una vita di studio, sì che possa vivere
tranquillo nell’ozio, mentre qualcuno gli governa la casa»180.
DELLA RELIGIONE
ATENEO, Deipnosoph., VIII, 346C = SVF III, A. T., 64
E perciò Antipatro di Tarso, nel IV libro dell’opera Della
religione, dice che si racconta da parte di alcuni che Gati, regina
dei Siri, era così amante del pesce da far disporre con bando che
nessuno poteva mangiarne fuorché Gati stessa; per ignoranza di ciò i
molti la chiamano Atargati181, e si astengono dal mangiar pesce.
DELL’IRA
ATENEO, Deipnosoph., XIV, 643f = SVF III, A. T., 65
Noi, quelle focacce delle quali abbiamo trascritto in nome, te le
faremo avere, non facendo come Santippe, che rideva di quella che
era stata mandata da Alcibiade a Socrate, e questi le disse: «dunque
non ne avrai alcuna parte». Racconta questa storia Antipatro, nel
libro I del suo Dell’ira.
DELLA DIFFERENZA FRA CLEANTE E CRISIPPO
PLUTARCO, De Stole, rep., 4, 1033f = SVF III, A. T., 66
E Antipatro, nell’opera Sulla differenza fra Cleante e Crisippo,
raccontava che Zenone e Cleante non vollero prendere la cittadinanza
ateniese, per non aver l’apparenza di far torto alla loro patria.
DELLE SETTE
FILODEMO, De Stoicis, pap. herc. 155/339, col. XVII, 1 segg., p. 102
DORANDI = SVF III, A. T., 67
E Antipatro, nel Delle sette, fa menzione della Repubblica di Zenone
e dell’opinione di Diogene, che questi ha avanzata nella sua
Repubblica, ammirando la loro impassibilità. Ma alcuni dicono che la
Repubblica non è del filosofo di Sinope…182.
TESTIMONIANZE SULLA DOTTRINA LOGICA
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 209, 24 segg. Kalbfleisch183
Ma Antipatro estende il nome di «proprietà essenziale» (exTÓv) fino
a coprire l’attributo comune (xoivòv au[XTCTo)[xa) delle realtà
corporee e di quelle incorporee, dandogli il significato vero e
proprio di «essenza» (TI rjv eivoct).DIOGENE LAERZIO, Vitae philos.,
VII, 55 = SVF III, A. T., 16
Corporea è la voce secondo gli Stoici, come dicono Archedemo … e
Diogene e Antipatro … tutto ciò che produce un qualche effetto è un
corpo; ma la voce produce un effetto, nel pervenire da chi la emette
a chi ascolta.
VARRONE, De lingua latina, VI, 1, p. 57 Goetz-Schòll = SVF III, A.
T., 17
In questo libro parlerà dei vocaboli che indicano i tempi e ciò che
si riferisce al fare e al dire qualcosa in un determinato momento,
come «siede», «passeggia», «parlano»; e se vi sarà qualcosa di
diverso genere che sia ad essi collegato, ci comporteremo piuttosto
con riguardo alla parentela fra le parole che non alle critiche di
chi ascolta. Ho appreso questa materia abbondantemente da Crisippo e
da Antipatro, e anche da altri che, se non hanno altrettanto acume,
sono però più colti in letteratura, fra i quali sono Aristofane e
Apollodoro184; tutti questi scrivono che le parole subiscono
declinazioni varie, si che alcune prendono altre lettere in più,
altre ne perdono, altre ne mutano.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 54 = SVF III, A. T., 18
Dicono criterio della verità la rappresentazione comprensiva…
Antipatro e Apollodoro185.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 47, 1057a = SVF III, A. T., 19
Nelle dispute contro gli Accademici, Crisippo ed Antipatro si
diedero da fare soprattutto a spiegare che non si deve né agire né
seguire Vimpulso senza assenso, mentre coloro che credono di potersi
muovere immediatamente quando sorga una rappresentazione
appropriata, senza cedere all’evidenza e senza aver dato l’assenso,
dicono fantasticherie e formulano ipotesi vane.
CICERONE, Acad. pr., 6, 17 = SVF III, A. T., 20
Ciò che noi ci accingiamo a fare nella nostra disputa contro gli
Accademici, alcuni dei filosofi, e non certo di poco conto, non
hanno creduto che sia da farsi, né che in realtà fosse in alcun modo
ragionevole discutere con gente che riteneva non si possa provare
nulla. E hanno biasimato lo stoico Antipatro, che dava grande opera
a ciò; dicendo che non c’è nessuna necessità di definire che cosa
sia la conoscenza o la percezione o, se proprio vogliamo tradurre
questa parola alla lettera, la comprensione, che essi chiamano
xaTáXr¡c¡nc;; e che quelli che vogliono convincerci che ci sia
qualcosa che possa essere percepito e compreso, agiscono non
saggiamente.
CICERONE, Acad. pr., 9, 28 = SVF III, A. T., 21
Da ciò è derivato quello che postulava Ortensio, che voi dovete
almeno ammettere che il sapiente ha questa percezione: che nulla si
può percepire. Ma ad Antipatro che postulava questa stessa cosa,
dicendo che chi afferma che nulla può esser percepibile tuttavia
doveva coerentemente ammettere di affermare almeno questo, che non
c’è nulla di percepibile, Cameade opponeva resistenza con molto
acume.
CICERONE, Acad. pr, 34, io9 = SVF III, A. T., 21
Tu ripeti una cosa che è stata spesso usata come argomento ma anche
spesso confutata, e non come Antipatro, ma, come tu dici, con più
concisione. Infatti si rimproverava ad Antipatro il suo argomentare
che chi diceva che niente può essere compreso avrebbe dovuto almeno
coerentemente ammettere che una sola cosa poteva esser compresa,
appunto questa, che non può esser compreso nulla; argomentazione che
ad Antioco186 sembrava grossolana e intrinsecamente contraddittoria.
CICERONE, Acad. pr., 47, 143 = SVF III, A. T., 25
A proposito di quella stessa questione che i dialettici trattano
nelle loro introduzioni generali, in qual modo si possa giudicare se
una cosa è vera o falsa, se vi è una connessione di giudizi di
questo tipo: «se è giorno, c’è luce», quanta è la disputa! Hanno
opinioni diverse Diodoro, Filone187, Crisippo. E che? forse Crisippo
non si discosta in molte cose dal suo maestro Cleante? e quei due
quasi prìncipi della dialettica, Antipatro e Archedemo, uomini dalla
dottrina articolatissima, non dissentono forse fra di loro di molte
cose?
ALESSANDRO DI AFRODISIA, InArist.Top., p. 8, 16 Wallies = SVF III,
A. T., 26
Quelli che Antipatro e la scuola chiamano sillogismi a una sola
premessa, in realtà non sono sillogismi, ma argomentazioni
difettose, per esempio: «è giorno, quindi c’è luce», o «tu respiri,
quindi vivi»188.
PSEUDO APULEIO, De interpretatlone, 272, p. 9, 6 segg. Goldbacher =
SVF III, A. T., 27
Non si forma un ragionamento complesso da una sola proposizione,
anche se lo stoico Antipatro, contro ropinione di tutti, ritiene che
sia ragionamento completo questo: «Tu vedi: quindi tu vivi».
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 17, 11 segg. Wallies
= SVF III, A. T., 27
Non sono sillogismi quelli chiamati dai più recenti «ragionamenti a
una premessa»… Quelli che si dicono «ragionamenti a una premessa»
sembrano in verità sillogismi in cui si enuncia solo una delle
premesse per il fatto che chi ascolta aggiunge come a lui nota la
premessa maggiore. Il ragionamento del tipo: «tu respiri, quindi
vivi» assume l’aspetto vero e proprio di un sillogismo solo se colui
che ascolta di per sé aggiunge la premessa maggiore, che è nota:
«ogni essere vivente respira».
SESTO EMPIRICO, Phyrr. Hypot., II, 167 = SVF III, A. T., 28
Se alcuni non ammettono che esistano sillogismi a una sola premessa,
costoro non sono più degni di fede di quanto non lo sia Antipatro,
il quale non rifiuta ragionamenti siffatti.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 443 = SVF III, A. T., 28
Antipatro infatti, uno tra gli uomini più famosi della setta stoica,
disse che possono esservi anche sillogismi a una sola premessa.
ARRIANO, Epici, diss., Il, 19, 2 = SVF III, A. T., 30
…ma potrebbero mantenersi i primi due enunciati, formulando i tre
assiomi in questa forma: «vi è qualcosa di possibile che non è vero
né lo sarà»; «al possibile non può conseguire l’impossibile»; «non
tutto ciò che fu vero nel passato è necessario», come sembrano aver
sostenuto Cleante e la sua scuola, ai quali nella sostanza si
accordò poi Antipatro189.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., II, 3, p. 182 Miiller = SVF III,
A. T., 31
Ora, come i sillogismi si articolano in due o tre forme modali, e
come lo facciano quelli che sono indifferentemente conclusivi
(àSioccpópcos TuepaivovTSc;) o altri simili, valendosi di una prima
e di una seconda premessa, è possibile trovarlo da parte di molti,
se si esercitino con accuratezza; come ovviamente se ne possono
trovare anche altri che hanno la loro so.uzione mediante una terza o
quarta premessa. Tuttavia, come scrisse Antipatro, la maggior parte
di essi può trovare la sua soluzione mediante una forma più concisa.
FISICA
AEZIO, Piatita, I, 27, 6, Dox. Gr., p. 322 = SVF III, A. T., 35
Lo stoico Antipatro affermò che la divinità si identifica col
fato190.
MACROBIO, Saturn., I, 17, 36 = SVF III, A. T., 36
Ci sono state molte spiegazioni di «Licio», attributo di Apollo; ma
Antipatro stoico dice che Apollo è chiamato Licio perché il sole,
diffondendo la luce, rischiara (Xeuxaivet) tutte le cose.
CICERONE, De divin., II, 15, 35 = SVF III, A. T., 39
Provo vergogna non per te … ma per Crisippo, Antipatro, Posidonio, i
quali in proposito dicono ciò che tu dicevi, che cioè nello
scegliere la vittima si è guidati da una forza sensibile di natura
divina che pervade tutto l’universo. Molto migliore peraltro è la
spiegazione che è pure data da costoro e che tu hai fatto tua: che,
quando ci si accinge a immolare una vittima, nelle viscere di questa
avviene un cambiamento, sì che qualcosa viene a mancare e
qualcos’altro resta: tutto infatti obbedisce al comando divino.
MACROBIO, Saturn., I, 17, 57 = SVF III, A. T., 46
Questa è la spiegazione naturale circa la uccisione del drago, come
scrive Antipatro stoico. L’esalazione della terra ancora umida,
passando in alto con vario impeto e poi di nuovo rivolgendosi già,
una volta riscaldata, su se stessa a modo di un mortifero serpente,
corrompeva tutte le cose con violenza mefitica, e sembrava in
qualche modo togliere la luce sua propria al sole stesso, coprendolo
con la densità della caligine: ma avendola poi questo con la divina
fiamma dei suoi raggi, come con un lancio di dardi, annientata,
inaridita, distrutta, diede luogo alla favola del drago ucciso da
Apollo.
PLUTARCO, De sollert. anim., 4, 962f = SVF III, A. T., 47
Antipatro, che ha rimproverato agli asini e alle pecore la
negligenza della pulizia, non vedo perché abbia trascurato le linci,
o le rondini.
ETICA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 84 = SVF III, A. T., 51
…Così suddividono ulteriormente (la parte etica) Crisippo e la sua
scuola … e Antipatro.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7f, pp.83-84 Wachsm. = SVF III, A. T., 52
Dicono che tutte le cose che sono secondo natura hanno valore e
tutte quelle contro natura mancano di valore. Il valore si esprime
in tre modi, la donazione, l’onore, il contraccambio di ciò ch’è
pregiato; la terza forma, che Antipatro chiama elettiva, è quella
per cui, dandosi una certa situazione, scegliamo alcune cose invece
di alcune altre, per esempio la salute piuttosto che la malattia, la
vita piuttosto che la morte, la ricchezza piuttosto che la povertà.
E allo stesso modo dicono che anche la mancanza di valore si può
esprimere in tre modi, ponendo i segni opposti a quelli della prima
definizione, che riguarda il valore.
SENECA, Epist. ad Lue, 92, 5 = SVF III, A. T., 53
Alcuni tuttavia pensano che il sommo bene possa aumentare ancora, e
che non sia completo se le circostanze fortuite siano avverse. Anche
Antipatro, fra gli autori più famosi della setta stoica, afferma di
dare un qualche valore alle cose estrinseche, tuttavia un valore
estremamente tenue. Non ti rendi conto che cosa ciò voglia dire: non
contentarsi del sole ma chiedere in aggiunta anche lo splendore di
un fuocherello?191.
SENECA, Epist. ad Lue, 87, 38 = SVF III, A. T., 54
«Dai mali non deriva alcun bene. Ora, da molte povertà nascono poi
ricchezze: queste, quindi, non sono un bene». Questo tipo di
argomentazione i nostri non la ammettono; sono i Peripatetici che ne
foggiano di questo tipo e così procedono alla conclusione. Posidonio
riferisce che Antipatro refutava questo sofisma, dibattuto per tutte
le scuole dei dialettici, nel modo seguente: «La povertà non si
definisce in modo positivo, ma in modo negativo (o per privazione,
come dicevano gli antichi: i Greci dicono xaxà (rusp7]aiv). Si
definisce non perché possiede qualcosa, ma perché non lo possiede.
Perciò da molti vuoti nulla può esser riempito: molte cose concrete
producono la ricchezza, ma non molte povertà. Tu (dice) intendi la
povertà in maniera indebita: povertà non è il possedere poche cose,
è il non possederne molte; non si definisce in base a ciò che ha, ma
a ciò che le manca». E mi esprimerei più facilmente se in latino
esistesse una parola che fosse l’equivalente esatto di àvu-7capta (=
il non esserci): è questo appellativo che Antipatro dà alla povertà.
CICERONE, De fin., III, 17, 57 = SVF III, A. T., 55
Quelli che seguirono a costoro (Crisippo, Diogene), non potendo
resistere a Cameade, dissero che quella che ho chiamata buona fama è
di per sé preferibile e da scegliersi, e che è proprio di un uomo
schietto e liberalmente educato il desiderare di avere buona fama
presso i genitori, i vicini, tutti gli uomini buoni, e ciò per la
cosa in sé, non per l’utilità che ne deriva; e dicono anche che così
come desideriamo che si provveda ai nostri figli nel caso che
qualcuno nasca dopo la nostra morte, così dobbiamo anche provvedere
alla nostra buona fama dopo la morte per la cosa in se stessa, anche
a parte l’utilità.
STOBEO, Eclog., 7, 6a, pp. 75-76 Wachsmuth = SVF III, A. T., 57
Il fine fu indicato da Zenone nella forma «vivere coerentemente»…192
Antipatro poi lo indicava nella forma: «vivere scegliendo le cose
secondo natura, respingendo le cose contro la natura» e spesso anche
così: «fare quanto sta in noi, continuamente e inflessibilmente, per
raggiungere ciò ch’è di importanza primaria (Tcporryoufievoc)
secondo natura».
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., V, 6, p. 450 Miiller193
Lasciando cadere ciò, alcuni cambiano il «vivere coerentemente alla
natura» nel «fare tutto ciò ch’è possibile in vista delle cose che
sono di importanza primaria secondo natura».
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., II, 21, 129, 2, p. 183 Stàhlin = SVF
III, A. T., 58
Antipatro, che apparteneva alla cerchia di costui (di Diogene),
ritiene che il fine sia riposto nello scegliere continuamente e
inflessibilmente le cose secondo natura, e nel respingere quelle
contro natura.
PLUTARCO, De comm. not., 27, 1072a-f = SVF III, A. T., 59
Essi pongono l’essenza del bene nella scelta ben ragionata delle
cose che sono secondo natura; non è ben ragionata quella scelta che
non avvenga in vista di qualche fine… Ma quale è questo fine? Non
altro, essi dicono, che il ragionare rettamente nelle scelte delle
cose secondo natura… La scelta ben ragionata deve vertere su cose
buone ed utili, e che contribuiscono al raggiungimento del fine;
come può esser ben ragionato l’atto di scegliere di ciò che non è
giovevole, né degno d’onore, né in linea generale da scegliersi? Sia
pure, come essi dicono, la scelta ben ragionata una scelta di quelle
cose che hanno un valore in vista della felicità. Guarda dunque come
il loro discorso giunga a una conclusione bella e nobile: sembra che
per loro il fine consista nel comportarsi secondo ragione nella
scelta delle cose che hanno valore al fine di comportarsi secondo
ragione… Dicono che non ci può essere né si può pensare alcun’altra
essenza del bene e della felicità se non questa famosissima
ragionevolezza riguardo alla scelta delle cose che hanno un valore.
Ma v’è chi crede che tutto questo si possa rimproverare ad
Antipatro, non alla setta in generale; quegli infatti, sotto il
pungolo di Cameade, si diffondeva in siffatti arzigogli verbali.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 92 = SVF III, A. T., 60
Panezio dice che due sono le virtù … quattro ne pongono Posidonio e
i suoi, e più ancora, coi loro discepoli, Cleante, Crisippo,
Antipatro194.
CICERONE, De off., Ili, 12-13, 50-54 = SVF III, A. T., 61
Ma intervengono spesso motivi … per cui, dal momento che l’utile può
sembrare in contrasto col bene, bisogna rendersi ben conto se
veramente questo contrasto ci sia o se l’utile possa andare insieme
col bene. In casi di questo genere hanno opinioni differenti Diogene
di Babilonia, stoico grande e autorevole, e il suo discepolo
Antipatro, uomo di grande acume. Antipatro ritiene che occorra
rivelare tutto, sì che il compratore non ignori mai quello che sa il
venditore…195 Replica Antipatro: «Che dici? Tu, che dovresti
provvedere al bene degli uomini e servire alla comunità, e hai ciò
per legge innata, e principi naturali, cui devi obbedire, che devi
seguire, sì che il tuo utile personale diventi vicendevolmente
l’utile comune di tutti, nasconderai ai tuoi simili cose che
tornerebbero a loro vantaggio?… Che differenza c’è fra il rifiutarsi
di mostrar la strada a chi si è smarrito — misfatto che in Atene è
colpito di pubblica infamia — e questo, tollerare che il compratore
si rovini incorrendo per errore nella peggiore frode? E ancora
peggio che il rifiutarsi di mostrare la strada: è, infatti,
l’indurre altri in errore su qualcosa che per proprio conto si
conosce».
APOLLODORO DI SELEUCIA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 39 = SVF III, A. S., 1
E anche Apollodoro detto l’Efilio196 nel I libro delle Introduzioni
ai principi (pone come prima la logica)… Apollodoro poi chiama le
tre parti della filosofia «luoghi».
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 41 = SVF III, A. S., 2
Apollodoro poneva l’etica al secondo posto.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 54 = SVF III, A. S., 2
(pongono a criterio della verità la rappresentazione comprensiva) …
Apollodoro197.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 150 = SVF III, A. S., 4
La sostanza è di natura corporea …lo dice anche Apollodoro nella
Fisica; E, come dice sempre lo stesso, è soggetta ad affezioni: se
fosse immutabile, non nascerebbero da essa le cose che invece ne
nascono. Per cui questi dice anche che esiste la divisione
all’infinito.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 140 = SVF III, A. S., 5
Dice così intorno al vuoto Crisippo … e anche Apollodoro.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 135 = SVF III, A. S., 6
Apollodoro nella Fisica dice che corpo è ciò che ha tre dimensioni,
lunghezza, larghezza, profondità. Questo si chiama anche «corpo
solido». La superficie infatti ha lunghezza e larghezza ma non
profondità… La linea è limite della superficie, 0 lunghezza senza
larghezza, oppure ciò che ha solo lunghezza. Il punto è il limite
della linea ed è segno minimo198.
STOBEO, Eclog., I, 19, 5, p. 166 Wachsmuth (= ARIO DIDIMO, Box. Gr.,
p. 46o) = SVF III, A. S., 7
Apollodoro, nel Trattato di fisica, dice che il movimento è
cambiamento di luogo, o di forma, o di parti; mentre lo stato199 è
continuità di luogo o il restare simile a se stesso. Generi primi
del movimento sono due, il lineare e il circolare; ma di questi poi
vi sono più specie. Di moti intorno a se stesso ne avvengono molti
nello stesso luogo, come il passeggiare e il correre senza uscire
dallo stesso luogo, e insieme il muoversi in direzione diritta o
obliqua o avanti e indietro, a destra o a sinistra o in tondo,
rapidamente o lentamente, come si verifica fra quelli che navigano o
si trovano in situazioni analoghe. Così come dicemmo che di ogni
corpo è parte componente un corpo, di ogni superficie una
superficie, di ogni linea una linea, di ogni luogo un luogo, di ogni
tempo un tempo, così anche il movimento si divide in movimenti e lo
stato in stati, secondo la stessa analogia200.
STOBEO, Eclog., I, 8, 42, p. 105 Wachsmuth (ARIO DIDIMO, Dox. Gr.,
p. 461) = SVF III, A. S., 8
Apollodoro nel Trattato di fisica così definisce il tempo: «il tempo
è un intervallo del movimento del cosmo201; è infinito così come si
dice essere infinito il numero: di esso infatti parte è passato,
parte presente, parte futuro. Del presente parliamo secondo una
accezione larga, così come quando, per esempio, diciamo che siamo in
un certo anno. E diciamo che il tempo esiste nel suo insieme anche
se poi nessuna delle sue parti esista veramente di per sé presa»202.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 142 = SVF III, A. S., 10
Che il cosmo sia un essere vivente e razionale e animato e pensante
… lo dice anche Apollodoro nella Fisica … essendo un animale di tal
fatta, è una sostanza animata e senziente.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 143 = SVF III, A. S.9
Si dice universo, dice Apollodoro, il cosmo, e secondo un’altra
accezione del termine l’insieme del cosmo e del vuoto esterno; il
cosmo è limitato, il vuoto infinito.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 143 = SVF III, A. S., 11
Che (il cosmo) sia uno lo dice Zenone … e Crisippo, e Apollodoro
nella Fisica.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 157 = SVF III, A. S., 12
Noi vediamo perché fra la vista e il suo oggetto si estende un
elemento intermedio a forma di cono, come dice Crisippo … e
Apollodoro203.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 84 = S VF III, A. S., 13
Così suddividono … (la parte etica) Crisippo e Apollodoro.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 102 = S VF III, A. S., 14
Dicono che indifferenti sono le cose che non giovano e non
danneggiano … come dice Ecatone, e Apollodoro nell’Etica, e
Crisippo.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 125 = SVF III, A. S., 15
Dicono che le virtù sono collegate l’una con l’altra, e chi ne ha
una le ha tutte; esse infatti hanno princìpi comuni, come dice
Crisippo … e Apollodoro all’inizio della Fisica204.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 118 = SVF III, A. S., 16
Né il sapiente si addolorerà, perché il dolore è una irrazionale
contrazione dell’anima, come dice Apollodoro nell’Etica205.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 121 = SVF III, A. S., 17
Il saggio dovrà vivere da cinico: questo modo di vita è infatti una
scorciatoia alla virtù: così dice Apollodoro nell’Etica206.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 129 = SVF III, A. S., 18
Il saggio si innamorerà dei giovani che denuncino chiaramente nel
loro aspetto una natura ben disposta alla virtù, come dicono Zenone
… e Crisippo … e Apollodoro nell’Etica.
ARCHEDEMO DI TARSO
STRABONE, Geogr., XIV, 5, 13 = SVF III, Ar. T., 1
Da questa città ebbero la loro nascita uomini della setta stoica
quali Antipatro e Archedemo ecc.
PLUTARCO, De exilio, 14, óo^b = SVF III, Ar. T., 2
L’ateniese Archedemo, trasferitosi nella terra dei Parti, lasciò a
Babilonia una scuola stoica207.
ARRIANO, Epictetl diss., II, 17, 40 = SVF III, Ar. T., 3
Non ci avvicineremo al progresso neanche di un passo se scorreremo
tutte le serie di opere di Crisippo con Antipatro e Archedemo208.
ARRIANO, Epici. Diss., Ili, 2, 13 = SVF III, Ar. T., 4
…se hai letto anche Archedemo, possiedi tutto!209.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 40 = SVF III, Ar. T., 5
…pongono prima la logica … anche Archedemo.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 55 = SVF III, Ar. T., 6
È un corpo la voce secondo gli Stoici, come dice Archedemo nel Sulla
voce … tutto ciò che produce qualche effetto è un corpo; ma la voce
produce su chi ascolta un effetto che parte da chi emette il suono.
DEMETRIO, De elocutione, 34, III, p. 269, 19 segg. Spengel = SVF
III, Ar. T., 7
Aristotele definì la frase come «l’una o l’altra parte di un
periodo»; però poi aggiunge: «esiste anche un periodo semplice»…
Riassumendo la definizione di Aristotele e l’aggiunta ad essa,
Archedemo definì più chiaramente e compiutamente così «la frase è o
un periodo semplice, o parte di un periodo composto».
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stronzata, Vili, 9, 26, 4, p. 96 Stahlin =
SVF III, Ar. T., 8
Cleante e Archedemo dicono che le espressioni predicative sono
«significati»210.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 68 = SVF III, Ar. T., 9
Dei giudizi alcuni sono semplici e alcuni non lo sono, come dicono
Crisippo e Archedemo con le loro scuole211.
ARRIANO, Epict. diss., II, 19, 9 = SVF III, Ar. T., 10
Intorno a questo (= i possibili) scrisse per suo conto Cleante, e
così Archedemo.
QUINTILIANO, Inst. Orat., Ili, 6, 31 = SVF III, Ar. T., 11
Alcuni hanno ammesso due «stati»: per esempio Archedemo parlava di
uno «stato» congetturale e di uno definitorio, escludendo quello
della qualificazione, perché riteneva che intorno a questa si
potessero porre problemi del tipo: «che cosa potrebbe essere
l’iniquo? che cosa l’ingiusto? che cosa la disubbidienza?» (il che
egli chiama «stato» proprio del medesimo e dell’altro)212.
DIOGENE LAERZIO, Vitae phllos., VII, 134 = SVF III, Ar. T., 12
Ritengono che i principi siano due, uno attivo, uno passivo… Così
anche Archedemo nel Degli elementi.
SIRIANO, In Arisi. Metaph., p. 105, 23 segg. Kroll = SVF III, Ar.
T., 13
Presso quegli uomini divini213 le idee non venivano riportate al
livello dei nomi di uso comune, come credettero poi Crisippo e
Archedemo e i più fra gli Stoici.
PLUTARCO, De comm. not., 41, io8ie = SVF III, Ar. T., 14
Archedemo, quando dice che 1’«adesso» è come una giuntura e un
incontro del passato e del futuro214, non si accorge, ritengo, di
distruggere con ciò tutto quanto il tempo. Se infatti l’attimo
presente non è tempo ma solo limite del tempo, e pur essendo tale
ogni attimo è pur sempre parte costitutiva del tempo, sarà chiaro
che il tempo nel suo insieme ma ha parti, ma si dissolve in limiti e
incontri e giunture215.
AEZIO, Plac, II, 4, 17, Dox. Gr., p. 332 = SVF III, Ar. T., 15
Archedemo affermava che la parte direttiva del cosmo sta nella
terra216.
SIMPLICIO, In Arist. de caelo, p. 512, 28 segg. Heiberg = SVF III,
Ar. T., 16
E anche possibile argomentare plausibilmente che il fuoco, e non la
terra, sta al centro del cosmo … (p. 513, 7): di questa opinione,
fra i filosofi posteriori ad Aristotele, fu Archedemo.
SENECA, Epist., 121, 1 segg. = SVF III, Ar. T., 17
Protesterai, comprendo, quando ti avrò esposto la question-cella
odierna… Ma per prima cosa ti porrò davanti altri con cui
protestare, Posidonio217 e Archedemo… Ciò che ricercavamo, è se
tutti gli esseri animati abbiano coscienza di come sono formati.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 84 = SVF III, Ar. T., 18
e così suddividono (= l’etica) Crisippo e Archedemo.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 88 = SVF III, Ar. T., 19
Archedemo (definisce il fine) «il vivere compiendo tutte quelle che
sono le cose convenienti»218.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 21, 129, 3, p. 183 Stàhlin =
SVF III, Ar. T., 20
Archedemo così definiva: «il fine è (vivere)219 scegliendo tutto ciò
che per natura è più grande e di primaria importanza (xà
xupió)T0CTa), non essendo possibile trasgredirlo».
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 73 = SVF III, Ar. T., 22
Archedemo diceva che il piacere è come i peli sotto le ascelle:
secondo natura, ma privo di valore.
BOETO DI SIDONE
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 54 = SVF III, B. S., 1
Boeto poi ammette più criteri: l’intelletto, la sensazione, la
scienza.
AEZIO, Plae., I, 7, 25, Dox. Gr., p. 303 = SVF III, B. S., 2
Boeto affermava che l’etere è dio220.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 148 = SVF III, B. S., 3
Nell’opera Della natura Boeto ritiene che essenza del divino sia la
sfera degli astri non erranti.
CICERONE, De divin., I, 7, 13 = SVF III, B. S., 4
Chi può arguire le cause dei presentimenti? anche se mi accorgo che
lo stoico Boeto lo ha tentato, spingendosi fin là per spiegare le
ragioni di quegli eventi che si verificano nel mare o nel cielo.
DIOGENE LAERZIO, Vitae phllos., VII, 149 = SVF III, B. S., 5
Dicono che tutto avviene in virtù del fato Crisippo … e Po-sidonio
…221 e Boeto nel libro I dell’opera Del fato.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 143 = SVF III, B. S., 6
Boeto però dice che il cosmo non è un essere vivente222.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 15, 76, VI, pp. 96-97
Cohn-Reiter = SVF III, B. S., 7
Boeto di Sidone e Panezio223, uomini solidamente formati ai principi
stoici, quasi ispirati da Dio, abbandonando le credenze nella
conflagrazione e nella palingenesi giunsero a una dottrina più pia,
quella dell’immortalità del cosmo… Sono Boeto e la scuola che si
valgono delle argomentazioni più credibili, come stiamo per dire.
Se, dicono, il mondo fosse generato e perituro, vorrebbe dire che
qualcosa nasce dal non essere; il che anche agli Stoici sembra cosa
del tutto assurda. Perché? Perché non è possibile trovare una causa
di distruzione, né interna né esterna, tale da causare la fine del
mondo. Esterna no, perché non vi è se non il vuoto, essendo gli
elementi divisi nell’ambito di questo per masse; interna nemmeno,
perché non vi è malattia tale che possa causare a quell’essere
divino una simile distruzione; se poi esso venisse a distruzione
senza una causa, è chiaro che la origine di questa distruzione
verrebbe dal nulla; cosa che la mente non arriva neppure a
concepire. Dicono anche che modi originari alla distruzione ce ne
sono tre: per divisione, per il venir meno della qualità prevalente,
per commistione generale. Quelle realtà che constano di elementi
separati, greggi, mandrie, cori, eserciti, e quei corpi che stanno
insieme per elementi giustapposti, si dissolvono per secessione e
divisione. Per il venir meno della qualità predominante si dissolve
invece, per esempio, la cera, cambiando forma o sciogliendosi in
modo tale da non poter più accogliere in sé l’impronta di una forma
diversa. Per commistione generale si dissolve ad esempio il
tetrafarmaco nella pratica medica: in quel caso le proprietà degli
elementi combinati insieme son venute meno per dar luogo alla genesi
di una produzione particolare. Ora, a quale di queste forme può
degnamente corrispondere la distruzione del cosmo? Forse essa
avviene per disgregazione? ma il cosmo non è certo fra quelle realtà
che constano di corpi separati, sì da potersi dividere in parti, né
di elementi giustapposti, si da potersi risolvere in essi; e nemmeno
ha una unità d’insieme allo stesso modo che i nostri corpi: questi
sono di per sé entità periture e son sopraffatti da infinite cose
capaci di portar loro danno, mentre quello ha in sé una invincibile
forza che domina il tutto con grande sovrabbondanza. Forse la
distruzione può avvenire per il venir meno della qualità prevalente?
ma anche questo è impossibile: la proprietà che consiste
nell’ordinamento rimane, secondo coloro che hanno scelto l’opinione
contraria, anche se ridotta, per via della conflagrazione, in una
sostanza minore, quella di Zeus224. O forse può avvenire per
commistione? Se lo ammetti, dovrai di nuovo accettare che la
distruzione porti al nulla. Perché? Perché, se ciascuno degli
elementi si distrugge per suo conto, dovrebbe esser suscettibile di
un cambiamento che lo faccia trapassare in altro; se invece si
ammette che tutti insieme siano distrutti nella commistione, ci
troviamo a dover supporre qualcosa che è impossibile si verifichi.
Dicono inoltre: quando tutte le cose vengono distrutte nella
conflagrazione, in quel tempo la divinità che cosa farà? in assoluto
niente? ciò non è credibile: infatti al presente essa sovraintende a
tutto l’universo e di tutto si occupa come fa un vero padre, e, se
si voglia dire la verità, regge e governa l’universo a mo’ di un
auriga o di un nocchiero, comandando al sole e alla luna e a tutti
gli astri erranti e non erranti, e all’aria e alle (altre) parti del
cosmo225, operando in vista della conservazione del tutto e del suo
governo, secondo retta e irreprensibile ragione. Una volta che
l’universo sia distrutto, essa avrà una vita impossibile a viversi
per la sua inattività assoluta; che cosa potrebbe pensarsi di più
assurdo? Oso dire ciò che non sarebbe lecito dire: che alla
divinità, data la sua inattività, deriverebbe addirittura la morte;
infatti, se tu togli all’anima il carattere di ciò che si muove
perennemente, che le è proprio, vieni con ciò a sopprimere la sua
stessa essenza; e secondo questi oppositori la divinità si
identifica con l’anima del cosmo.
AEZIO, Plac, II, 31, Dox. Gr. y p. 363 = SVF III, B. S., 8
Boeto ritiene che l’estensione del cielo sia tale nella
rappresentazione che ne abbiamo, ma non nella sua sostanza226.
AEZIO, Plac, III, 2, 7, Dox. Gr., p. 367 = SVF III, B. S., 9
Boeto ritiene che (le comete) siano una rappresentazione dovuta ad
aria infuocata.
MACROBIO, In Somn. Scip., I, 14, 19 = SVF III, B. S., 10
Platone disse che l’anima è una sostanza in perpetuo movimento…
Critolao peripatetico che è fatta del quinto elemento… Boeto di aria
e fuoco227.
SIMPLICIO, In Arist. De an., p. 247, 24 segg. Hayduck = SVF III, B.
S., 11
…perché non crediamo, come Boeto, che l’anima, come animazione di un
corpo quale è, di per sé sia immortale, ma non sopporti il
sopravvenire della morte, e quando questo sopravvenga all’essere
vivente, scacciata via, venga meno.
APPENDICE
Cfr. ancora H. v. ARNIM, SVF III, p. 210 per i pochissimi passi
relativi a Zenone di Tarso, discepolo e successore di Cri-sippo
(DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 35: «allievo di Cri-sippo, che
scrisse pochi libri ma lasciò molti discepoli»; EUSEBIO, Praep.
evang., XV, 13, 8 e SUIDA, Lexikon, s.v. ZtJVCOV ; una notizia
dell’Index Stoieorum, col. XLVIII, p. 67 Traversa «(scrisse) cinque
(libri) contro Ieronimo», certamente il peripatetico, di Rodi;
ancora due da DIOGENE LAERZIO, VII, 41 e VII, 84, sulla suddivisione
della filosofia in parti: Zenone ne accentuava il carattere
intrinseco, dicendole parti non della trattazione filosofica, ma
della filosofia in se stessa). La notizia più interessante ci viene
da Ario Didimo presso EUSEBIO, Praep. evang., XV, 18, 2: «dicono che
questo discepolo e successore di Crisippo si astenne dal
pronunziarsi circa la conflagrazione universale». Lo stesso ARNIM,
SVF III, pp. 258 e pp. 268-269, fa menzione di alcuni altri Stoici,
quali Sosigene ed Eraclide di Tarso, detti rispettivamente
«compagno» (ἑταῖρος) e «seguace» (γνώριμος) di Antipatro di Tarso,
da Alessandro di Afrodisia (De mixtìone, p. 216 Bruns) e da Diogene
Laerzio, VII, 121. Riunisce gli scarsissimi frammenti degli altri
sotto la rubrica Stoicorum incertae aetatis fragmenta; si tratta di
Basilide, Eudromo, Crinide; per il primo cfr. Sesto, Adv. log, II,
258 (Basilide apparterrebbe agli Stoici exepóSoijot, «ai quali
sembrava che non dovesse esistere alcunché di incorporeo»). Per
Crinide, autore di un’Arte dialettica, cfr. già supra, parte IV,
nota 295; e parte VI nelle citazioni di Diogene Laerzio (VII, 62,
68, 71, 76), p. 719 segg. passim. E ricordato anche da Arriano,
Epict. diss., III, 2, 15, in forma schernevole e in relazione al
modo della sua morte («va’ ora a leggere Archedemo; se poi un topo
cade facendo rumore, sei morto. Ti attende una morte come quella di
quel tale — chi era? Crinide; anche quello menava gran vanto perché
conosceva Archedemo»).
1. O di Seleucia; cfr. STRABONE, Geogr., XVI, i, 16 (SVF III, D. B.
2). Babilonia è il nome tradizionale, Seleucia Fattuale, spiega
Strabone, ma si continuano tradizionalmente a chiamare i nativi col
nome antico; «così anche il filosofo stoico Diogene».
2. Quarto nella lista degli omonimi illustri, secondo l’uso di
Diogene Laerzio. Ma il passo è inserito nella vita di Diogene di
Sinope, cinico; non abbiamo infatti in Diogene Laerzio una biografia
del nostro (il libro sulla Stoa è interrotto a metà del catalogo
delle opere di Crisippo, cfr. supra, parte IV, nota 28).
3. Si riferisce allo stoico Zenone di Tarso; cfr. K. v. FRITZ,
Real-Encycl., X A, 1972. col. 422. Le testimonianze sono raccolte in
SVF III, p. 210. EUSEBIO, Praep. evang.% XV, 13, 8, lo dice
successore di Crisippo nello scolarcato. Cfr. Appendice infra.
4. Con Mnesarco e Dardano siamo già alla media Stoa: cfr. per
Dardano v. ARNIM, Real-Encycl., IV, 2, 1901, col. 2180; per Mnesarco
v. FRITZ, Real-Encycl., XV, 2, 1932, coli. 2272-2274. Il loro è il
caso di un doppio scolarcato (cfr. CICERONE, Acad. pr., 22, 69;
«principes stoicorum»). Il più noto è Mnesarco; per la sua dottrina
sulla retorica e i suoi rapporti con la filosofia cfr. CICERONE, De
oratore, I, 18, 83; per quella sulle partizioni dell’anima in
facoltà cfr. Ps. GA-LENO, Hist. Philos., 24, Dox. Gr., p. 615). Per
questi personaggi e quelli citati nelle note seguenti cfr. anche
POHLENZ, Stoa, II, p. 91.
5. Per Apollonide di Smirne cfr. v. ARNIM, Real-Encycl. II, 1, 1895,
col. 121: è citato solo in questo luogo. Così pure Crisermo di
Alessandria (v. èRNIM, Real-Encycl., V, 1, 1903, col. 974; cfr.
anche SCHMEKEL, Philos. d. mittl. Stoa, p. 298 segg., 337 segg.).
Tracce di polemiche epicuree contro Dionisio di Cirene ci sono,
forse, nel De signis filodemo; è tuttavia difficile per ragioni
cronologiche che il «retore Demetrio» di cui qui si parla sia, come
è stato ipotizzato, l’epicureo Demetrio Lacone.
6. Antipatro di Tarso, per il quale cfr. infra.
7. Per Crisippo ν τ? Ωιδεω σχολζοντα cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 184
(citazione da Ermippo) e PLUTARCODe exilio, 605a: mentre è oscura
l’allusione al «capo Zoster»; cfr. in proposito CHERNISS, Plutarch’s
Mor., XIII, 2, p. 418, nota a. Su Crisippo e la vita contemplativa
cfr. Intr., nota 118.
8. I personaggi romani sono Rutilio Rufo, di tendenza stoica,
console nel 105 a. C, amico di Scipione Emiliano (cfr. fr. 3 Peter)
e lo storico in lingua greca Acilio, citato da DIONISIO DI
ALICARNASSO, III, 67, 5. Per Polibio cfr. Hist., XXXIII, 2; per
Cameade i frr. 23 e 95 Wisniewski (T 7a, T 7f Mette).
9. CARNEADE, fr. 29 Wisniewski, (T -jk Mette). La frase si comprende
tenendo presente quelT aspetto della dottrina di Crisippo secondo
cui nessuna forma politica è veramente tale ma tutte sono una
deviazione dalla irraggiungibile norma della sapienza; cfr. la
testimonianza di Diogeniano presso Eusebio, supra, parte IV (SVF
III, 324).
10. Fr. 16 Wisniewsky, T 5 Mette: per l’attendibilità della notizia
cfr. rispettivamente WISNIEWSKY p. 93, METTE p. 121. Seguo la
lezione del Plasberg «dialéctica».
11. Diogene materializza la teoria della πληγ? «percossa», come
origine del suono, formulata prima da Archita di Taranto (47 B 1
Diels-Kranz, da PORFIRIO, In Ptolemaei Harmonica, p. 56, 1 segg.
Dùring; TIMPANARO CARDINI, Pitagorici, II, p. 363 segg.) e poi
ripresa da Senocrate (fr. 9 Heinze = 87 Isnardi Parente, sempre da
PORFIRIO, In Ptolemaei Harm., p. 30, 1 segg. Dùring). Per la
propensione all’attribuzione a Senocrate di tutto lo scorcio teorico
contenuto nel brano di, Porfirio cfr. M. ISNARDI PARENTE, «Revue de
Philosophie de la France et de l’Étranger», CVII, 1982, pp. 293-305.
12. Integrazione del Casaubonus, per lo più accettata.
13. Voce convenzionale per indicare il linguaggio degli uccelli.
14. La stessa opera con ogni probabilità, indicata in forma
semplificata.
15. Per il seguito del discorso di Diogene Laerzio (VII, 59-60 = SVF
III, D. B. 24-25) cfr. infra, parte VI: esso fa parte di una
esposizione generale in cui non si saprebbe più dire se ci si
riferisce con precisione a Diogene di Babilonia e al suo Della voce.
16. Il parallelo di Galeno potrebbe ancor meglio applicarsi a
Crisippo, del quale evidentemente Diogene di Babilonia su questo
punto compiva una esegesi ortodossa. Così analogamente nell’opera
Atena, cfr. qui subito infra.
17. Cfr. rispettivamente 31 A 4, B 105 Diels-Kranz (supra, parte I,
nota 186) e per Crizia 88 A 23 Diels-Kranz (da ARISTOTELE, De anima,
II, 405b 5 segg.).
18. E polemica contro Epicuro, che aveva supposto la divinità di
carattere antropomorfico; cfr. lo Scolio a Ratae Sent. I
(ανθρωποειδες, o secondo una possibile congettura, νθρωποειδς
rimando a EPICURO, Opere2 p. 204, nota 1). I seguaci di Epicuro
sviluppavano questa teoria: cfr. ad esempio ERMARCO, fr. 39 Krohn
(EPICURO, Opere2 pp. 558-559).
19. Per òcTjp = Hera cfr. Cratyl., 404C; per l’assimilazione di
Atena a vou? e Siàvota Cratyl., 407K
20. Per espressioni orfiche simili a questa cfr. fr. 21 a Kern = Ps.
ARISTOTELE, De mundo,7, 401 a 25 segg.; e il passo varroniano in
AGOSTINO, De civitate Dei, VII, 9, «Iuppiter … progenitor genetrix
deum»; in generale, i frr. 20-21 Kern, indicanti la assoluta
pienezza dell’essere di Zeus, che comprende in sé tutti gli
attributi.
21. Cfr. supra, parte VI, nota 182.
22. O, ovviamente, Atena, che qui Cicerone adatta all’onomastica
latina.
23. I mitici re di Sparta, figli di Aristodemo, cui Ellanico
attribuisce la fondazione della stessa costituzione spartana (4 F
116 Jacoby); per la storia della sopravvivenza di un anno cfr.
ERODOTO, Hist., VI, 52: PAUSANIA, Descr. Gr., Ili, 1, 7.
24. Cfr. SVF II, 1192; supra, parte IV. Diogene riprendeva
evidentemente la stessa argomentazione di Crisippo sulla connessione
fra mantica ed esistenza di esseri divini.
25. Non è citazione dallo storico del V secolo Ellanico di Lesbo, ma
è scherno diretto contro il costume della citazione erudita.
26. L’episodio è narrato diversamente da PLUTARCO, Phocio, 20; per
notizie su Foco cfr. anche ivi, 38. «Colui che soprintendeva a
Munichia» allude ad Anti-patro di Macedonia, che aveva stabilito a
Munichia la guarnigione per punire Atene della sua ribellione dopo
la morte di Alessandro.
27. Il motivo è quello, diffusissimo nella storiografia e
letteratura ellenistica, della xpu^ (parola di difficile traduzione:
lusso, lussuria, ozio, sregolatezza); per il passo cfr. TEOPOMPO,
115 F 117 Jacoby.
28. Il De musica di Filodemo ha conosciuto finora le due edizioni
integrali del KEMKE, (Leipzig 1884, con congetture del Bücheler) e
del VAN KREVELEN (Amsterdam, 1939, con congetture del Kuiper) e
quelle parziali, per il libro I di G. M. RISPOLIIl primo libro del
Ilepl di Filodemo, in Ricerche sui papiri ercolanesi, I, Napoli
1968) e per il IV di A. J. NEUBECKER, Philodemus, Ueber die Musik IV
Buch, «La Scuola di Epicuro IV» (collez. di uesti diretta da M.
GIGANTE), Napoli, 1986. Per più ampi riferimenti cfr. la Einleitung
della Neubecker, pp. 13-24. Seguo fondamentalmente l’ordinamento dei
libri proposto dal Kemke, che è stata seguita dal van Krevelen
(diversamente invece ritiene sia da disporsi il materiale superstite
M. SCHèFER, Diogene als Mittelstoiker, «Philolo-gus», XCI, 1936, pp.
174-196). Per la ricostruzione d’insieme e indicazioni sul contenuto
dell’opera, oltre che per altre proposte di ricostruzioni testuali,
si può qui citare TH. GOMPERZ, Zu Philodems Büchern von der Musik,
Ein Kritischer Beitrag, Leipzig, 1885; H. KOLLER, Mimesis, p. 152
segg.; A.j. NEUBECKER, Die Bewertung der Musik bei den Stoikern und
Epikureern, Berlin, 1956, passim e in part. p. 94 segg., e oggi nel
Kommentar all’edizione sopra citata, passim;G. M. RISPOLI, Filodemo
sulla musica, «Cron. Ere», IV, 1974, pp. 57-87. Non vanno taciute le
proposte di lettura e integrazione dell’Arnim in SVF III, pp.
221-235, che, anche se spesso opinabili, sono sempre degne di
considerazione. Di quanto compreso nella raccolta dell’Arnim si
riporta qui ciò che appare più direttamente attinente all’opera di
Diogene, molto essendo piuttosto da considerarsi risposta polemica
filodemea.
29. Tralascio la prima, assai mutila parte del frammento; anche
perché questi primi frammenti riportati dall’Arnim non sono da tutti
attribuiti a Diogene di Babilonia (contraria ad esempio oggi la
RISPOLI, Ricerche, pp. 64-65 e più oltre per i seguenti; riteneva
attribuibile a Diogene invece anche la parte precedente SCHèFER,
Diogenes als Mittelstoiker, p. 179 segg.; in essa, pp. 1-3 Kemke,
sembra di leggere echi delle Leggi platoniche, II, 669b, VII, 802b).
Le integrazioni dell’Arnim sono su questo punto specifico accettate
per lo più dalla Rispoli.
30. MTJ OV Rispoli, contro il \ir\ TI dell’Arnim. Il senso del
discorso è che la musica non è in grado di produrre ciò che non è, e
che la produzione di alcunchéi discepoli e i successori di crisippo
di specifico occorre un elemento specifico; qui in questo brano
abbiamo l’inizio della polemica di Filodemo che sarà sviluppata poi
nel libro IV.
31. Letteralmente «si aggiunga o si detragga». La base di queste
letture è offerta dal Bùcheler. Testo incerto: anche qui la Rispoli
pensa, piuttosto che a Diogene, a fonte peripatetica.
32. Integr. Rispoli.
33. Damone, il musico ateniese allievo di Prodico e, secondo Diogene
Laerzio (fonte Alessandro Poliistore), maestro di Socrate; Platone
ne parla più volte (Laches, i8od; Alcib., I, n8c; Resp., III,
4oob-c); cfr. v. JAN, Real-Encycl, IV, 2, 1901, coli. 2072-2074.
L’integrazione ov xocXouatv è del Bùcheler.
34. μφοτρας è integrazione del Gomperz, contro altre proposte(τα
μοια Arnim, ad esempio). E accettata oggi dalla Rispoli.
35. · ρ(γς) è lettura dell’Arnim; (ιαιρσεων) è integrazione del
Gomperz, seguita da Arnim, Krevelen, Rispoli. La NEUBECKER,
Bewertung der Musik, p. 70, è incerta se qui si parli di Diogene; ne
dubita più apertamente la RISPOLI, Ricerche, p. 122.
36. Si parla qui di alaOrjaii; xpmxrj, e v’è da porsi il problema se
già con ciò non si anticipi quel concetto di al’(j0rjat
ÌKiGxr\y.ovixr\ che poi vedremo caratterizzare Diogene di Babilonia.
La RISPOLI, Ricerche, I, pp. 126-127, ritiene che si tratti di due
tipi diversi di sensazioni; ma non si può dire che il contesto,
nella sua obiettiva difficoltà, renda facile la soluzione della
questione. Cfr. infra, nota 41.
37. Congettura del Kuiper, seguito dal van Krevelen (επ βι(ου
διαγωγ) χρηται) mentre Kemke leggeva, e oggi la Rispoli torna a
leggere πι(βολη χρται). Un parallelo in ARISTOTELE, Polit., Vili,
i337b 23 segg., 13383 21 segg., è indicato dal VAN KREVELEN, p. 19;
cfr. in proposito NEUBECKER, Bewertung derMusik, p. 15.
38. Testo integrato dall’Arnim, ma le parole iniziali sono
integrazione della Rispoli. Per Filosseno, poeta ditirambico del
V-IV secolo a. C, cfr. P. MAAS, Real-Encycl., XX, 1, 1941, coli.
192-193.
39. Per integrazioni ulteriori cfr. RISPOLI, ad loc., ma il testo è
assai incerto.
40. της φσεως Gomperz; al quale si devono in gran parte le
integrazioni di questo brano assai mutilo, της πλεως invece Kuiper e
Krevelen. Per le origini della teoria circa il rapporto musica-ethos
dei popoli cfr. R. SCHèFKE, Arìstides QUINTIIIANUS VON DER MUSIK;
Berlin, 1937, p. 98 segg., ni segg., H. KOLLER, Mimesis, pp. 152-157
passim; NEUBECKER, Bewertung DER MUSIK, p. 76 segg.; e il commento
della RISPOLI a questi passi, Ricerche, I, p. 150 segg.
41. Si allude quasi certamente a Speusippo, del quale è nota una
teoria della sensazione che fa una distinzione fra sensazione
naturale o spontanea, ατοφυς, e sensazione «scientifica», educata e
tecnica, επιστημονικn; cfr. fr. 29 Lang = 34 Isnardi Parente, da
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 145-146. Già notato dal KEMKE, Praef.,
p. XV, l’analogia con Speusippo e la ripresa di temi speusippei da
parte di Diogene ha avuto poi ripetute trattazioni; cfr. SCHèFER,
Diogenes als Mittelstoiker, p. 192; A. GRILLI, Contributo alla
storia diΠΡΟΗΤΟΥΜΕΝΩΣ,, in Studi linguistici in onore di V. Pisani,
Brescia, 1969, pp. 409-499, in part. 483; RISPOLI, Ricerche, I, pp.
151-159, e più ampiamente La «sensazione scientifica», «Cron. Ere»,
XIII, 1983, pp. 91-101; NEUBECKER, Ueber die Musik IV Buch, p. 125.
Diogene (giacché da lui è certamente la citazione) attingeva dunque
da autori accademici oltre che, come stiamo, per vedere fra poco,
peripatetici. Filodemo polemizza contro questa concezione della
sensazione in nome di quella epicurea, che fa la sensazione sempre
λογος (DIOGENE L., X, 31).
42. Integr. Arnim, accettata poi dal Pohlenz (ΤΟ ΠΡΕΠΟΝ.E in Beitrag
zur GESCHICHTE DES GRIECHISCHEN GEISTES, «Nachr. Gotting.
Gesellschaft», 1933, pp.53-98, in part. 79 (= Kleine Schriften, I,
p. 100-139) e successivamente dagli altri editori.
43. Diverse le integrazioni (θηγν Rispoli, ma σκληρν Kemke, πικρν
Arnim). Il discorso è ripreso da Filodemo in forma più decisamente
polemica e meno descrittiva più oltre, libro IV, p. 62 segg. Kemke e
SVF III, p. 223.
44. Più ampia l’integrazione iniziale dell’Arnim, seguito dal
Krevelen; cfr. SVF III, p. 223.
45. Ricostruito nell’insieme da Gomperz e Kemke; ma τουναντον è è
letto da Arnim, Krevelen, Rispoli.
46. Il testo contiene un termine tecnico quale αποστρφεις
«rivolgere», «far passare ad altro stato», di sicura lettura.
47. Per gli stati che ammettono aumento o diminuzione [qui comunque
non indicati con termini tecnici stoici ma con quelli più generici
di μειωσις e λττω cfr. parte VI, p. 1164. Ancora ripresa polemica di
Filodemo nel libro IV, p. 65 Kemke (SVF III, p. 224).
48. Εννομος:;: si tratta quindi della musica che viene usata per le
occorrenze della vita cittadina regolata dal νμος. Forse non manca
un riferimento ai «nomi» come tipo di musica solenne e pubblica: il
gioco di parole è anche in PLATONE, Leges, IV, 7223.
49. Per l’importanza di queste osservazioni di Diogene, che mostra
di aver compreso il carattere cultuale del teatro, cfr. NEUBECKER,
Bewertung der Musik, pp. 25-29; RISPOLI, Ricerche, I, pp. 179-180.
Diogene potrebbe tuttavia aver utilizzato Aristosseno, dal momento
che troviamo paralleli analoghi in PS. PLUTARCO, De musica, 26-27;
cfr. (dopo R. WESTPHAL, Plutarchos peri mousikes, Breslau, 1865)
ZIEGLER, Plutarchos, coli. 815-816, e WEHRLI, Aristoxenos, Schule d.
Arisi., II, p. 68 segg. (KOLLER, Mimesis, p. 177 segg.; pensa ad una
fonte precedente, pitagorica).
50. Integrazione Rispoli. Per il contesto in generale cfr. ancora lo
PSEUDOPLUTARCO, 26, ii4oc-d.
51. Cfr. per questo testo (integrato dall’Arnim sulla base della
precedente ricostituzione del Kemke) il commento della RISPOLI,
Ricerche, I, pp. 178-180, con richiamo a PLATONE, Resp. Ili, 399a-b.
52χειρονομα è 1a musica che accompagna la pantomima o
gesticolazione: cfr. PLATONE, Leges, Vili, 83oc, ove è usata la
forma verbaleχειρονομεν per indicare appunto una simulazione di
pugilato. 〈ρχ〉σεις è integrazione dell’Arnim.
53. Integrazioni della Rispoli, su un testo già parzialmente
ricostituito dall’Arnim; per il commento Ricerche, I, p. 185.
54. Integrazione Rispoli; ma qui si tenta una diversa traduzione del
difficile passo.
55. Inizia qui il riferimento da parte di Filodemo di quella che
appare la parte più incisiva del testo diogeniano, relativa agli
effetti che la musica può produrre immediatamente: Orfeo (così come
più tardi, su piano storico, il flautista Ismenia) sono considerati
incitatori degli uomini all’azione in virtù di effetti prodotti
dalla melodia, teoria che Filodemo contesta nel corso della sua
polemica, sostenendo al contrario che il piacere o godimento, δον e
non la musica, è l’elemento motore. Cfr. ancora in proposito KOLLER,
Mimesis, p. 153. Per Ismenia cfr. DIODORO, XV, 71, PLUTARCO,
Pelopidas, 27-29 e Quaest. conv., II, 5, ασχρς un flautista tebano
che accompagna Pelopida in Macedonia presso il re Tolomeo Alorites.
56. Non accettabile sembra lo aiaxpas proposto dall’Arnim e accolto
dalla Rispoli («unioni turpi») come già prima dal van Krevelen,
giacché si tratta di riferimento, e non di polemica epicurea contro
l’eros.
57. Il testo è ancora assai mutilo in ARNIM, SVF III, p. 230, anche
se i due nomi di Agatone e Democrito appaiono già ricostituiti; cfr.
per l’uno, il tragico Agatone di Atene, contemporaneo di Platone, e
per Democrito di Chio, V-IV secolo, rispettivamente DIETERICH e v.
JAN in Real-Encycl., I, 1, 1894, coli. 760-762 e V, 1, 1903, col.
140. Integrazioni v. Krevelen-Kuiper.
58. MENANDRO, fr. 237 Kock (parafrasato). Per l’individuazione
dell’attore Nicandro cfr. WILAMOWITZ, «Hermes», XXXVII, 1902, p.
305.
59. Odyss. XIV, vv. 464-465.
60.Ψυχαγωγα, integrato dal Kemke. KOLLER, Mimesis, p. 152 segg.,
nota a ragione che, nonostante l’impiego presumibile da parte di
Diogene della parola gorgiana, è più fedele a Gorgia Filodemo nel
suo contrapporre all’efficacia trascinante della musica quella
superiore e autentica del discorso.
61. Letture assai diverse da un editore all’altro, in questo
luogo:(Β)ρτων Kuiper-Krevelen, (π)ρτων Arnim; la Rispoli torna allo
(?)ρτων del Kemke. Per Cameleonte cfr. WEHRLI, Sch. d. Arisi., IX,
fr. 6: il Wehrli considera la citazione proveniente non dall’opera
di Cameleonte sulla commedia antica ma dal Protreptico, opera in
cui, stando ad ATENEO, Deipnosoph., IV, 184C e XIV, 623!, si doveva
parlare del potere protreptico della musica. Il discorso è ripreso
polemicamente da Filodemo più oltre, nel libro IV, p. 83 Kemke.
62. Ricostituita dal Kemke, ma, sembra, di sicura lettura, la parola
91X0-cppocjuvT] compare qui per la prima volta in un testo relativo
alla Stoa: cfr. NEUBECKER, Bewertung der Musik, p. 56. Essa è usata
da Filodemo anche nella ripresa polemica (p. 84 Kemke).
63. Integrazioni Arnim.
64. Integrazioni, in parte, del Bùcheler. Gli esempi di Terpandro e
Stesicoro ricorrono anche in PS. PLUTARCO, De musica, 3, 1132C, in
un contesto in cui viene citato anche Eraclide Pontico (fr. 157
Wehrli); da questi li mutuava probabilmente Diogene, cfr. infra,
nota 95. La notizia circa Stesicorc di Imera può riguardare la parte
da lui avuta, secondo la tradizione, nella lotta fra Locri e Crotone
(cfr. WILAMOWITZ, Sappho und Simonides, 1912, p. 234); mentre il
nome di Terpandro è legato all’invenzione dei nomi cantati in
Sparta, pia che singole melodie una sorta di modelli musicali validi
per diverse occasioni (p. PLUTARCO, De musica, 9, ii34b, 28, ii4of;
per la prosecuzione della sua musica in Sparta nel IV secolo cfr.
PLUTARCO, Lycurgus, 28). In ogni caso, Terpandro di Antissa può
esser definito come la prima e più antica personalità musicale
greca: cfr. W. VETTER, Real-Encycl., V A 1, 1934, coli. 785-786.
65. PINDARO, fr. 109 Schròder3; per Sofocle cfr. fr. 173 Nauck2.
Testo dovuto a integrazioni proposte da Bùcheler e Usener, cfr.
KEMKE, ad loc. L’argomento viene ripreso da Filodemo più oltre,
libro IV, p. 87 Kemke, al solito in forma polemica, a conclusione
della quale Kemke, seguito pc: da v. Krevelen, legge un μυθικν στι;
accettato come coerente al linguaggio epicureo dalla NEUBECKER,
Bewertung d. Musik, pp. 60-61. Filodemo accuserebbe fondamentalmente
Diogene di ragionare per miti e non per non argomenti.
66. Non è chiaro se Filodemo riporti qui puramente e semplicemente
l’opinione di Diogene o quella di un teorico della musica cui
intende paragonarlo; ROLLER, Mimesis, p. 153, cita per la presenza
già documentata di una teoria consimile lo Ione platonico, 536K
67. La sola parola chiaramente leggibile è διαιρσεις, ma le
integrazioni del Kemke sono plausibili sulla base del confronto col
libro IV, col. XXI. Diogene doveva sostenere la struttura
logico-razionale dell’arte musicale, oltre che la potenza
psicagogica della musica stessa.
68. Secondo la lettura evtou; del Kemke, non accettata invece
dall’Arnim. Può riferirsi alla citazione, che segue, di Dicearco e
altri peripatetici, forse Eraclide Pontico, come suppone il KOLLER,
Mimesis, p. 154.
69. WEHRLI, Sch. d. Arisi., I, fr. 93 e p. 72, esprime alcuni dubbi
circa l’esatta leggibilità del nome di Dicearco; ma cfr. per
l’accettabilità della medesima NEUBECKER, Bewertung d. Musik, p. 64
nota 4; RISPOLI, Ricerche, I, p. 243.
70. Odyss., Ili, v. 267 segg.
71. Testo assai mutilo, ricostituito in parte dalla Rispoli.
72. ARCHILOCO, fr. 106 Diehl3.
73. Testo ricostituito da più interpreti, Gomperz, Brinckmann, Arnim
(diversamente Bùcheler seguito da v. Krevelen, πρας της αταξας, «e
si pone così fine al disordine» anziché πρας ες απαντς, «alla fine
in tutti», intendendo πρας; avverbialmente).
74. Integrazione Gomperz e Arnim, accettata oggi dalla Neubecker.
75. E ripresa polemica delle argomentazioni già viste nel libro I,
cfr. supra; ove Filodemo riprende il tema del parallelo fra la
musica e ogni altra attività artigianale, anche quelle considerate
più vili e meno educative. Senso del discorso è che l’attribuzione
di un valore educativo degli affetti alla musica dovrebbe portare ad
allargare pericolosamente lo stesso discorso in favore di una
analoga attribuzione alle arti banausiche.
76. Sembra di sicura lettura in base al testo della Neubecker, ad
loc. Il parallelo qui è con i retori scrittori di versi per encomi,
epitalamii ecc., ai quali Filodemo attribuisce il vero potere
psicagogico.
77. In base al principio epicureo secondo cui il sapiente eviterà di
regola le nozze: cfr. DIOGENE LAERZIO, X, 118-119 (ove si concede al
sapiente di sposarsi solo in determinate circostanze e si condanna
in ogni caso l’amplesso, più dannoso che utile). Cfr. i frr. 19, 94,
591 Us. Il sapiente epicureo non dovrà comporre nemmeno panegirici
(DIOGENE L., X, i2oa, fr. 566 Us.). Seguo per il testo,
fondamentalmente, la Neubecker.
78. E il luogo in cui abbiamo la citazione esplicita di Diogene,
altrove detto genericamente «lo Stoico», oppure indicato al plurale,
com’è uso comune negli scrittori antichi.
79. Ouaet è letto già da HOLZER, «Philologus», n. s. XX, 1907, p.
502; lezione oggi accettata dalla Neubecker contro lo «et proposto
dall’Arnim.
80. Atavota? Kemke, ripreso oggi dalla Neubecker (rcpovoias Arnim;
ma è termine troppo tecnico per essere usato in questo luogo,
trattandosi della citazione di uno Stoico).
81. Si tralascia un brano di frase intermedio, inizio mutilo della
colonna seguente; si legge solo «coloro che dicono che rilassa
l’anima e procura alacrità». La NEUBECKER, Bewertung der Musik, p.
36, ritiene che si tratti qui non della musica ma del godimento
(«più saggi son coloro che dicono che il godimento ecc.»); cfr.
Philodemus IV Buch, p. 98 (in sede di traduzione del passo).
82. Per Ismenia e Tolomeo cfr. supra, nota 55.
83. Un saggio, da parte di Diogene di Babilonia, di
razionalizzazione del mito; le integrazioni del testo sono
fondamentalmente del Kemke.
84. Integrazione Arnim, accettata dal van Krevelen ma non dalla
Neubecker.
85. Poeta ditirambico fine sec. V-prima metà IV a. C, contemporaneo
di Timoteo; cfr. WèST, Real-Encycl., Suppl. Vili, 1956, coli.
254-255. E citato anche in PS. PLUTARCO, De musica, 12, 1135c, 28,
1141a. Per l’accenno ai cori efesinie spartani cfr. KOLLER, Mimesis,
p. 153.
86. La teoria diogeniana della «virtù erotica» (assai vicina a
Platone, e denotante una notevole dipendenza dalla teoria platonica
dell’eros) viene contestata da Filodemo in base al rifiuto epicureo
dell’eros come passione perturbatrice, per cui cfr. quanto già
supra, nota 77 e altrove. In proposito cfr. NEUBECKER, Philode-mus
TV Buch, p. 148 segg. (anche per la teoria dei simposii, di
ascendenza e tradizione accademico-peripatetica).
87. Timoteo è citato con Cresso e Filosseno anche in PS. PLUTARCO,
De musica, 12. Per notizie su questa personalità musicale del IV
secolo di grande efficacia innovatrice cfr. MAAS, Real-Encycl., VI A
2, 1937, coli. 1331-1337; la notizia più importante, sia pur
generica, è quella del contemporaneo ARISTOTELE, I, 993b 15. Il suo
nome è rimasto legato all’accusa di un ammorbidimento e snervamento
della musica, cfr. SUIDA, s.v., 620, IV p. 556 Adler); di qui forse
il carattere ambiguo della testimonianza di Diogene.
88. Ibico di Reggio (VI sec. a. C.) e il più noto Anacreonte sono i
lirici tradizionalmente considerati come compromessi più a fondo con
l’erotica (da SUIDA, Lex., s.v., Ibico viene definito
eparco^ocvécrcorcos Tuept xà fxetpàxia); cfr. anche CICERONE, Tusc.
disp., IV, 33, 71.
89. Seguendo lo aXXot? dell’Arnim, accettato dal van Krevelen, non
però oggi dalla Neubecker. L’episodio di Taleta cretese, di Gortina,
ha in realtà due versio ni, PS. PLUTARCO, De musica, 12, 1135C (nel
quale si mette maggiormente in rilievo l’efficacia della musica) e
PLUTARCO, Lycurgus, 4, 2-3. Circa Taleta, personaggio del VII
secolo, preposto al culto musicale di Apollo a Gortina, cfr. VETTER,
Real-Encycl., V A 1, 1934, col. 1213; FLACELIèRE, «Rev. Et. Gr.»,
LXI, 1948, pp. 394-396. Testo ricostituito fondamentalmente da
Bùcheler-Kemke.
90. Testo mutilo; per tentativi di integrazione cfr. ARNIM, SVF III,
p. 232, e la NEUBECKER (in sede di traduzione), Philodemus IV Buch,
p. 106.
91. Integrazioni Arnim, accettate dalla Neubecker; diversamente
Bùcheler, Kemke. Il discorso viene dopo una ripresa polemica, da
parte di Filodemo, delle citazioni già sopra fatte di Stesicoro,
Terpandro, Taleta, con l’aggiunta di un accenno all’elegia di Solone
per Salamina (fr. 2 Diehl3). L’esempio di Solone (col. XX, 18-21, p.
87 Kemke, 65 Neubecker: «così come dicono che Solone, quasi preso da
follia, consigliasse con una elegia la spedizione a Salamina»)
potrebbe ancora essere, ma non è sicuro, citazione da Diogene.
92. Anche qui il testo è stabilito, in linea di massima, dal Kemke
con integra-zoni dell’Arnim: con una terminologia alquanto atipica,
si allude alla famosa divisione stoica in arcouBoctoi e 9010X01.
Cfr., a commento, NEUBECKER, p. 167, con osservazioni sul testo e
sul contenuto.
93. Cfr. già supra, nota 67; la ripresa polemica chiarisce il
contesto precedente e i lìmiti della citazione di Diogene.
94. Per i cosiddetti xptxtxot cfr. già supra, parte III, nota 91.
Filodemo contesta che occorra un’arte «critica» per valutare la
musica e polemizza contro ogni contaminazione fra razionalità e
sensazione; in proposito POHLENZ, IIPEII0N, p. 80; KOLLER, Mimesis,
pp. 204-205.
95. Anche qui la citazione di Diogene è esplicita. Era certamente
Diogene stesso a citare Eraclide Pontico e il suo Suvaycoyr) TVev
[jiouatxfj (titolo forse mutilo; cfr. WEHRLI, Sch. d. Arisi., VII,
frr. 157-163 e p. 112 segg.; per il nostro passo fr. 162, e cfr.
commento a p. 113). Questa citazione di Eraclide è importante a
completamento del quadro che Filodemo ci dà dell’opera di Diogene,
nella quale la presenza delle fonti peripatetiche sembra essere
stata di notevole importanza; cfr. ancora SCHèFER, Diogene als
Mittelstoiker, p. 193; POHLENZ, IIPE-nON. p. 79; NEUBECKER,
Bewertung der Musik, p. 67, e Philodemus IV Buch, pp. 173-174. La
citazione di Eraclide è preceduta, nel testo filodemeo, da una
relativa ad Archestrato, che il KOLLER, Mimesis, p. 154, ritiene
possa essere anch’essa, fatta risalire a Diogene; ma potrebbe
trattarsi in questo caso di una pole mica diretta di Filodemo stesso
contro questo autore e teorico della musica, al cui proposito cfr.
v. JAN, Real-Encycl., II, 1, 1895; col. 459, e DèRING, «Eranos»,
XXIX, 1931, p. 93 segg.
96. Gli Schizzi di Eraclide, per cui cfr. WEHRLI, fr. 162 e p. 112
per il titolo dell’opera. Testo fondamentalmente stabilito dal
Kemke.
97. E ancora citazione di Diogene, o è polemica di Filodemo contro
altro autore? La teoria degli dèi-inventori, che gli Epicurei
respingevano (cfr. DIOGENE DI ENOANDA, frr. 10-n Grilli, 165 Arr.2),
non si addice alla razionalizzazione naturalistica che gli Stoici
facevano del concetto del divino. Nel contesto si parla di Damone, e
potrebbe risalire a questi la teoria che fa una divinità autrice e
inventrice della musica; cfr. KOLLER, Mimesis, p. 156. Va citata in
ogni caso l’ipotesi del PHILIPPSON, s. v. Philodemos, Real-Encycl.,
XIX, 2, coli. 2458-2459 (= Studien z. Epikur, pp. 236-237) secondo
cui la teoria non apparterrebbe al Damone storico, ma al personaggio
Damone di un omonimo dialogo di Eraclide Pon-tico.
98. Seguendo il testo del Kemke r\ (contro lo fj dell’Arnim); così
anche oggi Neubecker.
99. Da segnalare almeno l’ipotesi del KOLLER, Mimesis, p. 155 segg.,
che a Diogene possa riferirsi anche la polemica che Filodemo fa (p.
100 Kemke) contro i Pitagorici sostenitori dell’armonia dei cieli,
per definire la quale essi traevano analogie sulla base del regolo
(xocvcóv) musicale o monocordo. La polemica di Filodemo potrebbe
dirigersi contro il supposto Damone di Eraclide, raccolto e
accettato dal nostro Stoico, il quale apparirebbe così, con la
mediazione di scuola peripatetica, l’erede diretto della tradizione
pitagorica in età ellenistica. In tutto questo resta però un alto
grado di ipoteticità.
100. Si ricorre ancora per questa parte dell’opera di Diogene a
SUDHAUS, Phi-loàemi volumina rhetorica, Lipsiae 1896-1 e alle
congetture dell’Arnim in SVF. Cfr. ivi, Philodemi rhet. II, p. XI
segg., per la presenza ripetuta del nome di Diogene nello
Hypomnematikón; tuttavia tracce della polemica antidiogeniana sono
anche contenute nell’ultimo e incerto libro del Della retorica, e
l’Arnim ha introdotto larghe parti di questo nella raccolta dei
frammenti, riportando in realtà in essa anche molto della risposta
polemica filodemea, che qui per lo più si tralascia. Cfr. ancora
SUDHAUS, Supplementum in Philodemi volumina rhetorica, Lipsiae,
1895, p. XXIV, con insistenza soprattutto sull’importanza delle
citazioni di Diogene nello Hypomnematikón. Diogene ha, a quanto
risulta, compiuto il rifiuto di tutta l’oratoria esistente in nome
di una oratoria ideale, quella del filosofo; questo Intr., p. 71
segg.
101. Incerto il riferimento a Diogene. Per il testo, qui l’Arnim non
si distacca dal Sudhaus. I passi che egli riporta di seguito, col
riferimento dell’episodio di Maratona, sembrano riferirsi a polemica
filodema e non riportare materiale dioge-niano.
102. Testo del Sudhaus. Il riferimento è seguito da una ripresa
polemica delle argomentazioni da parte di Filodemo.
103.γ(ε)λοον è congettura dell’Arnim, contro lo (π)?(ρχ)ον(τας)
congettura dell’Arnim, contro lo (k;)à(px)ov(m$) del Sudhaus.
104. Accetto qui il più convincente (π)ε(π)ρα(γ)ματευκσι del
Sudhaus, contro il γεγραμματευκσιdell’Arnim.
105.το (συ)μ(βαινον) Arnim, che qui si accetta; (α)μ(φιβολον)
Sudhaus; FArnim preferisce lasciar mutila la fine del passo, in
realtà scarsamente comprendibile.
106. L’ARNIM ritiene μετπτωτος è p. 237) che si possano riferire a
Diogene le parole riportate (p. 346 Sudhaus) in base alla
refutazione polemica di Filodemo (p. 346 Sudhaus). Il termine
àfxemTwco è effettivamente della più schietta tradizione stoica, e
Filodemo sembra voler cogliere in errore il suo avversarie- stoico
in base a un argomento controversistico.
107. (?)πο(φα)τικν, letto sia da Sudhaus sia da v. Arnim.
108. ρξαμνους, letto da CROENERT(Kolotes und Menedemos, Leipzig,
1906, p. 67). Il passo è riportato dall’Arnim fra le testimonianze
relative a Diogene di Babilonia, il che è peraltro incerto;
probabilmente il riferimento a Senocrate è del tutto filodemeo.
109. Cfr. SENOCRATE, fr. 37 Isnardi Parente; e commento ivi,
SENOCRATE-ERMODORO, Frammenti, Napoli (La scuola di Platone III)
1982, pp. 298-299. È un riferimento alla famosa ambasceria di
Senocrate di fronte ad Antipatro dopo la guerra lamiaca; la
testimonianza, che si adduce subito dopo, di Demetrio del Falerò è
testimonianza malevola, volta a rilevare la inabilità retorica del
filosofo Senocrate (ciò, per Filodemo, contro la pretesa diogeniana
di una retorica filosofica).
110. Fr. 158 Wehrli. Quanto all’opera, Croenert preferisce leggereν
τω πο-λιτικω, contro il, peraltro più probabile, ν τω περί ρητορικς
del Sudhaus (cfr. oggi WEHRLI, ad loc.).
111. Testo del Sudhaus. E argomentazione controversistica di
Filodemo contro il principio che solo i sapienti sono retori e che
tutte le cose che Diogene pur altrove ritiene z\ixPr\a’ ZOL) xitili
e positive, non possono che nuocere, in effetti, a chi sapiente non
è.
112. Diogene ammetteva quindi che certe proprietà naturali fossero
condizio ne per la retorica; posizione mediatoria, che Filodemo
considera del tutto contraddittoria.
113. Accetto il (συ)ναιτους Arnim, contro il meno convincente (oc)J
vatxtou? del Sudhaus.
114. Testo Sudhaus, accettato dall’Arnim a parte il finale
παραστσ(ουσιν)..
115. ‘Epupioc Sudhaus, yévo(; Arnim.
116. 9(x(úX)a(; Sudhaus dubitativamente, mentre l’Arnim preferisce
non integrare.
117. ESCHINE, Contra Ctesiphontem, 158.
118. Solo quest’ultima frase ci dà un riferimento diogeniano, il
contesto essendo refutazione filodemea.
119. Seguo l’Arnim, che riallaccia rceiGeiv al precedente àyocGà.
120. Ampia integrazione dell’Arnim, «salvatore del popolo», πεθειν
del tutto congetturale. Focione passa tradizionalmente come esempio
di oratore politico e uomo saggio (cfr. supra, nota 26).
121. Accetto il πεθειν dell’Arnim (xaptÌofxevous Sudhaus).
122. AUTV Sudhaus, contro una diversa lettura dell’Arnim.
123. Seguo qui Arnim, Αυτν contro Sudhaus βλτιον ’χομεν, contro
Sudhaus (Ισως επεν σπερ).
124. Distinzione fra il vero πολιτικς, formato alla filosofia
stoica, e il semplice retore, incapace di esser veramente politico;
per il riallacciarsi che Diogene fa, in questo, alla tradizione
platonica cfr. Intr., pp. 71-72.
125. E presumibile polemica di Filodemo (formata peraltro su un
cliché fisso) contro il principio stoico secondo cui il sapiente è
capace di compiere qualsiasi attività speciale comportante esercizio
metodico. Su questo motivo cfr. largamente infra, parte VI, p. 1229
segg.
126. Segue un mutilo xoct xou tStou. Forse riporta la convinzione di
Diogene che il vero politico non deve contrapporsi in assoluto alla
retorica ma farla sua e riscattarla per mezzo della sapienza. E
questa del resto una teoria che, al di là della retorica, investe
largamente tutto il campo delle - και του ιδου. Rimando per questo a
M. ISNARDI PARENTE, Techne, p. 351 segg.
127. è(òp0a)aei) ev Sudhaus. Testo assai incerto.
128. αφρνων γαρ πολιτεα ουκ εστν ουδ νμος è congettura dell’del
Sudhaus. Congettura di Arnim anche il seguente βασιλες.
129. Il fr. 118 Arnim è contrapposizione filodemea alle
argomentazioni stoiche che attribuiscono al sapiente l’una o l’altra
parte della esperienza e capacità politica (deliberativa,
giudiziaria) sulla scorta di altre arti, pittura, medicina e simili.
130 . >ουκ ειδεναι Arnim; συνειδναι Sudhaus.
131. y, r cpfj Arnim, contro il λγηι del Sudhaus.
132. E probabile allocuzione di Filodemo contro Diogene inteso come
avversario presente e accomunato con il peripatetico Critolao; per
l’opera di questi sulla retorica cfr. WEHRLI, Sch. d. Arisi. X, frr.
25-39 e commento pp. 70 segg.
133. ’ντευξις è parola tecnica del linguaggio retorico (cfr. per
Γντευκτικς λγος Sch. d. Arisi., IV, p. 80); στοχασμι è aggiunta
integrativa dell’ Sch. d. Arisi., IV, p. 80);στοχασμι è i è aggiunta
integrativa dell’Ar-nim. Si tratta di parole di filosofo a noi
ignoto, che Filodemo contrappone a Diogene.
134. Seguo l’integrazione dell’Arnim (ραστν … προς τον ρμενον)
contro la molto diversa del Sudhaus; lo stato del testo permette
varie congetture. Per il seguito del testo l’Arnim accetta la
ricostruzione del Sudhaus.
135. Riportato solo in parte dall’Arnim; testo del Sudhaus, a parte
il ειδεναι letto del Sudhaus a riga 23 (forse piuttosto rcóXeis).
136. Forse qui è da seguirsi Sudhaus ’ντευξις è intendendo il tutto
come nuova diretta allocuzione di Filodemo contro Diogene;
diversamente invece l’Arnim. La distinzione fra virtù 5r)fxcó5et(; e
virtù -céXetot ci riporta nell’ambito della distinzione fra
indifferenti preferibili e autentici valori, che Diogene doveva
accettare.
137. Seguo qui prevalentemente SUDHAUS, ad loc.
138. Cfr. ancora, per cptXoaóqxov, Sudhaus, contro il ’ντευξις è s,
diversamente inserito nel contesto, dell’Arnim. La ritorsione
polemica filodemea sembra chiara, e chiara è anche la conclusione
del discorso. Il nome di Diogene è ancora citato, accanto a quello
di Zenone, Cleante, Crisippo, in SVF III, D. B., 126 (p. 228
Sudhaus) nell’ambito di una conclusione filodemea abbastanza
generica.
139. In questo non aderire più alla teoria della conflagrazione
Diogene anticipa la media Stoa e in particolare Panezio (cfr. fr.
64-66 van Scraaten). Per la definizione di Diogene e Antipatro come
«pre-mediostoici» cfr. SCHèFER, Diogenes als Mittelstoiker,
«Philologus», 1936, p. 174 segg.
140. Per questa correzione del testo di Eraclito, 22 A 13
Diels-Kranz, altrimenti illeggibile, cfr. P. TANNERY, Pour Vhistoire
de la science hellène, Paris 1887, p. 168; la correzione è stata
accolta dal Diels nella raccolta dei Glossografi’ντευξις è come nei
codici dello ps. Plutarco e di Stobeo, óxxàxt (xi^l’wv); per
ulteriori precisazioni cfr. oggi M. MARCOVICH, Eraclito. Frammenti,
Firenze, 1978, gr. XIV fr. 65b, p. 242.
141. Supra, cfr. SVF I, 532. E curiosa l’assenza di Crisippo in
questa enumerazione.
142. Enopide di Chio, astronomo e matematico pitagorizzante, V
secolo; cfr. v. FRITZ, Real-Encycl., XVII, 2, 1937, coli. 2258-1572;
per questo riferimento assai generico cfr. col. 2571, ove il v.
Fritz esclude che si debba ipotizzare l’esistenza di un Enopide
stoico. Enopide considerava fuoco ed aria i soli veri elementi
(SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypot., III, 30); per la sua teoria
astronomica del «grande anno» cfr. ELIANO, Varia Historia, X, 7.
143. Integr. Fabricius.
144. Cioè Crisippo, che sosteneva la rarità assoluta del sapiente e
negava la stessa qualità di sapiente a Zenone (Intr., nota 116)
doveva trovare inadeguata la dimostrazione zenoniana.
145. Diogene contrappone a etvoci il più preciso e pregnante
Trecpuxevai; anche questo denota il suo rifarsi a espressioni e
schemi platonici (cfr. ad es. l’uso di 7uecpuxó(;, èftécpuxei in
PLATONE, Cratyl. e altrove).
146. Diogene Laerzio ci parla però di suddivisioni particolarmente
per Cleante (VII, 141 = SVF I, 482, e Intr., p. 36).
147. CRISIPPO, SVF III, 159 (supra, p. 572).
148. Epifanio, come già si è visto altre volte, è fonte di notizie
spesso inesatte e in qualche caso assurde. Cfr. ARNIM, SVF III p.
219, nota. Per altra dubbia testimonianza di autore cristiano cfr.
TEOFILO, Ad Autolycum, III, 5 = SVF I, 254 e 584.
149. Per il concetto di (ραστν … προς τον ρμενον) cfr. POHLENZ,
«Hermes», LXXIV, 1939, p. 22 segg.; e Stoa, II, p. 95.
150. Da supplire in base al paragone con Stobeo; cfr. Arnim e più
brevemente STAHLIN, ad loc.
151. Seguo la correzione Boxipuxa-cou del Meineke accettata
dalPArnim (contro il BoxtpLaaxóv dei codici accettato dal
Wachsmuth). Aóai(; è termine traslato dal linguaggio comune, nel
quale significa «contribuito, elargizione, compenso» e di qui
«prezzo, stima». Il contesto di questo passo sembra chiarire
l’appartenenza del concetto a Diogene di Babilonia. Cfr. più oltre,
parte VI, p. 1263, per il passo di Stobeo (Ecl. II, 7, n k, p. 105
Wachsm.) in cui il termine compare in un contesto esplicativo più
ampio, ma senza attribuzioni precise (la Boat? come «stima della
virtù secondo il suo valore», quindi come scienza, tale che non può
esserv posseduta da nessuno degli stolti).
152. E la divisione delle virtù per cui si veda parte VI, infra, p.
1134 segg. In ogni. caso Stobeo sembra riferirsi anche alla media
Stoa in questo contesto; a p. 63, 26 Wachsmuth troviamo la citazione
di Panezio.
153. Per le argomentazioni di Antipatro cfr. infra, p 666.
154. è forse fr. dal Ilepl’ντευξις è cfr. J. COUSIN, Quintilien,
Institution, Paris, 1975, I, ad loc. e p. 154. Non siamo informati
sul personaggio cui qui Diogene faceva riferimento.
155. Nestore di Tarso, non si sa bene se condiscepolo o discepolo di
Panezio, cfr. ZELLER, Philos. d. Gr., Ili, i4 p. 570 e A. MORDZE,
Real-Encycl., XVII, I, 1936, col. 124. I due Atenodori sono due
omonimi filosofi stoici, tarsensi entrambi, vissuti l’uno fra II e I
secolo a.C, attivo nella biblioteca di Pergamo e amico e ospite a
Roma di Catone l’Uticense, l’altro allievo di Posidonio e maestro, a
Roma, di Augusto; cfr. per entrambi le due voci dell’ARNIM,
Real-Encycl., II, 2, 1896, col. 2045.
156. La portata della polemica è chiarita dalle testimonianze
seguenti: si trattò esclusivamente di polemica affidata allo scritto
(cfr. in proposito soprattutto Numenio). Non messa particolarmente
in rilievo dal Wisniewski nella sua raccolta di frammenti di
Cameade: il nome di Antipatro fra gli avversari di Cameade manca
nell’introduzione (p. 93).
157. Per l’opera di Numenio cfr. già supra, parte I, note 71-72.
Cameade vi è rappresentato fra gli accademici «degenerati» come un
retore fazioso, ma abilissimo (cfr. l’espressione di origine
gorgiana e|)oxa-fc*rftoc). Preziosa la testimonianza su Antipatro
che chiarisce quella di Cicerone conservata in Nonio grammatico.
158. Cameade, fr. 63 Wisniewski, T id Mette. La testimonianza è di
carattere malevolo e viene da tradizione nemica. Poiché segue di
poco nel testo la cronologia della sua morte con dati biografici,
attribuita da Diogene Laerzio ad Apollo-doro di Atene (infra, nota
160), anche questo aneddoto potrebbe appartenere allo stoicheggiante
Apollodoro.
159. Per altre citazioni di Antipatro e Archedemo non
particolarmente significative cfr. anche Epict. diss., Ili, 2, 13;
III, 21, 7.
160. Per Dardano cfr. supra, nota 4. Apollodoro di Atene, famoso
grammatico, è detto da più fonti scolaro di Diogene di Babilonia;
passa poi ad Alessandria presso Aristarco di Samotracia. In
proposito PFEIFFER, Class. Scholarship, pp. 252265 (261 per
l’influenza stoica).
161. Testo stabilito dal Croenert, accettato da M. VAN STRAATEN,
Panaitìos von Rhodos, fr. 1; diversamente l’Arnim. Cfr. TRAVERSA,
Index, pp. 82-83.
162. Per il retore Diofane di Mitilene e il filosofo stoico Blossio
di Cuma, entrambi ispiratori di Tiberio Gracco nella sua azione
politica, cfr. notizie in PLUTARCO, Tiberius Gracchus, 8 e 20;
CICERONE, Brutus, 104; Laelius, 37; VALERIO MASSIMO, IV, 7, 1; e
rispettivamente MèNZER, Real-Encycl., V, 1, 1903, coli. 1048-1049:
KLEBS, ivi, III, 1, 1897, col. 571.
163. Atene; l’accenno di Ateneo a un’associazione di àvTHc’ντευξις è
si inserisce in un contesto circa l’uso dei banchetti religiosi
(tiasi, banchetti orgeonici) e filosofici. Oltre l’interesse che può
avere per noi la citazione di associazioni nell’ambito della Stoa
richiamantisi anche nella denominazione a singoli filosofi, è di non
poco rilievo vedere come Antipatro tornasse all’uso
platonico-accademico del banchetto (nel contesto del discorso di
Ateneo sono citati Teofrasto, Senocrate). Anche in questo la
filosofia di Antipatro prepara l’eclettismo platonico-stoico del la
Media Stoa. Per altre testimonianze significative riguardanti la
tradizione socratica e le figure di Socrate e Platone cfr. infra,
note 170 e 173.
164. GIGANTE, Diogene Laerzio2, p. 263, pensa che possa trattarsi
dell’avverbio.
165. Cfr. anche infra, parte VI, nota 244. Alla più semplice
definizione crisippea, Antipatro contrapponeva una formula più
complessa, in cui compaiono termini assai specifici, come quello di
à7zr\pxt, o\iivox; (da ’ντευξις è indicante delimitazione precisa
rispetto ad ogni altro possibile significato); Alessandro riconduce
il termine alla platonica misura, all’esclusione dalla definizione
del ’ντευξις è -meno», eccesso-difetto.
166. POHLENZ, Stoa, I, p. 182; II, p. 92. Cfr. già Crisippo, del
quale Antipatro continuava la polemica contro Diodoro Crono, ma, a
quanto sembra, accostandosi nei contenuti piuttosto a Cleante (cfr.
infra, nota 189).
167. E chiara polemica antiepicurea: per la concezione degli dèi
estranei non solo all’ira e alla vendetta, ma anche allo stesso
beneficio, cfr. EPICURO, Epist. ad Men., 123, Ratae Seni., I, a
parte le numerosissime testimonianze (cfr. i frr. 58 segg. Usener.
178-179 Arr.2 e EPICURO:Opere2 pp. 370-399). Plutarco qui
strumentalizza le affermazioni di Antipatro allo scopo di far cadere
Crisippo in contraddizione nella sua concezione del divino: cfr.
supra, parte IV, nota 147.
168. Fr. 94b Edelstein-Kidd, 260 Theiler.
169. Potrebbe essere un allontanamento dalla teoria crisippea col
suo recupero della nozione dell’etere, del resto già anticipato da
Zenone (parte I, note 150 e 163; parte IV, nota 114). L’aria ha in
genere una funzione inferiore e più negativa di quella qui indicata
per Antipatro, il quale ne fa la sostanza stessa del cielo.
170. Significativa testimonianza sull’importanza della figura di
Socrate e del Sat(jLÓvtov socratico per Antipatro. Cfr. per la
figura di Socrate in Cleante e così pure in Sfero, supra, parte II,
nota 37 (ma in questi due filosofi si tratta di richiami alla teoria
etica e all’importanza etico-politica di Socrate).
171. Per Antifonte supra, parte IV, nota 188.
172. Per Aristotele cfr. De an., I, 4o6a 16, II, 4i3a 4 segg., B 28;
De gen. anim., II, 734a 14; Ps. ARISTOTELE, Problemata physica, 875D
29, e in proposito H. FLASHAR, Aristoteles, Problemata Physica,
Berlin, 1975, p. 456. Il medico Antipatro, o «Antipatro medico», è
probabilmente il medico famoso di età augusteacitato più volte da
Galeno, cfr. WELLMANNReal-Encycl., I, 2, 1894, col. 2517.
173. Il tema della rivendicazione a Platone di teorie stoiche è già
anticipato, rispetto a Panezio, in Antipatro (ad esso fa riscontro,
da parte accademica, una tematica analoga, ma rovesciata, in Antioco
di Ascalona).
174. Testo integrato dallo stesso Arnim e corretto da Halm
(TtapayyeXXeTat per il tradito 7capaYYÌXXea0at).
175. SOFOCLE, Philoct., v. 400.
176. EURIPIDE, Medea, v. 247.
177. EURIPIDE, Phrixos, fr. 819 Nauck (= 822 Nauck2). Testualmente
assai incerto l’ultimo verso.
178. Emendazione Meineke.
179. 0t[xai è integr. Meineke; 7roi7)-céov integr. Arnim, mentre il
Gesner integra’ντευξις è ov (da «conservarsi»).
180. Da un comico anonimo; cfr. Adespota, fr. 119 Kock. L’interesse
di questo testo sta nell’accettazione della precettistica e delle
regale della vita sociale; esso prelude a Musonio, Ierocle ecc
181. Atargati è divinità semitica nota in Occidente col nome di «dea
syra»: cfr. PLINIO IL VECCHIO, Nat. Risi., V, 81; F. CUMONT,
Real-Encycl., II, 2, 1896, col. 1896.
182. Seguo il testo stabilito dal DORANDI in «Cron. Ere», XII, 1982,
p. 102; diverse alcune integrazioni dell’Arnim, in particolare
ocikou (di lui) per ocikcov. Per il fr. cfr. anche GIANNANTONI, V B
126 e le note 47 e 52 in Socr. Rei., Ili, p. 416, p. 483 segg., per
tutta la questione della condanna paneziana della Politela di
Diogene (cfr. anche il commento di DORANDI, «Cron. Ere», 1982, p.
123). E chiaro che l’ultima frase, letta dagli editori più recenti,
con il (pocat ttve$ ci rimanda ad altri rispetto ad Antipatro.
183. Il passo in questione non è registrato negli SVF. Per il
significato di exxóv (da e’xeiv, «avere», ma anche, in senso
intransitivo, «essere», e in rapporto con, habitus, abito o
disposizione stabile) cfr. più ampiamente infra, parte VI, nota 242.
Cfr. in proposito RIETH, Grundbegriffe St. Ethik, p. 56: la teoria
di Antipatro, che riferisce la qualità essenziale ’ντευξις è v qui
sembra usato nel senso di 7toiGTr(;) a realtà corporee e incorporee
indiscriminatamente, sembra nuova nella Stoa (per l’ammissione di
qualità incorporee inerenti agli incorporei cfr. lo stesso
SIMPLICIO, In Categ., p. 217, 32 segg. Kalbfleisch = SVF II, 389).
Il Rieth indica ancora, come probabilmente riferentesi alla stessa
teoria di Antipatro pur senza nominarla, il successivo passo in
Categ., p. 216, 9 segg. K. L’espressione Tò Tè rjv etvoci è
peripatetica, la Stoa l’aveva respinta (ALESSANDRO, In Arist. Top.
p. 42, 20 Wallies = SVF II, 228).
184. Aristofane di Bisanzio; cfr. Fragmenta, p. 269 Nauck; per
Apollodoro di Atene, 244 F 230 Jacoby.
185. Cfr. supra, Intr., p. 43.
186. Fr. 68 Luck (ma nella sezione Die Stoa und Antiochos, p. 45
segg., non si parla di Antipatro ma solo di Panezio).
187. Sulle contrapposizioni stoico-megariche a proposito
dell’implicazione cfr. MATES, Stoic Logic, pp. 42-51; e quanto già
detto supra a proposito di Crisippo. Per bibliografia ulteriore
DèRING, Megariker, p. 136 n. 4.
188. Tentativi di ricostruire ipoteticamente questi singolari
sillogismi nella loro logica intrinseca da parte di KNEALE,
Development, p. 163; FREDE, Stoische Logik, pp. 118-119.
189. Antipatro sembra esser tornato quindi ad accettare le
argomentazioni di Cleante (supra, parte II, nota 53) piuttosto che
quelle di Crisippo contro l’argomento dominatore, rifiutando la
necessità del passato, che invece Crisippo accettava identificandola
con l’irreversibilità, sotto l’aspetto logico-modale.
190. Da questa scarna testimonianza si potrebbe dedurre benvpoco
circa l’esegesi che Antipatro dovette dare della teoria crisippea
del tato. E probabile che, anche se non nominato specificamente,
Antipatro sia invece da individuarsi dietro alcune espressioni
plutarchee, per cui cfr. supra, parte IV. nota 413: Antipatro
avrebbe cercato di mettere in rilievo tutto ciò che, nel testo di
Crisippo, attenuava la funzione determinante della eifjiapptivTì
rispetto all’azione umana, insistendo sul ruolo del fato come
semplice predisposizione di condizioni, amat πλεις Cfr. l’insistenza
su questo tema, talvolta anche con congetture opinabili, di A.
SCHMEKEL, Positive Philos., I, p. 269 segg.
191. Sembra rappresentare un correttivo alla teoria tradizionale dei
TcporiYfjiéva e un avvicinamento alla teoria peripatetica dei beni
esterni.
192. Antipatro si riavvicina sostanzialmente a quella che doveva
essere la formula originaria zenoniana; il naturalismo cosmico
cleanteo e crisippeo (cfr. Intr., nota 31 e p. 64) sembra venuto
meno, o fortemente attenuato, nella sua formulazione. Emerge in
essa, invece, un concetto che sarà importante anche per Archedemo di
Tarso (SVF IH, fr. 21, cfr. infra), quello di èxXoyrj o «scelta».
193. Non figura in SVF; ma è importante per la presenza del termine
npor\-yoúfxevo?, rilevato da GRILLI, Contributo alla storia di
ILPOHrOYMENOX, p. 493 segg. che è indice di un altro avvicinamento
alla tradizione peripatetica. La formulazione, così com’è, potrebbe
adattarsi anche ad Archedemo, oltre che ad Antipatro.
194. Testimonianza in questo caso assai generica per ciò che
concerne Antipatro. Per Panezio cfr. fr. 108 Van Straaten; per
Posidonio fr. 180 EdelsteinKidd = 424 Theiler.
195. Risponde ad argomentazione di Diogene (supra, pp. 642-643).
196. Oltre H. v. ARNIM, Real-Encycl., I, 2, 1894, coli. 2894-2895,
cfr. per questo filosofo CROENERT, Kolotes und Menedemos, p. 80,
nota 395, ove sono studiate le possibili tracce della sua presenza
nella tradizione papiracea: l’indicazione più sicura resta quella
del nome in Index. Stole., coli. LII, 7, fra i discepoli di Diogene
di Babilonia. L’epiteto di «Efillo» (corrotto in alcuni testi: cfr.
ad es. il «Silum» o «Sillim» di CICERONE, De nat. deor., I, 34, 93,
e il commento del PEASE, ad loc.) è stato spiegato dal Croenert come
un soprannome che significherebbe «il guercio», «l’ammiccante».
197. Cfr. Intr., nota 72; parte I, nota 194.
198. Per questa definizione del corporeo che è di derivazione
pitagoricoplatonica, ma mal si accorda con la nozione più
tipicamente stoica della corporeità., assai più sottile e variamente
adattabile (applicabile in primo luogo a realtà quali lo pneuma o
l’anima, che non si definiscono certo in base alla
tridimensionalità) cfr. già Intr., nota 131. Forse Apollodoro ha
ridato particolare importanza alla definizione di tipo spaziale
tridimensionale, tornando anche con questo m un riavvicinamento alla
tradizione platonizzante. Sembrano di tradizione accademica anche
concetti quali quello del punto come itépoc(; della linea (per 1
Pitagorici e Speusippo in proposito cfr. SPEUSIPPO:Frammenti, p. 315
segg.) a commento di ARISTOTELE, Metaph., XIV, io9oa 5 segg. (fr. 44
Lang = 81 Isnardi Parente).
199. La parola usata è axiau;; è un uso stoico del termine (nel
linguaggio platonico si sarebbe piuttosto usato quello di axàaiq in
contrapposizione a πλεις che si rileva anche altrove, cfr. infra,
parte VI, nota 244 (per la testimonianza di Simplicio).
200. Per una divisione analoga cfr. SENOCRATE, fr. 9 Heinze, 87
Isnardi Parente, da PORFIRIO, In Ptolemaei harm., p. 30, 1 segg.
Dùring. La divisione seno-cratea segue strettamente la Sioupeats
platonica, mentre quella stoica è concepita in senso
fisico-elementaristico piuttosto che in base ad articolazione
concettuale. Ciò non toglie che questo tipo di elementarismo, se il
riferimento è esatto, sia assai singolare per uno stoico. Cfr. anche
a questo proposito Intr., p. 72.
201. Definizione in questo caso più tradizionale; la parola
Stàarrifxa appartiene alla definizione stoica del tempo, da Zenone a
Crisippo, cfr. supra, parte I, nota 146, e parte IV, nota 366, con
rimando a parte VI, nota 308.
202. Questo aspetto della definizione del tempo sembra riprendere e
cercar di approfondire la distinzione fra Ù7càpxiv e ucpeaxàvat per
cui cfr. Intr., nota 107 e parte IV, nota 119. Con terminologia
leggermente diversa, Apollodoro puntualizza la non esistenza totale
neanche del presente, che sussiste solo globalmente, mentre i
singoli attimi ci sfuggono. È del resto una conseguenza, questa, del
motivo elementaristico introdotto nella concezione del tempo.
203. Per Crisippo cfr. supra, parte IV, nota 385; Apollodoro
riprendeva quindi la teoria crisippea della visione.
204. Passo variamente emendato; si segue qui Arnim, che al posto del
xaxà TTJV àpxatav dei codici propone x.x.àpxh^- Per altre
emendazioni cfr. USENER(Kleine Schriften, III, p. 136, nota 21) il
quale suppone la caduta di un exoatv, mentre GIGANTE analogamente
suppone la caduta di un ocl’peatv, «secondo l’antica scuola» Diogene
L.2, nota 155, p. 538).
205. Strettamente zenoniana, per la teoria della πλεις
«contrazione»; cfr. supra, parte I, p. 199.
206. Qui si potrebbe pensare addirittura a un ritorno al primo
Zenone, cinizzan-te, allievo di Cratete; se Apollodoro ha in qualche
momento potuto assumere una simile posizione, essa appare
singolarmente isolata nella Stoa post-crisippea. Forse anche
Apollodoro, come altri, proponeva un ideale massimo e uno minimo, un
modello di comportamento rigoroso ed uno socialmente più duttile ed
adattabile.
207. Per il contrasto fra le due notizie, di Strabone e di Plutarco,
fra le quali la povertà dei dati in nostro possesso non ci concede
scelta, cfr. v. ARNIM, Real-Encycl, II, 1, 1895, C °U. 439-440.
208. Cfr. anche ivi, II, 4, n.
209. Cfr. anche ivi, III, 21, 7. Senza offrirci nessuna
testimonianza su Archedemo, i passi di Epitteto ci dicono che le sue
opere si ricordavano ancora e si leggevano nel I sec. d. C. accanto
a quelle di Crisippo.
210. In contrapposizione ad altri stoici (Crisippo?) che li
definiscono Xexxà eXXwcfi, «significati incompleti»; cfr. per questo
DIOGENE LAERZIO, VII, 63; SESTO E., Adv. log., II, 11.
211. Posto qui in particolare evidenza da Diogene o meglio dalla sua
fonte, Archedemo sembra qui esser considerato almeno uno dei
principali continuatori di Crisippo quanto ad elaborazione logica
della teoria del giudizio.
212. Fa parte di una disquisizione sul linguaggio tecnico
processuale. L’identificazione dell’Archedemo ivi citato con il
nostro filosofo (del quale peraltro non abbiamo altre attestazioni
di interesse per questioni di ordine giudiziario) trova accoglienza
nel POHLENZ, Stoa, I, p. 184; II, p. 93.
213. Cfr. già supra, parte IV, note 332-333.
214. Anche Archedemo si avvicina alì’elementarismo senocrateo con
questa concezione del vuv; cfr. il già citato fr. 9 Heinze (87 I.P.)
di Senocrate, per cui supra, nota 200. Anche per Senocrate il vuv,
l’«adesso», l’attimo presente, è in certo senso fuori dello scorrere
del tempo, in quanto «limite», opo$, fra le due estensioni del tempo
passato e del tempo futuro.
215. Per il testo cfr. CHERNISS, Plut. Mor., XIII, 2, ad loc.: lo
όρμήν dell’inizio come lo όρμάς della conclusione sono corruzione
assai probabile di άρμήν, άρμάς.
216. Cfr. supra, parte IV, nota 373; passo che questa attribuzione
della teoria ad Archedemo chiarisce. POHLENZ, Stoa, II, p. 94, pensa
ad una analogia col cuore nel corpo umano. Incerta invece la
testimonianza seguente, di Simplicio, che potrebbe essere una
confusione della teoria di Archedemo con quella filolaica del «fuoco
centrale», il fuoco cosmico invisibile al centro dell’universo (ma
di un fuoco al centro della terra, secondo Filolao, si ha
testimonianza attraverso la tradizione dossografica, cfr. AEZIO,
Plac, II, 7, 7, 44 A 16 Diels-Kranz; per tutte le questioni in
proposito cfr. M. TIMPANARO CARDINI, Pitagorici, II, p. 149 segg.).
217. Cfr. Τ 82 Edelstein-Kidd = fr. 444 Theiler. E assai difficile,
per non dire impossibile, valutare la portata della citazione di
Archedemo in un contesto che il Theiler considera di derivazione del
tutto posidoniana.
218. Cfr. POHLENZ, Grundfragen, p. 62, nota i, e Stoa, II, p. 96; il
quale richiama in proposito Cicerone, De fin., IV, 15 «officia media
omnia aut pleraque servantem vivere». Anche in questa definizione
del fine il naturalismo cosmico sembra caduto per far posto ad un
eticismo più marcato, con richiamo alla teoria del xaOfjxov.
219. Per il concetto di πλεις cfr. già supra, nota 192; la
definizione del fine resa da Cleante, diversa da quella resa da
Diogene Laerzio, suona più vicina a quella data da Antipatro di
Tarso.
220. Combinata con la notizia data da Diogene Laerzio, VII, 143 (per
cui cfr. infrat nota 222), sembra attestare un sensibile ritorno
all’aristotelismo; cfr. in proposito v. ARNIM, Real-Encycl., III, 1,
1897,co- 601-603. Boeto sarebbe sostenitore della divinità della
sola parte superiore e celeste del cosmo; cfr. anche, infra, nota
227, la sua concezione materialistica dell’anima come composta di
fuoco e aria, e distinta dall’etere-elemento divino, riservato al
cielo delle stelle fisse.
221. Fr. 25 Edelstein-Kidd = 381 Theiler.
222. Cfr. già supra, nota 220; in virtù della testimonianza di
Diogene possiamo identificare Boeto di Sidone stoico (e non
l’omonimo peripatetico) nel filosofo indicato dalla dossografia come
sostenitore della sola divinità del cielo. Questo rappresenta
indubbiamente una rottura decisa con la fisica stoica tradizionale.
223. Fr. 65 Van Straaten.
224. Cioè il fuoco cosmico in cui tutti gli elementi si risolvono,
teoria esaltata da Crisippo, cfr. supra, parte IV, pp. 505 segg.
Testo non del tutto certo, emendato dal Cohn.
225. Integrazione Cumont.
226. E indicazione di interessi scientifici di tipo astronomico,
insieme con il frammento seguente; anche questo è tratto nuovo
rispetto alla Stoa antica.
227. Lo àsixtvTrcov attribuito a Platone è interessante
testimonianza sul passo Phaedr., 2450., in cui parte della critica
moderna vorrebbe leggere auToxtvTjtov (cfr. in proposito uno status
quaestionis in ZELLER-MONDOLFO, La filosofia dei Greci nel suo
sviluppo storico, II, 3, a cura di M. ISNARDI PARENTE, Firenze,
1974, pp. 371-372). Per Critolao peripatetico cfr. fr. 18 Wehrli, e
WEHRLI, Schule d. Arist., X, p. 67 per il commento volto a
sottolineare le possibili analogie col giovane Aristotele del Ilepl
(piXoaocpta(;. Boeto riserva, come abbiam visto, la composizione
eterea al cielo superiore, e ritiene l’anima formata di un misto di
fuoco ed aria. Incerto che cosa dobbiamo intendere con «fuoco»: se
si tratta del 7top xzyy\.*.òv, è pur sempre fuoco di tipo superiore,
quindi fuoco etereo; e in questo caso Boeto si limiterebbe a negare
all’anima una composizione di solo e puro fuoco etereo, associando
questo ad un elemento comune e perituro, l’aria. In ogni caso, Boeto
poteva trovare addentellati nella non lineare teoria psichica dei
predecessori (cfr., per la teoria del «raffreddamento» iniziale che
produce la concrezione dell’anima, infra, parte VI, nota 524).
PARTE VI
TESTIMONIANZE SULLA STOA
ANTICA IN GENERALE
PRELIMINARI
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 38-40 = SVF II, 37, 38,
41, 43
In questa Vita di Zenone mi è sembrato bene di esporre nell’insieme
per sommi capi tutta la filosofia stoica… Le opinioni comuni a tutti
gli Stoici sono le seguenti, che esporremo col sistema già usato per
gli altri filosofi. Dicono che la trattazione della filosofia si può
dividere in tre parti: e una di queste è la fisica, una l’etica,
un’altra la logica. Per primo fece questa tripartizione Zenone di
Cizio, nel suo Del ragionamento; la seguirono poi Crisippo, nel
primo libro dell’opera anch’essa intitolata Del ragionamento, e nel
primo libro della Fisica; e Apollodoro Efillo1 nel primo libro della
Introduzione ai principi, ed Eudromo negli Elementi di etica2 e
Diogene di Babilonia e Posidonio. Apollodoro chiama queste parti
«luoghi», invece Crisippo ed Eudromo le chiamano «specie»; altri
ancora «generi».
Gli Stoici paragonano la filosofia a un essere vivente, facendo
corrispondere alle ossa e ai nervi la logica, alle parti carnose
l’etica, all’anima la fisica. Oppure anche a un uovo: di cui il
guscio corrisponde alla logica, la chiara all’etica, il tuorlo alla
fisica. O anche a un campo fertile: la siepe disposta tutt’intorno
corrisponde alla logica, il frutto all’etica, il terreno e le piante
alla fisica. O, infine, anche a una città ben cinta di mura e
governata secondo ragione. E nessuna parte è separata dall’altra,
come dicono in particolare alcuni di loro, ma sono reciprocamente
commiste; e per questa ragione ne hanno dato poi una trattazione
congiunta.3
Vi sono di quelli che dànno il primo posto alla logica, il secondo
alla fisica, il terzo all’etica; tra questi è Zenone nel libro Del
ragionamento, e così pure Crisippo, Archedemo, Eudromo. Invece
Diogene di Tolemaide4 comincia dall’etica; Apollodoro pone l’etica
al secondo posto; Panezio e Posidonio pongono in primo luogo la
fisica, a quanto dice Fania, discepolo di Posidonio, nel libro I
delle Lezioni di Posidonio5 Cleante poi fissa sei parti distinte:
dialettica, retorica, etica, politica, fisica, teologia. Secondo
altri, per esempio Zenone di Tarso, questa tripartizione non si
riferisce semplicemente alla trattazione della filosofia, ma alla
filosofia stessa di per sé presa.6
AEZIO, Placita, Prooem., 2, Dox. Gr., p. 273 = SVF II, 35
Gli Stoici dicevano che la sapienza è scienza delle cose divine e
umane, e la filosofia è esercizio di un’arte opportuna; opportuna è
la virtù, che è una e suprema, e virtù originarie sono tre, la
fisica, l’etica, la logica. Per questa ragione anche la filosofia è
triplice, e le sue parti sono appunto la fisica, l’etica, la logica:
si ha la prima quando indaghiamo circa il cosmo e le cose che sono
in esso, l’etica quando ci dedichiamo a studiare i fatti della vita
umana, la logica quando ci diamo allo studio del ragionamento
(λόγος), e questo viene chiamato anche dialettica.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 13 = SVF II, 36
Dicono che la filosofia è una applicazione della sapienza, e la
sapienza è la scienza delle cose divine e umane.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 16 = SVF II, 38
…come quelli che dicono che la filosofia si divide in tre parti,
fisica, etica, logica… Fanno questo nella maniera più esplicita
Senocrate e la sua scuola, e quelli del Peripato; si attengono poi a
questa suddivisione anche gli Stoici7. Di conseguenza, valendosi di
immagini verosimili, paragonano la filosofia a un campo fertile,
simboleggiando poi la fisica con l’altezza degli alberi, l’etica col
sapore dei frutti, la logica con la solidità delle siepi. Ma vi sono
altri che la paragonano con un uovo raffigurando col tuorlo l’etica,
che secondo alcuni si identifica addirittura con il pulcino, con la
chiara la fisica che ritengono esser nutrimento al tuorlo, col
guscio esterno la logica (però Posidonio, affermando che le parti
della filosofia sono inseparabili l’una dall’altra, respinge il
paragone perché le piante son diverse dalla frutta e le siepi dalle
piante, e preferisce paragonare la filosofia a un essere vivente,
per cui la fisica corrisponde al sangue e alla carne, la logica alle
ossa e ai nervi, l’etica all’anima8.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 22 = SVF II, 44
Anche gli Stoici ritengono che si debba cominciare con la logica, e
che seconda venga l’etica, e per ultima pongono la fisica. Ciò
perché dapprima il pensiero deve assicurarsi un possesso delle
dottrine apprese che non sia passibile di rovesciamento, e ciò che
rafforza il pensiero è l’esercizio della dialettica; successivamente
la dottrina etica deve prescrivere il miglioramento dei costumi, e
tale insegnamento si impartisce con maggior solidità se si possa
presupporre la capacità di argomentare; da ultimo va impartito
l’insegnamento della fisica, ch’è più divina e ha bisogno di un più
solido fondamento.
1. Cfr. parte IV, nota 16. Errata la lezione καὶ Σύλλος accolta dal
Long nella sua edizione, ad loc.
2. Cfr. parte IV, nota 41.
3. Posizione forse di Posidonio; cfr. SESTO EMPIRICO, Adv.
log., I, 16.
4. Di età sconosciuta, noto solo per questa citazione (cfr.
ARNIM, Real-Encycl., V, 1, 1903, col. 777).
5. Discepolo di Posidonio; altra testimonianza in Sesto Empirico,
Adv. log., I, 20. Cfr. H. J. METTE, Real-Encycl., XIX, 2, 1938,
coll. 1774-1775.
6. Si tratta del problema se la partizione abbia significato e
valore puramente didattico, oppure sostanziale. Per Zenone di Tarso
cfr. parte IV, nota 16, e Appendice alla parte V. Cfr. inoltre
EPITTETO, Man., 52 = fr. 26 Hülser.
7. Per Senocrate cfr. Intr., nota 5. Altra attestazione della teoria
con riferimento eplicito agli Stoici in SESTO EMPIRICO, Pyrrh.
Hypot, II, 12 segg. = fr. 17 Hülser.
8. In proposito anche FILONE ALESSANDRINO, De agricult., 14, II, p.
97 Wendland e De mutatione nominum, 74, III, p. 170 Cohn, nonché
ORIGENE, In Matthaeum, p. 603 Klostermann = SVF II,
39-40. Hülser (fr. 348) fa riferimento anche a CICERONE,
De fin., III, 22, 74.
LOGICA
PRINCIPI GENERALI
GALENO, De libris propriis, II, XIX, p. 40 Kühn = SVF II, 46
Dico che sono grandissime le differenze fra i sistemi logici dei
vari filosofi, Peripatetici, Stoici, Platonici: e ciascuna setta poi
ha ancora differenze intrinseche: non molta la differenza fra le
varie teorie dei Peripatetici, ma grande quella fra le varie teorie
degli Stoici e dei Platonici.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 41-42 = SVF II, 48
Alcuni di loro dicono che la logica si divide in due parti, la
retorica e la dialettica; altri aggiungono anche il genere
definitorio ‹e› quello di fornire criteri e canoni1; altri invece
eliminano da essa il genere definitorio. La ricerca circa i criteri
e i canoni è allo scopo di scoprire la verità: per mezzo di essa si
arrivano a correggere le discordanze delle rappresentazioni. E la
ricerca sulle definizioni serve ugualmente in vista della conoscenza
della verità: si comprendono infatti le cose per mezzo delle
nozioni.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 83 = SVF II, 130
Questa è la dottrina logica degli Stoici: vogliono con essa
dimostrare che il sapiente è sempre un dialettico. Dicono che tutte
le cose si comprendono in base alla teoria logica; sia quelle
pertinenti alla fisica sia quelle pertinenti all’etica (e che dire
poi di quelle pertinenti alla logica stessa?) né si potrebbe dire
alcunché circa l’esattezza dei termini, né circa le prescrizioni che
le leggi impongono agli uomini2. Due settori cadono sotto il domino
della logica, quello circa l’essenza di una cosa e quello circa il
suo venir chiamata in un certo modo. Così essi trattano la logica.
AMMONIO, In Arist. Anal. pr., p. 8, 20-10 Wallies = SVF II, 49
Gli Stoici non solo non ritengono che la logica non debba esser
detta strumento della filosofia, ma nemmeno che si tratti di una sua
qualsiasi ripartizione: la considerano proprio parte costitutiva…
Gli Stoici dunque dicono che la filosofia genera la logica, e che
questa ne è parte costitutiva. E fanno diversi altri ragionamenti di
bassa lega per dimostrare, a quanto almeno essi credono, che la
logica è parte costitutiva della filosofia. Lasciamo stare molti di
questi, e parliamo di quello che essi ritengono essere il più
costruttivo e il più acuto. Così argomentano: se un’arte si vale di
qualcosa che non risulta esser parte o articolazione di alcuna altra
arte, è certo che questo è o parte o articolazione di quell’arte
stessa. Della chirurgia, ad esempio, si vale la medicina, e dal
momento che nessuna altra arte se non questa se ne vale come di una
sua parte o sua articolazione, non si può dire, evidentemente, che
la chirurgia sia strumento della medicina. Ma allo stesso modo,
dicono3, la filosofia si vale della logica, ‹che non è parte né
articolazione›4 di alcuna altra arte; ‹quindi la logica non è
strumento› della filosofia, ma ne è parte o articolazione. Se
qualcuno volesse sostenere che anche altre arti si valgono della
logica, per esempio che anche la medicina si vale di sillogismi e
che se ne valgono tutte le altre arti, risponderemo che se ne
valgono sì, ma che non riflettono specificamente sul loro metodo e
non si occupano di questo in maniera primaria: il medico non si
occupa primariamente e specificamente del metodo sillogistico, né
potresti dire che tale metodo faccia parte integrante o comunque sia
un’articolazione della scienza medica; egli lo usa per quanto gli
può essere utile per la dimostrazione dei princìpi della medicina, e
quindi prende dal dialettico ciò che gli serve a scopi strumentali,
mentre il filosofo, al contrario, fa soprattutto di tale metodo
l’oggetto della sua competenza. In questo modo gli Stoici
dimostrano, o credono piuttosto di dimostrare, che la logica non è
strumento. Poi successivamente dimostrano che non è una semplice
articolazione, ma una delle parti costitutive. Dicono che delle tre
articolazioni della parte pratica la materia sono i fatti umani, il
fine è la felicità della vita umana, quella che poi il politico si
sforza di conseguire; e delle articolazioni della parte teoretica,
materia sono le cose di ordine divino, fine la felicità
contemplativa; mentre la trattazione logica non ha né la stessa
materia né lo stesso fine: materia di essa sono i discorsi, fine la
conoscenza dei metodi di dimostrazione; e in essa tutto quanto
concorre allo scopo di dimostrare scientificamente. Perciò essa non
può essere posta come suddivisione di alcuna altra parte della
filosofia: nel caso che verta su cose umane e divine — ci valiamo di
essa disputando intorno alle une e alle altre — non verte solo
intorno alle prime, come le articolazioni della parte pratica, né
alle seconde, come le articolazioni della parte teoretica; non è
perciò una ulteriore articolazione, ma una vera e propria parte
della filosofia5.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 1, 9 segg. Wallies =
SVF II, 49a
Quelli che dicono che la logica è una parte costitutiva della
filosofia fanno riferimento a questo, al fatto che, così come per
quelle altre che sono generalmente riconosciute come sue parti da
tutti, la filosofia assolve al suo compito studiandone l’invenzione,
la disposizione, la composizione, e così fa anche nei riguardi di
tale forma di trattazione; giacché essa non deriva da alcuna delle
altre due parti della filosofia, né è una suddivisione di queste, né
della parte teoretica né dalla parte pratica; altro è l’oggetto suo
proprio riguardo all’oggetto di entrambe e diverso è ciò che
ciascuna si propone. Cosi come le altre due parti della filosofia,
differenziandosi l’una dall’altra, si contrappongono
nell’articolazione, anche questa forma metodica si articola del
tutto diversamente nei loro riguardi, e ciò è evidente, dal momento
che ne differisce sostanzialmente. Oggetto di questa sono i giudizi
e le premesse, quindi essa si differenzia dalle altre per il suo
oggetto; ma anche per il suo fine e il suo intento: suo intento è
infatti, mediante una certa connessione delle premesse, dedurre
necessariamente e dimostrare una certa verità in base a princìpi
posti e riconosciuti; e questo non è il fine di nessuna delle altre
due.
TEORIA DEL CONOSCERE
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 45-54 = SVF II, 52, 53, 55, 60,
61, 71, 84, 87, 105
La rappresentazione è un’impressione nell’anima, che prende a
prestito il suo nome dal termine usato propriamente per le impronte
che un sigillo produce sulla cera. La rappresentazione può essere di
due tipi, uno comprensivo e uno non comprensivo. La rappresentazione
comprensiva, che essi dicono criterio della verità delle cose, è
quella che si verifica in base a qualcosa che effettivamente esiste,
e che è impressa e stampigliata nell’anima secondo la forma di
questo esistente. Quella non comprensiva è invece quella che si
verifica in base a qualcosa di non esistente, oppure in base a
qualcosa di esistente, ma non riproducendo esattamente la forma di
questo; per cui non è chiara né precisa. Dicono che la dialettica è
necessaria6 ed è una virtù che racchiude più virtù nella sua
specie; la tempestività, che è la scienza del quando occorra dare
l’assenso o non darlo; la cautela, che è forza della ragione contro
il troppo facile cedere alla verosimiglianza; l’inconfutabilità, che
è forza nel ragionamento, allo scopo di non lasciarsi sviare da
questo nel suo contrario; la ponderatezza, che è disposizione a
ricondurre le rappresentazioni alla retta ragione; infine la scienza
vera e propria, che è comprensione sicura o disposizione
nell’accoglimento7 delle rappresentazioni che non si lascia
fuorviare dal ragionamento. Nessun sapiente potrebbe esser
irreprensibile nel suo ragionamento senza lo studio della
dialettica: è per mezzo di questa che si distinguono fra loro il
vero e il falso e il credibile e si può rettamente giudicare di ciò
che è espresso con ambiguità; né senza di essa è possibile
l’interrogare e il rispondere metodicamente.
Essi dicono inoltre che la precipitazione nelle affermazioni si
estende anche al piano pratico, si che quelli che hanno
rappresentazioni non ben esercitate cadono nell’incompostezza e
nell’irriflessività. Non in altro modo il sapiente potrà dimostrarsi
acuto e pronto d’ingegno e assolutamente abile nell’argomentare; del
sapiente è infatti proprio il saper discutere e ragionare
rettamente, e argomentare intorno alle questioni proposte e
rispondere alle interrogazioni, tutte cose che richiedono di essere
ben esperti di dialettica.
Questi, esposti in sintesi, sono i loro principi di logica; diciamo
anche qualcosa più in particolare, e riportiamo quanto è esposto nel
loro Trattato introduttivo8 così come è citato alla lettera da
Diocle di Magnesia nella Successione dei filosofi; egli dice così:
«Gli Stoici sono d’accordo nel far precedere la trattazione che
riguarda le rappresentazioni e la sensazione, in quanto il criterio
mediante il quale si distingue la verità delle cose è secondo il suo
genere una rappresentazione, e in quanto la trattazione dell’assenso
e quella circa la comprensione o l’intellezione, che procede, tutte
le altre, non si può compiere se non presupponendo quella delle
rappresentazioni. Prima nell’ordine viene infatti la
rappresentazione; poi segue il pensiero che, essendo di natura
discorsiva, ciò che subisce per opera della rappresentazione traduce
in discorso.
La rappresentazione è differente dalla immaginazione: questa è una
credenza del pensiero quale si verifica nei sogni; invece la
rappresentazione è una impressione nell’anima cioè una modificazione
di questa, come afferma Crisippo nel libro II del suo Dell’anima. Né
impressione va inteso nel senso di una impronta di sigillo, giacché
sarebbe impossibile in questo caso che molte impronte potessero
insieme verificarsi nello stesso luogo. Per rappresentazione si
intende quella che si forma ed è impressa e stampigliata nell’anima
in base a qualche cosa di esistente, ed è quale non potrebbe
verificarsi in base a qualcosa di non esistente. Delle
rappresentazioni, per loro, alcune sono sensibili e altre no:
sensibili sono quelle che si colgono attraverso l’organo e gli
organi sensori, non sensibili quelle che si formano nella mente,
come ad esempio la rappresentazione dell’incorporeo e di quelle cose
che si colgono per mezzo della ragione. Di quelle sensibili quelle
che derivano da cose realmente esistenti si verificano quando
concediamo il nostro assenso; ma fra le rappresentazioni ci sono
anche di quelle apparenze che si presentano come derivanti da ciò
che realmente esiste. E inoltre delle rappresentazioni alcune sono
razionali, altre irrazionali: e sono rispettivamente degli animali
ragionevoli e degli irragionevoli. Quelle razionali sono atti
d’intellezione, quelle irrazionali non hanno alcuna particolare
denominazione. E alcune di esse sono secondo arte, altre prive di
arte: diversamente è contemplata una immagine da un esperto
dell’arte e da un inesperto.
La sensazione è, secondo gli Stoici, il soffio vitale che dalla
parte direttiva dell’anima fluisce nei sensi; e la comprensione per
mezzo dei sensi, e la costruzione che si attua in base agli organi
sensori — dei quali peraltro alcuni possono esser privi9. Anche
«atto» è da loro chiamata la sensazione10. La comprensione, secondo
loro, si verifica per sensazione, in casi come la percezione del
bianco o del nero, del liscio o del ruvido, oppure per mezzo della
ragione, quando si tratta di cose dedotte per dimostrazione, ad es.
che ci siano gli dèi e che provvedano a noi. Di ciò che è oggetto
del pensiero, parte si attua per circostanze accidentali, parte per
similitudine, o analogia, ‹o per trasposizione›11, o per
composizione, o per opposizione. Accidentalmente pensiamo ciò che è
sensibile; per similitudine qualcosa che apprendiamo da ciò che ci
sta dinanzi, per esempio Socrate in base alla sua immagine; per
analogia, per accrescimento qualcosa come Tizio o il Ciclope, per
diminuzione il Pigmeo12. E così pure anche il centro della terra
viene da noi pensato per analogia con le sfere più piccole. Per
trasposizione, si pensano gli occhi come se fossero sul petto; per
composizione realtà quali l’Ippocentauro; per opposizione la
morte13. Qualcosa si pensa anche per una sorta di passaggio logico,
come i significati e il luogo14. Per natura abbiamo le nozioni del
giusto e del buono. Talvolta abbiamo anche nozioni derivanti da
privazione, come un essere privo di mani. Ecco quello che essi
pensano circa la rappresentazione, la sensazione, gli atti del
pensiero.
Dicono che criterio della verità è di fatto la rappresentazione
comprensiva, cioè quella che deriva da qualcosa di esistente, come
dice Crisippo nel libro II della Fisica, e Antipatro, e Apollodoro;
Boeto invece ammette un maggior numero di criteri: la conoscenza
intellettiva, quella sensibile, l’impulso pratico, la scienza.
Crisippo poi nel libro I della Logica, in opposizione a quanto dice
altrove afferma che i criteri sono la sensazione e l’anticipazione.
Alcuni altri fra gli Stoici più antichi ammettono come criterio il
retto ragionamento, come dice Posidonio nel suo Del criterio.15
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 162 = SVF II, 63
Si deve dire che la rappresentazione è un’affezione riguardante
l’essere vivente che è capace di spiegare se stessa e altro rispetto
a sé; per esempio, dice Antioco16, guardando qualcosa, abbiamo una
certa disposizione visiva, e la nostra vista non si trova ad essere
nel vedere quale era prima. Nell’atto di questa modificazione dei
nostri sensi, noi prendiamo conoscenza di due realtà, una delle
quali è la modificazione stessa, cioè la rappresentazione, l’altra è
ciò che produce tale modificazione, cioè la cosa che vediamo. Ciò
come la luce rivela insieme se stessa e tutte le cose che sono in
essa, così anche la rappresentazione, essendo fattore primario nella
conoscenza dell’essere vivente, deve a somiglianza della luce
mostrare se stessa e insieme esser indicatrice di quell’oggetto che
evidentemente la produce.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 242-253 = SVF II, 65
Molte sono le differenze fra le rappresentazioni, ma basteranno
quelle che sto per dire. Alcune di esse sono verosimili, altre
inverosimili, altre ancora né verosimili né inverosimili. Verosimili
sono quelle che producono nell’anima un moto tenue, come «adesso è
giorno», oppure: «io sto parlando»… Inverosimili quelle che non
somigliano affatto a queste prime, ma ci rimuovono dall’assenso,
come: «se è giorno, non c’è sole sulla terra», oppure: «se è buio, è
giorno»… Verosimili e inverosimili insieme sono quelle che, avendo
carattere relativo, possono essere intese ora in modo ora in un
altro, per esempio i ragionamenti che riguardano le cose dubbie; né
verosimili né inverosimili quelle che riguardano cose come: «le
stelle sono di numero pari», «le stelle sono di numero dispari»…
Delle rappresentazioni verosimili o inverosimili alcune sono vere,
altre false, altre vere e false insieme, altre né vere né false.
Vere sono quelle di cui è possibile dare prova certa, come il fatto
che nel momento presente sia giorno, e che ci sia quindi luce; false
quelle di cui è possibile provare la falsità, come il remo spezzato
nell’acqua o il portico congiunto in fondo; vere e false insieme
quelle che capitò a Oreste di vedere nella sua follia, che erano
vere in quanto provenivano da Elettra, cioè da un essere esistente
nella realtà, false in quanto provenivano dalle Erinni, che non sono
esseri esistenti nella realtà; oppure come quando, nel sonno,
sognando, si vede una immagine falsa e vuota che però proviene da
Dione vivente, come se fosse realmente presente; né vere né false
quelle generali, poiché le realtà le cui specie possono essere in un
modo o nell’altro hanno invece generi che non sono né in un modo né
nell’altro — per esempio gli uomini si dividono in Greci e barbari,
ma l’uomo in generale non è greco, poiché tutti i Greci sono tali
solo per specie, e neanche barbaro, per la stessa ragione… Delle
rappresentazioni vere alcune sono comprensive, altre no. Non
comprensive sono quelle che sopravvengono casualmente ad alcuni in
uno stato di particolare affezione: ad esempio molti che sono malati
di mente e in preda a pazzia malinconica hanno rappresentazioni vere
ma non comprensive, bensì provenienti loro dall’esterno in maniera
fortuita, sì che essi non possono ottenere conferma della loro
rappresentazione né darle l’assenso. La rappresentazione comprensiva
invece è quella che proviene da qualcosa che realmente esiste ed è
foggiata e impressa conformemente a questa realtà, né potrebbe
provenire se non da una realtà esistente realmente. Essi, stabilendo
che tale rappresentazione afferra al sommo grado l’oggetto e
riproduce con arte tutte le sue caratteristiche, affermano anche che
le sono pertinenti le seguenti proprietà: la prima è quella di
provenire da qualcosa di realmente esistente … la seconda quella di
essere non solo dipendente da qualcosa di realmente esistente ma
conforme ad esso; ve ne sono alcune che provengono da qualcosa di
esistente e non gli sono tuttavia conformi, come quelle
rappresentazioni di Oreste in stato di furia di cui si è parlato
poc’anzi… La terza proprietà è quella di essere impressa e
stampigliata ad arte, si da riprodurre tutte le caratteristiche
dell’oggetto rappresentato. Al modo che gli incisori plasmano gli
oggetti che lavorano o al modo che i sigilli posti su anelli
imprimono i loro segni caratteristici in maniera esatta sulla cera,
così anche gli oggetti che producono in noi la rappresentazione
comprensiva devono imprimere in noi tutte le loro proprietà
caratteristiche. Che tale rappresentazione poi non possa provenire
se non da qualcosa di realmente esistente, lo aggiunsero in polemica
con gli Accademici, perché questi ultimi non ritenevano, come gli
Stoici, che sia impossibile trovare una rappresentazione
assolutamente conforme al reale sotto tutti i rispetti. Quelli
dicono infatti che colui che possiede una rappresentazione
comprensiva, dal momento che una simile rappresentazione contiene in
sé nella fattispecie una certa proprietà specifica che la
differenzia dalle altre rappresentazioni, con ciò viene anche a
urtarsi contro una differenza realmente esistente fra le cose (per
esempio nel caso dei cerasti rispetto agli altri serpenti)17; gli
Accademici, al contrario, credono che si possa trovare un oggetto
falso che sia però somigliante in tutto e per tutto alla
rappresentazione comprensiva.
Ma mentre gli Stoici antichi dicono semplicemente che criterio della
verità è la rappresentazione comprensiva, gli Stoici più recenti
hanno aggiunto: «purché non abbia alcun ostacolo»18.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 67-68
Neanche il discorso che fanno gli Stoici è esente da difficoltà.
Essi ritengono che nell’ambito dei sensibili come nell’ambito degli
intellegibili c’è una differenza per cui alcune rappresentazioni
sono vere, altre false; però non sono capaci di condurre rettamente
a conclusione il loro ragionamento. Si trovano d’accordo sul fatto
che alcune rappresentazioni sono vane, come quelle che si
presentavano a Oreste delle Erinni, e così altre falsamente
impresse19, provenienti da oggetti, reali ma non conformi a questi,
così come per esempio la rappresentazione che si presentava ad
Eracle, nella sua follia, dei propri figli come se fossero i figli
di Euristeo: quella rappresentazione veniva dai figli realmente
esistenti, ma non conforme ad essi; ed egli non li guardava come
suoi figli, ma diceva: «ecco che il rampollo di Euristeo, morendo, /
paga a me la colpa dell’odio paterno»20. Quando la situazione è di
questo tipo, le rappresentazioni diventano impossibili a
distinguersi con esattezza; però gli Stoici non sanno dire quali
sono comprensibili nella loro verità e derivanti da oggetti reali e
conformemente a questi, e quali invece non lo sono.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 405 = SVF II, 67
Se dunque alcune rappresentazioni sono comprensive in quanto ci
trascinano all’assenso e ci permettono di passare ad un’azione in
coerenza con esse, dal momento che se ne mostrano anche di false con
lo stesso potere, si deve dire che le rappresentazioni non
comprensive sono indistinguibili dalle comprensive21.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 424-426 = SVF II, 68-69
Secondo quelli, perché possa verificarsi una rappresentazione
sensibile, devono concorrere cinque cose, l’organo sensorio,
l’oggetto della sensazione, il luogo, il modo, il pensiero; e se,
pur essendo presenti tutte le altre condizioni, una sola ne manchi,
per esempio nel caso che il pensiero sia contro natura, non sarà
possibile, dicono, raggiungere una vera percezione22… Non cadono
essi forse in un circolo vizioso? Quando infatti noi chiediamo che
cosa è la rappresentazione comprensiva, la definiscono in risposta:
«quella che proviene da qualcosa che realmente esiste; stampigliata
e impressa secondo questo, e tale che non potrebbe provenire da
qualcosa di non realmente esistente». Poi inoltre, dal momento che
tutto ciò che si insegna a mo’ di definizione si insegna in base a
conoscenze già acquisite se noi di rimando chiediamo loro di nuovo
che cosa sia il realmente esistente, ci dicono in risposta che è
quello che produce la rappresentazione comprensiva23.
CICERONE, Acad. pr., II, 15, 47 = SVF II, 66
Essi dicono: «dal momento che voi affermate che alcune visioni sono
mandate dalla divinità, per esempio quelle che si interpretano per
mezzo di oracoli, auspicii, ispezione delle viscere (gli Stoici,
contro cui essi polemizzano, sostengono la verità di tutto questo)
c’è da chiedersi in che modo, dal momento che si tratta di visioni
false, possano essere rese veritiere dalla divinità»24.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima, p. 88, 11 segg. Bruns = SVF II, 59
Essi definiscono la rappresentazione una impressione nell’anima o
una impressione nella parte direttiva dell’anima… Inoltre dicono
rappresentazione sia l’impressione che avviene al presente sia
quella che è avvenuta ma ancora sussiste. Se si tratta di quella
presente, potrebbero dire che la sensazione è una rappresentazione
in atto; questa è il prodursi stesso dell’impronta. Ma vi sono
rappresentazioni anche indipendentemente dalle sensazioni in atto.
Se parlano della rappresentazione che si è verificata e che ancora
si conserva, potrebbero dire che la sensazione si identifica con la
memoria25.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima, p. 71, 10 segg. Bruns = SVF II, 70
Siamo soliti dire che le rappresentazioni vere e vivaci sono anche
comprensive, per il fatto che la comprensione è un assenso a
rappresentazioni di questo tipo; chiamiamo invece rappresentazione
non comprensiva quella falsa, o, di quelle che sono vere, le oscure.
BOEZIO, In Arist. de interpr., I, 1, p. 34, 13 segg. Meiser = fr.
266 Hülser
Questa affezione (passio) si verifica nella forma di impressione di
una figura, ma così come ciò suole avvenire nell’anima. Infatti è in
modo diverso che una figura inerisce naturalmente ad un oggetto o si
trasferisce nell’anima; così come non nello stesso modo i segni si
affidano alla cera, o al marmo, o alla carta, si tratti di lettere o
di voci. Gli Stoici dicono che la rappresentazione (imaginatio) si
trasferisce dalle cose nell’anima; ma aggiungono sempre a
chiarimento: «nel modo come ciò può avvenire nell’anima»26.
AEZIO, Plac, IV, 8, 12, Box. Gr., p. 396 = SVF II, 72
Gli Stoici dicono che ogni sensazione consta di assenso e
comprensione27.
AEZIO, Plac, IV, 9, 4, Box. Gr., p. 396 = SVF II, 78
Gli Stoici dicono che le sensazioni sono vere, mentre delle
rappresentazioni alcune sono vere e altre false.
CICERONE, Acad. Pr., II, 33, 108 = SVF II, 73
La seconda cosa è che voi dite che non può agire chi nega a
qualsiasi cosa il suo assenso. Bisogna anzitutto vedere in che cosa
questo consista propriamente. Gli Stoici infatti dicono che le
stesse sensazioni sono già assenso; e poiché ad esse segue la
appetizione, segue anche l’azione; ma tutto si sopprime se si
sopprimano le rappresentazioni.
PORFIRIO, presso STOBEO, Eclog., I, 49, 24, p. 349 Wachsmuth = SVF
II, 74
…poiché gli Stoici non pongono la sensazione nella rappresentazione
soltanto, ma riconnettono ad essa la sostanza, in virtù
dell’assenso: nel caso di una rappresentazione sensibile la
sensazione stessa si identifica con l’assenso, essendo l’assenso
qualcosa che si produce secondo impulso.
GALENO, In Hippocr. de medic. offic., 3, XVIII Β, p. 654 Kühn =
SVF II, 75
Alcuni scrissero anche questa spiegazione: non significa lo stesso
dire «è possibile vedere, toccare, udire» rispetto a «è possibile
aver sensazioni per mezzo della vista, dell’udito, del tatto». E
infatti possibile vedere, toccare, udire senza comprendere, ma avere
sensazioni si può solo se si raggiunge la comprensione. Questa
spiegazione della sensazione è data dallo stoico Simia28, così come
la riferì Ificiano, maestro di Quinto29, che amava la filosofia
stoica. In realtà ciò che essi vogliono dire è questo: una parte del
discorso ci ragguaglia solo intorno al significato verbale delle
cose che si indicano con particolari appellativi; un’altra parte
riguarda invece le nozioni esatte e sicure di per sé: «sarebbe
conveniente fare le nostre diagnosi in base a elementi simili e
dissimili ai fatti di ordine naturale che appaiono nel corpo del
malato. Questi sono gli oggetti della sensazione, e fra di essi non
quelli che sono stati trascurati o fraintesi o avvertiti del tutto
erroneamente, ma quelli che sono stati rettamente avvertiti e
compresi a seconda di ciascuna sensazione e con l’intelligenza».
CICERONE, Acad. Pr., II, 31, 101 = SVF II, 77
Né noi diciamo circa le sensazioni cose diverse dagli Stoici, i
quali sostengono che molte cose sono false apparenze e stanno in
realtà in maniera del tutto diversa rispetto a ciò che appaiono ai
sensi.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 185 = SVF II 76
Gli Stoici e i Peripatetici scelsero la via intermedia e dissero che
alcune cose sono oggetto delle sensazioni in quanto vere, ma altre
non sussistono, e la sensazione intorno a loro si inganna.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 352 = SVF II, 80
Tali essendo le aporie insite in tale trattazioni, i dogmatici usano
… dire che l’oggetto esterno della sensazione non è né il tutto né
una parte, mentre siamo noi a predicare di esso il concetto di tutto
o di parte. Il tutto appartiene ai relativi, giacché si pensa in
relazione alle parti, e così pure le parti, giacché si pensano in
relazione al tutto; ma i relativi appartengono alla nostra
riflessione e la nostra riflessione è in noi; ecco che quindi il
tutto e le parti sono in noi. L’oggetto esterno della sensazione
però non è né tutto né parte: è una realtà di cui noi predichiamo
qualcosa che si identifca con una nostra riflessione.
AEZIO, Plac., IV, 11, 1-4 Dox. Gr., pp. 400-401 = SVF II, 83
Dicono gli Stoici che alla nascita dell’essere umano la parte
direttiva della sua anima è come una pergamena ben disposta ad
essere impressa della scrittura, e in essa viene segnata di volta in
volta ogni nozione… La prima forma di tale scrittura è la
sensazione. Una volta che si è avvertita una cosa sensibilmente, per
esempio di colore bianco, finita che sia la presenza dell’oggetto,
se ne ha il ricordo; quando sopravvengono più ricordi dello stesso
genere, si ha l’esperienza; questa è infatti una moltitudine di
esperienze simili… Delle nozioni alcune sopravvengono spontaneamente
e naturalmente, nei modi anzidetti, ma altre si formano per via di
insegnamento e speciale cura; queste si chiamano solo nozioni,
mentre quelle son dette anche anticipazioni… Quella capacità di
ragionare in virtù della quale siamo detti per l’appunto esseri
ragionevoli, dicono che si forma in noi in base alle anticipazioni e
giunge a perfezione intorno all’età di sette anni. Il pensiero è una
immagine razionale propria dell’essere vivente ragionevole30;
l’immagine, quando incide nell’anima razionale, assume il nome di
pensiero, nome che desume dall’intelletto… Perciò le immagini che si
formano negli animali irragionevoli non sono veramente altro che
immagini, quelle che si formano in noi o negli dèi sono immagini
quanto a genere, pensieri quanto a specie, così come i denari e gli
stateri sono denari e stateri considerati di per sé, ma possono
chiamarsi «nolo» se si diano come compenso per il servizio
marittimo31.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 409 = SVF II, 85
Gli Stoici tentano di illustrare le loro affermazioni con esempi.
Dicono che, come l’insegnante di ginnastica o di arte militare
qualche volta prende le mani del discepolo, e compiendo certi
movimenti ritmati gli insegna a muoversi in certi modi precisi, e
avviene che chi era ben lontano da ciò e si muoveva a caso impara a
muoversi con ritmo imitandolo, così anche avviene che alcuni degli
oggetti della rappresentazione, quasi per un contatto con la parte
direttiva dell’anima, producono una impressione su di esso; è il
caso, ad esempio, del bianco, del nero, in genere di ciò che è
corporeo. Altri oggetti invece hanno una natura tale che la parte
direttiva riceve una rappresentazione in conseguenza di essi ma non
direttamente per loro azione: è il caso degli incorporei, per
esempio dei significati.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 56 = SVF II, 88
Ogni tipo di conoscenza intellettiva si verifica in base a
sensazione e non indipendentemente da questa e quindi in base ad
esperienza e non indipendentemente da questa32. Perciò riscontriamo
che nemmeno certe rappresentazioni che chiamiamo false, quali quelle
che si hanno in stato di sogno o di pazzia, sono del tutto scisse
dalle conoscenze che noi abbiamo per sensazione in base a
esperienza. Chi nella sua follia si rappresenta le Erinni «fanciulle
sanguinose e mostruose»33 pensa una forma composta di immagini che
gli provengono dai sensi; e allo stesso modo colui che veda in sogno
un uomo alato non potrebbe veder niente di simile se non avesse
esperienza e di esseri alati e di uomini. E in generale non si
potrebbe riscontrare niente che entri nel pensiero se non sia prima
in qualche modo conosciuto per esperienza. Questo qualcosa sarà
concepito o per similitudine con le cose che appaiono ai sensi, o
per accrescimento, o per diminuzione, o per composizione. Per
similitudine, quando, in base all’immagine di Socrate che vediamo,
ci immaginiamo Socrate stesso che non vediamo. Per accrescimento
quando, muovendo da una comune concezione di uomo, pensiamo un uomo
paragonandolo a cose cui non somiglia: «non a un uomo che si nutre
di cibo comune, ma a un picco di alti monti ricoperto di selva»34.
Per diminuzione quando, al contrario, contraendo la grandezza di un
uomo comune, ci immaginiamo la forma di un pigmeo. Infine, per
composizione, quando da un uomo e da un cavallo noi combiniamo
l’immagine di un ippocentauro della quale non abbiamo mai avuto
reale esperienza35. Insomma, ad ogni atto di pensiero deve precedere
una esperienza compiuta mediante i sensi, ed è per questo che, se si
sopprime la sensazione, necessariamente si sopprimerà anche ogni
atto di pensiero.
CICERONE, Topica, 7, 31= fr. 307 Hülser
Chiamo «nozione» quella che i Greci chiamano ora ἔννoια ora
πρóληψις. Essa è insita nell’animo e come pre-acquisita, e la
conoscenza di ciò ch’è suo oggetto esige uno sviluppo ulteriore36.
GALENO, Defin. med., 126, XIX, p. 381 Kühn = SVF II, 89
Il concetto è un atto di pensiero riposto; l’atto di pensiero è una
rappresentazione propria del ragionamento37.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 151 = SVF II, 90
Quelli dicono che ci sono tre cose collegate l’una con l’altra, la
scienza, l’opinione, la comprensione che è posta in mezzo fra queste
due, e di esse la scienza è la comprensione salda e sicura e non
rovesciabile da argomentazione, l’opinione è l’assenso debole e
fallace, la comprensione è quella che si trova in posizione
intermedia, cioè l’assenso proprio della rappresentazione
comprensiva; e secondo loro la rappresentazione comprensiva è quella
vera, e tale che non potrebbe esser falsa. Di esse affermano che la
scienza risiede solo nei saggi, l’opinione solo negli stolti, la
comprensione è comune agli uni e agli altri; fissano questa come
criterio della verità.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 396-397 = SVF II, 91
Poiché anche gli Stoici elaborano con gran cura discorsi
dimostrativi, trattiamo brevemente anche di loro… La comprensione, è
possibile apprendere da loro, è un assenso proprio della
rappresentazione comprensiva, che sembra esser in realtà duplice,
parte involontario, parte volontario e riposto nel nostro giudizio.
La formazione dell’immagine è infatti una cosa che avviene senza
alcun atto di deliberazione: essa non dipende dalla persona che la
subisce, ma dal fatto che la cosa rappresentata provoca in essa una
determinata affezione, in forma bianca se avviene il contatto con un
corpo bianco, o dolce se con uno dolce; l’assentire a una simile
affezione è in facoltà di colui che riceve la rappresentazione.
CICERONE, Acad. pr., II, 119 = SVF II, 92
(Il sapiente), a qualunque opinione abbia dato la sua approvazione,
deve averla compresa in maniera ferma e solida con la mente allo
stesso modo che coi sensi; e non troverà più degno di consenso il
fatto che in quel preciso momento, ad esempio, sia giorno, che non —
se veramente è un Stoico — cose come il fatto che il mondo sia
intelligente, e che abbia in sé un’anima capace di foggiare ad arte
il corpo stesso del mondo e di governare, muovere, reggere il tutto.
Dovrà anche aver la ferma convinzione che il sole, la luna, le
stelle tutte, la terra, il mare, siano altrettante divinità, per il
fatto che un’intelligenza animata lo percorre e permea per ogni
parte; e anche che tuttavia vi sarà un giorno in cui tutto questo
universo si distruggerà nel fuoco.
GALENO, Defin. med., 7-8, XIX, p. 350 Kühn = SVF II, 93
La scienza è comprensione sicura e non rovesciabile per mezzo di
argomentazione. È possibile definirla anche così: la scienza è una
disposizione non rovesciabile nell’accoglimento delle
rappresentazioni38, fornita dalla ragione in maniera irreprensibile.
L’arte è un complesso organizzato di conoscenze comprensive,
coesercitate in vista di un fine utile pertinente alla vita. Oppure
anche: l’arte è un complesso organizzato di conoscenze comprensive e
coesercitate, che si riferiscono a un unico fine39.
Scholia in Dionys. Thr., p. 108, 31 segg. Hilgard = SVF II, 94
Dicono gli Stoici: l’arte è un complesso organizzato di conoscenze
comprensive, coesercitate insieme nell’esperienza in vista di un
fine utile fra quelli pertinenti alla vita.
FILONE ALESSANDRINO, De congr. erud. gr., 141, III, p. 101 Wendland
= SVF II, 95
Definizione dell’arte è questa: complesso organizzato di conoscenze
comprensive coesercitate in vista di un fine utile (e rettamente è
specificato che si tratta di un fine utile, per contrapposizione
alle cattive arti)40. Definizione della scienza: una comprensione
solida e sicura, non rovesciabile da ragionamento. Noi chiamiamo
arti la musica e la grammatica e le altre attività di questo tipo …
scienze la filosofia e le altre virtù, e dotati di scienza coloro
che le esercitano. Essi sono infatti saggi e assennati e amanti del
sapere, e di essi nessuno sbaglia nel formulare i principi della
scienza alla quale ha lungamente atteso, come fanno invece quelli
che abbiam detto poc’anzi nel formulare i princìpi delle arti
indifferenti41.
DAVID, Prolegomena philosophiae, p. 43, 30 segg. Busse42
L’arte è la conoscenza degli universali ottenuta per via di
ragionamento, oppure si può dire che «arte è disposizione a
procedere con metodo per via di rappresentazione»43. E infatti
l’arte è una disposizione e una conoscenza, e procede anche con
metodo: compie infatti tutte le sue operazioni secondo un certo
ordine. Quanto al «per via di rappresentazione» lo si aggiunge in
virtù della natura: anche la natura è disposizione (ha il suo essere
nelle realtà che le sono pertinenti, come l’uomo, la pietra, il
legno) e procede con metodo (compie tutte le cose secondo un certo
ordine); non però per via di rappresentazione come l’arte; infatti
l’artigiano, valendosi del ragionamento, quando vuole compiere una
certa opera, prima imprime in se stesso ciò che vuole compiere e poi
lo compie in maniera conseguente, mentre la natura non fa niente di
simile (non imprime preliminarmente in se stessa l’opera che intende
compiere)44.
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypotyp., III, 188 = SVF II, 96
Nuovamente gli Stoici poi dicono che alcune arti e le virtù sono
beni riguardanti l’anima; e che l’arte è un complesso organico di
atti di comprensione coesercitati, e gli atti di comprensione si
verificano nella parte direttiva dell’anima. Ma come nella parte
direttiva, che secondo loro è fatta di spirito vitale, possa
trovarsi questa sorta di deposito di comprensioni e una raccolta di
tante fra di esse da poter dar luogo a un’arte, non è facile
immaginarlo; infatti si deve pensare che ogni impressione al suo
sopravvenire sopprima l’impressione che era precedentemente al suo
posto, giacché lo spirito vitale è diffuso e si muove da tutte le
parti sotto l’impulso di ciascuna impressione45.
GALENO, Prognost. ex mathem. sc., 1, XIX, p. 529 Kühn = SVF II, 98
Circa il fatto che sussista un scienza matematica potrebbe bastare
l’opinione dei filosofi stoici, cioè di uomini che si sono molto
dati da fare a costruire ragionamenti e hanno posto norme circa la
vita, quale debba essere.
FILONE ALESSANDRINO, De congr. erud. gr., 146, III, p. 102 Wendland
= SVF II, 99
Non si può ignorare che a tutte queste scienze parziali46 la
filosofia ha donato i principi e i semi dai quali appaiono esser
germogliati i vari princìpi di esse. La geometria ha inventato i
concetti di isoscele e scaleno, di cerchio e di poligono, e altre
figure; ma non è la geometria che ha individuato la natura del punto
e della linea, della superficie e del solido. Donde essa può trarre
le definizioni del punto come ciò che non ha parti, della linea come
di lunghezza senza spessore47, di superficie come di ciò che ha solo
lunghezza e larghezza, di solido come ciò che ha tre dimensioni,
lunghezza, larghezza, profondità? Queste cose sono proprie della
filosofia, e tutta la trattazione di questi punti al filosofo… Lo
scrivere e il leggere fa parte dell’insegnamento delle lettere al
suo livello più basso, quello che alcuni cambiando il termine,
chiamano grammatica; quello al livello più elevato verte intorno a
poeti e scrittori. Ma quando tali scienze vertono intorno alle parti
del discorso, non traggono forse e prendono marginalmente molti
punti assodati dalla filosofia? È proprio di questa indagare che
cosa sia la congiunzione, il nome, il verbo, il nome comune, che
cosa sia proprio o difettoso o completo in un ragionamento, che cosa
sia una affermazione, una interrogazione, un quesito, che cosa sia
imperativo, ottativo, deprecativo; è questa che compone le
trattazioni circa le proposizioni indipendenti, i giudizi, i
predicati; e il vedere quale sia un elemento semi-sonoro o sonoro o
muto del tutto, e come ciascuno di questi si usa chiamare, e tutta
la teoria circa la voce, gli elementi e le parti del discorso, non è
forse lavoro compiuto dalla filosofia?
CICERONE, Acad. pr., II, 8, 26 = SVF II, 103
Ma se queste cose son vere, si abolisce tutta quella ragione che è
come la luce della vita!… La ragione infatti ha dato inizio alla
ricerca ed essa ha portato a compimento l’atto virtuoso una volta
che, col ricercare, la stessa ragione riceva conferma. La ricerca è
desiderio di conoscenza, e la scoperta è la fine della ricerca. Ma
nessuno viene a scoprire cose false, né le cose che continuano a
restare nell’incertezza possono essere oggetto di scoperta; si
dicono scoperte solo quando, dopo essere state avvolte
nell’ignoranza, vengono rivelate. Così essa (la ragione) tiene
saldamente l’inizio, che sta nella ricerca, e il fine, che sta nel
percepire e nel comprendere48.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., VI, 15, 121, 1 segg., pp. 492-493 e
501 Stählin = SVF II, 102, 384 Hülser
La ricerca è un impulso a comprendere, che riesce a individuare un
oggetto in base a segni; la scoperta è il limite e la cessazione
della ricerca che si muta in comprensione49 … i moti delle
sensazioni si imprimono nel pensiero e si manifestano nell’azione
del corpo: la comprensione dipende da ambedue queste cose.
PLUTARCODI ATENE, presso OLIMPIODORO, In Plat. Phaed., p. 156, 1
segg. Norvin = SVF II, 104
Difficile è risolvere la questione «se è possibile cercare e
scoprire», così come è posta nel Menone50. Non cerchiamo infatti ciò
che già sappiamo — sarebbe stolto — né ciò che non sappiamo; anche
se lo scoprissimo per caso, non lo riconosceremmo, come avviene a
chi agisce fortuitamente… Gli Stoici attribuiscono la soluzione di
ciò alle nozione naturali. Ma diremo lo stesso nel caso che queste
siano in potenza; e se poi sono in atto, perché indagare su ciò che
già sappiamo? e se, una volta apprese queste, tutte le altre cose ci
sono ignote, come indagare su ciò che non conosciamo?
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 35 = SVF II, 107
È anche possibile fare una ulteriore divisione di questo criterio
razionale51; essi dicono infatti che il criterio da un lato è ciò da
cui deriva la conoscenza, dall’altro ciò per cui mezzo si compie, da
un altro ancora è un approccio e un atteggiamento. Ciò da cui deriva
la conoscenza è l’uomo, ciò per mezzo di cui si compie è la
sensazione, il modo come si compie è l’approccio alla
rappresentazione. Come nel valutare ciò che è pesante e leggero
occorrono tre criteri, chi pesa, la bilancia, il porre sulla
bilancia l’oggetto, e come per esaminare il diritto e il ricurvo
occorrono l’esperto, il regolo, l’accostamento del regolo alle cose
da misurare, allo stesso modo anche nella filosofia, per distinguere
il vero dal falso, abbiamo bisogno dei tre criteri anzidetti: e
l’uomo, da parte di cui avviene il giudizio, somiglia al pesatore o
al costruttore, la sensazione e il pensiero per mezzo di cui
avviene, alla bilancia o al regolo, l’approccio alla
rappresentazione, secondo la quale si procede a giudicare, somiglia
all’uso degli strumenti tecnici.
AGOSTINO, De civ. dei, VIII, 7 = SVF II, 106
Quelli che hanno riposto il giudizio circa la verità nei sensi
corporei e nelle loro … regole …, ritengono che tutte le cose che si
apprendono debbano essere misurate; così gli Epicurei e alcuni altri
simili, come anche gli stessi Stoici, i quali, poiché amavano
grandemente l’abilità nel disputare, che chiamano dialettica,
ritennero che essa debba esser attinta ai sensi corporei, affermando
che questi sono l’origine prima delle nozioni per l’anima, quelle
nozioni che chiamano ἔννοιαι, e che si riferiscono alle cose che
essi spiegano poi con le definizioni: di qua prende le mosse e a
questo si riconnette tutto il metodo dell’insegnare e
dell’apprendere.
CICERONE, Acad. Pr., II, 21, 67 = SVF II, 110
Gli Stoici negano lo stesso primo punto, che cioè il sapiente, se dà
l’assenso, potrà anche avere opinioni; e così anche il loro seguace
Antioco52, il quale dice che egli può distinguere il vero dal falso
e le cose che non possono esser comprese da quelle che lo possono.
CICERONE, Acad. Pr., IL 8-9, 26-27 = SVF II, 111
Così si enuncia la dimostrazione finale, che i Greci chiamano
ἀπóδειξις; il ragionamento metodico che dalle realtà che si sono
comprese inferisce ciò che non si era compreso… Ma se tutte le
rappresentazioni fossero come costoro dicono, potessero cioè essere
anche false, né alcun metodo fosse sufficiente a distinguerle, come
mai potremmo dire che alcuno giunga a una conclusione o a una
scoperta, e quale fiducia si potrebbe prestare all’argomentazione
dimostrativa?
PLUTARCO, De comm. not., 36, 1077c = SVF II, 112
Li si può ascoltare e si possono trovare molti loro scritti nei
quali si contrappongono agli Accademici e gridano a gran voce che
quelli fanno una gran confusione fra tutte le cose con le loro
perfette somiglianze53, di due sostanze costretti a fare una sola
qualità; ma in realtà non c’è uomo che non pensi e creda, al
contrario, che sia assurdo il ritenere che in tutto il corso del
tempo non vi sia mai stato nulla di assolutamente simile a un altro
esemplare della sua specie, né un’ape a un’altra ape, né un colombo
a un altro colombo, né un chicco di grano a un altro, né il fico del
proverbio54 a un altro fico.
CICERONE, Acad. pr., II, 17, 85 = SVF II, 113
È un principio stoico assolutamente incredibile che non vi sia pelo
uguale in tutto e per tutto a un altro pelo, o un chicco di grano a
un altro chicco.
CICERONE, Acad. pr., II, 17, 54-56 = SVF II, 114
Perché vi ostinate invece a sostenere che — cosa non ammissibile in
natura — nulla sia tale qual è per tutta l’estensione del suo
genere, e che fra due o più cose non vi sia alcuna comunanza senza
differenziazione?… È ciò che chiaramente insegnano i fisici
più raffinati, che proprietà singole sono pertinenti a singole
cose55.
CICERONE, Acad. pr., II, 12, 37-38 = SVF II, 115
Diremo ora poche cose circa l’assenso e l’approvazione, che i Greci
chiamano συγκατάθεσις… Infatti, nello stesso spiegare le facoltà
proprie dei sensi, si è reso chiaro che molte cose sono da essi
comprese e percepite, il che non può avvenire senza l’assenso.
Poiché fra l’essere inanimato e l’essere vivente c’è sostanzialmente
questa differenza, che l’essere vivente compie una certa azione (e
se non la compisse non potrebbe esser pensato qual è), ne consegue
che o bisogna negargli la capacità di sentire, oppure riconoscergli
quella facoltà di assenso che dipende dal nostro volere… Ma ne
consegue anche questo, che senza l’assenso non può esserci nemmeno
memoria, né nozione delle cose, né arte; quella stessa facoltà che è
più importante di tutte le altre, il libero atto del volere, non
esiste in colui che non dà a nulla il suo assenso. E dove sarebbe la
virtù, se non ci fosse niente in nostro potere?
CICERONE, Acad. pr., II, 8, 24 = SVF II, 116
Ed è chiaro anche che occorre fissare un inizio, perché la sapienza
possa condurre a termine conseguentemente ciò che ha intrapreso, e
questo inizio deve essere coerente a natura. Non diversamente può
esser mosso l’impulso (così rendiamo la parola ὁρμή)56 mediante il
quale siamo spinti all’azione e desideriamo ciò che ci è apparso.
Bisogna quindi per prima cosa avere la rappresentazione dell’oggetto
che ci muove, e darle l’assenso: né ciò potrà avvenire se non si
potrà distinguere la verità dalla falsità di ciò che ci appare. Come
può l’anima esser mossa all’impulso se non si comprende se ciò che
appare sia coerente a natura o non lo sia? Pertanto, se non si
presenta chiaramente all’anima che cosa essa debba fare, essa non
compirà mai alcuna azione, non avrà impulso verso alcuna cosa, non
sarà mai mossa. Perché si possa agire, occorre che appaia esser vero
ciò che ci si presenta.
CICERONE, Acad. pr., II, 8, 23 = SVF II, 117
Soprattutto la conoscenza delle virtù ci conferma nella convinzione
che molte cose possono essere afferrate e comprese. E diciamo che
solo in tali cose è riposta la scienza, che noi chiamiamo non solo
comprensione della realtà, ma anche un tipo di comprensione che
riteniamo stabile e immutabile e che possiede una costanza di per
sé. Se questa costanza non racchiudesse in sé alcuna conoscenza e
comprensione certa, c’è da chiedersi donde essa derivi o come si sia
formata.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 440 = SVF II, 118
I dogmatici, nella loro polemica, sogliono indagare come possa lo
scettico dimostrare che non vi è alcun criterio: se cioè egli
afferma ciò senza valersi di alcun criterio, oppure valendosene. Se
non si vale di alcun criterio, il suo discorso non sarà degno di
fede; se si vale di un criterio, va contro i suoi presupposti, e
mentre dice non esservi alcun criterio, verrà implicitamente ad
ammettere che ci si vale di un criterio con il suo stesso
escluderlo. Quando noi chiediamo: «se esiste un criterio, esso è
conosciuto in base a criterio oppure senza?», e aggiungiamo che o si
procede all’infinito o è assurdo parlare di un criterio del criterio
stesso, quelli affermano replicando che non è affatto assurdo
ammettere che ci sia un criterio del criterio: questo è infatti
esaminatore di se stesso come delle altre cose, così come la
bilancia misura insieme l’uguaglianza delle altre cose e la propria,
e la luce scopre non solo le altre cose ma anche se stessa; così
allo stesso modo il criterio può porsi come criterio di se stesso e
di tutto il resto.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 162 = SVF II, 119
Perciò dobbiamo disprezzare quelli che dicono che uno scettico si
involge nell’inazione e nell’incoerenza: nell’inazione perché, dal
momento che la vita si riassume tutta nello scegliere e nel
rifiutare, chi non compie né scelte né rifiuti nega in effetti la
vita e vegeta alla maniera di una pianta; nell’incoerenza perché può
avvenire che si trovi ad avere a che fare con un tiranno e,
costretto a compiere cose nefande, non obbedisca a ciò che gli è
imposto e scelga volontariamente la morte, oppure, evitando di
mettersi a rischio, eseguisca l’ordine; ed ecco che nell’un caso e
nell’altro non è più, come dice Timone57, «senza rifiuto e senza
scelta», ma al contrario l’una cosa sceglie e l’altra rifiuta, il
che significa poi accedere all’opinione di quelli che ritengono che
si debbano compiere atti di rifiuto e di scelta.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat. VIII, 5, pp. 89-90 Stählin =
SVF II, 121
Contro i pirroniani. Se la sospensione del giudizio dice che nulla
vi è di sicuro, è chiaro che essa deve cominciare a dirlo di se
stessa, e con ciò si autoinvalida. O concede che vi sia qualcosa di
vero e che non ci si debba astenere su tutto, oppure ecco che si
riduce a dire che nulla può esservi di vero, e anche di essa si
dovrà analogamente dire che non è vera. O essa afferma il vero, o
no. Se afferma il vero, ecco che contro il suo volere ammette che vi
sia qualcosa di vero. Se non è vera essa stessa, con questo si viene
ad ammettere quel vero che si voleva negare: in quanto si dimostra
esser menzognera la sospensione che nega, in tanto si dimostra esser
vero quello che è negato, così come sarebbe un sogno che affermasse
tutti gli altri sogni essere fatti reali. In quanto nega se stessa,
attesta la validità di tutto il resto. E in generale, se è
veritiera, dovrà cominciare ad affermare la verità di se stessa, dal
momento che la sospensione non verte intorno a qualcos’altro, ma
intorno a se stessa in primo luogo. Ancora: se qualcuno comprende di
essere un uomo, oppure comprende che sta sospendendo il suo
giudizio, è chiaro che in questo atto non lo sospende: come,
infatti, prenderebbe dall’inizio le mosse nella discussione se
veramente si astenesse su tutto, come potrebbe rispondere se
interrogato? È chiaro che non sospende il giudizio almeno su
questo: infatti è dimostrato che egli sospende il giudizio. Se,
dando retta a costoro, dobbiamo sospendere il nostro giudizio su
tutto, ecco che dovremmo sospendere anche la sospensione, e
chiederci se dobbiamo o no obbedire ad essa. Se il vero consiste nel
fatto che non sappiamo se una cosa sia vera, ne consegue che da
costoro non è offerto neanche un principio del loro discorso che
possa dirsi vero. Se però poniamo in dubbio anche il principio
dell’ignoranza del vero, chi dice così afferma con ciò che il vero
si può conoscere, in quanto non sembra osservare la sospensione del
giudizio intorno ad esso. E se la scelta è l’accettazione di
principi dogmatici o — come essi dicono — accettazione di molti
principi dogmatici che hanno una determinata implicazione reciproca
e una connessione con i fenomeni, tendente al ben vivere, e se un
principio dogmatico è un atto di comprensione razionale, e la
comprensione a sua volta un disposizione e un atto di assenso
proprio della mente58, non sono solo gli scettici che sogliono
effettuare tale sospensione, ma anche il dogmatico in generale suole
astenersi dal giudizio in qualche occasione; sia perché ritiene
debole la sua comprensione, sia perché ritiene le cose
oggettivamente oscure, sia perché gli argomenti pro e contro hanno
la stessa forza.
DIALETTICA
CICERONE, Topica, 2, 6 = fr. 75 Hülser
Poiché ogni accurata trattazione metodica dell’argomentare ha due
parti, una relativa al trovare e l’altra al giudicare, mi sembra che
Aristotele sia stato l’iniziatore di entrambe. Gli Stoici, invece,
si diedero da fare intorno a una sola delle due: perseguirono
diligentemente il metodo argomentativo con quella scienza che
chiamano dialettica, ma quell’arte del trovare che si chiama topica
— che era poi di maggior importanza per l’uso pratico e certo
precedente all’altra nell’ordine naturale la trascurarono del tutto.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 42-45 = SVF II, 235; 295 ecc.
Definiscono la retorica la scienza di parlare bene su argomenti
continuativi, e la dialettica la scienza del discutere con argomenti
per interrogazioni e risposte. Perciò la definiscono anche in questo
modo: scienza delle cose vere, false e né vere né false… Dicono che
la dialettica si divide nella trattazione dei significati e della
voce; e la trattazione dei significati si divide a sua volta in
quella delle rappresentazioni e in quella dei significati che si
riferiscono ad essa, dei giudizi, delle proposizioni indipendenti,
delle predicazioni, dei termini simili attivi e passivi, dei generi
e delle specie, e similmente dei ragionamenti, dei modi, dei
sillogismi, dei sofismi riguardanti le voci o gli oggetti del
discorso; tra di questi vi sono ragionamenti menzogneri e discorsi
veritieri, ragionamenti che negano, soriti e altri simili, il
ragionamento difettoso, quello aporetico, quello conclusivo, quello
«velato» e altri come il «cornuto», il «nessuno», il «mietitore»59.
È proprio della dialettica anche l’altro tipo di trattazione, quella
che riguarda, come si è detto, l’espressione stessa. Questa
disciplina verte sull’espressione scritta e su alcune parti del
discorso, il solecismo, il barbarismo, le composizioni poetiche, le
amfibolie, l’espressione accompagnata da canto, la musica; secondo
alcuni anche sulle definizioni, sulle divisioni, sulle forme di
stile. Dicono che straordinariamente utile è lo studio dei
sillogismi: esso insegna la dimostrazione che è di gran giovamento
per la corretta revisione dei princìpi, ed insegna anche a ben
disporre, ad esercitare la memoria, a possedere cognizioni solide.
Lo stesso ragionamento è un complesso organico di premesse e
conclusione; il ragionamento sillogistico è un ragionamento che
argomenta in base a queste: la dimostrazione è quel ragionamento che
spiega conclusivamente un elemento meno saldamente compreso in base
a elementi più saldamente compresi.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VIII, 55-83 = SVF II, III passim.
Quanto alla teoria dialettica, essi sono d’accordo per lo più nel
ritenere che si debba cominciare la trattazione dalla voce60. La
voce è aria percossa, oppure è l’oggetto sensibile proprio
dell’udito, come dice Diogene di Babilonia nel Trattato della voce.
La voce dell’animale in genere è aria percossa per via di semplice
impulso, quella dell’uomo è articolata ed emessa in base a ragione,
come dice sempre Diogene, e la ragione è perfetta intorno ai
quattordici anni. La voce, per gli Stoici, è un corpo, come dicono
Archedemo nel Della voce, e Diogene, Antipatro, e Crisippo nella
Fisica, libro II; ogni entità che esercita un’azione infatti è un
corpo, e la voce esercita una azione da parte di chi parla su chi
ascolta. L’espressione (λέξις) è, come sostengono gli Stoici, e in
particolare Diogene, una voce scritta che si articola in lettere,
per esempio «giorno». Il discorso è una voce avente un significato,
emessa in base a ragione, per esempio: ‹«è giorno».›61. Una lingua
consta di espressioni foggiate a seconda della varietà dei popoli
ellenici, è in ogni caso un modo di esprimersi particolare: per
esempio ciò che in attico si dice θάλαττα, in ionico si dice
ἡμέρη62. Elementi dell’espressione scritta sono le ventiquattro
lettere. Una lettera ha tre aspetti, è ‹elemento›, carattere
dell’elemento, nome dell’elemento stesso, per esempio «alpha». Sette
sono le vocali, α, η, e, ι, ο, ω, υ; sei le mute, β, γ, δ, κ, π, τ.
Voce ed espressione sono due cose differenti fra loro: voce è solo
il suono, espressione è voce articolata soltanto. Essa poi a sua
volta differisce dal discorso, perché il discorso significa sempre
qualcosa, mentre la voce può anche essere priva di significato, come
per esempio blityri; il discorso al contrario non può esserlo mai.
Anche il parlare è differente dal proferire: sono proferite le voci,
ma si parla sempre di cose, e queste cose sono i significati.
Cinque sono le parti del discorso, come dice Diogene nel suo Della
voce e anche Crisippo, il nome proprio, quello comune, il verbo, la
congiunzione, l’articolo; Antipatro nel suo Della dizione e delle
cose che ne sono oggetto pone anche un medio termine63. Secondo
Diogene il nome comune è quella parte del discorso che indica una
qualità comune, come «uomo» e «cavallo»; il nome proprio è quello
che invece indica una qualità specifica, per esempio «Diogene» o
«Socrate». Il verbo è quella parte del discorso che indica un
predicato semplice, per esempio «scrivo», «parlo»; così lo definisce
Diogene. Altri invece lo definiscono una parte del discorso non
soggetta a declinazione, che indica una connessione in relazione a
uno o più individui. La congiunzione è una parte del discorso non
soggetta a declinazione che lega fra loro le altre parti del
discorso. L’articolo è una parte del discorso soggetta a
declinazione che distingue genere e numero dei vari nomi, come il,
la, i, le64.
Le virtù del discorso sono cinque: l’ellenismo puro, la chiarezza,
la concisione, la convenienza, la bella costruzione. L’ellenismo è
un modo di parlare irreprensibile quanto ad elaborazione tecnica e
senza espressioni banali e triviali; la chiarezza consiste in una
dizione che presenta sapientemente il pensiero; la concisione è un
modo di parlare che spiega l’oggetto del discorso con un numero di
parole ristretto al necessario; la convenienza si ha quando il modo
di parlare si accorda con l’oggetto; la bella costruzione del
discorso consiste nel rifuggire da ogni idiotismo. Tra i difetti del
discorso sono il barbarismo e il solecismo, che constano l’uno nel
contravvenire all’uso degli autori più celebrati; l’altro nel far
discorsi sintatticamente incoerenti.
Una composizione poetica è, come dice Posidonio nella Introduzione
all’arte del dire, una espressione in forma metrica o ritmica, che
si eleva con un certo artificio sulla forma volgare del discorso.
Come esempio di espressione ritmica si può dare: «immensa Terra ed
etere di Zeus»65. Quanto alla poesia, essa è una composizione
poetica di un certo significato, che contiene una imitazione di cose
umane e divine66.
La definizione, come dice Antipatro nel libro I dell’opera Delle
definizioni, è un discorso proferito in maniera analitica e in forma
delimitata; oppure, come dice Crisippo nel suo Delle definizioni, è
un’espressione che rende la particolare proprietà. Il riassunto è un
discorso che rende in sintesi l’oggetto, oppure una definizione che
in forma più breve rende lo stesso significato della definizione
vera e propria. Il genere è una forma comprensiva (σύλληψις) di
diversi concetti non separabili fra loro, così per esempio
«animale»: esso infatti comprende in sé le specie particolari degli
animali. Il concetto è una formazione rappresentativa della mente,
che in realtà non è né una sostanza né una qualità, ma in certo modo
è l’uno e l’altro: così per esempio quando nasce nella mente una
forma67 di cavallo pur non essendo presente alcun cavallo. La specie
è ciò che è compreso nell’ambito di un genere: così per esempio
«uomo» è compreso entro «animale». Alla sommità della serie dei
generi è ciò che, essendo genere, non è compreso nell’ambito di
alcun altro genere, così come per esempio è l’essere68; specie
ultima, al contrario, è ciò che, essendo specie, non è suddivisa in
ulteriori specie, per esempio Socrate. La divisione di un genere è
la sua partizione in specie affini, per esempio: «degli animali
alcuni sono ragionevoli, altri irragionevoli». La divisione per
opposizione è invece la partizione di un genere in parti opposte,
come si fa per mezzo della negazione: per esempio: «delle cose che
sono, le une sono buone, le altre non buone». La suddivisione è una
divisione che si aggiunge ulteriormente a un’altra, per esempio:
«delle cose che sono le une son buone, le altre non buone; delle non
buone le une sono cattive, le altre indifferenti». La partizione di
un genere è la sua articolazione in certi ambiti, come dice Crinide;
per esempio «delle cose buone alcune si riferiscono all’anima, le
altre al corpo». L’ambiguità consiste in un’espressione che
significa due o più cose di per sé e secondo l’uso comune, sì che
con essa, si possono voler indicare più cose diverse: per esempio la
frase αὐλητρίς πέπτωκε (la flautista è caduta) può significare
questo oppure anche «la corte è caduta tre volte»
(ἀὐλὴ τρὶς πέπτωκε).
La dialettica, secondo Posidonio, è la scienza delle cose vere e non
vere e né vere né false; essa, come dice Crisippo, verte intorno a
significanti e significati.
Nei loro scritti sull’espressione gli Stoici dicono quindi tutto
questo. Nella trattazione relativa agli oggetti del discorso e alle
cose significate, è posto il loro discorso circa i significati, le
proposizioni perfette, i giudizi e i sillogismi, e quello circa le
proposizioni difettose, i predicati, le forme rette, le oblique.
Dicono che il significato è ciò che sussiste in base a una
rappresentazione dell’intelletto. Dei significati gli Stoici
ritengono che alcuni siano perfetti, altri difettosi69. I difettosi
sono quelli che nella loro espressione non sono specificati: così
per esempio «scrive», e noi domandiamo: «chi?» Invece quelli
perfetti sono quelli che sono specificati nell’espressione, come per
esempio «Socrate scrive». Ai significati difettosi appartengono i
semplici predicati; a quelli perfetti i giudizi, i sillogismi, le
interrogazioni, i quesiti. Il predicato è ciò che si afferma di una
cosa, oppure è una certa connessione riguardante una o più oggetti,
come dicono Apollodoro e i suoi; oppure è un significato difettoso
al caso retto che serve a dar luogo a un giudizio. Dei predicati
alcuni sono forme indicanti accidenti, ad esempio «navigare fra gli
scogli»70… Dei predicati alcuni sono attivi, altri passivi, altri
ancora né attivi né passivi. Quelli attivi sono quelli
sintatticamente connessi con uno dei casi obliqui, e danno luogo a
un’espressione predicativa71: così per esempio «ascolta», «vede»,
«discorre». I passivi sono quelli sintatticamente connessi con un
complemento di agente, come per esempio «sono udito», «sono visto»;
né attivi né passivi sono quelli che non appartengono né all’uno né
all’altro tipo, come «pensare», «passeggiare». Fra i passivi sono da
annoverarsi anche i riflessivi, che sono azioni pur essendo passivi,
del tipo «si taglia i capelli»; chi si taglia i capelli subisce
anche lui stesso l’azione. I casi obliqui sono il genitivo, il
dativo, l’accusativo.
Un giudizio è ciò che è vero o falso; oppure è una cosa in sé
perfetta, oggetto di espressione di per sé, come dice Crisippo nelle
Definizioni dialettiche: «un giudizio è ciò che può essere affermato
o negato di per sé stesso, come per esempio: ‘è giorno’;
‘Dione passeggia’». Prende il nome di giudizio (ἀξίωμα) dal fatto
che lo si afferma (ἀξίοῦν) oppure lo si respinge: chi dice «è
giorno», afferma che è effettivamente è giorno. Se effettivamente è
giorno, il giudizio avanzato in merito è vero; se invece non è
giorno, quel giudizio è falso. Giudizio, interrogazione, quesito
differiscono fra di loro: così pure forme diverse sono quella
imperativa, di giuramento, deprecativa, ipotetica, per apostrofe, e
quella che indica una cosa simile al giudizio. Il giudizio è quello
che noi dichiariamo nel nostro dire, e che è o vero o falso.
L’interrogazione è una forma in sé perfetta come il giudizio, che
però richiede una risposta, del tipo: «forse è giorno?», e questa
non è né vera né falsa: perciò «è giorno» è giudizio, «è forse
giorno?» è interrogazione. Il quesito è una cosa alla quale non è
possibile rispondere con segni, come all’interrogazione, alla quale
basta accennare un «sì»; bisogna rispondere, ad esempio, «abita in
quel determinato luogo». L’espressione imperativa è quella dicendo
la quale diamo un ordine, per esempio «tu cammina fino alle correnti
dell’Inaco»72; l’espressione per giuramento… ‹Per apostrofe›73 è
quella con cui ci rivolgiamo a qualcuno, come per esempio: «o
illustre Atride, Agamennone signore di uomini»74. Quanto alla forma
simile al giudizio, è quella che, pur avendo forma espressiva in
certo modo simile al giudizio, per qualche sua parte ridondante o
per eccesso di pathos esce fuori dal genere dei giudizi, per esempio
«bello è il Partenone» e «quanto simile ai figli di Priamo è questo
bifolco»75. Ci sono anche espressioni in forma dubitativa che hanno
qualche differenza dai giudizi: per esempio: «non sono forse parenti
il dolore e la vita?»76 Interrogazioni, quesiti e forme simili a
queste non sono né vere né false, mentre lo sono i giudizi.
Dei giudizi alcuni sono semplici, altri non semplici, come dicono
Crisippo, Atenodoro77, Archedemo, Antipatro, Crinide. Semplici sono
quelli che consistono in un giudizio non reduplicato, come «è
giorno»; non semplici sono quelli che consistono in un giudizio
reduplicato (διφορούμενον), come «se è giorno, ‹è giorno›»78, o in
più giudizi, come «se è giorno, c’è luce». Nei giudizi semplici sono
compresi il giudizio negativo, denegativo79, privativo, predicativo,
dichiarativo, indefinito; nei giudizi non semplici il sillogismo
ipotetico e quello paraipotetico, quello congiuntivo e disgiuntivo,
quello che illustra la causalità e quello che illustra il rapporto
di più e meno. Il giudizio negativo (ἀποφατικόν) è, per esempio:
«non è giorno». Una specie di questo è il doppiamente negativo, che
è negazione della negazione, per esempio: «non è ‹non› giorno»;
questo si riduce all’affermazione «è giorno». Denegativo (ἀρνητικόν)
è quello che consiste di una parola negativa e del predicato, per
esempio: «nessuno passeggia». Privativo è quello che consiste di una
parola indicante privazione e una proposizione che equivale a un
giudizio, per esempio: «costui è privo di umanità». Predicativo è
quello che consiste di un caso retto e di un predicato, per esempio:
«Dione passeggia». Dichiarativo è quello che consiste di un caso
retto indicante qualcuno e di un predicato, per esempio: «questo qui
passeggia». Indefinito è quello che consiste di una espressione
indefinita o di più espressioni indefinite ‹e di un predicato›80,
come «qualcuno passeggia», «quello si muove». Dei giudizi non
semplici, il sillogismo ipotetico è — come dicono Crisippo nelle
Arti dialettiche, e Diogene nell’Arte dialettica — quello che ha
come elemento collegante la congiunzione «se». Questa congiunzione
annunzia che alla prima parte ne segue una seconda: per esempio: «se
è giorno, c’è luce». Il sillogismo paraipotetico è quello, come dice
Crinide nell’Arte dialettica, che è collegato dalla congiunzione
«poiché», cominciando con un giudizio e terminando con un altro, per
esempio: «poiché è giorno, c’è luce»: qui la congiunzione annunzia
non solo che al primo giudizio ne segue un secondo, ma che il primo
indica qualcosa che realmente sussiste. Il giudizio congiunto è
quello che è collegato da alcuni elementi congiuntivi, per esempio:
«ed è giorno, e c’è luce»; disgiuntivo è invece quello che è
separato da un elemento disgiungente come «oppure», per esempio: «o
è giorno oppure è notte»; in questo caso la congiunzione annunzia
che uno dei due membri è falso. Causativo è quel giudizio che è
sintatticamente collegato da un «perché»; per esempio: «perché è
giorno, c’è luce»; in certa maniera la prima delle due proposizioni
è causa della seconda. Quello che illustra la relazione del più è
quello sintatticamente collegato con la congiunzione che indica il
più e un ‹che›81 posto in mezzo al giudizio, per esempio: «è
piuttosto giorno che notte»; e contrario all’anzidetto è quello che
illustra la relazione del meno, per esempio: «è meno notte di quanto
non sia giorno».
Infine, i giudizi sono contrapposti l’uno all’altro in base alla
loro verità o falsità, e di essi l’uno nega l’altro: così per
esempio «è giorno» e «non è giorno». Un sillogismo ipotetico è vero
se il contrario del secondo membro è incompatibile col primo: per
esempio: «se è giorno, c’è luce»; questo è vero; l’espressione «non
c’è luce», contraria al secondo membro, è incompatiblle col primo.
Invece un sillogismo ipotetico è falso quando il contrario del
secondo membro non è incompatibile col primo; per esempio: «se è
giorno, Dione passeggia»; infatti il dire «Dione non passeggia» non
è in contraddizione col fatto che sia giorno. Il sillogismo
paraipotetico è vero quando, essendo cominciato con un giudizio
vero, ha come secondo membro un giudizio a questo conseguente; per
esempio: «se è giorno, c’è il sole sulla terra». È falso invece
quando, o ha inizio con un giudizio falso, o ha come secondo membro
un giudizio non conseguente al primo: per esempio: «poiché è notte,
Dione passeggia» nel caso che si parli mentre è giorno. Il
sillogismo causativo vero è quello che ha inizio con un giudizio
vero e come secondo membro un giudizio conseguente, per esempio: «è
giorno, c’è luce»; a «è giorno» consegue il fatto che ci sia luce;
ma a «perché è luce» non consegue il fatto che sia giorno. Causativo
falso è quello che o comincia con un giudizio falso e ha come
secondo membro un giudizio non conseguente rispetto al primo; per
esempio: «perché è notte, Dione passeggia». Credibile è quel
giudizio che induce all’assenso; per esempio: «chi ha generato
qualcosa, è madre di quello che ha generato». Tuttavia può essere
falso: per esempio la gallina non è madre dell’uovo.
Inoltre i giudizi possono essere possibili e impossibili; e possono
essere necessari e non necessari. Possibile è quello che indica
qualcosa che è vero in quanto le circostanze esterne non contrastano
a ciò, per esempio: «Diocle vive»; impossibile quello che indica
qualcosa che non può esser vero, per esempio: «la terra vola».
Necessario è quello che essendo vero non è suscettibile di essere
falso, o anche se ammette di esser falso ne è impedito da
circostanze esterne82; per esempio: «la virtù giova». Non necessario
è quello che è vero ma è anche possibile che sia falso se le
circostanze esterne non si oppongono; per esempio: «Dione
passeggia». Ragionevole è quello che ha più probabilità di essere
vero, per esempio: «domani saremo ancor vivi». E vi sono poi altre
differenze e altri casi di giudizi e transizioni dal vero al falso e
inversioni, di cui diciamo con ampiezza83.
Il ragionamento, come dice Crinide con la sua scuola, consiste in
una premessa maggiore, una minore, una conclusione: così per
esempio: «se è giorno, c’è luce; ma è giorno: quindi c’è luce». La
premessa maggiore è: «se è giorno c’è luce»; la minore, «ma è
giorno»; la conclusione, «quindi c’è luce». Il modo è come lo schema
del ragionamento, in questa forma: «se è il primo, è anche il
secondo; ma è il primo; quindi è il secondo». Il ragionamento modale
(λογοτρόπος) è quello combinato in base a entrambi; per esempio: «se
Platone vive, Platone respira; ma è il primo, quindi è il secondo».
Questo tipo di ragionamento è stato introdotto in casi in cui si
hanno formazioni di discorsi troppo lunghi, per non ripetere
ulteriormente una lunga premessa minore e dire tutta la conclusione
per esteso, ma concludere invece concisamente: «ma è il primo;
quindi è il secondo».
Dei ragionamenti alcuni sono conclusivi e altri non conclusivi; non
conclusivi sono quelli in cui l’opposto della conclusione non
contrasta con la connessione delle premesse, di questo tipo: «se è
giorno, c’è luce; ma è giorno; quindi Dione passeggia». Dei
ragionamenti conclusivi, gli uni, in forma omonima rispetto al
genere, si dicono semplicemente conclusivi, gli altri
sillogistici84. Sillogistici sono quelli che non sono suscettibili
di dimostrazione, oppure quelli riconducibili ai non dimostrativi in
virtù di una delle premesse o di alcune; per esempio: «se Dione
passeggia, vuol dire che Dione si muove». Conclusivi sono, secondo
la specie, quelli che non procedono sillogisticamente, come per
esempio: «è falso che possa essere insieme giorno e notte; ma è
giorno; non è dunque notte». Non sillogistici sono anche quelli che
hanno una certa somiglianza di credibilità coi sillogistici, ma non
procedono a conclusione allo stesso modo, come per esempio: «se
Dione è un cavallo, Dione è un animale; però Dione non è un cavallo;
dunque Dione non è un animale».
Ancora: dei ragionamenti alcuni sono veri, altri falsi. Veri sono
quei discorsi che procedono alla conclusione per mezzo di
proposizioni vere, come: «se la virtù giova, il vizio danneggia; ‹ma
la virtù giova; quindi il vizio danneggia›»85. Falsi sono quelli che
o contengono una qualche falsità nelle premesse oppure sono non
conclusivi, come per esempio: «se è giorno, c’è luce; ma è giorno;
quindi Dione vive». E vi sono poi ragionamenti possibili e
impossibili, e ragionamenti necessari e non necessari; ve ne sono
anche di non dimostrativi, per il fatto che non si valgono di
dimostrazione; e il numero di questi è fissato in vario modo dai
vari autori, Crisippo comunque ne fissa cinque, in base ai quali si
compone ogni tipo di ragionamento; li si applica nei ragionamenti
conclusivi, sillogistici, modali. Il primo ragionamento non
dimostrativo è quello in cui tutto il ragionamento consiste in una
connessione delle premesse e un secondo membro uguale alla prima
delle premesse, che introduce poi la conclusione, per esempio: «se è
il primo, è il secondo; ma è il primo; dunque è il secondo». Il
secondo ragionamento non dimostrativo è formato dalla connessione
delle premesse e dal contrario della seconda premessa, avente poi
come conclusione il contrario della premessa iniziale; per esempio:
«se è giorno, c’è luce; ma è notte; dunque non è giorno». Il terzo
ragionamento non dimostrativo consta di una prima premessa fatta di
una connessione di proposizioni negative e di un secondo membro che
è uguale a una delle proposizioni stesse, avente come conclusione il
contrario dell’altra; per esempio: «non è possibile che Platone sia
morto e insieme viva; ma Platone è morto; dunque Platone non vive».
Il quarto ragionamento non dimostrativo consiste in una premessa che
è una proposizione disgiuntiva e di un secondo membro che è una
delle due parti della disgiunzione, avente poi come conclusione il
contrario dell’altra; per esempio: «o è il primo o il secondo; ma
non è il primo; quindi non è il secondo». Il quinto ragionamento non
dimostrativo è quello in cui tutto il ragionamento consta di una
proposizione disgiuntiva e del contrario di una delle due parti
della disgiunzione, che ha poi come conclusione l’altra; per
esempio: «o è giorno, o è notte; ma non è notte; dunque è giorno».
Gli Stoici ritengono che al vero consegua il vero: per esempio, a «è
giorno» consegue «c’è luce». E così al falso consegue il falso: se
si afferma falsamente che è notte, si afferma anche falsamente di
conseguenza che è buio. Tuttavia al falso può anche conseguire il
vero: per esempio, alla frase «la terra vola» consegue «la terra
esiste». Al contrario, a una verità non può conseguire nulla di
falso: a «la terra esiste» non può conseguire «la terra vola»86.
Vi sono poi alcuni ragionamenti insolubili, che sono il velato, il
nascosto, il sorite, il cornuto, il nessuno. Il velato per esempio
si enuncia così:…87 «Non è possibile che due siano pochi, e non lo
siano anche tre, e lo siano tre e non lo siano anche quattro, e così
via fino al dieci; ma due sono pochi; quindi lo sono anche dieci»…
Il «nessuno» è un ragionamento concludente che consta di un giudizio
indefinito e uno definito, munito di premessa minore e conclusione
‹indefinita›88; per esempio: «se uno è qui, non è a Rodi; ‹ma è
qui; quindi non è a Rodi›… Questa è dunque la logica degli Stoici,
che affermano con gran convinzione che solo vero dialettico è il
sapiente.
CICERONE, Acad. pr., 28, 91 = fr. 60 Hülser
Voi dite che la dialettica è stata inventata con funzione di
discriminatrice e giudice del vero e del falso.
SESTO EMPIRICO, Adv. ethicos, 187 = SVF II, 123
ed essi stessi (gli Stoici) definirono la dialettica scienza di ciò
che è vero, di ciò che è falso e di ciò che non è né vero né
falso89.
SESTO EMPIRICO, Adv. logicos, I, 38-45 = SVF II, 132
Alcuni, e soprattutto gli Stoici, ritengono che la verità differisca
dal vero per tre aspetti, per la sostanza, per la forma, per gli
effetti pratici90. Per la sostanza, in quanto la verità è una entità
corporea, il vero è un incorporeo; e ben a ragione, essi sostengono;
il secondo, infatti, è un giudizio, e il giudizio è un
'significato', e il significato è incorporeo. Da un altro punto di
vista, la verità è una entità corporea in quanto essa pare
consistere nella scienza che esprime la verità di tutte le cose; ma
ogni scienza è la parte direttiva (dell’anima) atteggiata in un
certo modo91, così come la mano disposta in un certo modo si dice
pugno; ora, la parte direttiva per costoro è una entità corporea;
perciò anche la verità appartiene al genere delle entità corporee.
Per la forma, in quanto il vero è pensato nella sua essenza come
omogeneo e semplice (così sono per esempio le espressioni: «è
giorno» o «io sto parlando», riferite al momento presente) mentre la
verità, in quanto si pone come scienza, al contrario deve esser
concepita come un sistema e un organismo formato di più parti.
Secondo lo stesso ragionamento per cui altra cosa è il popolo e
altra il cittadino, (il popolo infatti è un insieme di più cittadini
e il cittadino è un solo individuo), con lo stesso ragionamento si
devono differenziare la verità e il vero: la verità è simile per sua
essenza al popolo, il vero al cittadino, per il fatto che l’una è un
organismo complesso, l’altro è semplice. Quanto agli effetti
pratici, essi sono reciprocamente altro in quanto il vero non deve
di necessità far parte di una scienza (anche l’uomo vile, lo
sciocco, il folle possono dire in qualche momento qualcosa di
oggettivamente vero, senza possedere la scienza del vero), ma la
verità è pensata come tutt’uno con la scienza; per cui chi la
possiede è un sapiente (possiede infatti la scienza dei singoli
veri) e non mente mai, neanche se dica qualcosa che è falso, perché
lo dice in base a una disposizione non cattiva ma buona: per
esempio il medico che dica un bugia per il bene del paziente
dice sì qualcosa di falso, se gli fa credere che gli dà un rimedio
che in effetti poi non gli dà, ma non mente, giacché così facendo ha
riguardo alla salvezza del paziente; e così pure i migliori fra gli
strateghi, i quali spesso, per incoraggiare i soldati sottoposti al
loro comando, foggiano lettere facendo credere che sono mandate
dalle città alleate, fanno sì che qualcosa di falso si compia con
questo, tuttavia non mentono, giacché non lo fanno con intenzione
malvagia; e così come un grammatico, quando voglia dare un esempio
di solecismo, dice un solecismo, ma non solecizza, in quanto non fa
ciò per ignoranza del retto uso della lingua, allo stesso modo il
sapiente — cioè colui che possiede la scienza del vero — potrà
qualche volta dire oggettivamente alcunché di falso, non dirà mai
tuttavia una vera menzogna, perché la sua mente non avrà dato
l’assenso a qualcosa di falso. Ed essi dicono ancora: che si debba
giudicare della verità o falsità in base al reale intento e non alla
pura e semplice espressione, lo si può provare in base agli esempi
che si adducono: per esempio il nome di «becchini» è dato sia a
quelli che spogliano i morti per lucro sia a quelli che scavano per
essi la tomba, ma nel primo caso essi ricevono punizioni per aver
compiuto l’atto in virtù di disposizione malvagia, nel secondo,
per la ragione opposta a questa, ricevono compenso per il servigio
prestato. E dunque ben chiaro che dire qualcosa di falso è ben
diverso dal mentire, in quanto l’una cosa si compie in base a buona
disposizione, il mentire in base a disposizione cattiva.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 1, 8 segg. Wallies= SVF
II, 124
È conveniente premettere che il nome di dialettica non è usato da
tutti i filosofi con lo stesso significato; per esempio gli Stoici,
in quanto definiscono la dialettica «scienza del parlare bene», e
ripongono il «parlare bene» nel dire ciò che è vero e che è
conveniente, ritenendo che ciò sia proprio del filosofo in base alla
forma più perfetta di sapere che questi esercita, danno al termine
un significato in riferimento ad essa, e per questo affermano anche
che solo il filosofo è dialettico.
PAP. 1020, Herc. Voll. coll. alt. Χ, 112-11792 = SVF II, 131
…Apprezziamo la cautela e la ponderatezza, mentre rettamente
condanniamo le disposizioni opposte. La cautela è la disposizione in
virtù della quale non si dà l’assenso prima della comprensione…93
che si tiene salda nei riguardi delle rappresentazioni e non
presenta alcun cedimento nei riguardi di quelle non comprensive. La
cautela deve essere tale da non lasciarsi trasci‹nare› dalla
rappresentazione non comprensiva, e dominare gli assensi … e non
seguire senz’altro le rappresentazioni…94
…Per pr‹ima cosa›, circa uomini siffatti, non credo che sia vero che
gli uomini buoni in realtà non esis‹tano›; ‹non› credo che ciò sia
impossibile, ma solo cosa di ‹ar›duo e difficile conseguimento, ma
al tempo stesso anche poi ben ‹diffi›cile a perdersi; perciò si dice
che gli dèi hanno posto, davanti alla virtù, il sudore95. Quanto al
fatto che il sapiente non abbia opinioni, diciamo che ad esso
conseguono ‹queste cose›: in primo luogo non c’è nulla che a lui
sembri senza veramente essere: la vana cre‹denza›96 è una opinione
senza comprensione; né egli crede nulla alla stessa maniera; perché
anche la vana credenza è allo stesso modo opinione senza vera
com‹prensio›ne(?)97
Non esser confutati è proprio del saggi … né ri‹credersi›, e allo
stesso modo non cambiare convinzione; nessuna di essi potrà avere un
fraintendimento o un’idea sbagliata, non è su‹scettibile infatti› di
recepire una falsa ‹supposizione›…98 né, conseguentemente a
ciò, potrà fare errori di calcolo egli stesso ‹né si› lascerà
ingannare nel calcolo da un altro; in‹oltre› non si ingannerà nella
vista o nell’udito o in alcun altro dei ‹se›nsi … chi si in‹gan›na
nella vista, infatti, necessariamente è uno che per mezzo della
vista ha una rappresentazione sbagliata, ‹e quindi è suscettibile
di› recepire ‹il falso›…99… ne cons‹egue› che il sapiente non ignora
nulla; e ‹da ciò› discendono da vicino altre conseguenze: insieme
con le cose anzidette, tutte quelle che sono malvagie non esistono
per l’uomo saggio, ma neanche quelle che non hanno alcun valore, per
il fatto che queste non si verificano nei procedimenti logici senza
errori.
Il sospetto, l’ignoranza, la ‹malaf›ede e tutte le cose si‹mili› a
questa sono esempi di cose malvagie, ma l’‹inabi›lità e l’errore nel
vedere o nel calcolo appartengono alle cose che non hanno valore…100
… a tutto questo, come essi dicono, consegue che i ‹sap›ienti sono
esenti da inganno e da errore come già secondo Aristotele101 e
compiono bene tutto quel che compiono; e per quel che riguarda gli
atti di ‹asse›nso, si ‹comprenda› che essi non possono divenire
altrimenti ‹da come sono›; ma mediante la comprensione si verifica
in loro una attenzione maggiore102. La filosofia è in primo luogo
sia ‹cura› sia scienza della correttezza del linguaggio, ed è la
stessa cosa che la scienza del ragionamento; penetrando nella
articolazione del discorso e nella sua ‹com›posizione, possiamo far
retto uso di esso; e chiamo qui ragione (= discorso) qualcosa che è
per natura inerente a tutti gli esseri razionali. Se la dialettica
per noi è scienza del ben saper argomentare…103
…non è credibile che ‹chi sia bravo nell’argomentare non lo sia
anche nell’arte di interrogare e rispondere›104; né che chi sia
bravo nell’arte di interrogare e rispondere non lo sia anche nel
contraddire e nel sottrarsi (alle insidie?), e chi si trovi in
condizione di essere ingannato non sappia contrapporsi e sfuggire.
Chi è capace di ben argomentare è anche capace di ben interrogare e
rispondere, mentre non è così per chi è suscettibile da lasciarsi
‹ingan›nare; né nel caso che egli ris‹pondesse rettamente a
discorsi› falsi e ingan‹nevoli› gli servirebbe ‹avere› una certa
pratica di argomentazione, ma (forse piuttosto?) quella (scienza?)
teoretica che arriva fino alle cose minime…105
…quanto a colui che è suscettibile di inganno (non riuscirà a
sostenere l’assalto?) di un ‹contraddittore› capace
nell’argomentare, essendo soggetto a poter essere raggirato e
incapace di mantenersi inattaccabile dalle argomentazioni capziose.
Chi dica il vero farà obiezioni a quanto questi egli dice, e si
opporranno(?) a quelli che dicono il falso; ma i buoni sono esenti
da confutazione, e capaci di comprensione, autosufficienti nei
giudizi, e di confutare il ragionamento distruttivo e di rafforzare
i propri argomenti difendendoli contro quelli ‹oppo›sti: di
necessità infatti essi sono saldissimi di fronte a qualsiasi
confutazione e nel loro assenso contro gli argomenti ‹contra›ri…
ALESSANDRODI AFRODISIA, In Arist. Metaph., p. 301, 17 segg. Hayduck
= SVF II, 133
Quanto al non ritenere che qualcuno possa mentire più di un altro,
come è opinione degli Stoici, è falso e contro l’evidenza.
GALENO, In Hippocr. de med. offic., XVIII Β, p. 649 Kühn = SVF II,
135
E in seguito a tutte le sensazioni pose la riflessione, cioè il
pensiero, quello che gli uomini chiamano generalmente intelletto e
mente e discorso. Poiché esiste anche un discorso che è
semplicemente una emissione della voce, quei filosofi, per definire
il discorso vero e proprio nel senso che si è detto poc’anzi, lo
chiamano interiore; è quel discorso in virtù del quale riconosciamo
l’accordo fra le proposizioni e le loro discordanze, in cui è
compreso anche tutto ciò che ha rapporto con la divisione, la
sintesi, l’analisi, la dimostrazione.106
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 275 = SVF II, 135
Dicono che l’uomo non differisce dagli animali irragionevoli per il
discorso in quanto emissione della voce (emettono voci articolate
anche i corvi, i pappagalli, le gazze), ma per il discorso
interiore; e non per la rappresentazione pura e semplice (anche gli
animali possono avere rappresentazioni), ma per la rappresentazione
capace di passare da un oggetto all’altro e di forma complessa.
Perciò l’uomo, che ha nozione della conseguenza, può immediatamente
passare, in virtù di questa, alla nozione del segno: «se è questo, è
quest’altro». Che il segno esista, dipende direttamente dalla natura
e dalla struttura dell’uomo.
Scholia in Arat, 1, p. 335, 17 segg. Maass = SVF II, 139
Così suppongono gli Stoici e in particolare quanti, volendo definire
per iscritto la voce, la chiamano «aria percossa».
Scholia in Hesiod. Theog., v. 266, p. 53 Di Gregorio = SVF II, 137
Dicono Iris il discorso come emissione della voce, dal fatto che
«dico» (λὲγω) si può esprimere anche con εἴρω107.
GELLIO, Noct. Att., V, 15 = SVF II, 141
Ma gli Stoici dicono che la voce è un corpo, e la chiamano «aria
percossa».
Ps. GALENO, In Hippocr. de Humor. I, XVI, p. 204 Kühn = SVF II, 144
Non sono la stessa cosa la voce, la lingua, la parola. La voce è
prodotto degli organi fonetici, la lingua degli organi che
articolano il discorso: dei quali primo è la lingua, poi vengono il
naso, le labbra, i denti. Invece organi fonetici sono la gola e i
muscoli e nervi che le danno movimento, tutti quelli che dal
cervello portano ad essa la sua forza. Quanto a parola (αὐδή), gli
antichi non diedero tale nome a tutto ciò che si coglie propriamente
con l’udito, né a tutto ciò che passa per la bocca, comprendendo in
esso il piangere, il fischiare, il gemere, il tossire, ma solo alla
voce di tipo umano, quella per mezzo di cui discorriamo gli uni con
gli altri.
ORIGENE, Contra Celsum, I, 24 p. 74 Köttschau = SVF II, 146
Viene a cozzare con quanto si è detto un discorso profondo e
misterioso, quello che riguarda la natura dei nomi, siano essi per
convenzione, come crede Aristotele, o per natura, come ritengono gli
Stoici, poiché le primitive voci imitavano le cose — e in base a
queste essi individuano gli elementi dell’etimo originario.
AGOSTINO, De dialectica, 6, p. 92 segg. Pinborg = fr. 644 Hülser108
Affermano gli Stoici … che non vi è nessuna parola di cui non si
possa spiegare con precisione la ragione. E poiché si potrebbe
obiettare facilmente che sarebbe un andare all’infinito il voler
procedere per questa ricerca da una parola all’altra, essi dicono
che l’origine deve essere cercata risalendo a quel punto in cui la
parola corrisponda per somiglianza al suono: come quando diciamo il
risuonare del bronzo, il nitrito dei cavalli, il belato delle
pecore, lo strepito delle trombe, lo stridore delle catene. Ti
accorgi che queste parole hanno lo stesso suono delle realtà che
vengono con esse indicate. Ma, poiché ci sono anche cose che non
emettono alcun suono, per esse vale il criterio della somiglianza
col tatto, si che, se esse toccano i sensi in maniera dolce o aspra,
così analogamente a seconda che la dolcezza o l’asprezza delle
lettere tocca l’udito è stato formato il loro nome… Essi credevano
che ci siano questi veri e propri incunaboli delle parole, fatti in
modo che in essi il senso delle cose si accordi con quello dei
suoni. Di qui prese poi inizio, secondo loro, la libertà di porre i
nomi a seconda dele somiglianze delle cose fra di loro… E di qui si
è arrivati fino all’uso improprio109, si che ci si vale in questo
caso non tanto della somiglianza con una certa cosa ma con una cosa
che le è prossima… Ma questo uso improprio di un vocabolo è ad
arbitrio di colui che parla. E si può arrivare fino a usare i nomi
per dire il contrario di ciò che essi indicano… A che pro
continuare? Si potranno fare tutti gli esempi che si vuole, ma
l’origine della parola non sfugge a queste quattro possibilità:
somiglianza delle cose e dei suoni, somiglianza fra le cose stesse,
prossimità, opposizione.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 36, 8 segg. Kalbfleisch = SVF II,
150
Più propriamente Aristotele chiamava sinonimi quegli appellativi che
insieme col nome hanno uguale anche il concetto, mentre gli Stoici
li chiamano «dai molti nomi», come dire che Paride e Alessandro sono
la stessa persona, o più semplicemente son detti «polionimi»110.
GALENO, De sophism. ex elocutione, 4, XIV, p. 595 Kühn = SVF II, 153
Da parte degli Stoici si afferma qualcosa anche riguardo a quelle
realtà che a ragione essi arrivano a vedere, se qualche forma cade
all’infuori di quanto si è detto. Una prova del genere può essere di
tipo induttivo111: e a ragione, altrimenti non si potrebbe porre
alcuna opinione di autori illustri come irrilevante. La definizione
dell’amfibolia, se sembra anche cozzare con molti dei nostri
princìpi, è meglio per ora tralasciarla: è proprio di questa ricerca
vederne altre oltre queste: prendiamo in particolare le differenze
delle amfibolie di cui si è detto. Quelle che sono ammesse da parte
di coloro che, fra essi, sono più famosi, sono otto. Una è quella
che comunemente viene chiamata «la flautista che cade», quella del
detto e del diviso (essa è comune del nome «flautista» e di quanto
di essa si dice). La seconda è quella secondo la «omonimia»112 che
riguarda gli appellativi semplici, per esempio «valoroso»; di valore
può essere il chitone o l’uomo. Terza è quella che riguarda
l’omonimia nei composti, per esempio: «l’uomo è»: si può trattare
della sua essenza o di un semplice caso, il discorso è quindi
ambiguo. Quarta è quella propria di un discorso difettoso, come «ciò
che è tuo»: manca il medio termine, che può essere per esempio padre
o padrone. Quinta è quella per eccesso, come per esempio: «gli vietò
di non navigare»: il «non» rende ambiguo il discorso con la sua
aggiunta; il discorso è completo col semplice vietare oppure col
«non navigare». Sesta dicono che è quella frase che non chiarisce
quale parte priva di significato sia collocata insieme con un altro
elemento del discorso; per esempio: «e in quel momento passò
oltre»113: l’elemento…114 sembra essere di doppio significato.
Settima è quella frase che non chiarisce quale parte significante
sia collocata con un’altra del discorso, come per esempio:
«cinquanta uomini lasciò il divino Achille (su) cento»115. Ottava la
frase che non chiarisce a che cosa un certo elemento si riferisca,
come per esempio: «Dione è Teone»: non si capisce infatti se si
faccia riferimento all’esistenza di entrambi, o al vero e proprio
fatto che Teone sia Dione o viceversa…
Questi sono i modi che vengono annoverati da quelli che fra loro
sono più famosi.
AMMONIO, In Arist. De interpr., p. 42, 30 segg. Busse = SVF II, 164
Quanto alla forma retta del nome nella declinazione, si usava far
ricerche presso gli antichi se fosse da chiamarla «caso» oppure no,
ma chiamare invece questa senz’altro «nome», in quanto ogni oggetto
viene nominato in questa forma, le altre forme invece «casi» in
quanto derivano per modificazione dalla forma retta. Di questa
seconda opinione primo sostenitore è Aristotele116 … della prima gli
Stoici e, seguendoli, coloro che fanno professione di arte
grammatica. E poiché i Peripatetici dicono loro … «in base a quale
ragionamento può esser giusto chiamare la forma retta caso, come se
«cadesse» da una qualche altra posizione?» … gli Stoici rispondono
che anche questa è caduta dal nome quale si trova all’interno
dell’anima: se vogliamo chiarire quella nozione di Socrate che
abbiamo in noi, proferiamo il nome «Socrate». Così come si dice che
la penna lasciata andare dall’alto cade rigida e diritta e assume
una posizione retta di caduta, così allo stesso modo riteniamo che
la retta denominazione cada dal pensiero, e che sia retta in virtù
della sua posizione di forma basilare della declinazione del nome
pronunciato.
Schol. in Dion Thr., p. 250, 26 segg. Hilgard = SVF II, 165
Gli Stoici definiscono il presente «presente intensivo», poiché
dicono che si tende ‹verso il passato› e il futuro: chi dice: «io
faccio», dice in pari tempo che ha già fatto qualcosa e che
continuerà a farlo.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 11 = SVF II, 166
Presso costoro vi era anche un’altra distinzione, secondo la quale
gli uni affermavano essere il vero e il falso posti nella realtà
significata, gli altri nell’espressione, altri ancora nel moto del
pensiero. Alla prima opinione aderirono fra i primi gli Stoici i
quali dicevano che vi sono tre cose strettamente collegate l’una con
l’altra, il significato, il significante, l’oggetto vero e proprio:
significante è la espressione, per esempio il nome «Dione»;
significato la realtà che esso indica e di cui noi abbiamo
comprensione come di qualcosa che si pone di fronte al nostro
pensiero (i barbari non lo afferrano, pur intendendo il suono
materiale della voce); l’oggetto è ciò che è esterno al pensiero, in
questo caso, per esempio, Dione in carne e ossa. Di queste due cose,
due sono corporee, l’espressione vocale e l’oggetto: una, la realtà
significata, è invece incorporea, e prende appunto il nome di
«significato». Nel significato risiede il vero e il falso, tuttavia
esso non ha sempre universalmente lo stesso valore: può trattarsi di
un discorso imperfetto o di un discorso compiuto; a quest’ultimo
tipo appartiene quello che si chiama il giudizio, cosicché essi
nelle loro trattazioni dicono: «è il giudizio che è vero o falso».
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 80 = SVF II, 167
Ogni significato deve essere detto (λέγεσθαι); è da questo che trae
il suo nome (λεκτόν). … Ma «dire», come affermano gli stessi Stoici,
è pronunciare una espressione semantica relativa all’oggetto
pensato, quale per esempio questo verso: «canta, o dea, la furia del
Pelide Achille»117.
AMMONIO, In Arist. De interpr., p. 17, 24 segg. Busse = SVF II, 168
Aristotele, per mezzo di ciò, insegna quali siano le cose che in
forma primaria e con continuità vengono significate dalle
espressioni; queste cose sono i pensieri, e, mediante queste, si
indicano le realtà; né c’è altro che debba concepirsi come
intermedio fra il pensiero e la realtà, come vollero supporre gli
Stoici chiamando ciò «significato».
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 9, 31 segg. Kalbfleisch = fr. 703
Hülser
… ma le cose che sono dette (τὰ λεγόμενα) e i significati (τὰ λεκτά)
sono i pensieri (τὰ νοήματα), come ritenevano anche gli Stoici.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 224 = SVF II, 170
Non è possibile insegnare qualcosa di corporeo, e questo è sostenuto
soprattutto dagli Stoici: ciò che si insegna, infatti, sono i
significati; e i significati non sono corporei.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 11, 1037d = SVF II, 171
Essi dicono che chi vieta qualcosa compie tre azioni: dice qualcosa,
vieta qualcosa, ne comanda un’altra: chi, per esempio, dice «non
rubare», in pari tempo dice ciò, «non rubare», vieta ‹di rubare,
comanda di› non rubare118.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 387, 18 segg. Kalbfleisch = SVF II,
172
Tra gli Stoici, che hanno dato molta importanza alle trattazioni
logiche, e fra l’altro alla trattazione del problema dei contrari,
si cerca di dimostrare che Aristotele ha offerto tutte le possibili
argomentazioni in un solo libro, intitolato appunto Dei contrari,
libro nel quale peraltro vi è anche una notevole quantità di aporie
di cui essi riportano piccola parte, né è ragionevole gettar tutto
il resto alla rinfusa nella loro introduzione alla logica. Ma
diciamo in quali cose gli Stoici concordano con Aristotele. Dal
momento che era stata stabilita una antica definizione degli
opposti, quella che abbiamo citato anche prima, che cioè le realtà
che si richiamano allo stesso genere differiscono moltissimo fra
loro, Aristotele espose questa definizione nel Dei contrari
sottoponendola a prova in più forme… Essendosi egli poi valso di
tale definizione anche nella trattazione della quantità, dopo aver
premesso che si tratta di una definizione degli antichi, gli Stoici
successivamente la raccolsero e se ne valsero anch’essi, da un lato
denunziando ciò che vi era in essa di fallace, dall’altro lato
tuttavia cercando di risolvere tutti i suoi aspetti che apparivano
assurdi… Insomma gli Stoici si valsero di tutti questi procedimenti
anche nelle altre questioni concernenti i contrari, seguendo
pedissequamente Aristotele; è questi che li ha forniti di tutti gli
appigli alle loro argomentazioni, con quel suo libro Dei contrari119
che essi hanno poi rielaborato nei loro propri libri.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 388, 24 segg. Kalbfleisch = SVF II,
173
Presero essi infatti in esame tutte le disposizioni contrarie, come
Aristotele, quali la saggezza e la stoltezza; e i predicati
contrari, per esempio l’esser saggio e l’esser stolto; e i termini
intermedi, come saggiamente e stoltamente. Non considerano opposti,
ma «stanti in opposizione» le qualità e i modi di essere; non
questo è opposto a quest’altro, essi dicono, ma senza medio termine
il saggio allo stolto; se anche diciamo che questo è opposto a
quest’altro, usiamo questa espressione guardando a quelle cose che
non hanno termine medio, essi dicono. In maniera, più propria, si
osserva l’opposizione in relazione alle disposizioni, gli
atteggiamenti, gli atti, tutte le realtà di questo tipo. In secondo
luogo, opposti si dicono i predicati e tutto ciò che in un certo
modo si predica in relazione a quelli. Anche la coppia di termini
saggiamente-stoltamente si avvicina in qualche modo all’opposizione.
Ma l’opposizione si osserva soprattutto riguardo ai fatti, e la
saggezza si dice così immediatamente opposta alla stoltezza, non
questa a quella. Se tale è la dottrina che insegnano gli Stoici,
vediamo ora in che modo essi abbiano tratto tale dottrina
dall’insegnamento di Aristotele.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 405, 25 segg. Kalbfleisch = SVF II,
175
Anche gli Stoici sostengono che non c’è alcuna delle negazioni che
possa dirsi opposta a un’altra; in questo caso sarebbe opposta alla
virtù la non-virtù e al vizio il non-vizio; ma sotto la non-virtù
viene a cadere non solo il vizio, ma anche molte altre realtà: anche
la pietra, il cavallo, e tutte le altre realtà che esulano dal campo
della virtù. Cosi pure sotto il vizio verrebbero a ricadere non solo
la virtù, ma anche tutte le altre cose. Se così fosse, avverrebbe
che tutte le realtà fossero opposte a una sola, e la virtù e il
vizio avrebbero gli stessi opposti: avverrebbe che gli indifferenti
sarebbero opposti alle cose buone e cattive: ma questo è assurdo, e
soprattutto se si tratta sia delle stesse cose sia di cose diverse.
E quanto al fatto che vi siano due opposti sotto i quali vengono da
un lato a ricadere tutte quelle che sono le qualità, come sotto la
virtù e il vizio, dall’altro tutte le qualità e le realtà da esse
contrassegnate, come la non-virtù e la non-vizio (sotto queste
sarebbero infatti da porsi le qualità, le cose contrassegnate da
qualità, gli atti e tutto ciò che è) — anche questo è assurdo. Così
dunque dagli Stoici sono trattati il problema degli opposti e quello
delle opposizioni per negazione.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 403, 29 segg. Kalbfleisch = SVF II,
176
È chiaro che le cose anzidette si addicono alle opposizioni e ai
casi in cui l’opposizione è spinta al sommo grado: esse sono infatti
assolutamente tali da abolirsi a vicenda e da non poter coesistere,
per esempio la negativa in generale rispetto all’affermativa
parziale ο l’affermativa parziale rispetto alla negativa in
generale. Gli Stoici però ritengono semplicemente che le negative si
oppongano alle affermative.
Anecd. Graeca, p. 484 Bekker = SVF II, 176
Non vogliamo tralasciare niente di ciò che è detto dagli Stoici, i
quali parlano di una differenza del contraddittorio e del contrario
riferendosi a realtà che per natura sono differenti fra loro: il
contraddittorio è ciò che non può esser compreso in uno stesso atto
di pensiero, di cui si è già parlato precedentemente, come «è notte
e giorno», «parlo e taccio» e similmente. L’opposto è invece ciò che
ha, in più, la negazione120.
BOEZIO, In Arist. De interpr., p. 261, 26 segg. Meiser = fr. 922
Hülser
Se dunque, come vogliono gli Stoici, le negazioni fossero apposte
direttamente ai nomi, sì che la frase negativa fosse «non (l’) uomo
cammina», diverrebbe ambiguo, quando diciamo «non (l’)uomo», se si
tratti di una espressione indefinita, (= il non-uomo), oppure di una
finita ma congiunta con la negazione.
FILONE ALESSANDRINO, De agricult., 139, II, p. 122 Wendland = SVF
II, 182
Delle cose che sono, alcune sono corporee, altre incorporee; delle
corporee alcune prive di anima, altre dotate di anima; alcune dotate
di ragione, altre prive di ragione; alcune mortali, altre divine;
delle mortali la divisione fondamentale del genere umano è quella
fra maschio e femmina. A loro volta le realtà incorporee si dividono
in perfette e imperfette: alle perfette appartengono le
interrogazioni e i quesiti, le imprecazioni e i giuramenti, e tutte
le altre differenze riguardanti la specie che si trovano elencate
nelle trattazioni elementari riguardo a questa materia. Così pure si
può dire per quelli che i dialettici sono soliti chiamare giudizi;
di questi alcuni sono semplici ed altri composti; dei composti
alcuni sono congiunti ipoteticamente, altri giustapposti più o meno,
e poi ancora ve ne sono di disgiunti e altri di tipo affine; ve ne
sono di veri, falsi, oscuri, possibili e impossibili121; necessari e
non necessari, di soluzione facile o impossibile a risolversi, e
tutti gli altri tipi simili a questi. Ma poi degli incorporei
imperfetti ve ne sono che si riferiscono ai predicati e agli
accidenti di cui si è parlato, e altre divisioni minori connesse a
queste.
PORFIRIO, presso AMMONIO, De interpr., p. 44, 19 segg. Busse = SVF
II, 184
Ciò che si predica si predica o di un nome o di un caso, e di questi
uno può essere perfetto in quanto espressione predicativa, e
autosufficiente insieme con l’oggetto in vista della formazione di
una affermazione; oppure può essere difettoso, e necessitare di una
aggiunta per poter formare un predicato perfetto. Se dunque qualcosa
che viene predicato di un nome dà luogo ad una affermazione, questo
viene chiamato da loro «predicato» (κατηγόρημα) e predicato
accidentale (σύμβαμα) (tutte e due le denominazioni indicano la
stessa cosa): per esempio «cammina», «Socrate cammina»122. Ma se la
predicazione avviene di un caso obliquo, si chiama «para/predicato»
in quanto giustapposto a questo: per esempio quando abbiamo il verbo
«pentirsi», tale è la frase: «Socrate si pente»123.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 333, 26 segg. Kalbfleisch = SVF II,
185
Bisogna stare attenti quando l’azione o passione che si esprime dà
luogo a un’espressione attiva o passiva. Per esempio il recar dolore
appare attivo, l’addolorarsi passivo. Non sempre succede allo stesso
modo che nel caso di chi colpisca e sia colpito; non sempre avviene
che esista chi reca dolore, come nel caso che sia morto un figlio,
perché qualcuno può anche addolorarsi in senso puramente soggettivo;
può avvenire anche di non addolorarsi se non sussista più la
rappresentazione, che è produttiva e causa essa stessa del dolore.
Avviene talvolta che, cessando l’agente produttivo, persista la
sofferenza in chi soffre, poiché è la disposizione d’animo che è
causa di sofferenza, così come chi è stato bruciato dal fuoco
continua ad avvertire la bruciatura anche quando il fuoco si sia
ritirato. Di due diversi tipi è infatti la sofferenza: o è
strettamente legata all’azione che si esercita sul paziente, oppure
è considerata sotto l’aspetto della disposizione. Forse anche in
questo caso si unisce ad essa internamento un agente, sia questo la
rappresentazione o il fuoco che sopravviene dall’esterno. Nel
giudizio su questa materia conviene seguire i fatti, non le
espressioni verbali. Gli Stoici hanno fatto di essa una grande
trattazione, e ci sono rimasti la loro dottrina e la maggior parte
dei loro trattati.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 70 = SVF II, 187
Generalmente gli Stoici ritengono che nel significato stia la
distinzione fra vero e falso. Significato equivale per loro a ciò
che sussiste nella rappresentazione razionale: e razionale è quella
rappresentazione in cui è possibile spiegare razionalmente l’oggetto
rappresentato. Essi chiamano alcuni significati perfetti, altri
difettosi. Lasciando per il momento da parte questi ultimi, essi
dicono che fra i perfetti esistono molte differenze. Chiamano
«imperative» alcune proposizioni che noi formuliamo per dare
comandi, per esempio: «va dunque, cara sposa»124; affermative,
alcune con le quali affermiamo alcunché, per esempio: «Dione
passeggia»; quesiti, quelle che diciamo per porre una domanda, per
esempio: «dove abita Dione?»; alcune sono dette da essi anche
imprecative, quelle che diciamo per imprecare; per esempio: «possa
colare a terra il tuo cervello come questo vino»125; o precative,
quando nel dirle formuliamo una preghiera: «Giove padre, che governi
dal monte Ida, maestoso e massimo, / da’ la vittoria ad Aiace, dagli
di ottenere la splendida gloria»126. Dicono poi perfetti anche altri
giudizi con i quali asseriamo il vero o anche il falso. E vi sono
anche altre che sono di più che semplici proposizioni; per esempio
un’espressione come questa: «il bifolco assomiglia ai figli di
Priamo», è un giudizio col quale, asserendo la cosa, diciamo il vero
eppure il falso; ma se diciamo «come questo bifolco assomiglia ai
figli di Priamo!» questo è più che un giudizio e non è un giudizio
vero e proprio. Tuttavia, ammessa una sufficiente differenza in
ordine alla quale si possa dire che una cosa è vera o falsa,
l’essenziale è innanzitutto che si tratti di un significato, poi che
sia perfetto, che non sia una espressione generale qualsiasi ma un
vero e proprio giudizo; così come abbiamo già detto, noi possiamo
dire il vero e il falso solo con un simile modo del discorso.
AMMONIO, In Arist. De interpr., p. 2, 26 segg. Busse = SVF II, 188
Gli Stoici chiamano il discorso asseverativo (ἀποφαντικός) giudizio,
e il precativo deprecativo, e il denominativo dichiarativo; e a
questi aggiungono ancora cinque altri tipi, chiaramente riferentisi
a uno di quelli già enumerati; dicono che vi è anche un discorso
giurativo, per esempio: «sappia questo la madre terra»; uno
enunziativo, per esempio: «questa è una linea retta»; uno ipotetico,
per esempio: «poniamo che la terra sia al centro della sfera del
sole»; un altro simile al giudizio, per esempio: «come lussureggia
nelle vite umane la fortuna!»127; tuttavia tutti quelli che
implicano verità e falsità ricadono sotto il doscorso asseverativo…
Quinto oltre questi è il dubitativo (ἐπαπορητικός), per esempio:
«Dao giunge: che mai annunzierà?»; chiaramente questo discorso
appartiene al tipo dell’interrogazione, ma ha di peculiare il fatto
che anticipa la ragione dell’interrogazione128.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 539, 17 segg. Wallies =
SVF II, 191
In questo (libro) Aristotele dice che non sono interrogazioni
dialettiche quelle che indagano che cosa sia il loro oggetto, quelle
che presso i più recenti è invalso chiamare «quesiti».
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 406, 20 segg. Kalbfleisch = SVF II,
192
A parte questo, dicono, è stata già anticamente risolta la questione
nelle esegesi compiute circa quella definizione del giudizio che
distingue quale sia il giudizio vero dal falso: il discorso
giurativo di per sé non è né vero né falso, è ragionevole però che
nei giuramenti ci sia il giuramento retto e lo spergiuro; tuttavia
non è possibile che verità e falsità ineriscano al discorso stesso,
anche se il giuramento verta intorno a cose vere o false. E il
discorso indicante meraviglia (θαυμαστικός) che implica qualcosa di
sovrabbondante, appunto questo elemento della meraviglia, rispetto
al giudizio, e il discorso vituperativo che fa lo stesso implicando
il biasimevole, non è vero né falso di per sé, ma simile ai veri e
ai falsi129. Siano date questi, insomma, come esempi di soluzioni
tipiche della minuzia stoica.
CICERONE, Acad. pr., II, 29, 95 = SVF II, 196
Fondamento della dialettica è che ogni enunziato (essi chiamano ciò
col nome di ἀξίωμα) è vero o falso. E che? sono vere o false queste
affermazioni: «se dici di mentire e dici il vero, tu menti?»130 Ma
voi dite che ciò appartiene al genere degli inesplicabili… Ma se non
possono essere spiegati né vi è nessuna possibilità di giudicare se
siano vere o false, dove se ne va la definizione secondo cui
l’enunziato è ciò che è vero o falso?
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 10 = SVF II, 195
Gli Stoici dicono che delle cose sensibili e delle intellegibili
alcune sono vere, quelle sensibili non per prova diretta ma per
riferimento alle cose intellegibili che sono collocate al di là di
esse. E vero secondo loro ciò che è realmente sussistente e opposto
a qualcosa, falso ciò che non è realmente sussistente e opposto131 a
qualcosa; e ponendosi ciò come un giudizio incorporeo, è un
intellegibile.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 406, 34 segg. Kalbfleisch = SVF II,
198
Circa le contrapposizioni riguardanti il tempo futuro gli Stoici
ritengono che avvenga lo stesso che riguardo a tutte le altre cose.
Come riguardo alle opposizioni presenti e passate, così dicono che è
per le future e le loro parti. Il «sarà» è vero, o lo è il «non
sarà», dal momento che anche il futuro deve essere vero o
falso. Secondo le stesse categorie si giudicano gli eventi futuri.
Se vi sarà una battaglia navale domani, è vero dire che vi sarà; se
non vi sarà, è falso dire che vi sarà. O vi sarà, o non vi sarà; di
conseguenza l’una cosa o l’altra è vera o non vera.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 79 = SVF II, 199
C’è da dire che essi affermano che il giudizio perfetto è composto:
per esempio la frase «è giorno» consta di «è» e di «giorno». Però
nessun incorporeo può essere suscettibile di divisione e di
composizione, essendo queste proprietà tipiche dei corpi; e se ne
dovrebbe dedurre che non c’è nessun giudizio composto132.
PROCLO, In Eucl. elem. pr., pp. 193, 20-194, 4 Friedlein = SVF II,
200
E gli Stoici poi usano chiamare «discorso semplice» il giudizio
asseverativo; e quando ci hanno lasciato trattati dialettici «sui
giudizi», intendono illustrare ciò per mezzo di epigrammi.
BOEZIO, In Arist. De interpr., p. 234, 27 segg. Meiser = SVF II, 201
Gli Stoici poi posero come possibile ciò che è suscettibile di una
predicazione vera se non vi siano circostanze che lo impediscono,
circostanze che, anche se esterne, possono trovarsi congiunte con
essa; come impossibile quello che non può mai diventare vero poiché
altre circostanze dall’esterno impediscono che si verifichi133; come
necessario ciò che, essendo vero, in nessun modo può esser
suscettibile di una predicazione di falsità.
BOEZIO, In Arist. De interpr., p. 393, 12 segg. Meiser= SVF II, 201
Né si deve ignorare il fatto che gli Stoici ritengono esser il
possibile più generale del necessario; essi suddividono infatti le
enunciazioni in questo modo: «delle enunciazioni alcune sono
possibili, altre impossibili; e delle possibili alcune sono
necessarie, altre non necessarie; e per converso delle non
necessarie alcune sono possibili» ecc. Ma è stolto e sconsiderato
fare del possibile in questo modo da un lato un genere del non
necessario, dall’altro lato una sua specie.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 93-100 = SVF IL 205
I dialettici adducono come prima e principale differenza fra i
giudizi quella fra i semplici e i non semplici. Semplici sono quelli
che non constano di un giudizio ripetuto due volte134, né di giudizi
differenti legati da questo o quel nesso congiuntivo: per esempio:
«è giorno», «è notte», «Socrate discorre». Così come noi chiamiamo
la trama semplice anche se è composta da fili, purché questi fili
siano omogenei, non essendo questa una vera e propria composizione,
così allo stesso modo diciamo questi giudizi semplici perché sono
composti di alcuni elementi che però non sono essi stessi giudizi.
Perciò «è giorno» è giudizio semplice perché non è composto dello
stesso giudizio ripetuto due volte, né consta di giudizi diversi, ma
si compone di altri elementi, quali «giorno» e «è». Non vi è in esso
nemmeno una congiunzione. Non semplici sono invece quelli che sono
doppi e quelli che sono composti di un giudizio ripetuto due volte o
di diversi giudizi, con una congiunzione o più: per esempio: «se è
giorno, è giorno»; «se è notte, c’è buio»; «ed è giorno, e c’è
luce»; «o è giorno, o è notte». Dei giudizi semplici alcuni sono
definiti, altri indefiniti, altri né l’una cosa né l’altra. Definiti
sono quelli espressi a scopo indicativo, per esempio: «questi
cammina, questi siede». Con un giudizio di questo tipo, infatti, io
indico un uomo particolare. Indefiniti, per loro, sono quei giudizi
nei quali membro principale è una parola di significato indefinito;
per esempio: «qualcuno siede». Intermedi fra questi sono quei
giudizi che rispondono al tipo «un uomo siede», «Socrate passeggia».
Il giudizio «qualcuno passeggia» è indefinito in quanto non
definisce chi sia in particolare che sta passeggiando: esso può
applicarsi genericamente a ciascuno di quanti si trovano in
quell’atto. Invece il giudizio: «questi siede» è definito, dal
momento che definisce la persona in questione, indicandola. Il
giudizio: «Socrate siede» è intermedio fra i due tipi perché non è
indefinito — definisce infatti la specie — ma neanche definito,
perché si accompagna ad un’indicazione precisa del suo oggetto;
sembra perciò da ritenersi intermedio fra l’uno e l’altro, il
definito e l’indefinito. Dicono che il giudizio indefinito,
«qualcuno passeggia» o «qualcuno siede», è vero quando si riscontra
vero il corrispondente giudizio definito, «questi passeggia» e
«questi siede»: giacché se nessuna delle persone particolari siede,
il giudizio indefinito «qualcuno siede» non potrà mai esser vero.
Queste sono, in esposizione sommaria, le affermazioni dei dialettici
circa i giudizi semplici… Quanto al giudizio definito, «questi
siede», «questi passeggia», dicono che può esser detto vero quando
il predicato (passeggiare o sedersi) si accorda realmente con quello
che cade sotto la precisa indicazione.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, presso SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 1299,
36 segg. Diels = SVF II, 206
In base a questi discorsi, dice Alessandro, è possibile dimostrare
che certi tipi di giudizi secondo gli Stoici, quelli che alcuni di
essi dicono soggetti a variazione non circoscritta (ἀπεριγράφως),
non sono in realtà tali. Si tratta di giudizi come questo: «Se Dione
vive, Dione vivrà». Se anche un giudizio del genere è vero ora, dal
momento che prende inizio da una proposizione vera, come «Dione
vive» e finisce con un’altra vera, come «Dione vivrà», potrebbe
darsi che, pur essendo vera la premessa «ma Dione vive», l’insieme
del composto risultasse inficiato di falso per il fatto che il tutto
è proiettato nel futuro: non è detto che, se Dione vive, sia vero
anche che vivrà; e se questo risultasse non esser vero ne
risulterebbe la falsità di tutto il sillogismo composto; non sempre,
se è vero il «vive», può esser vero il «vivrà»; o altrimenti Dione
sarebbe immortale. Perciò, per chi definisce, non è lecito affermare
che se è vero che se si vive è anche vero che si vivrà. Di
conseguenza essi se la cavano col dire che la variazione in giudizi
di questo genere si verifica in un tempo non circoscritto e
indefinito135.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 124 segg. = SVF II, 211
Da questa trattazione bisogna adesso, passare a quella che si
riferisce alle proposizioni congiunte o disgiunte, e in generale
alle altre forme dei giudizi non semplici. Un ragionamento congiunto
può esser composto di membri semplici, o di non semplici, o di
misti; tutti questi casi sono soggetti agli stessi dubbi già esposti
per i ragionamenti semplici. E quanto poi essi dicono che
ragionamento corretto di tipo congiunto è quello che contiene tutti
i membri componenti veri, per esempio: «è giorno e c’è luce», mentre
ragionamento falso è quello che ha in sé almeno ‹un membro›
falso136, si impongono certe leggi in base alle quali dovrebbe
conseguire che, se è vero che un ragionamento composto di tutti
membri veri è vero e uno di tutti i membri falsi falso, uno composto
di membri parte veri parte falsi non dovrebbe esser l’una cosa
piuttosto che l’altra… Essi dicono però che, come nella vita
quotidiana noi diciamo che un mantello che sia sano per la maggior
parte e solo in piccola parte strappato non è sano ma rotto,
giudicandolo non in base alle sue parti sane che sono in maggior
numero ma in base a quella parte che è strappata, così anche un
ragionamento congiunto, abbia pure vera la maggior parte dei suoi
membri, basta che abbia un membro falso per esser contrassegnato da
quello.
DEXIPPO, In Arist. Categ., p. 22, 18 segg. Busse = SVF II, 209
Affermiamo che ragionano come gli Stoici quelli che chiamano
unicamente «connessione» (συμπλοκή) una espressione dotata di un
membro che serve da collegamento137.
GELLIO, Noct. Att., XVI, 8, 9 = SVF II, 213
Lo stesso avviene per quel tipo di giudizio che essi chiamano
συμπεπλεγμένον e noi «congiunto» o «copulato», del tipo seguente:
«Paolo Scipione, figlio di Paolo, fu due volte console, e fece il
trionfo, ed esercitò la censura, e nella censura fu collega di Lucio
Mummio». In tutto questo giudizio congiunto, se c’è anche una sola
menzogna, anche se tutti gli altri membri sono veri, ciò basta a
inficiare di menzogna il tutto.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 88-90 = SVF II, 214
Gli Stoici non riescono bene a spiegarci che cosa voglia dire
«opposto»; né quindi possono renderci perspicue le nozioni di vero e
di falso. Dicono essi infatti: «opposti sono quei termini l’uno dei
quali, rispetto all’altro, ha in più una negazione»: per esempio: «è
giorno — non è giorno»; di questi due giudizi, quello «non è giorno»
rispetto all’altro contiene in più la negazione «non», e perciò è
l’opposto dell’altro. Ma se questi sono gli opposti, saranno opposti
anche questi altri, «è giorno ‹e c’è luce» ed «è giorno e› non c’è
luce»138; rispetto al giudizio «è giorno ‹e c’è luce›» quello ‹«è
giorno e› non c’è luce» sovrabbonda della negazione. Però secondo
loro questi due invece non sono opposti. Non è vero allora che gli
opposti siano quelli in cui un termine ha rispetto all’altro una
negazione in più. «Sì» essi dicono «sono però opposti a condizione
che la negazione sia preposta all’uno dei due membri del giudizio;
allora essa lo caratterizza veramente; invece, nel caso che, come
in ‹è giorno e non c’è luce›, sia solo una parte del tutto, non
lo caratterizza e non rende l’insieme negativo».
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 108-111 = SVF II, 216
Quanto poi ai giudizi non semplici, essi sono, come si è già detto
sopra, quelli composti di un giudizio ripetuto, oppure di giudizi
differenti, e sono retti da una o più congiunzioni. Si prenda
anzitutto in esame, fra di essi, quello che si usa chiamare il
ragionamento ipotetico. Questo consta di un giudizio ripetuto o di
giudizi differenti legati fra loro dalla congiunzione «se» o
«giacché»; per esempio, di un giudizio ripetuto e della congiunzione
«se» consta un giudizio ipotetico di questo tipo: «se è giorno, è
giorno»; di giudizi differenti e della congiunzione «giacché»,
quest’altro: «giacché è giorno, c’è luce». Dei giudizi contenuti in
questo tipo di ragionamento ipotetico, ordinato con la congiunzione
«se» o «giacché», quello iniziale e primo si chiama premessa, quello
seguente e secondo si chiama conseguente; e anche se l’insieme del
giudizio si trova disposto in ordine inverso, come per esempio: «c’è
luce, giacché è giorno», «c’è luce» è pur sempre in esso il
conseguente, anche se espresso per primo, e antecedente è la
premessa «è giorno» anche se venga detta per seconda, in quanto è
posta dopo la congiunzione «giacché». Tale è, in breve, la struttura
del ragionamento ipotetico; e un giudizio di questo tipo chiaramente
annuncia che a quello che in esso è il primo membro consegue il
secondo, a quello che è l’antecedente il conseguente. Se una simile
promessa è mantenuta e la conseguenza è retta, il ragionamento
ipotetico risulta vero; e falso nel caso contrario139.
GALENO, Intr. dialect., 3, p. 8, 11 segg. Kalbfleisch = SVF II, 217
Giacché, quando noi riteniamo che per il fatto che non è una certa
cosa ne è un’altra, per esempio che, poiché non è notte, è giorno …
questo ragionamento è chiamato dai filosofi più recenti140 giudizio
disgiuntivo, così come è chiamato ipotetico l’altro tipo, quello
delle premesse ipotetiche, che diciamo verificarsi secondo una certa
successione continua; è più propria la denominazione «disgiuntivo»
per un giudizio (relativamente a quelle che abbiamo detto essere
premesse divise) che abbia in sé la congiunzione «o», «oppure»; è
indifferente che la congiunzione sia di una sola sillaba (ἢ) ο di
più (ἢτοι); mentre è più propria la denominazione di ipotetico per
un giudizio che abbia in sé la congiunzione «se» o «giacché»,
congiunzioni che hanno lo stesso significato. Perciò un giudizio di
questo tipo: «se è giorno, il sole è sopra la terra» secondo i
filosofi più recenti si chiama giudizio ipotetico … mentre giudizi
del tipo: «o è giorno oppure è notte» sempre secondo i filosofi più
recenti si chiamano giudizi disgiuntivi.
GALENO, Intr. dialect., 14, p. 32, 13 segg. Kalbfleisch = SVF II,
217
Le premesse disposte secondo successione continua, gli Stoici le
chiamano giudizi ipotetici; quelle disposte secondo divisione,
giudizi disgiuntivi; e concordano nel ritenere che in base al
giudizio ipotetico nascano due diversi sillogismi, e altri due in
base al giudizio disgiuntivo.
Epimerismi Homer., Anecdot. Oxon., Cramer, I, p. 188 = SVF II, 217
La congiunzione «o» nuda e cruda significa tre cose: può essere
disgiuntiva, ipodisgiuntiva, chiarificatoria… È disgiuntiva quando
di due realtà oggetto del discorso ne sceglie una, ne esclude
un’altra: «o è notte o è giorno» (una sola cosa è possibile, non
possono essere insieme tutte e due) … Paradisgiuntiva è quando può
accettar l’una e l’altra cosa, come quando diciamo: «curvandosi sul
remo o lo trae o lo respinge» (fa in realtà l’una cosa e l’altra)… È
chiarificatoria, e gli Stoici la chiamano confutativa, quando vi
sono soluzioni di questo tipo: «voglio che il popolo sussista e non
perisca»141, che è in realtà «piuttosto che (ἢπερ) perisca»: è detto
come sua volontà da Agamennone.
GELLIO, Noct. Att., XVI, 8, 2 = SVF II, 218
Ve n’è poi un altro che i Greci dicono διεζευγμένον e noi
disgiuntivo. È di questo tipo: «il piacere o è un bene, o è un male,
o non è né l’uno né l’altro». Necessariamente tutte le realtà che
sono disgiunte devono essere in disaccordo reciproco, e tra di esse
gli opposti, che i Greci chiamano ἀντικείμενα, sono anche contrari
gli uni agli altri. Fra tutte le realtà disgiunte una deve essere
vera, e false le altre. Se nessuna di esse è vera, oppure se ne è
vera più di una, vuol dire che le realtà disgiunte non sono in
disaccordo reciproco oppure che quelle che tra loro sono opposte non
sono contrarie; allora questo giudizio disgiuntivo è falso, e si
chiama παραδιεζευγμένον: così è per esempio un giudizio in cui gli
opposti non vengono contrapposti: «o corri o passeggi o stai fermo»
… In realtà si potrebbe nello stesso tempo non passeggiare, non
correre, non star fermi.
CICERONE, Acad. pr., II, 30, 97 = SVF II, 219
… poiché essi non ottengono che Epicuro riconosca la verità di ciò
che si esprime con la formula: «Ermarco domani vivrà o non
vivrà»142; mentre i dialettici, al contrario, affermano che tutto
ciò che è disgiunto in questo modo, «o anche o no», non solo è vero,
ma anche necessario143.
GALENO, Intr. dialect., 5, p. 12, 3 segg. Kalbfleisch = SVF II, 220
In alcuni giudizi possono esser tali (= veri) più membri o anche
tutti, è però necessario che ve ne sia almeno uno; simili giudizi li
chiamano «paradisgiuntivi» poiché i disgiuntivi hanno un solo membro
vero, sia che si compongano di due giudizi sia di un numero
maggiore.

Tazza d’argento dal Tesoro di Boscoreale, con iscrizioni greche
e scheletri rappresentanti Zenone (a sinistra, con la bisaccia)
ed Epicuro (a destra, con il maiale) che disputano
a proposito di una focaccia.
(Parigi, Museo del Louvre).
SESTO EMPIRICO, Adv, log., II, 140-160144
Dopo aver esposto tutte le difficoltà che riguardano il criterio
della verità, esaminiamo ora i metodi a ciò connessi e discendenti
da tale criterio che servono a giudicare della verità di ciò che non
cade immediatamente sotto la comprensione, cioè del segno e della
dimostrazione. Nell’ordine parliamo prima del segno: è mediante
questo infatti che la dimostrazione giunge a rivelare la sua
conclusione. Poiché, come si è detto sopra, vi è una distinzione
fondamentale delle cose, in evidenti e oscure, e evidenti si dicono
quelle che cadono immediatamente sotto i sensi e il pensiero, oscure
quelle che non sono comprensibili di per se stesse, … e poiché resta
ancora una differenziazione fra le cose oscure, riteniamo che sia
bene valersi di un metodo opportuno per confutare anche queste
argomentazioni… Si parla di «segno» in due differenti accezioni, in
senso generale e in senso particolare. In generale segno è ciò che
appare rendere alcunché evidente, in quanto siamo soliti chiamare
segno ciò che serve a richiamare un qualche cosa di conservato nella
mente in connessione con esso; in particolare parliamo di segno in
quanto rivelativo di una cosa oscura, ed è in questo secondo senso
che ci proponiamo ora di studiare la questione. Ma se si vuol
giungere a capire più chiaramente la natura del segno, bisogna aver
presente preliminarmente, come sopra si è detto, che delle realtà le
evidenti sono quelle che giungono alla nostra conoscenza, come nel
momento presente il fatto che sia giorno o che io stia discorrendo,
oscure quelle che non hanno tale carattere. Delle cose oscure,
alcune sono assolutamente oscure, altre oscure per natura, altre
occasionalmente. Le occasionalmente oscure sono quelle che, pur
essendo evidenti di per sé, secondo determinate circostanze e in
determinate occasioni possono diventare oscure, come a noi ora lo è
la città di Atene; per natura essa è chiara ed evidente, ma si rende
oscura in virtù della distanza frapposta. Oscure per natura sono
quelle che sono perennemente nascoste, e che non possono cadere
sotto la nostra chiara conoscenza, come gli interstizi compresi solo
dalla mente145 o la convinzione di alcuni filosofi naturalisti che
vi sia un vuoto infinito all’esterno del cosmo. Assolutamente oscure
si dicono quelle realtà che sono tali da non poter mai per loro
natura rendersi accessibili alla comprensione umana, per esempio se
gli astri siano di numero pari o dispari, o quanti siano i granelli
di sabbia nel deserto libico. Date dunque quattro specie differenti
di realtà, le evidenti, le assolutamente oscure, le oscure per
natura, le occasionalmente oscure, affermiamo che non tutte
necessitano di segni, ma solo alcune di esse. Si può subito dire che
non necessitano di segni né le evidenti né le assolutamente oscure:
non le evidenti perché possono esser afferrate di per sé e non hanno
bisogno di un elemento diverso che le indichi, non le assolutamente
oscure perché si sottraggono in generale a ogni conoscenza né c’è
segno alcuno che permetta di comprenderle. Invece le oscure per
natura e le oscure occasionalmente richiedono un tipo di
osservazione compiuta in base a segni; quelle occasionalmente oscure
perché sono sottratte alla nostra chiara conoscenza in virtù di
certe circostanze, quelle oscure per natura perché sono sempre non
evidenti. Se dunque di due diversi tipi sono le realtà che
richiedono il segno, anche questo dovrà essere di due diversi tipi:
l’uno è il segno mnemonico, che serve alla conoscenza delle realtà
occasionalmente oscure; l’altro è il segno indicativo, che si
ritiene da assumersi in vista delle realtà oscure per natura. Il
segno mnemonico, osservato in connessione con la realtà che è
oggetto del segno stesso nell’ambito di un atto di conoscenza
evidente, una volta che quella realtà sia divenuta oscura, ci porta,
col suo presentarsi, a ricordare quella stessa realtà che ora è
percepita con più chiarezza, come avviene per il fumo che indica il
fuoco: avendo noi osservato spesso questi due fatti in connessione
l’uno con l’altro, quando vediamo uno di essi, cioè il fumo,
risaliamo con la mente al primo, cioè al fuoco, che peraltro non
vediamo. Lo stesso discorso si può fare per la cicatrice che
consegue a una ferita, o per quella trafittura al cuore cui consegue
la morte: vedendo la cicatrice risaliamo alla ferita che l’ha
preceduta, contemplando la trafittura al cuore arguiamo la morte
imminente. Se il segno mnemonico ha queste caratteristiche, diverso
da esso è il segno indicativo. Esso non implica il fatto di essere
stato osservato in concomitanza con la realtà che è il suo oggetto
(per suo carattere primario la realtà oscura per natura non cade
sotto percezione, e quindi non può essere stata osservata in
concomitanza con alcuna conoscenza sensibile) ma direttamente per la
sua stessa natura e struttura, senza bisogno di emettere voce
alcuna, si dice che indica ciò di cui è appunto segno indicativo.
Per esempio, l’anima appartiene al genere delle realtà
naturalmente oscure, giacché non è mai in nessun caso soggetta a
cadere sotto nostra conoscenza immediata; dal momento che è tale, la
sua esistenza viene indicata dai movimenti del corpo: infatti
arguiamo che esista nel corpo una certa capacità funzionale atta a
produrre i movimenti.
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 244-25 = SVF II, 221146
Bisognerà ora dire forse brevemente, a proposito della loro dottrina
in quale tipo di giudizio ritengono esser presente il segno, e che
questo, per tale ragione, è una realtà di tipo intellegibile. Per
definirlo, dunque, dicono che il segno è il giudizio antecedente di
un ragionamento ipotetico corretto, che serve a rivelare il
conseguente. Mentre vi sono più e diversi criteri per distinguere un
ragionamento ipotetico corretto, in questo caso ve ne è uno fra
tutti — anche se non sempre sono concordi su esso — che stiamo ora
per riferire. Ogni ragionamento ipotetico o inizia con un giudizio
vero e termina con uno ugualmente vero, o con un giudizio falso e
termina con un altro falso o con un giudizio vero e termina con uno
falso, o con uno falso e termina con uno vero. Quello che inizia con
un giudizio vero e termina con un altro vero, è del tipo: «se vi
sono gli dèi, il mondo è governato da provvidenza divina». Quello
che inizia con un giudizio falso e termina con un altro ugualmente
falso è del tipo: «se la terra vola, vuol dire che ha le ali».
Quello che va dal falso al vero è invece del tipo: «se la terra
vola, vuol dire che esiste»; e quello che va dal vero al falso è del
tipo: «se questi si muove, vuol dire che passeggia», e ciò nel caso
che la persona in questione, pur muovendosi, non stia affatto
passeggiando. Date quindi quattro forme di connessione del
ragionamento ipotetico, dal vero al vero, dal falso al falso, dal
falso o al vero o, al contrario, dal vero al falso, essi dicono che
nelle prime tre forme si ha sempre la verità (si ha quando, dato
l’antecedente vero, anche il conseguente sia vero, ma anche quando,
dato l’antecedente falso, si abbia il conseguente falso; e anche
quando partendo dal falso si concluda al vero) e che la falsità si
produca solo in una forma, quando, prendendo inizio dal vero, si
concluda col falso. Stando così le cose, essi dicono, non bisogna
cercare il segno in questo ragionamento ipotetico errato, ma in
quello corretto: ed esso è detto «un giudizio che forma la premessa
di un ragionamento ipotetico corretto». Poiché tuttavia il
ragionamento ipotetico corretto è di tre tipi, e non di un tipo solo
— dal vero al vero, dal falso al falso, dal falso al vero — bisogna
anzitutto chiedersi se in tutti e tre questi tipi possa aver luogo
il segno, ose in alcuno di essi, o se in qualcuno in particolare.
Poiché il segno deve essere vero di per sé e indicatore del vero,
esso non può trovarsi in quel tipo di ragionamento ipotetico che va
dal falso al falso, né in quello che va dal falso al vero; non
rimane perciò altro che assegnarlo a quel tipo di ragionamento che
va da un antecedente vero a un conseguente vero; giacché esso
sussiste realmente, e di necessità deve coesistere con un oggetto
indicato che sia anch’esso realmente sussistente. Quando quindi si
dice che il segno è un giudizio tale da formare la premessa di un
ragionamento ipotetico corretto, si deve solo completare il discorso
con la precisazione che esso è la premessa di un ragionamento
ipotetico che va da premesse vere a conclusioni ugualmente vere.
Tuttavia non ogni giudizio che formi la premessa di un ragionamento
ipotetico corretto che va da premessa vera a conclusione vera si
deve dire di necessità «segno». Per esempio, un ragionamento
ipotetico di questo tipo: «se è giorno, c’è luce», comincia con una
premessa vera, «è giorno», e finisce con una altrettanto vera, «c’è
luce», tuttavia la sua premessa non è un segno che indichi il
conseguente; l’esserci la luce non è qualcosa che venga
rivelato dall’essere giorno, ma si percepisce di per se stesso; e
così che ci sia luce si comprende per evidenza propria. Il segno non
deve quindi semplicemente consistere in un giudizio ch’è premessa di
un ragionamento ipotetico corretto procedente da antecedente vero a
conseguente vero, ma deve anche avere una natura tale da rivelare il
conseguente, come per esempio in ragionamenti ipotetici di questo
tipo: «se questa femmina ha del latte nelle mammelle, vuol dire che
ha partorito» oppure; «se quest’uomo sputa catarro, vuol dire che ha
una ferita nel polmone», per il fatto che il primo è rivelativo del
secondo; facendo attenzione a quello possiamo arrivare alla
comprensione di questo. Essi dicono ancora che un segno presente
deve essere indicatore di un fatto presente. Infatti ci sono quelli
che, erroneamente, credono che il segno possa essere anche
indicatore di un fatto passato, come nel caso di un ragionamento di
questo tipo: «se questi ha una cicatrice, ha ricevuto una ferita»;
che abbia una cicatrice è un fatto presente, infatti appare ai
sensi, ma che abbia avuto una ferita è un fatto passato, giacché
ormai la ferita non c’è più; e anche che il segno sia indicatore di
un fatto futuro, come in un ragionamento del tipo: «se questi è
ferito al cuore, morrà», giacché il colpo nel cuore è un fatto
presente, ma la morte sopravverrà in futuro. Ma quelli che dicono
così ignorano che altre cose sono il passato e il futuro, e che il
segno così come la cosa da esso indicata147 sono entrambi presenti.
Nel primo caso, «se questi ha una cicatrice, ha ricevuto una
ferita», è vero che la ferita c’è stata ed è ormai passata, ma che
egli abbia avuto una ferita è un giudizio che esiste al presente,
pur se affermato circa una cosa passata; nel caso di «se è ferito al
cuore, morirà» la morte deve ancora venire, ma il giudizio circa la
morte è un fatto esistente e presente, ed è vero già fin da ora.
Così la definizione completa del segno è: giudizio che costituisce
la premessa di un ragionamento ipotetico corretto del tipo che va da
un antecedente vero a un conseguente vero, rivelativo del
conseguente, in ogni caso segno presente di un fatto presente.
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 177 = SVF II, 222
Alcuni intendono il segno come una realtà sensibile, altri come una
realtà intellegibile. Epicuro e tutti i principali filosofi della
sua setta hanno detto che il segno è una realtà di natura sensibile;
invece gli Stoici lo ritengono di natura intellegibile148.
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 275-284 = SVF II, 223149
I dogmatici non sanno che cosa rispondere riguardo a questi
problemi; ma, dandosi da fare a dimostrare il contrario, affermano
che l’uomo non si distingue dagli altri animali per il fatto che
proferisce voci (emettono voci articolate anche i corvi, i
pappagalli, le gazze), ma perché il suo discorso è di natura
interiore; e non differisce da quelli per il semplice fatto di avere
rappresentazioni (anche gli altri animali le hanno), ma perché la
rappresentazione a lui propria è suscettibile di passaggi e di
connessioni. Perciò, avendo nozione di che cosa sia la conseguenza,
in virtù di questa ha anche immediata nozione del segno: il segno
infatti di per sé equivale a «se questo, è questo». È conseguente
alla natura e alla struttura propria dell’essere umano che vi sia il
segno. Tutti sono d’accordo nel ritenere che la prova appartenga al
genere segno. Essa infatti è rivelativa della conclusione, e il
nesso che si ottiene per mezzo delle sue premesse sarà un segno
dell’esistenza della conclusione: così nel ragionamento per esempio:
«se c’è movimento, c’è il vuoto; ma c’è il movimento; c’è quindi il
vuoto», il nesso formato da ‹«c’è il movimento e›150 se c’è questo,
c’è il vuoto», nesso formato dalle premesse151, è immediatamente
anche il segno della conclusione «quindi c’è il vuoto». Dicono anche
che gli argomenti apportati dagli scettici contro il segno devono
essere o dimostrativi o non dimostrativi. Se non sono dimostrativi,
non sono credibili, dal momento che sarebbero difficilmente
credibili anche se fossero di natura dimostrativa; ma se sono
dimostrativi, è chiaro che il segno esiste: la dimostrazione stessa,
infatti, è, quanto a genere, un segno. Ammettendo che non ci sia
alcun segno relativo ad alcuna realtà, le espressioni che
significano il segno significano qualcosa oppure non significano
nulla: e se non significano nulla, ecco che non saranno capaci
nemmeno di sopprimere l’esistenza del segno. Come sarebbe possibile
che espressioni che non hanno alcun significato oggettivo possano
essere degne di fede allo scopo di dimostrare che il segno non
esiste? Se però significano qualcosa, sono stolti gli scettici,
perché a parole eliminano il segno, di fatto però al tempo stesso lo
accettano. E ancora: se non esiste alcuno speciale procedimento
proprio dell’arte, l’arte non differirà dall’incapacità tecnica. Ma
se esiste, dovrà essere o evidente o oscuro. È difficile che possa
dirsi evidente: ciò che cade sotto l’esperienza dei sensi appare
immediatamente senza bisogno di essere appreso. Se però tale
procedimento è oscuro, dovrà essere appreso per mezzo del segno; ma
se si apprende per mezzo del segno, deve esserci un segno.
Alcuni argomentano anche così: «se c’è un segno, il segno esiste; se
il segno non esiste, il segno esiste. Ma il segno esiste o non
esiste. Quindi esiste». Questo è il ragionamento, e dicono che la
premessa maggiore è corretta: essa è infatti duplice, e in essa al
fatto che ci sia un segno consegue che il segno esiste, in base al
principio che dato il primo si dà il secondo. Quanto alla
proposizione «se non esiste il segno, esiste il segno» dicono che è
corretta anch’essa: chi dice che il segno non esiste finisce con
raffermare con ciò stesso che il segno esiste: se, infatti, non
esistesse il segno, di questo non esistere il segno deve pur sempre
esserci un segno. E ciò è ragionevole: giacché chi afferma che non
esiste il segno sostiene ciò o per semplice asserzione o con prova.
Se lo sostiene per semplice asserzione, avrà sempre di contro
l’asserzione opposta; se intende dare dimostrazione di ciò che
sostiene come vero, mediante lo stesso discorso col quale vuol
provare che non esiste il segno dovrà arguire ciò per mezzo di un
segno; ciò facendo, dovrà ammettere che vi è il segno. Dicono dunque
che ambedue le premesse sono vere; e perciò è vero anche il terzo
membro. È un ragionamento disgiuntivo quello che dice che
il segno esiste o non esiste, ed è formato di opposti. Poiché dunque
il ragionamento disgiuntivo è vero quando ha un membro vero, e degli
opposti l’uno è ritenuto vero, bisogna ammettere che una premessa
così fatta deve essere immediatamente vera. Perciò la conclusione
«dunque il segno esiste» viene inferita in base alle premesse.
Dicono anche che è possibile procedere metodicamente così: nel
ragionamento vi sono due premesse ipotetiche e un nesso disgiuntivo;
di questi, le premesse ipotetiche annunciano che agli antecedenti da
esse rappresentati conseguiranno due conseguenti; quanto al nesso
disgiuntivo, ha in sé uno dei due membri vero, sì che, se l’uno e
l’altro siano veri o l’uno e l’altro falsi, il tutto dovrà essere
falso. Tale essendo in effetti le premesse, prendiamo per ipotesi
come vero uno dei due membri contenuti nel nesso disgiuntivo, e
vediamo come esso possa condurre alla conclusione. E per prima cosa
si assuma come vera la proposizione: «vi è un segno». Poiché questa
costituisce la premessa del primo nesso ipotetico, avrà come
conseguente la seconda premessa nello stesso nesso ipotetico. Ma
questo conseguente è il fatto che esiste il segno, il che equivale
alla conclusione. La conclusione dunque sarà inferita in base
all’ipotesi che nel nesso disgiuntivo ci sia un membro vero, che è
quello secondo cui c’è un certo segno. Si assuma ora al contrario
l’altro membro come vero; non esiste il segno. Poiché questo è
l’antecedente nel secondo ragionamento ipotetico, avrà come
conseguente la seconda premessa nello stesso ragionamento:
conseguirà quindi ad esso che vi è un segno, il che è la
conclusione. In questo modo si inferirà la conclusione.
PS. GALENO, Defin. med., 1, XIX, p. 349 Kühn = SVF II, 227
La definizione è un discorso espresso in maniera articolata e
analitica… La descrizione è un discorso che in maniera schematica
introduce alla chiarificata conoscenza dell’oggetto152.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 42, 31 segg. Wallies =
SVF II, 228
Ma quelli che dicono che la definizione è un discorso espresso in
forma analitica e ben delimitata (e con analisi intendono la
spiegazione dell’oggetto ‹per capi distinti›, ‹ben
delimitata› lo intendono nel senso che non ci sia nulla di
troppo né di manchevole), non dicono in realtà niente di diverso da
chi afferma che la definizione è il rendere nel discorso le
caratteristiche specifiche dell’oggetto.
ALESSANDROD’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 42, 20 segg. Wallies
= SVF II, 228
Non è sufficiente lo ἦν, come alcuni ritengono — e per primo sembra
esser stato di questa opinione Antistene, poi gli Stoici — ma è
ragionevole aggiungere anche lo εἶναι (= τò τί ἦν εἶναι)153.
GALENO, De diff. puls., IV, 2, VIII, p. 708 Kühn = SVF II, 229
Prendiamo inizio dalle definizioni relative alle nozioni, che
abbiamo detto non alludere a nulla di più di quello che è patrimonio
di conoscenza comune in tutti gli uomini… Queste, gli esperti di
linguaggio logico non le chiamano propriamente definizioni, ma
descrizioni e schizzi.
AMMONIO, In Arist. Anal. pr., p. 26, 36 segg. Busse = SVF II, 237
Gli Stoici chiamano giudizi (ἀξιώματα) quelle che noi chiamiamo
premesse (προτάσεις); e li chiamano anche λήμματα, dal verbo
λαμβάνειν («prendere»: ciò che viene assunto), oppure le
chiamano ἀξιώματα dal verbo «stimare» (ἀξιοῦν), stimare
cioè che esse siano vere: come gli assiomi propri della geometria.
PS. AMMONIO, In Arist. Anal. pr., p. 68, 4 segg. Wallies = SVF II,
236
Che nomi usano gli Stoici? chiamano le cose «ciò che consegue»
(τυγχάνοντα) perché abbiamo per fine il loro conseguimento; i
concetti elocuzioni (ἐκφορικά) perché le esprimiamo (ἐκφέρομεν)
mediante le voci (φωναί); per voci intendono i significati (λεκτά).
Il ragionamento ipotetico o disgiuntivo lo chiamano modale
(τροπικός) giacché fornisce il modo (τρόπος) con cui collegare le
premesse l’una all’altra. La prima premessa è detta da essi
antecedente (ἡγούμενον) come da noi la premessa seguente è detta
finale (λῆγον), e usano pure allo stesso modo l’espressione di
πρόσληψις154… Però quella conclusione che noi chiamiamo συμπέρασμα è
detta da loro ἐπιφορά. E chiamano i sillogismi ipotetici «non
dimostrativi» e «proposizioni» (θέματα).
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 411-424 = SVF II, 239
Essi ritengono che vi siano tre forme di argomentazioni strettamente
collegate le une alle altre: la concludente, la vera, la
dimostrativa; di esse la forma dimostrativa è anche vera e
concludente, la forma vera è anche concludente però non
necessariamente dimostrativa, la concludente non in tutti i casi
vera né in tutti i casi dimostrativa. Per esempio un discorso
cosiffatto: «se è notte, è buio; ma è notte; quindi è buio», se
compiuto quando invece sia giorno, conduce l’argomentazione secondo
un retto procedimento, non è però vera, in quanto la seconda
premessa contiene un’asserzione falsa, cioè quella che «è notte».
Invece il ragionamento «se è giorno, c’è luce; ma è giorno; quindi
c’è luce», se effettivamente sia giorno, è un ragionamento vero e
concludente, per il fatto che è condotto in maniera corretta e
conclude al vero in base ad asserzioni vere. Dicono che il
ragionamento concludente si giudica esser tale quando alla
congiunzione delle sue due premesse consegue la conclusione: così
per esempio anche il ragionamento «se è notte, c’è buio; ma è notte;
quindi c’è buio», anche se di fatto sia giorno, per quanto non possa
dirsi vero perché conduce a una conclusione falsa, tuttavia possiamo
sempre dire che è concludente. Se noi congiungiamo le premesse in
questa forma: «è notte, e se è notte c’è buio», formiamo un
ragionamento ipotetico, che parte da questo nesso, e conclude con
una conclusione siffatta: «c’è buio»155. Questo ragionamento
ipotetico è vero per il fatto che non è possibile che un
ragionamento iniziato col vero concluda col falso. Se infatti è
giorno, esso comincia con asserzioni false: «è notte, e se è notte,
c’è buio» concludendosi analogamente con una asserzione falsa: «è
buio»; e in questo modo verrà ad esser vero156. Se poi di fatto è
notte, esso prenderà inizio da un’asserzione vera e concluderà con
un’altra vera, e per questa ragione sarà vero. Perciò il discorso
concludente è corretto quando, avendo noi collegato insieme le
premesse e costruito un ragionamento ipotetico che si inizia dal
nesso delle premesse e termina con la conclusione, si riscontra un
ragionamento ipotetico cosiffatto esser vero. Il ragionamento vero
si giudica esser tale non solo quando il ragionamento ipotetico
formato dal nesso delle premesse che mette capo alla conclusione è
vero, ma anche quando il ragionamento congiunto che deriva dalla
connessione delle premesse è corretto nel suo procedimento; quando
una di queste risulti falsa, anche il ragionamento nel suo insieme
di necessità è falso. Così per esempio è falso un ragionamento di
questa fatta: «se è giorno, c’è luce; ma è giorno; quindi c’è luce»,
quando invece sia notte; infatti è falsa la premessa: «ma è giorno».
Ma il nesso che costituisce le premesse, se ha falsa una delle
premesse, come «ma è giorno», è anch’esso falso; invece è vero il
ragionamento ipotetico che prende inizio dalla connessione delle
premesse e termina con la conclusione. Infatti mai esso, cominciando
con una asserzione vera, concluderà con il falso, ma se è notte
comincerà con una connessione falsa, se invece è giorno, poiché
comincia con una connessione vera, concluderà anche con una
asserzione vera. Analogamente è falso un ragionamento come questo:
«se è giorno, c’è luce; ma c’è luce; quindi è giorno»: il che vuol
dire che un ragionamento che si inizi con premesse vere può
concludere con una asserzione falsa. Ma se esaminiamo bene la cosa,
si vedrà che il nesso formato dalle premesse è vero se è giorno, per
esempio al modo seguente: «c’è luce. e, se è giorno, c’è luce»;
mentre il ragionamento ipotetico che comincia dalla connessione fra
le premesse e termina con una asserzione concludente come per
esempio: «se è luce ed è giorno, c’è luce: ‹dunque è giorno›», è
falso, perché questo ragionamento ipotetico, se è notte, può ben
cominciare da una connessione vera delle premesse, ma è falsa la
conclusione: «è giorno», e per questo tutto il ragionamento risulta
falso. Perciò si può dire che il ragionamento è vero non quando sia
vero soltanto il nesso delle premesse, né quando sia vero solo il
nesso ipotetico, ma quando siano veri l’uno e l’altro.
Il ragionamento dimostrativo differisce poi da quello vero in quanto
quello vero può avere evidenti tutti i suoi elementi, dico le
premesse e la conclusione, ma quello dimostrativo intende avere
anche qualche cosa in più: cioè la conclusione, che è oscura, deve
essere rivelata dalle premesse. Perciò un ragionamento di questo
tipo: «se è giorno, c’è luce; ma è giorno; quindi c’è luce», avendo
evidenti premesse e conclusione, è vero e non dimostrativo; invece
uno del tipo: «se questa femmina ha latte nelle mammelle, vuol dire
che ha partorito; ma ha latte; quindi ha partorito» oltre all’essere
vero è anche dimostrativo; infatti ha una conclusione oscura, «ha
partorito», che viene rivelata dalle premesse. Insomma, tre essendo
i tipi di ragionamento, il concludente, il vero, il dimostrativo, se
uno di questi è dimostrativo, tanto più è anche vero e concludente;
se è vero, non necessariamente è dimostrativo, in ogni caso però è
concludente; se è concludente, non in ogni caso è anche vero così
come non in ogni caso è anche dimostrativo157.
SESTO EMPRICO, Pyrrh. Hypot., II, 111-112 = fr. 958 Hülser
Quelli che si valgono del procedimento della connessione reciproca
(συνάρτησις) dicono che è valido un ragionamento ipotetico quando
l’opposto della seconda premessa contraddice alla prima premessa;
secondo costoro i ragionamenti ipotetici che si sono esposti sono
scorretti, mentre è vero quello che ha la forma: «se è giorno, è
giorno». Ma quelli che giudicano in base alla pregnanza di
significato (ἔμφασις) dicono che è vero quel ragionamento ipotetico
in cui la seconda premessa è contenuta potenzialmente (δυνάμει)
nella prima; e quindi secondo costoro il sillogismo «se è giorno, è
giorno» dovrà essere falso, e così ogni sillogismo ipotetico
ripetitivo; giacché è impossibile che esso sia contenuto in se
stesso158.
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 429-434 = SVF II, 240
Poiché si è già fatta una vasta e diligente ricerca sui ragionamenti
concludenti, non è ora necessario discorrerne più a lungo, ma
occorrerà invece dare qualche spiegazione circa i ragionamenti
inconcludenti. Essi dicono che il ragionamento inconcludente si
articola in quattro forme: può essere tale per incoerenza, per
ridondanza, per schema non corretto, per difetto159. Per incoerenza
quando le premesse non abbiano alcuna reale connessione e relazione
l’una con l’altra, e con la conclusione, come in un ragionamento di
questo tipo: «se è giorno, c’è luce; ma si sta vedendo il grano al
mercato; quindi c’è luce»; vediamo che né l’esser giorno, né il
fatto che ci sia luce hanno alcuna connessione con l’asserzione che
«si sta vendendo il grano al mercato», ma tutti i membri di questo
ragionamento sono estranei l’uno all’altro. Un ragionamento diventa
inconcludente per ridondanza quando un elemento è assunto in maniera
estrinseca e superflua insieme con le premesse, come nel
ragionamento seguente: «se è giorno, c’è luce; ma è giorno, e la
virtù reca giovamento; quindi c’è luce»; l’asserzione che la virtù
reca giovamento è assunta in maniera superflua insieme con le
premesse, si che, eliminandola, è possibile in base ai due membri
rimanenti della frase, «se è giorno, c’è luce» e «ma è giorno»,
giungere rettamente alla conclusione «dunque c’è luce». Per la forma
non corretta dello schema un ragionamento può diventare non
concludente quando lo si argomenta in una forma che non appartiene
alle forme correttamente concepite; per esempio, se lo schema
corretto è questo: «se è il primo, è il secondo; ma è il primo,
quindi è il secondo», o anche: «se è il primo, è il secondo; ma non
è il secondo; quindi non è il primo», diciamo che è inconcludente un
ragionamento concepito invece secondo lo schema: «se è il primo, è
il secondo; ma non è il primo; dunque neanche il secondo»; e non
perché sia impossibile che secondo uno schema siffatto si svolga un
discorso che arrivi da premesse vere a una conclusione vera (lo
potrebbe infatti, come si vede da questo caso: «se tre è quattro,
sei è otto; ma tre non è quattro; quindi neanche sei è otto»): ma
perché secondo questo schema si possono costruire ragionamenti
viziati, del tipo: «se è giorno, c’è luce; ma non è giorno; quindi
non c’è luce». Per difetto, un ragionamento può essere poi
indefinito quando trascuri una delle premesse che portano alla
conclusione; per esempio: «la ricchezza è un bene o un male; ma la
ricchezza non è un male; quindi è un bene» in una disgiuntiva del
genere, infatti, si trascura il caso che la ricchezza sia un
indifferente, sì che l’argomentazione corretta sembra essere
piuttosto: «la ricchezza o è un bene, o è un male, o è un
indifferente; ma la ricchezza non è né un bene né un male; quindi è
un indifferente».
DEXIPPO, In Arist. Categ., 25, 22 segg. Busse = SVF II, 251
Ma come potremo contrapporci agli eristici, i quali, intendono le
proprietà che non sono pertinenti a ciò che si predica come dette di
questo, formano un sillogismo negativo circa un determinato
soggetto? per esempio essi dicono che «uomo» in quanto soggetto si
predica di Socrate, ma dell’uomo si predica anche il non esser
Socrate, e dunque anche di Socrate si dovrebbe predicare il non
esser Socrate. Ora, contro questi noi ragioneremo non al modo degli
Stoici, e cioè semplicemente con la soppressione delle forme
negative160, ma come insegna Aristotele, e cioè con la retta
precisazione di ciò che si riferisce alla sostanza; quelli sbagliano
proprio per non essersi attenuti a ciò.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 373, 28
segg. Wallies = SVF II, 253161
Così Aristotele si comporta nei riguardi degli scambi di termini che
si riscontrano nelle espressioni; invece i più recenti, facendo
attenzione alle espressioni e non a ciò che esse significano, dicono
che non hanno lo stesso valore le forme che si verificano con un
certo scambio di termini pur essendo dello stesso significato: anche
se «se è A, è B» significa lo stesso che «ad A consegue B», essi
dicono che è sillogistico il ragionamento che si articola nella
forma «se è A, è B, ma è A, quindi è B», mentre non si può dire
ancora sillogistico ma solo concludente quello che si articola nella
forma: «ad A consegue B; ma è A; quindi è B».
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 262, 28
segg. Wallies = SVF II, 254
Altrimenti in via ipotetica, come egli ha detto, potrebbero esser
costruiti quei sillogismi che i filosofi venuti dopo di lui
ritengono meritino soli questo nome: essi dicono che tali sillogismi
sono composti da un nesso modale e da una premessa minore
(πρόσληψις), e che tale nesso modale può essere di carattere
ipotetico, o congiuntivo, o disgiuntivo; i più antichi dicevano che
un sillogismo di questo tipo è composto di una premessa ipotetica e
di una indicativa (δεικτική) cioè predicativa162.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 278, 6 segg. Wallies
= SVF II, 255
Una simile composizione avviene in virtù di quel terzo membro che i
filosofi posteriori hanno chiamato tema (θέμα)… L’ambito di
comprensione di questo terzo termine detto tema si attiene anch’esso
alle schema: «quando da due termini si inferisca un terzo, e si
formi un sillogismo assumendo alcunché dall’esterno rispetto ad uno
di essi, si inferirà la stessa cosa in base all’altro dei termini e
alle forme sillogistiche assunte esteriormente rispetto al
primo163».
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 283, 7 segg.
Wallies = SVF II, 257
Per esempio, consideriamo se A, essendo proprio di Β, Β di Γ, Γ
di Δ, Δ di E, anche A risulti essere proprio di E… In una simile
successione continua di premesse (συνέκεια τῶν προτάσεων) consiste
il teorema compositivo di cui si è detto sopra, e quei tipi di
ragionamenti che i filosofi venuti dopo hanno poi chiamato
conseguenti (ἐπιβάλλοντες) e consecutivi (έπιβαλλόμενοι)... I
ragionamenti conseguenti e consecutivi sarebbero quelli che sono
contenuti nelle assunzioni continuative, a parte le conclusioni.
Consecutivi sono quelli nei quali si tralascia la conclusione e
conseguenti quelli nei quali si tralascia la premessa indicativa
(πρότασις δεικτική); le conclusioni trascurate dei ragionamenti
consecutivi, che sono primi nell’ordine, sono le premesse indicative
dei conseguenti, che sono seconde nell’ordine: per esempio A è
proprio di ogni Β, Β di ogni Γ, Γ di ogni Δ, A di ogni Δ.
Consecutivo è infatti il primo, del quale si trascura la
conclusione, che è «A è proprio di ogni Γ». Conseguente è quello
formato del membro trascurato «A è proprio di Γ» e dell’altro
membro» «Γ è proprio di Δ», del quale è conclusione «dunque A è
proprio di Δ». Secondo quanto finora si è detto sia i ragionamenti
consecutivi sia i conseguenti appartengono alla prima figura; ma
secondo lo stesso metodo può conseguire anche un sillogismo
appartenente alla seconda figura a un appartenente alla prima; se
infatti abbiamo «A è proprio di ogni Β, Β di ogni Γ, A di nessun Δ,
‹Γ di nessun Δ»›164 risulta un consecutivo della prima figura, la
cui conclusione è «A di ogni Γ», un conseguente della seconda
figura, quello che ha come premesse «A di ogni Γ», che trascura la
conclusione del primo, e la premessa di questo, e «A di nessun Δ»,
che ha come conclusione «Γ di nessun Δ»… Di contro, possono essere
anche il consecutivo nel secondo schema e il conseguente nel primo…
Secondo lo stesso metodo, è possibile ottenere un conseguente e un
consecutivo secondo il terzo schema, in coerenza con i ragionamenti
del primo schema e del secondo; ma anche quelli degli stessi schemi
reciprocamente, del primo, del secondo, e similmente, del terzo fra
di loro; è possibile in questo modo ottenere in base ai tre schemi
tre sillogismi conseguenti e consecutivi secondo la stessa struttura
logica composta. E se Aristotele e i suoi li hanno trattati alla
stregua della necessità e fino a che questa lo richiedesse, gli
Stoici invece, prendendo spunto da essi e facendo ulteriori
divisioni, foggiarono quello che essi chiamano secondo, terzo e
quarto tema, trascurando l’utilità, e ricercando accuratamente, in
questo loro studio, tutto ciò che si possa dire in proposito, fosse
pure della massima inutilità.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 263, 26 segg.
Wallies = SVF II, 258
È evidente che per gli antichi erano due cose differenti quello che
si chiama per loro μεταλαμβανόμενον e quello che si chiama
προσλαμβανόμενον. Di ciò che sussiste nelle premesse assunte ed è
l’assunto, c’è qualcosa che non è del tutto tale e siffatto quale lo
si assume, e perciò da semplicemente assunto si trapassa a ciò che
lo è mediatamente: non lo si aggiunge dall’esterno, ma, posto
diversamente, finisce col trapassare in altro. Nell’espressione «se
è giorno, c’è luce» la proposizione «è giorno» — quello che poi i
filosofi posteriori hanno chiamato προσλαμβανόμενον — non è assunta
in quanto tale; infatti nel ragionamento ipotetico viene posta per
ipotesi e per conseguenza, qui invece è assunta come se fosse
esistente realmente165.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 21, 28 segg.
Wallies = SVF II, 260
In generale, se vi sia qualcosa che venga inferito ma non dalle
condizioni poste, bensì dall’aggiunta di un’altra premessa, un
ragionamento siffatto potrà dirsi necessario, non sarà però un
sillogismo: tali sono quei ragionamenti che presso gli Stoici sono
detti concludenti non metodicamente, del tipo: «il primo è maggiore
del secondo, il secondo del terzo, quindi il primo lo è del terzo»:
ecco che questo è un ragionamento necessario, ma non un sillogismo,
a meno che non si voglia aggiungere una premessa che dice: «ciò che
è maggiore del maggiore lo è anche del minore di quello» … in
generale questa è la forma di quelli che i filosofi posteriori
chiamano «ametodicamente concludenti»: per esempio, «è giorno; ma tu
dici che è giorno; quindi dici il vero».
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 68,
21 segg. Wallies = SVF II, 260
… tutti quelli che credono che da due cose particolari si possa
concludere sillogisticamente qualcos’altro, come quelli che, fra gli
Stoici, espongono la teoria dei cosidetti ragionamenti non
metodicamente concludenti e ammucchiano esempi a dimostrazione di
ciò… Sappiamo che, oltre al fatto che gli esempi che arrecano non
hanno una conclusione conseguente di necessità alle premesse assunte
e poste, non provano «per il fatto che queste cose sono»166 ma non
colgono nemmeno la verità della premessa universale da cui si trae
la conclusione; infatti, trascurandola nella assunzione delle
premesse, dividono in due la premessa minore. Tutti quanti infatti
quelli che son detti da loro ragionamenti ametodicamente concludenti
arrivano a conclusione sulla base di due premesse particolari, ed è
facile arguire ciò dagli esempi che essi portano.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 345,
13 segg. Wallies = SVF II, 260
Tali sono quelli che essi chiamano ragionamenti non metodicamente
concludenti. E finché dicono che non sono ragionamenti sillogistici,
dicono bene; molti di essi infatti non sono tali. Ma quando
ritengono che essi siano simili ai sillogismi predicativi, …
sbagliano totalmente; se fossero simili a questi, avrebbero di che
esser detti sillogismi.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 18,
12 segg. Wallies = SVF II, 261
Benissimo (Aristotele) suppose che una delle due condizioni poste
dovesse essere anche la conclusione167… L’utilità del sillogismo non
è offerta da quei ragionamenti del tipo: «se è giorno, è luce; ma è
giorno; quindi è luce» e in generale da quelli che sono detti dai
filosofi più recenti «indifferentemente concludenti»; tali sono
anche i reduplicati, del tipo: «se è giorno, è giorno; ma è giorno;
dunque è giorno»… Quanto a quel sillogismo che è in forma diairetica
per contrapposizione, non porta una conclusione che sia uguale a ciò
che è contenuto nella premessa maggiore (che i filosofi venuti dopo,
anziché μεταλαμβανόμενον, chiamano προσλαμβανόμενον); chi infatti
dice: «o è giorno o non è giorno», sia che assuma come secondo
termine l’uso dei due che si trova nel nesso divisorio168, sia che
assuma la proposizione negativa «ma non è giorno», o la affermativa
«è giorno», ha come conclusione o «dunque non è giorno» oppure
«dunque è giorno», il che sembra essere uguale a quella che la
premessa minore, che è per l’appunto «ma non è giorno» oppure «ma è
giorno». Tuttavia non lo si conclude come identico a quella, ma come
opposto all’una delle due proposizioni del nesso divisorio… Devono
riconoscere ciò necessariamente anche gli Stoici, dal momento che
dicono che nei sillogismi divisori e disgiuntivi sull’assunzione
come seconda premessa di uno dei due membri della disgiuntiva
consegue l’opposto dell’altro membro del nesso sillogistico.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 10, 5
Wallies = SVF II, 263
Non ci può essere un sillogismo che conservi la funzione propria del
ragionamento sillogistico. Tali sarebbero quelli che gli Stoici
chiamano gli indifferentemente concludenti e i reduplicati; e
reduplicati sono per loro quelli che hanno lo schema: «se è giorno,
è giorno; ma è giorno; dunque è giorno»; gli indifferentemente
concludenti quelli in cui la conclusione è identica a una delle
premesse, del tipo: «o è giorno o è notte; ma è giorno; quindi è
giorno»169.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Anal. pr., p. 84, 5
segg. Wallies = SVF II, 264
(da 'se Ν è pertinente a ogni M, non lo è a ogni Ξ') non potrà esser
concluso che ogni Ν è pertinente a ogni Ξ. Questo è il ragionamento
che dai più recenti è chiamato iposillogistico, cioè quello che
assume qualcosa che abbia la stessa valenza della premessa
sillogistica ma non conclude poi l’identico da questa: alla
proposizione «non essere pertinente a una certa realtà» si assume
come avente la stessa valenza «non esser pertinente a ogni realtà di
quel tipo». Quelli dicono così guardano solo al suono e alla forma
esteriore di simili sillogismi, mentre Aristotele, guardando ai
reali significati cui si allude, non alle semplici voci, dice che si
mette capo allo stesso sillogismo anche con una simile comprensione
dell’espressione nella conclusione, purché il nesso nel suo insieme
sia sillogistico.
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 310-314 = SVF II, 266
Se le cose stessero in effetti così, la dimostrazione dovrebbe esser
anzitutto un ragionamento; poi dovrebbe essere concludente; in terzo
luogo vera; in quarto luogo con una conclusione oscura, in quinto
luogo con questa conclusione resa perspicua dalla forza delle
premesse. Un ragionamento di questa fatta: «è se è notte, c’è buio;
ma è notte; dunque c’è buio» quando invece sia giorno, si presenta
come concludente, dal momento che, date le sue premesse come
sussistenti, se ne trae una conclusione, tuttavia non sarebbe vero,
perché ha in sé una premessa falsa («è notte»), perciò non è nemmeno
dimostrativo. Di contro un ragionamento di quest’altro tipo: «se è
giorno, c’è luce; ma è giorno; quindi c’è luce» oltre all’essere
concludente è anche vero, dal momento che in base alle sue premesse
se ne dà la conclusione e per mezzo di premesse vere indica una
conclusione vera. Ma anche essendo tale non è un ragionamento
dimostrativo, per il fatto che ha già preventivamente evidente la
conclusione «c’è luce» e non oscura. Per le stesse ragioni un
ragionamento di questo tipo: «se un dio ti ha detto che un certo
uomo diventerà ricco, questi lo diverrà; ma il dio lo ha
effettivamente detto; quindi costui lo diventerà», ha una
conclusione non evidente (il fatto che costui si arricchirà),
tuttavia non è dimostrativo perché la conclusione non è resa
evidente dalla forza delle premesse ma semplicemente
dall’accettazione in base a fede negli dèi. La dimostrazione esiste
realmente solo quando concorrano tutti questi elementi: l’essere il
discorso concludente, vero, rivelativo di qualcosa di non evidente.
Perciò essi la definiscono così: «la dimostrazione è un ragionamento
che, in base a premesse accettate d’accordo, rivela per via di
induzione170 una conclusione di per sé non evidente»; per esempio:
«se c’è il movimento, c’è il vuoto; ma c’è il movimento; c’è dunque
il vuoto». Il fatto che ci sia il vuoto è qualcosa di non evidente,
e in base a premesse vere, come «se c’è movimento, c’è il vuoto» e
«ma c’è il movimento», viene reso evidente per via di induzione
(συναγωγῇ).
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 367-375 = SVF II, 267
Ma, essi dicono, non di tutto si deve richiedere la dimostrazione;
alcune cose vanno assunte sulla base di ipotesi, giacché lo stesso
nostro ragionamento non può svilupparsi se non si ammetta che in
esso vi è qualcosa che è degno di fede… In generale, poiché i
dogmatici sostengono che non solo la dimostrazione ma in genere
tutta la filosofia procede in forma ipotetica, tenteremo di muovere
qualche obiezione per quanto è possibile a chi ritiene che certe
cose debbano assumersi in forma ipotetica. Per Zeus, essi sono
soliti replicare che la credibilità della validità delle premesse
sta nel fatto che ciò che si è concluso in base alle premesse
assunte viene riscontrato vero; se infatti ciò che ad esse consegue
è corretto, quelle premesse cui consegue sono vere e non revocabili
in dubbio.
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 463-469 = SVF II, 268
I filosofi dogmatici ritengono che l’argomentazione secondo la quale
non esiste alcuna dimostrazione possibile si rivolga contro se
stessa, e confermi l’esistenza della dimostrazione proprio con i
procedimenti che usa per negarla. Perciò contrapponendosi agli
scettici essi dicono: «Chi afferma che non esiste, la dimostrazione,
si vale o di una asserzione semplice e non dimostrativa, oppure
prova questo per mezzo di un ragionamento. Se si vale di una
asserzione pura e semplice, nessuno di quelli che sostengono la
dimostrazione potrà credergli, dal momento che si vale di una
asserzione pura e semplice, ma egli dovrà astenersi dal giudizio di
fronte all’asserzione opposta, quando qualcuno affermi invece che la
dimostrazione esiste. Se invece vuole dimostrare che non esiste la
dimostrazione (questo essi dicono) in base a ciò stesso proverà che
la dimostrazione esiste: Infatti il ragionamento che dimostra che
non esiste la dimostrazione è una dimostrazione del fatto che
dimostrazione si dà: in generale si può dire che il ragionamento che
nega la dimostrazione o è una dimostrazione o non lo è: se non è una
dimostrazione, non è degno di fede; se è una dimostrazione, prova
che questa esiste». Alcuni argomentano anche in quest’altra forma:
«se cè dimostrazione, la dimostrazione esiste; e se non c’è
dimostrazione, tuttavia la dimostrazione esiste; ma la dimostrazione
o esiste o non esiste; quindi la dimostrazione esiste». Il carattere
persuasivo delle premesse di questo ragionamento è manifesto. Il
primo nesso ipotetico, «se vi è dimostrazione, la dimostrazione
esiste», che è reduplicato, è vero: al primo membro in esso consegue
infatti il secondo, che non è altro rispetto ad esso. Ma anche il
secondo nesso ipotetico, «se non c’è dimostrazione, la dimostrazione
esiste» è corretto: al membro antecedente, che è il non esservi
dimostrazione, segue il fatto che vi sia la dimostrazione: infatti
lo stesso ragionamento che vuol dimostrare non esservi
dimostrazione, essendo dimostrativo, conferma che questa esiste.
Quanto alla disgiuntiva «o vi è la dimostrazione o non vi è», fatto
di due proposizioni opposte, che la dimostrazione esista oppure non
esista, ha in sé un membro vero e perciò è vera, in quanto, vere
essendo le premesse, si trae correttamente la conclusione. E
possibile dimostrare anche in altro modo che la conclusione consegue
alle premesse: se la disgiuntiva è vero avendo in sé un membro vero,
qualunque dei termini noi assumiamo come vero si trarrà rettamente
la conclusione. Assumiamo in primo luogo come vero quello che dice:
«la dimostrazione esiste»: poiché questo è l’antecedente nel primo
nesso ipotetico, gli conseguirà il conseguente del primo nesso
ipotetico: questo è «ma la dimostrazione esiste», ed è uguale alla
conclusione. Se dunque noi ammettiamo che è vero che esista la
dimostrazione, ne conseguirà il carattere conclusivo del
ragionamento. Lo stesso carattere persuasivo hanno gli argomenti
basati sull’ammissione dell’altro membro, quello secondo cui non
esiste la dimostrazione: anche questo è il membro antecedente del
secondo nesso ipotetico, e ha una conclusione conseguente al
ragionamento171.
GALENO, De an. pecc. dignosc., 3, V, p. 72 Kühn = SVF II, 272
Chi si trovi a dover immediatamente decidere circa il valore di
un’argomentazione è giocoforza che spesso non sappia sceverare e
distinguere gli argomenti veri dai fallaci. Ne son prova chiara in
proposito quei cosiddetti sofismi, che sono ragionamenti falsi
composti abilmente a somiglianza dei veri; il loro carattere
menzognero è rivelato chiaramente dalla conclusione, che non è vera:
poiché i ragionamenti falsi in generale o hanno una delle premesse
falsa, oppure hanno una conclusione tratta non correttamente, ma
questo, in tali sofismi, non appare a prima vista, ed è difficile da
cogliersi per chi non ha esperienza nell’argomentare.
Scholia in Hermogenis De statibus, Walz, Rhet. Gr. VII, 1, p. 383 =
SVF II, 273
Perciò presso gli Stoici vi è un tipo di ragionamento chiamato
diallelo, che appartiene ai non dimostrativi; ed è del tipo: «dove
abita Teone, là sta anche Dione; dove Dione, anche Teone». Un simile
argomento, il diallelo dico […]172, è non dimostrativo e non è
possibile procedere oltre di esso, in quanto i segni indicativi
degli oggetti su cui verte si richiamano strutturalmente a vicenda.
SIRIANO, Schol in Hermog., II, p. 42, 1 segg. Rabe = SVF II, 286
L’argomento senza soluzione relativamente al predicato, che gli
Stoici chiamano anche «ragionamento del coccodrillo», è di questo
tipo: «Euatlo ha promesso di versare la mercede al sofista
Protagora, la prima volta che vinca una causa in tribunale. Dopo
aver imparato quanto doveva, senza decidersi però a parlare in
tribunale, Protagora gli chiede la sua mercede. Ma quello risponde:
'se avessi vinto, non sarebbe giusto che io pagassi secondo
l’accordo; se fossi sconfitto, non avrei alcun dovere di pagare non
avendo evidentemente ancora ben appreso l’arte'».
CICERONE, De orat., III, 18, 65 = SVF II, 291
Lascio da parte tuttavia… gli Stoici, e riconosco a loro favore che
soli fra tutti hanno detto esser l’eloquenza virtù e sapienza.
Proleg. in Hermog. De Statibus, Walz, Rh. Gr., VII, p. 8 = SVF II,
293
Essi, gli Stoici, chiamarono la retorica scienza, per la sua assai
grande importanza, definendola «scienza del ben parlare».
SESTO EMPRICO, Adv. math., II, 6 = SVF II, 294
Senocrate allievo di Platone e i filosofi della Stoa dissero che la
retorica è scienza del ben parlare, ma Senocrate intendeva in altro
modo la scienza… rispetto agli Stoici, secondo i quali essa
è l’avere atti di comprensione saldi e costanti, e può nascere
solo nel sapiente173. Quanto al «parlare», però, sia l’uno che gli
altri concordano nel ritenere che esso sia differente dal
discorrere, poiché il dare e scambiare battute rapide è proprio
della dialettica, mentre il parlare considerato con estensione e
dilungandosi è proprio della retorica.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VIII, 42 = SVF II, 295
E dicono che la stessa retorica è divisa in tre parti: una
deliberativa, una giudiziaria, una encomiastica. Essa si articola in
invenzione ed elocuzione, disposizione e azione; il discorso
retorico si suddivide poi in proemio, esposizione, repliche,
perorazione finale174.
1. Così Apelt e Usener, giustificando ciò con la convinzione che il
«genere definitorio» non si identifica con la trattazione relativa
al criterio. Per divisioni ulteriori cfr. anche SENECA, Epist. 89,
17 = fr. 34 Hülser.
2. Testo difficile, forse corrotto; seguo la ricostituzione del
Long, più conservativa rispetto a quelle, con ampie integrazioni,
dell’ARNIM, SVF, ad loc., e del GIGANTE («Par. Pass.», XV, 1960, p.
417).
3. L’emendazione del testo sembra richiedere φασίν anziché il
tràdito φησίν.
4. Integrazioni del Wallies.
5. Il linguaggio è ritraduzione peripatetica (cfr. la distinzione
fra θεωρητικόν e πρακτικόν). Hülser (fr. 28, 2) riporta anche il
seguito del discorso, che però contiene refutazione peripatetica e
l’osservazione, assai impropria sotto il rispetto storico, che
Platone stesso considerò la logica sia parte sia strumento della
filosofia. Cfr. anche GIOVANNI FILOPONO, In Anal. pr., p. 6, 19 sgg.
= fr. 29 Hülser.
6. Il termine ἀναγκαία è ambiguo: in senso assiologico (= scienza
che il sapiente deve poter esercitare?) o con carattere
intrinsecamente necessitante? Cfr. in proposito GIGANTE, «Par.
Pass.», 1960, p. 418.
7. Per πρόσδεξις cfr. parte IV, nota 468.
8. Difficile dire se εἰσαγωγικὴ τέχνη indichi qui espressamente una
specifica opera crisippea; Diocle di Magnesia sembra qui riferirsi
in generale alla scuola, ed è probabile che nella Stoa postcrisippea
più autori avessero composto delle εἰσαγωγαί, forse riprendendo e
illustrando definizioni crisippee. Per il testo di Diocle cf r. oggi
EGLI, Dioklesfragment, in HÜLSER, FSD, I, frr. 33 e 255.
9. La frase «ma possono anche esserne privi» è espunta da GIGANTE,
D. L.2, nota 103 ad loc., e p. 535; essa è in effetti pleonastica.
10. Sembra la traduzione più plausibile, anche se il testo mette in
evidenza il termine ἐνέργεια come se fosse soggetto. Il termine, di
origine aristotelica, è pertanto adottato largamente nel linguaggio
stoico, cfr. ADLER, Index, s. v.
11. Integrazione già dello Stephanus, per lo più generalmente
accettata.
12. I pigmei sono già noti ad ARISTOTELE, Hist. anim., VII, 12,
597a; cfr. poi fra gli altri PLINIO, Nat. Hist., VI, 188; VII,
26-27. Per la conoscenza e la leggenda cfr. E. WÜST, Real-Encycl.,
XXIII, 2, 1959, coll. 2064-2074.
13. Può essere idea di derivazione platonica, dal Fedone (105d sgg.)
ove si parla dell’opposizione fra l’anima, che è essenzialmente
vita, e la morte.
14. Il concetto e il termine di μετάβασις è di largo uso soprattutto
in Epicuro ed Epicurei (cfr. USENER, Glossarium, s. ν. μετάβασις,
μεταβατός, μεταβατικός) ma non ignoto alla Stoa (per μεταβατικὴ
φαντασία cfr. anche Sesto, Adv. log. II, 275 = SVF II, 223). Il
seguente τόπος è stato corretto in τρόπος e tradotto «stile» da
Gigante. Ma qui ci si riferisce probabilmente al luogo come
incorporeo (cfr. infra, p. 701). In questo contesto U. EGLI,
Dioklesfragment, in FSD, I, p. 252, inserisce anche il seguente καὶ
κατὰ στέρησιν οἷον ἂχειρ che gli appare, probabilmente a ragione,
fuori posto (richiede un salto logico nella trattazione).
15. F42 Edelstein-Kidd, F460 Theiler.
16. Fr. 65 Luck (e cfr. LUCK, Antiochos, p. 53).
17. Serpenti cornuti, attestati da DIODORO SICULO, Bibl Hist., III,
50, ELIANO, Nat. anim. I, 57, ecc.
18. Per il termine ἔνστημα cfr. CRISIPPO, SVF II, 935 (ἐνστήματα καὶ
κωλύματα, nei Physika crisippei: PLUTARCO, Stoic. rep. 1056d).
Presente anche in Epicuro, nell’Epistola a Pitocle, nel senso di
«obiezione» (Epist. ad Pyth. 91).
19. È probabilmente di origine stoica la coniazione παρατύπωσις
(«impressione falsa, illusoria») accanto a quella di τύπωσις. Oltre
che qui in Sesto cfr. PLUTARCO, De Pyhtiae orac., 21, 404d; GALENO,
In Hipp. praedict., I, 27, XVI, p. 567 Kühn. Non registrato in
ADLER, Index.
20. EURIPIDE, Herc. fur., v. 982.
21. Polemica di Carneade contro gli Stoici; fr. 79 Wisniewski, F 2
Mette.
22. Molto frequente negli stoici ἀντίληψις, ἀντιλαμβάνω e forme
secondarie; anche su questo punto è manchevole ADLER, Index, s. v.
Per l’uso di ἀντίληψις a definire la stessa coscienza della
οἰκείωσις da parte di Crisippo, cfr, SVF II, 724 (parte IV, nota 206
e nota 449).
23. Ancora polemica di Carneade raccolta da Sesto, cfr. fr. 79
Wisniewski; e anche Adv. eth., 183 (SVF II, 97).
24. Presumibilmente da Carneade, fr. 78 Wisniewski (non accolto
invece dal Mette).
25. Testimonianza fortemente improntata a linguaggio aristotelico;
SVF II, 58 non si riporta, in quanto rappresenta essenzialmente una
critica di Alessandro, contro l’improprietà della definizione di
τύπος in Crisippo.
26. È un tentativo di combinazione della teoria aristotelica della
«forma nell’anima» con la teoria stoica della φαντασία.
27. Sembra costituire una forzatura da parte del dossografo, per
contrapposizione con Accademici (della scuola di Arcesilao, che
scindono del tutto il concetto di sensazione da quello di assenso) e
Peripatetici. Per una più retta definizione del rapporto
sensazione-assenso cfr. infra, SVF II, 76.
28. La teoria attribuita da Galeno ad uno sconosciuto stoico Simio,
o Simia, è teoria genericamente stoica.
29. Queste teorie stoiche, abbastanza generiche per essere
dall’Arnim riferite alla Stoa antica, arrivano a Galeno tramite
scuola medica (Quinto, anatomista famoso di età adrianea, si può
considerare indirettamente suo maestro, tramite Satiro e Numisiano,
successivamente suoi maestri (cfr. MEWALDT, Real-Encycl., VII, 1,
1910, coll. 578-591; in part. 580-81).
30. Correzione da parte del Diels in ἐννόημα del νόημα dei codici.
Per il venir meno della distinzione aristotelica fra φάντασμα
sensibile e universale intellegibile cfr. supra, Intr., p. 46 segg.;
e cfr. anche la seguente definizione di Galeno (νόησις come λογική
φαντασία) anch’essa di marca stoica (SVF II, 89).
31. Cfr. SUIDA, S. ν. φαντασία, IV, p. 698 Adler = fr. 267 Hülser;
che combina la definizione zenoniana di «impressione» con quella
crisippea di «modificazione»: «la rappresentazione è una impressione
nell’anima, ossia una modificazione (ἀλλοίωσις)».
32. περίπτωσις è, letteralmente, occorrenza, circostanza (cfr. la
traduzione ciceroniana in De fin., III, 33 con «usus»). Ma si tratta
della circostanza in definitiva occasionale, dell’incontro esterno
che è indispensabile al verificarsi della sensazione: un modo per
designare l’esperienza sensibile.
33. EURIPIDE, Orestes, ν. 256.
34. Odyss., IX, v. 191.
35. Sesto riconosce qui realtà mentale agli oὔτινα, contro opinione
espressa altrove, cfr. Adv. math. I, 17 = SVF II, 336, infra.
36. Cfr. anche ARRIANO, Epicit diss., I, 22, 1-3, e PLUTARCO, De
comm. not., 3, 1060a = frr. 313, 314 Hülser; ove sembra vedere una
piena identificazione fra κοιναί ἔvvoιαι e προλήψεις. Dubita
circa il riferimento a Crisippo HÜLSER, ad loc.
37. Si distingue qui fra ἐπίνοια (trad. Hülser, «Begriff») e λογικὴ
φαντασία, per cui cfr. anche nota 38. Per ἐναποκειμένη cfr. KÜHN
(trad. «intima notio»). Ma si tratta sempre di nozione acquisita,
come indica la stessa formazione da ἐπί, in contrasto con
ἔννοια (non corrisponde quindi al ciceroniano «insita»).
38. ἐν προσδέξει è emendazione dell’Arnim in luogo del corrotto ἐκ
φαντασιῶν δόξα dei codici; cfr. nota 15.
39. Cfr. parte I, nota 132; e per Crisippo parte IV, nota 329. Per
più ampi riferimenti di passi relativi ai concetti di τέχνη,
σύστημα, συγγυμνάζεσθαι, εὔχρηστον, cfr. HÜSER, frr. 398, 404, 407,
414.
40. Il concetto di κακοτεχνία sembra essere, nelle sue origini,
epicureo. Cfr. fr. 51 Us., da AMMIANO MARCELLINO, Hist, XXX, 4, 3.
41. Appartenente ad una fase matura della scuola, impegnata nella
distinzione fra ἕξις, σχέσις, διάθεσις, è il concetto di μέσαι
τέχναι, arti «intermedie» o «indifferenti», per cui cfr. le
testimonianze di Simplicio e Porfirio, cfr. infra, SVF II, 393 e
III, 525, rispettivamente pp. 821, 1164.
42. Non presente in SVF; cfr. MANSFELD, «Greek Rom. Byz. Studies»,
1983.
43. La definizione ricorda quella di Crisippo, μετὰ φαντασιῶν (cfr.
parte IV, nota 329).
44. Il διατυποῖ ἐν ἑαυτῷ del testo traduce in forma
linguistica stoica il concetto aristotelico di εἷδος ἐν τῇ φυχῇ come
stadio preliminare per l’attività dell’artigiano e il procedere
poietico; cfr. Metaph., VI, 1032b 15 segg., 1034a 21 segg. e altrove
(rimando al già citato Techne, p. 97 segg.).
45. È polemica contro la τύπωσις, e potrebbe riferirsi a Crisippo
contro Cleante; cfr. supra, Intr., nota.
46. Su questa testimonianza, assai interessante, che dal REINHARDT
(Poseidonios, p. 58) fu considerata posidoniana, rimando a M.
ISNARDI PARENTE, Techne, p. 354 segg.; essa può essere pertinente
alla Stoa antica, dal momento che Crisippo risulta dal catalogo di
Diogene Laerzio autore di un’opera Definizioni relative all’oggetto
delle altre arti. HÜLSER, fr. 417, riporta anche il paragrafo 144,
ove però la definizione della ἐπιστήμη come τέχνη τεχνῶν è una
integrazione del Wendland.
47. Definizione accademica di linea, per cui cfr. ARISTOTELE, Top.,
I, 143b 14.
48. Seguo il testo tràdito, accettato dal Plasberg e da altri
editori; Bentley emendava «tenet» in «tenetur», il che ha costretto
l’Arnim a integrare un «facultate», peraltro non necessario.
49. L’Arnim, che riporta solo l’inizio, propende a vedere la fonte
della trattazione di Clemente nel περὶ ζητήσεως di Crisippo. Hülser
dà il passo in forma leggermente più ampia. Ma in realtà tutta la
lunga trattazione di Clemente è imbevuta di motivi e formule
stoiche.
50. PLATONE, Meno, 86d segg.
51. Κριτήριον λογικόν non è certo sia espressione stoica originaria:
Sesto lo usa per distinguere l’ambito strettamente conoscitivo in
cui esso vale, e per differenziarlo da un altro tipo di criterio,
quello etico-pratico. In ogni caso l’aggettivo λογικός ha nella Stoa
ampio uso (cfr. ADLER, Index, s. v.). Per la polemica contro il
criterio conoscitivo basato sulla rappresentazione cfr. Sesto anche
altrove, Adv. log., I, 259-261 (= fr. 354 Hülser): si tratta di un
ragionamento tautologico, che fonda la validità di una φαντασία su
di una φαντασία ulteriore, senza raggiungere l’oggetto reale.
52. Fr. 74 Luck; anche il brano seguente viene probabilmente da
Antioco di Ascalona; non registrato nella raccolta del Luck.
53. Plutarco usa qui il termine tecnico di ἀπαραλλαξία, una delle
numerose tipiche formazioni terminologiche stoiche, per cui cfr.
DIOGENE LAERZIO, VII, 126.
54. Riferendosi a un detto proverbiale; cfr. Comica adespota, fr.
189 Kock.
55. Traduce probabilmente ἰδίως ποιά; per cui cfr. infra, note
248-249.
56. «Adpetitio» rende ὁρμή; per studi sulle traduzioni ciceroniane
cfr. supra, parte I, nota 215.
57. Fr. 72 Diels.
58. Una integrazione abbastanza ampia ma non necessaria è supposta a
questo punto dall’ARNIM, ad loc.; seguo il testo stabilito dallo
Stählin.
59. Cfr. parte IV, note 20 segg, EGLI-HÜLSER (cfr. FDS, I, p. 40
segg.) comprendono questa parte nella testimonianza di Diocle di
Magnesia.
60. Questa posizione stoica, che unisce le trattazioni della fisica
e della logica-dialettica (da tenersi invece rigorosamente distinte
per i peripatetici) sembra già presente in SENOCRATE, fr. 10 Heinze,
88 Isnardi Parente (cfr. PORFIRIO, In Ptolemaei harm., p. 8, 22
segg. Düring; il passo deriva probabilmente da Aristosseno).
61. Integrazione del Casaubonus, accettata, come la seguente ‹τό τε
στοιχεΐοv›, dagli editori successivi.
62. O, letteralmente, 'mare tranquillo'. Nell’ambito della κοινή
διάλεκτος (il greco unificato dell’età ellenistica) l’attico è
sentito ormai come un dialetto greco avente particolarità curiose e
peculiari.
63. Il termine medio o intermedio potrebbe forse essere l’avverbio;
cfr. la supposizione di GIGANTE, D. L.2, p. 263. In generale, per i
problemi grammaticali della Stoa e i passi che li concernono, è oggi
da vedersi la raccolta dello Hülser, FDS, II, frr. 536-593.
64. L’enumerazione greca comprende anche l’articolo neutro, qui
intraducibile.
65. EURIPIDE, fr. 839 Nauck2, dalla tragedia perduta Crisippo.
66. Cfr. per la definizione POSIDONIO, fr. 44 Edelstein-Kidd, 458
Theiler; in proposito GIGANTE, «Par. Pass.», XVI, 1961, pp. 40-53.
67. Ἀνατύπωμα è forma secondaria ricavata dal concetto e termine di
τὑπωσις; cfr. Intr., p. 12.
68. Contrariamente ad Aristotele, l’essere è per gli Stoici genere
(per la posizione di Aristotele cfr. Metaph, III, 999b 22 segg.,
101a 5 segg.; VII, 1040b 18 segg.; VIII, 1045b 3 segg., ecc.).
69. Cfr., in termini analoghi, SESTO EMPRICO, Pyrrh. Hypot.,
II, 104 ffr. 878 Hülser).
70. Lacuna nel testo indicata dai recensori più antichi (Casaubonus,
Menagius). Per il significato di συμβάματα nel senso generico di
«predicati», GIGANTE («Par. Pass.» 1960, p. 422) ricorre a SVF II,
184, ove effettivamente Porfirio sembra identificare κατηγορήματα e
συμβάματα; tuttavia qui il concetto di predicato appare genere
rispetto a quello di σύμβαμα, che ne è una specie; cfr. la stessa
traduzione del GIGANTE, D. L.2.
71. Proposta di χατηγορούμενον anziché κατηγόρημα in GIGANTE, ivi,
che traduce «una frase»; la correzione non è comunque necessaria, e
si tratterebbe pur sempre di predicazione.
72. Trag. adesp., fr. 177 Nauck2.
73. Lacuna indicata dallo Huebner; l’integrazione è dello Hicks.
74. Formula fissa più volte ripetuta: cfr. Iliad., II, v. 434, e
altrove.
75. Trag. adesp., fr. 286 Nauck2.
76. MENANDRO, fr. 281 Kock.
77. Cfr. parte V, nota 155, per la presenza di due filosofi stoici
di questo nome. Ci si riferisce qui probabilmente al primo.
78. L’integrazione, del Valesius, non è accettata da tutti gli
editori seguenti (cfr. ad es. GIGANTE, D. L.2, p. 268). La lezione
διαφορουμένου, accettata ultimamente da LONG, ad loc., e da EGLI,
Dioklesfragment, in FDS, III, p. 1140, è probabilmente errata: si
tratta qui dei sillogismi «reduplicati», διφορούμενοι, per cui cfr.
infra, nota 177.
79. Lo ἀποφαντικόν di alcuni codici è lectio facilior da non
seguirsi; come chiarisce poi il contesto, si tratta di distinzione
fra due tipi di negativi. Per altre difficoltà logiche circa i
negativi cfr. PLUTARCO, De comm. not., 39, 1080c = fr. 931 Hülser (e
le osservazioni dello HÜSER, ad loc.).
80. Integrazione Hicks; più complessa quella oggi proposta dallo
EGLI, Dioklesfragment, FDS III, p. 1140, il quale sospetta una
aplografia.
81. Ancora integrazione Hicks.
82. La frase «oppure ammette di esser falso ecc.» è espunta da O.
BECKER, Formallogisches und Mathematisches in griechischen Texten,
«Philologus», C, 1956, p. 110; lo segue GIGANTE, D. L.2, p. 270,
nota 128. Altri interpreti, ad es. il Mansfeld, preferiscono dare
altro significato all’espressione: non impedimento da parte di
circostanze esteriori ma di altri ἀξιώματα (il che sarebbe provato
dall’espressione ἐναντιοῦσθαι, che è termine logico e non indica
impedimento fisico).
83. Cfr. anche PROCLO, In Plat. Parm., IV, p. 103 Cousin (= SVF II,
202b).
84. PS. APULEIO, De interpr., 266, p. 2, 9 segg. Goldbacher (= SVF
II, 204a) è interessante per la traduzione latina («propositiones
dedicativae», «abdicativae»).
85. Integr. Hicks.
86. Cfr. anche SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 449 = fr. 995
Hülser.
87. Lacuna già denunciata dagli editori più antichi (Casaubonus,
Menagius).
88. FREDE, St. log., p. 57, nota 10, accetta la lezione συναπτικός
(«collegante») anziché quella συνακτικός («concludente»). Arnim
integra ‹ἀόριστον›.
89. Incerto se questa definizione della dialettica sia solo
posidoniana, come ritiene THEILER (Fragmente, II, p. 399) o anche di
Crisippo; i due filosofi sono in genere citati da Diogene Laerzio in
stretta concomitanza. Sesto parla genericamente di «Stoici».
90. Δύναμις ha un senso assai diverso qui da quello aristotelico di
potenzialità. Cfr. a rincalzo anche Pyrrh. Hypot., II, 80-84 = fr.
322 Hülser, PS. GALENO, Hist. Philos., 13, Dox. Gr. p. 606. Sulla
questione cfr. GOLDSCHMIDT, Syst. Stoïc.4 p. 165 segg.
91. Per il concetto di ἡγεμονικὸν πὼς ἔχον, parte IV, nota 384.
92. Per questo papiro cfr. H. v. ARNIM, Ueber einen stoischen
Papyrus der herkulanensischen Bibliothek, «Hermes», XXV, 1890, pp.
473-495. Dopo l’edizione del testo con numerose proposte di
integrazione e un commento frammento per frammento, l’Arnim
argomenta in favore dell’attribuzione a Crisippo, soprattutto per
ragioni di carattere linguistico-terminologico (p. 489 segg.). La
riedizione data nel secondo volume degli SVF contiene integrazioni
più ampie e tiene conto anche di qualche proposta di lettura
sopravvenuta nel frattempo, come ad es. di una lettura del Crönert,
infra, nota 100. Il testo dell’Arnim è riedito oggi in HÜSER, FDS,
I, pp. 86-92.
93. Integr. Arnim κατὰ περ‹ίστασιν›; cfr. per il commento «Hermes»,
1890, pp. 475-477.
94. Φαντασία, ο φαντασίαις, come l’Arnim preferisce in SVF.
95. Verso esiodeo restituito in questo luogo dal Brinckmann; cfr.
ESIODO, Opera, vv. 289-290.
96. Nel vocabolario stoico δόκησις sembra comparire solo in questo
luogo (δόκησις, δόξις sono termini di tradizione democritea; cfr.
DIELS-KRANZ, Index, ss. vv.).
97. οἴησις per «vana credenza» è termine che sembra già esser
appartenuto al linguaggio zenoniano (SVF I, 71, da DIOGENE LAERZIO,
VII, 23; tradotta da Cicerone con «opinatio», Acad. post. 11, 42).
Non è ignoto al linguaggio epicureo (cfr. USENER, Gloss. Epic, s.
v.). Per il passo nell’insieme seguo le più ampie integrazioni
dell’edizione in SVF.
98. Qui al contrario ὐποληφιν, proposta in «Hermes» 1890, p. 479, è
caduto nel testo degli SVF.
99. Ampiamente integrato in SVF, mentre compare mutilo in «Hermes»
1890, p. 479. Non si dà qui il fr. seguente, lacunosissimo; in
«Hermes» 1890, pp. 480-483, cfr. il tentativo di interpretazione con
particolare attenzione all’espressione ἄτεχνος (caratterizzazione
del non sapiente, giacché il sapiente possiede ogni sorta di τέχνη).
100. L’espressione τά ἀναμέσον, peculiare di questo testo, e che non
ricorre altrove, non indica solo, come sembra interpretare con la
sua traduzione «die mittleren Dinge» lo Hülser, ciò che è
intermedio, ma avere un senso più svalutativo. Hülser in ogni caso
precisa parenteticamente che può trattarsi di mali che non dipendono
da scelta volontaria (FDS, I p. 91); ma il suo intento non è del
tutto chiaro.
101. La lettura del testo incerto κατ’ Αριστοτέλην è proposta dal
CROENERT sulla base di Polit., VI, 1319a 3 («Hermes», XXVI, 1901, p.
550). Ma si deve anche ricordare che Aristotele aveva già usato per
la scienza il termine, poi divenuto usuale e tecnico negli Stoici,
di ἀμετάπτωτος (Top., VI, 139b 33).
102. ’Επιστροφή, termine noto anche alla tradizione di scuola
epicurea (cfr. USENER, Glossarium, s. v.) manca in ADLER, Index; ma
è in uso nella Stoa, e da essa passerà nella tradizione neoplatonica
più tardi. Cfr. P. HADOT, Epistrophé et metanoia dans l’histoire de
la philosophie, «Actes XI Congrès Intern. Philos.», Amsterdam 1953,
pp. 31-36. Qui essa ha il senso di «attenzione che si rivolge a»;
cfr. anche HÜSER, FDS, I, p. 91, «Aufmerksamkeit».
103. ARNIM, «Hermes» 1890, pp. 485-486, ha richiamato a questo
proposito SENECA, Epist. 89, 5, che parla di filosofia come
«adpetitio rectae rationis»; e λόγος è tradotto dallo HÜSER, loc.
cit., con «Vernunft», ragione. Ma è difficile non vedere in questo
discorso un accenno alla teoria crisippea della filosofia come,
innanzi tutto, correttezza nel discorso; anche in questo stesso
brano ricorre l’espressione ἐπιτήδευσις λόγου ὀρθότητος (per cui
cfr. Intr., nota 76 e infra, nota 116). C’è nel testo un gioco
difficilmente rendibile fra λόγος-ragione e λόγος-espressione
verbale.
104. Seguo il testo dello Hülser che dipende dall’integrazione
dell’ARNIM in «Hermes» 1890, p. 488.
105. Testo di assai difficile interpretazione: ἡ θεωρητική
sottintende qualcosa; Hülser, propone «Schulung», esercizio (contro
al τριβή indicante l’esercizio pratico).
106. La distinzione fra il discorso nell’anima (il pensiero) e
quello pronunciato è di PLATONE, Theaet., 1896-1903, Soph. 263e;
cfr. ARISTOTELE, Anal, post., I, 76b 24-27. Stoici sono i termini
tecnici di προφορικός e ἐνδιάθετος che avranno larga fortuna; per la
loro fortuna in Filone Alessandrino cfr. HÜSER, frr. 530-534
(significativo in realtà solo il primo, De migrat. Abr., 71, II, p.
282 Cohn-Wendland; ma l’immagine del discorso interiore come fonte e
di quello esteriore come fluire della corrente è probabilmente
filoniana).
107. Iris è identificata naturalisticamente con l’arcobaleno, cfr.
DIOGENE LAERZIO, VII, 152; identificazione corrente e non certo solo
stoica. Il legame col discorso è forse da cercarsi nella teoria
della voce come «aria percossa» (l’arcobaleno è infatti dovuto per
gli stoici a una rottura di raggi). Se è così, l’etimologia sarebbe
stata forse formulata nella scuola di Diogene di Babilonia.
108. Non compreso negli SVF. Da Agostino è recepito attraverso la
mediazione di fonte latina, come mostra l’esemplificazione (mel come
esempio di corrispondenza fra la «lenitas» dei suoni e la «lenitas»
dell’oggetto, ad esempio; lucus a non lucendo come esempio della
derivazione dal contrario). Ma la dottrina risale probabilmente alla
Stoa antica; cfr., per analogia, il brano di Origene sopracitato, a
proposito delle πρῶται φωναί. Una corrispondenza originaria e
immediata delle espressioni linguistiche ai suoni è ipotizzata del
resto anche da Epicuro; cfr. Epist ad Her., 75.
109. «Abusio» traduce certamente κατάχρησις. Per questa parola cfr.
parte III, nota 88.
110. Distinzioni che risalgono già a Speusippo, per cui cfr. lo
stesso SIMPLICIO, In Categ., p. 38, 11 segg. Kalbfl. = fr. 32a L.,
45 I. P.
111. Il testo tràdito dà εἴη … ἐπαγωγή τις αὔτη; in questo caso
tuttavia la parola πίστις è pleonastica; Arnim suppone un
ἐπαγωγ‹ικ›ή τις αὔτη πίστις.
112. Integrazione dell’Arnim.
113. Iliad., XXIII, v. 382. Il verso è ricostituito dagli editori;
il testo di Galeno è qui corrotto.
114. Testo dubbio e forse lacunoso.
115. Non risulta appartenente all’Iliade, cfr. PRENDERGAST-MARZULLO,
Concordance, 2a ed., ss. vv.
116. Riferimento ad ARISTOTELE, De interpr., 16a 23.
117. Iliad. I, 1.
118. Integrazione Meziriac, cfr. CHERNISS, Plut. Mor., XIII, ad loc.
119. Opera discussa di Aristotele, citata ora come Περὶ ἐναντίων e
ora come Περί αντικειμένων; incerto se si tratti della stessa opera.
120. Per la difficoltà di una autentica distinzione fra contrario e
contraddittorio, che gli Stoici provano di necessità per la loro
posizione dei contrari come non conoscenti termine medio
(applicazione ai contrari di quel principio del terzo escluso che
Aristotele riservava ai contraddittori), cfr. LUSCHNAT, Fortschritt,
p. 192 segg., e Intr., nota 45.
121. Il testo porta anche un «distruttibili e indistruttibili»
apparentemente pleonastico ed espunto dal Wendland.
122. Porfirio sembra qui identificare σύμβαμα e κατηγόρημα, il che
non è del tutto esatto; si traduce qui l’espressione σύμβαμα con
«predicato accidentale» in analogia con DIOGENE LAERZIO, VII, 64,
cfr. nota 78.
123. Si rende così imperfettamente la frase Σωκράτει μεταμέλει
(pentirsi, in questo tipo di espressione, è usato in forma
impersonale con caso obliquo).
124. Iliad., III, v. 130. Per le considerazioni sugli imperativi
cfr. le Ricerche logiche di Crisippo, parte IV, nota 79.
125. Iliad., III, v. 300.
126. Iliad., VIII, v. 202.
127. MENANDRO, fr. 855 Kock.
128. Ammonio, così come il discepolo suo continuatore detto lo
pseudo-Ammonio (cfr. per questa distinzione A. BUSSE, Praefatio a
Ammonii in Aristotelis Analytica prima, GAG IV, 1899; pp. VII-VIII),
compie un assai interessante confronto della terminologia logica
stoica con quella aristotelica; difficile tuttavia spesso le
attribuzioni precise e la distinzione di ciò ch’è crisippeo da ciò
ch’è postcrisippeo. Per l’indicazione di «dieci tipi di
ragionamento» presso gli Stoici cfr. ancora AMMONIO, In Arist. De
interpr., p. 2, 3 segg. e 26, 31 segg. Wallies.
129. Arnim segnala qui il carattere inusitato del termine μώμιμος,
probabile ἄπαξ stoico.
130. Il «verum dicis» finale è espunto da più critici, fra cui
l’Arnim (altri, come il Plasberg, segnalano una lacuna e lo
ritengono un avanzo di frase). A proposito del discorso apofantico
cfr. anche GELLIO, Noct. Att. XVI, 8. 1 (SVF II, 194).
131. Espunto dal Meineke un μὴ (non) qui ripetuto erroneamente.
132. Deduzione di Sesto, il quale fa discendere rigidamente
congruenze logiche non previste dalle premesse fisiche stoiche.
133. Cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 75. Il testo è apparso corrotto per
la caduta di una parte del discorso a più critici. Cfr. le
integrazioni del Frede (veritatem ‹sive natura propria sive› aliis
etc.); del Mansfeld (veri‹tatem; non necessarium autem, quod et cum
verum sit tamen possit suscipere falsi› tatem, aliis etc.).
134. Cfr. anche Pyrrh. Hypot., II, 112 segg.
135. Per questo tipo logico detto dei discorsi μεταπίπτοντες
ἀπεριγράφως cfr. FREDE, St. Logik, pp. 47-48: si tratta di giudizi
che possono esser veri al momento in cui sono espressi, ma che
possono esser falsificati da circostanze peraltro imprevedibili.
Frede suppone che si tratti di un perfezionamento postcrisippeo dei
giudizi μεταπίπτοντες trattati da Crisippo (cfr. DIOGENE LAERZIO,
VII, 196, nell’elenco dei titoli).
136. ῞Eν, integrazione Heintz.
137. Circa i giudizi συμπλεϰτιϰοί. nella logica crisippea cfr.
GALENO, Intr. dial., p. 10 Kalbfleisch (SVF II, 208). Dexippo si
riferisce alle stesse forme logiche pur dandocene un appellativo
semplificato.
138. Integr. dell’Arnim, per lo più accettate dai posteriori
editori.
139. Cfr. anche Schol in Ammon. comm. in Anal. Pr., GAG IV, 4, pp.
IX, 23 segg., VI, 1 segg., XI, 37 segg. (= fr.1108 Hülser).
140. Galeno contrappone i più antichi i Peripatetici -, ai più
recenti gli Stoici -; ma si tratta pur sempre della Stoa antica:
cfr. in proposito MAU, Galenos Einführung in die Logik, p. 9 (a fine
del passo citato si rende necessaria l’emendazione di παλαιούς in
νεωτέρους). Il termine di συλλογισμὸς ὑποθετιθϰός compare con
Teofrasto; cfr. Intr., nota 80.
141. Iliad. VIII, v. 246 (ma il testo è da emendarsi in οὐδ’
ἀπολέσθαι).
142. EPICURO, fr. 376 Us. (=190 Arr.2).
143. I «dialectici» sono chiariti poco oltre come «Antiochus et
stoici».
144. Non compreso dall’Arnim negli SVF e rimasto problematico anche
per gli studiosi ulteriori; anche oggi HÜSER, FDS, lo cita ma non lo
riporta, non ritenendolo rivolto in particolare contro dottrina
stoica; e già prima GOLD-SCHMIDT, Doctrine Épic. droit, p. 106, n.
1, attribuiva la sostanza del discorso a scuola epicurea. Ma cfr.
l’ampia attenzione dedicata al passo da PH. DE LACY, Philodemus. On
Methods of Inference (Philadelphia 1941), oggi in «La scuola di
Epicuro», I, Napoli 1978, p. 212 e p. 286, nota 3; e il confronto
che il De Lacy fa di esso con Pyrrh. Hypot., II, 95-103. La polemica
di Sesto contro i dogmatici su questo punto va forse oltre il
bersaglio stoico, e non è detto che non comprenda gli epicurei. Ma,
alla luce di altri passi (cfr. i frr. seguenti qui riportati),
sembra difficile negare che nell’ambito della polemica di Sesto non
sia qui compreso anche un nucleo di teoria stoica.
145. Cfr. Pyrrh. Hypot., II, 95-103, forse ancora più esauriente in
singoli punti. La dottrina degli interstizi non è stoica, stoica è
invece quella citata immediatamente di seguito, del «vuoto esterno».
146. Cfr. Pyrrh. Hypot., II, 104-106.
147. Non necessaria l’espunzione di τὸ σημειοτόν proposta dallo
Heintz.
148. Cfr. anche, in termini analoghi, PS. GALENO, Philos. Hist., 9,
Dox. Gr., p. 605, con la distinzione fra segno indicativo e
rammemorativo o mnemonico (fr. 1027 Hülser). Cfr. in generale la
polemica di Filodemo in De signis (ed. De Lacy, On Methods of
inference, cit.), oggi messa in evidenza dallo HÜSER, FDS, fr. 1032
e segg. Per il problema del «segno intellegibile», oltre DE LACY,
op. cit., p. 206 segg., cfr. G. VERBECKE, in Les Stotïciens et leur
logique, p. 410 segg.
149. Cfr. anche Pyrrh. Hypot., II, 122.
150. Il nesso è mutilo nel testo, cfr. le diverse integrazioni
dell’Arnim e dello Heintz (si seguono quelle di quest’ultimo).
151. Espunte dallo Heintz le parole «nesso formato dalle premesse».
152. Questa definizione (testo incerto, cfr. ARNIM, ad loc.) è
attribuita ad Antipatro di Tarso da DIOGENE LAERZIO, VII, 60 (supra,
parte V, nota 165).
153. ANTISTENE, fr. 46 Decleva Caizzi, V A 151 Giannantoni. È
difficile dire peraltro in che cosa Antistene possa essere
considerato anticipatore della critica che gli Stoici muovono alla
concezione aristotelica della sostanza, ritenendola sovrabbondante.
Per l’importanza da essi data al τί come genere sommo cfr, infra, p.
798 segg.
154. Ammonio afferma qui che πρόσληψις è usato indifferentemente da
Stoici e Peripatetici, mentre Alessandro, cfr. infra (SVF II, 251)
afferma che al peripatetico μετάληφις corrisponde lo stoico
πρόσληψις. Per altri paragoni fra linguaggio logico stoico e
peripatetico cfr. GIOVANNI FILOPONO, In Arist. anal. pr., p. 242, 14
segg. = fr. 682 Hülser.
155. Emendazioni ed espunzioni dell’Arnim.
156. Sesto gioca sul duplice significato di ἀληθές e ψεῦδος come
verità logica e verità di fatto, formale e reale.
157. Cfr. anche Pyrrh. Hypot., II, 108 segg.; e il fr. seg. PS.
APULEIO, De interpr., 277, p. 15, 11 segg. Goldbacher e 9, 12 segg.;
ivi. SVF II, 239a, 272, interessano precipuamente le tradizioni
latine di espressioni logiche stoiche.
158. Incerta l’attribuzione delle teorie contenute nel passo, non
introdotte dall’Arnim nella sua raccolta, e oggi in HÜSER, FDS, fr.
958 (comprendente II, 110-115). In proposito cfr. gli KNEALE,
Development, p. 128 segg.: dopo l’enunciazione delle due
posizioni di Diodoro Crono e Filone di Megara, le due ulteriori
quelle dei filosofi che si fondano sulla συνάρτησις e dei filosofi
che si fondano sulla ἔμφασις sarebbero rispettivamente quella di
Crisippo e quella dei Peripatetici. Gli Kneale fondano questa
convinzione sul termine δυνάμει, qui usato im senso aristotelico
(cfr. analogamente anche MIGNUCCI, Significato log. st., p. 147; di
contro invece FREDE, St. Log., p. 92, che ricorda l’espressione κατὰ
δύναμιν usata per gli stoici da DIOGENE LAERZIO, VII, 70) e sul
fatto questo più significativo in realtà che i Peripatetici
rifiutavano la formula «se P, dunque P» come tipica del verbalismo
stoico (ALESSANDRO, In And. pr., p. 20 Wallies). Per una
delucidazione del difficilmente traducibile concetto di ἔμφασις
(trad. KNEALE, «implication»; M. BALDASSARRE, Log. St. IV, p.
25, «potenzialità») cfr. la perifrasi eplicativa del FREDE, St.
Log., p. 90.
159. Il λόγος οὐ περαίνων dei Peripatetici sembra corrispondere al
λόγος οὐ συνακτικός degli Stoici. «Concludere», per gli Stoici, a
differenza dei Peripatetici, è compiere una συναγωγή, quindi una
sorta di induzione o inferenza (cfr. infra, nota 178). Sesto si vale
qui di terminologia peripatetica.
160. Lo ἀποφαντικῶν della maggior parte dei codici fu già corretto
in ἀποφατικῶν (Brandis). Il commentatore di Aristotele afferma che
non basta un semplice fatto di ordine grammaticale, la soppressione
del negativo, per risolvere un problema logico, ma occorre il
ricorso al concetto aristotelico di sostanza. Il punto di
riferimento è la polemica di Aristotele contro l’eristica megarica.
161. Cfr. anche ALESSANDRO, In Anal. pr., p. 390, 16 segg. Wallies
(SVF II, 252) con la distinzione di sillogismi ipotetici e
categorici.
162. È la consueta contrapposizione di «antichi» (Aristotele e il
primo peripato) alle innovazioni logico-terminologiche degli Stoici.
Cfr. anche p. 263, 12 segg., 264, 7 segg. Wallies.
163. Con terminologia meno articolata cfr. anche SIMPLICIO, In
Arist. de caelo, p. 236, 33 segg. Heiberg.
164. Integrazione Arnim.
165. Diversamente Ammonio (supra, nota 150). Ma la testimonianza di
Alessandro è assai precisa; difficile dire se la diversità possa
rispondere a un diverso riferimento cronologico e fasi differenti
della logica stoica. Per altre espressioni logiche stoiche di non
facile interpretazione (ad es. la «cosiddetta materia indefinita»,
ἄπειρος ὓλη) cfr. ancora ALESSANDRO, In Anal. pr., p. 164, 27 segg.
Wallies = SVF II, 259; FREDE, St. Log., p. 182.
166. Anal. pr. I, 1, 24b 20. Per i sillogismi ἀμεθόδως περαίνοντες
(cui manca la forma caratteristica del sillogismo e che sono
concludenti in base al loro contenuto) cfr. FREDE, St. Log., p. 121.
167. Anal. pr. I, 1, 24b 18.
168. Διαιρετικός è termine della tradizione platonico-peripatetica
per ciò che invece gli Stoici chiamano διεζευγμένος (FREDE, St.
Log., p. 93, nota 20). Poco più oltre Alessandro usa ambedue i
termini (διαιρετικοὶ καὶ διαζευκτικοί).
169. Ι sillogismi reduplicati o ripetitivi (che lo ps. Apuleio
traduce in latino con «geminantes», cfr. De interpr. p. 9, 12 segg.
Goldbacher) sono i διφορούμενοι, parola che nella tradizione viene
spesso deformata in διαφορούμενοι, così in DIOGENE LAERZIO, VII, 68,
69; SESTO, Pyrrh. Hypot. II, 112 e adv. log. II, 108, 109. Per le
correzioni già apportate a questi testi dal PRANTL, Ant. Log., p.
445, nota 122, 447, nota 125, e seguite per lo più dagli altri
studiosi della logica stoica cfr. FREDE, St. Log., p. 50, nota 5.
Per gli ἀδιαφόρως περαίνοντες λόγοι cfr. ancora FREDE, p. 184, nota
21: sono sillogismi in cui la conclusione è identica ad una delle
premesse (trad. dello PS. APULEIO, De interpr., p. 184, 27 Goldb.:
«non item differenter peragentes»).
170. La parola che qui sembra fosse usata dagli Stoici è συναγωγή
(che si differenzia dalla induzione, ἐπαγωγή, aristotelica): una
sorta di «induzione inferenziale», che si vale di forme
sillogistiche. BALDASSARRE, Log. St. IV, p. 131, traduce qui
«cogenza ci ragionamento», che è alquanto generico, e più oltre
«deduzione», che non sembra accettabile.
171. Cfr. anche SESTO, Adv. log. II, 367 segg. = SVF II, 267, per
ulteriore polemica antistoica (mentre non sembra riferimento di
dottrina stoica GALENO, In Hippocr. prognost., I, XVIII p. 26 K. =
SVF II, 269, fr. 1026 Hülser: sono là usate due espressioni
tipicamente epicuree come ἐπιλογισμός e ἀναλογισμός che non a caso
ADLER, Index, s. v., cita solo come ἄπαξ). In generale per altri
numerosi passi relativi alla teoria stoica del sillogismo o per lo
meno discendenti da essa non si può qui che rimandare alla più vasta
raccolta dello Hülser.
172. Testo corrotto (tentativi di emendazione in ARNIM, ad loc.,
peraltro non convincenti; seguiti oggi da HÜSER, fr. 1123).
173. SENOCRATE, fr. 13 Heinze = 90 Isnardi Parente.
174. Cfr. ARISTOTELE, Rhet., I, 1358b 5 segg. per le tre divisioni
basilari; gli Stoici tuttavia sostituiscono il termine ἐπιδεικτικόν
con quello di ἐγκωμιαστικόν (cfr. POHLENZ, Stoa, I p. 52). Già noto
alla stessa letteratura retorica prearistotelica il termine διήγησις
(cfr. W. SÜSS, Ethos. Studien zur älteren griechischen
Rhetorik, Leipzig-Berlin 1910, p. 203 segg.), mentre appartengono ad
ulteriori partizioni termini quali φράσις ed εὕρεση, per lo più fino
ad Aristotele usati in senso non retorico.
FISICA
PRINCIPI GENERALI
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 132-133
Quanto alla trattazione della fisica, la dividono in queste parti:
sui corpi, sui princìpi, sugli elementi, sugli dèi, sui limiti, sul
luogo, sul vuoto. Questo nella divisione secondo specie: ma quanto
alla divisione secondo il genere, le parti sono solo tre:
sull’universo, sugli elementi, sulle cause come terza parte.
La parte relativa al cosmo la suddividono in due. Una di queste
indagini la considerano comune alla loro filosofia e alle scienze,
poiché anche i cultori di queste fanno ricerche sui corpi immobili e
in movimento, se per esempio il sole sia grande quanto appare e
similmente la luna, e analogamente sul vortice, e altri oggetti di
ricerca simili a questi. Ma un altro ramo della indagine
sull’universo la considerano esclusiva dei filosofi che si occupano
della natura1: questa si pone come problemi quale sia la sostanza
dell’universo, se il sole e le stelle siano fatti di materia e
forma2, se l’universo sia generato o ingenerato, animato o privo di
anima, distruttibile o indistruttibile, se sia retto da provvidenza,
e altre questioni consimili. Anche la ricerca sulle cause si divide
in due parti: una partedi essa è comune a filosofi e medici, giacché
anche questi indagano sulla parte direttiva dell’anima, sulle cose
che si generano nell’anima, sui semi e altre cose consimili; quanto
all’altra, la rivendicano anche i cultori delle scienze, giacché
riguarda per esempio come possiamo vedere, quale sia la causa della
rappresentazione visiva, come si formino le nubi, i tuoni e gli
arcobaleni, l’alone, le comete e altre cose consimili.
FISICA GENERALE, TEOLOGIA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 134-151 = SVF II, passim
Sembra loro che vi siano due principi del tutto, il principio attivo
e quello passivo. Quello passivo è la sostanza senza proprietà, la
materia, e quello attivo è la ragione che si trova in essa, la
divinità; quest’ultima, che è eterna, scorrendo per la materia
foggia tutte le realtà. Sostengono questa dottrina Zenone di Cizio
nel Della sostanza, Cleante nel Degli atomi, Crisippo nella Fisica,
verso la fine del libro I, Archedemo nel Degli elementi, Posidonio
nel libro II della Trattazione fisica.3 Dicono che sono diversi
fra loro princìpi ed elementi: i princìpi sono ingenerati e
indistruttibili, gli elementi si distruggono nella conflagrazione.
Inoltre i princìpi sono incorporei e privi di forma, mentre gli
elementi hanno determinate forme.
Un corpo è, come dice Apollodoro nella Fisica, una realtà che ha tre
dimensioni, lunghezza, larghezza, profondità; questo si chiama corpo
solido, la superficie invece è il limite esteriore del corpo, oppure
è ciò che ha solo lunghezza e larghezza, non profondità; Posidonio,
nel libro V del Delle meteore4, la considera esistente non solo nel
pensiero, ma anche nella realtà. La linea è il limite della
superficie, o lunghezza senza larghezza, o ciò che ha lunghezza
soltanto; il punto è il limite della linea, vale a dire il segno
minimo.
Dicono che una sola cosa è la divinità, il destino, Zeus; anche se
viene indicato con molti altri appellativi. Originariamente raccolto
in sé, egli ha fatto poi volgere tutta la realtà di aria in acqua; e
come nella generazione si effonde il seme, così anche questo,
essendo la ragione seminale dell’universo, resta insito con tale
facoltà creativa nell’umidità, rendendo la materia simile a lui
nella potenza generativa in vista della formazione delle cose; in
seguito genera poi i quattro elementi, fuoco, acqua, aria, terra.
Parla di questi Zenone nel Dell’universo, Crisippo nel libro I della
Fisica, Archedemo in qualche libro del Degli elementi. L’elemento è
ciò da cui prende origine ciò che si genera, e in cui da ultimo si
risolve. I quattro elementi formano nel loro insieme la sostanza
senza proprietà, la materia: il fuoco è il caldo, l’acqua è
l’umido, l’aria è il freddo, la terra è il secco. E ciò non
basta, ma nella stessa aria si trova quest’ultimo elemento: infatti
nella regione più alta dell’aria c’è il fuoco che si chiama etere,
da cui nasce tutta la prima sfera, quella degli astri immobili, e in
secondo luogo quella degli astri erranti; più in basso viene l’aria,
poi l’acqua, poi la terra, sostegno del tutto, e posta nel mezzo
dell’universo.
Dicono che «cosmo» si intende in tre modi: come la divinità stessa,
che ha la stessa qualità specifica (ἰδιοποιόν) della sostanza
universale; è infatti indistruttibile e ingenerato, artigiano
dell’ordine del mondo, portato a risolvere totalmente in sé la sua
sostanza stessa in determinate fasi e poi a generarla nuovamente da
se stesso; tuttavia come cosmo può essere anche inteso l’ordinamento
proprio degli astri, e in terzo luogo l’insieme che risulta dall’uno
e dall’altro. È cosmo ciò che ha le proprietà specifiche della
sostanza universale, o, come dice Posidonio negli Elementi di
meteorologia, un complesso organico di cielo e terra, e, nell’ambito
di questi, un complesso organico di uomini, dèi, e cose generate in
virtù di essi. Il cielo è l’estrema superficie periferica in cui si
colloca tutto ciò che è divino. Il cosmo è governato secondo
intelletto e provvidenza, come dice Crisippo nel libro V del Della
provvidenza e Posidonio nel libro XIII del Degli dèi5, poiché
l’intelletto lo percorre tutto quanto, così come negli individui
l’anima: tuttavia in alcune parti fa sentire di più la sua efficacia
e in altre meno: per esempio in alcune parti esiste solo come
disposizione, così come nel corpo umano avviene nelle ossa e nei
nervi; in altre è presente proprio come intelletto, come avviene
nella parte direttiva dell’anima. Così l’intero cosmo, essendo un
essere vivente, animato, razionale, ha come parte direttiva
dell’anima l’etere, come dice Antipatro di Tiro6 nel libro VIII del
suo Dell’universo; ma Crisippo nel libro I del Della provvidenza e
Posidonio nel Degli dèi dicono che parte direttiva dell’anima
dell’universo è il cielo, e Cleante il sole7. Del resto lo stesso
Crisippo poi si differenzia da se stesso e dice nello stesso libro
che parte direttiva è l’elemento più puro dell’etere, quello che
essi dicono anche essere il primo dio, che è insito sensibilmente
nelle realtà che sono nell’aria, e negli esseri viventi, e nelle
piante, mentre nella terra si trova come semplice disposizione.
Dicono che l’universo è uno e che è limitato, e possiede forma
sferica: tale forma è quella che si adatta meglio al movimento, come
dice Posidonio nel libro V della Trattazione fisica8 e Antipatro nel
libro Dell’universo, seguito dalla sua scuola. Al di là di esso si
diffonde l’infinito vuoto, che è privo di corporeità; è infatti
privo di corporeità ciò che può essere contenuto da corpi, ma non ne
è contenuto in effetti. All’interno del cosmo non c’è nulla che sia
vuoto, perché esso è assolutamente unitario: a ciò lo costringe di
necessità l’afflato e la sintonia che regnano fra le realtà celesti
e quelle terrestri. Parlano del vuoto Crisippo nel Del vuoto, e
nella prima trattazione dei Trattati di fisica; Apollofane nella
Fisica; Apollodoro e Posidonio nel libro II della Trattazione
fisica9. Anche questi (l’afflato e la sintonia)10 sono incorporei
allo stesso modo del vuoto; incorporeo è anche il tempo, che è
intervallo del moto del cosmo. Del tempo, il passato e il futuro
sono infiniti, il presente è limitato. Ritengono che il cosmo sia
soggetto a distruzione, in quanto è generato con la stessa ragione
delle cose che si apprendono per mezzo dei sensi, e ciò di cui sono
soggette a distruzione le parti lo è anche nell’insieme; ma le parti
del cosmo sono soggette a distruzione, perché trapassano l’una
nell’altra con alterno mutamento; e quindi si deve dire che anche il
cosmo lo è nel suo insieme. E lo è anche per il fatto che è soggetto
a mutamento in peggio: è infatti soggetto a essiccarsi e a
dissolversi in acqua11.
L’universo ha la sua nascita quando la sostanza da fuoco trapassa in
aria e poi in acqua, e infine la parte più solida condensandosi
viene a formare la terra, mentre la parte più leggera evapora e,
diventando sempre più tenue, dà luogo al fuoco; quindi, in base a
mescolanza di questi elementi, si formano le piante, gli esseri
viventi e tutte le altre stirpi. Della genesi e della distruzione
del cosmo parlano Zenone nel Dell’universo, Crisippo nel libro I
della Fisica, Posidonio nel libro I del Dell’universo12, Cleante,
Antipatro nel libro X del Dell’universo; ma Panezio invece ha
affermato che il cosmo è indistruttibile13. Che il cosmo sia
razionale, animato, dotato di intelletto, lo dicono Crisippo nel
libro I del Della provvidenza e Apollodoro nella Fisica e
Posidonio14; ed il cosmo essendo un essere vivente di tal fatta, ciò
significa che la sostanza è animata e dotata di sensazione. Ciò che
è essere vivente è migliore di ciò che non lo è; ma nulla può esser
migliore del cosmo; e quindi il cosmo è un essere vivente. E poi
dotato di anima, in quanto è evidente che la nostra anima è una sua
emanazione. Tuttavia Boeto dice che il cosmo non è un essere
vivente. Che esso è uno lo dice Zenone nel Dell’universo, e Crisippo
e Apollodoro nella Fisica, e Posidonio nel libro I della Trattazione
fisica15. Quanto all’espressione «il tutto», come dice Apollodoro,
essa può riferirsi o al cosmo ordinato o, secondo un’altra
accezione, all’insieme di questo e del vuoto esterno: e di essi
l’uno è limitato, l’altro, il vuoto, è infinito.
Quanto agli astri, quelli che sono immobili girano intorno insieme
con tutto il cielo, quelli erranti si muovono di movimenti propri.
Il sole compie un cammino trasverso lungo il ciclo dello zodiaco; e
similmente la luna ne compie uno elissoidale. Il sole è fuoco
purissimo, come dice Posidonio nell’ottavo libro dei
Meteorologici16, ed è maggiore della terra, come dicelo stesso
autore nel libro VI della Trattazione fisica; ed è anche sferico,
sempre secondo la stessa scuola, analogamente al cosmo. E nella sua
essenza fuoco, perché compie tutte le opere del fuoco; e che sia più
grande della terra lo si capisce dal fatto che non illumina solo
tutta quanta questa quando sta sotto di lui, ma tutto quanto il
cielo. Indica anche la stessa cosa il fatto che la terra formi
un’ombra conica; e il fatto che il sole, per la sua grandezza, possa
esser visto da tutte le parti della terra. La sostanza della luna,
invece, è più simile a quella della terra, in quanto essa è più
vicina alla terra. Tutti questi esseri ignei e tutti quanti gli
altri corpi celesti vengono alimentati da particolari fonti: per
esempio il sole, esalazione ignea dotata di intelletto, lo è dal
grande mare; la luna lo è da acque potabili, in quanto mista di aria
e più simile alla terra, come dice Posidonio nel libro VIII della
Trattazione fisica17; gli altri astri lo sono dalla terra. Essi
ritengono che anche gli astri siano di forma sferica, e che la terra
sia immobile. La luna non possiede luce propria, ma riceve dal sole
la sua illuminazione. Si ha eclissi di sole quando la luna viene a
collocarglisi dinnanzi nella parte che guarda verso di noi, come
scrive Zenone nel Dell’universo. Si può cogliere con l’esperienza
sensibile come la luna proceda all’incontro col sole, lo nasconda,
poi di nuovo si ritiri da esso: lo si controlla per mezzo di una
bacinella piena d’acqua. L’eclissi di luna invece si verifica quando
la luna viene a cadere entro l’ombra della terra; perciò si ha
eclissi solo durante i pleniluni, benché ogni mese la luna si
collochi in posizione diametralmente opposta al sole, e ciò perché,
muovendosi obliquamente rispetto al sole stesso, essa ne differisce
quanto a latitudine, venendosi a trovare più a nord o più a sud. Ma
quando poi la sua intera dimensione viene a trovarsi entro quella
del sole e delle entità intermedie, essendo essa diametralmente in
asse col sole, ecco che allora si eclissa; ciò avviene, dice
Posidonio, quando si trova nel Cancro, nello Scorpione, nell’Ariete,
nel Toro18.
Affermano che la divinità è un essere vivente immortale, razionale,
perfetto, intelligente, in stato di felicità, non soggetto ad
accogliere in sé il male, dotato di mente provvidenziale nei
riguardi del cosmo e di tutto ciò ch’è in esso: e che non ha forma
umana19. Tale essere è artigiano del tutto e quasi padre del tutto,
e in generale e quanto alle sue parti è una realtà che percorre
tutte le altre, e prende diversi nomi a seconda delle funzioni che
esplica. Dicono che si chiama Δία in quanto scorre attraverso (διά)
tutte le cose, Ζῆνα in quanto è causa del vivere (ζῆν) ο perché
penetra la realtà vivente; Atena perché la sua parte direttiva si
protende nell’etere (αιθέρα); Era perché si attua nell’aria (ἀέρα),
Efesto perché si manifesta come fuoco artigiano, Posidone perché si
attua nell’umido e Demetra nella terra; anche le altre denominazioni
le fanno dipendere tutte da qualche sua proprietà. Zenone ritiene
che sostanza della divinità sia l’intero cosmo e il cielo; e
similmente Crisippo nel libri del Degli dèi, e anche Posidonio nel
libro I del Degli dèi20, e Antipatro nel libro VII del suo
Dell’universo dice che la sostanza della divinità è aeriforme,
mentre Boeto, nel Della natura, ritiene che tale sia la sfera delle
stelle immobili. Come natura intendono talvolta la forza che tiene
insieme il mondo e a volte quella che genera le realtà che sono
sulla terra. Natura è la disposizione a muoversi di per sé, che
produce in base a ragioni seminali e tiene insieme tutto ciò che da
essa deriva in periodi di tempo determinati, e compie opere quali
quelle da cui si è separata nell’atto del produrle. Essa tende
all’utilità e al piacere, come è chiaro dall’azione intelligente
dell’uomo21. Dicono che tutto si verifica per fato Crisippo nei
libri Del fato, e Posidonio nel libro II dell’opera dallo stesso
nome22, e Zenone, e Boeto nel libro I. Il fato è detto da essi causa
di tutto ciò che esiste, o ragione in base alla quale procede il
cosmo. Dicono che, dal momento che c’è il fato, ha una base di
realtà la divinazione in ogni sua forma: e affermano che essa è
un’arte, sulla base di alcuni risultati, come dice Zenone, e
Crisippo nel libro II del Della divinazione, e Atenodoro, e
Posidonio nel libro XII (?) della Trattazione fisica e nel libro V
del Della divinazione. Panezio però dice che essa non ha alcuna base
reale23.
Dicono che sostanza del tutto è la materia prima: così Crisippo nel
libro I della Fisica, e Zenone. Materia è ciò da cui nasce qualsiasi
cosa; ha i due nomi di sostanza e di materia a seconda che si
intenda in senso totale o relativamente a una parte. La materia
universale non diminuisce né cresce mai, mentre quella parziale
〈cresce e diminuisce〉24. La sostanza è secondo loro di carattere
corporeo, ed è limitata, come dicono Antipatro nel libro II del
Della sostanza, e Apollodoro nella Fisica. É anche soggetta ad
affezioni, come dice ancora quest’ultimo; se infatti fosse
immutabile, non nascerebbe da essa tutto ciò che ne nasce. Da ciò
deriva che esiste la divisione all’infinito; però Crisippo
preferisce dire che essa è infinita, 〈non all’infinito〉25; non
esiste infatti un qualche infinito cui giunga la divisione;
semplicemente, essa è senza fine. Quanto alle mescolanze, esse
avvengono con perfetta compenetrazione, come dice Crisippo nel libro
III della Fisica, e non in maniera esteriore o per giustapposizione:
una piccola quantità di vino gettata nel mare, ad esempio,
all’inizio e per un certo tempo opporrà resistenza alla fusione, poi
si dissolverà completamente in esso.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys. I, 11 = SVF II, 301
Ma anche gli Stoici dicono che due sono i princìpi, la divinità e la
materia senza qualità, e ritengono che la divinità sia il principio
operativo, la materia quello passivo e soggetto a mutamento26.
FILONE ALESSANDRINO, De opificio mundi, 8, V, 1, p. 2, 18 segg.
Cohn-Wendland = SVF II, 302
Riconobbe che è necessario ammettere nella realtà un principio
attivo e causativo e uno passivo, e che il principio attivo del
tutto è un intelletto purissimo e semplicissimo, … mentre il
principio passivo, che di per sé sarebbe inanimato e immobile, una
volta mosso, formato, animato dall’intelletto, trapassa nell’opera
più perfetta, il cosmo che vediamo.
SENECA, Epist. ad Luc., 65, 2 = SVF II, 303
Come sai, i nostri Stoici dicono che ci sono due princìpi nella
natura dai quali tutto deriva, la causa e la materia: la materia
giace inerte, in quanto realtà disposta a ricevere ogni forma e
inattiva se non ci sia nulla che la muove; mentre la causa, cioè la
ragione, forma la materia e la fa assumere le forme che vuole, e da
essa produce varie opere. Deve dunque esserci di necessità qualcosa
da cui qualcos’altro deriva e qualcosa che lo fa essere: questo è la
causa, quello è la materia.
TEDORETQ, Graec. affect. cur., IV, 13, pp. 206-207 Canivet = SVF II,
305
Quanto alla materia … anche la schiera degli Stoici dice che essa è
mutevole, cangiante, scorrevole27… Aristotele la chiama corporea, ma
gli Stoici addirittura corpo.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Metaph., p.178, 15 segg.
Hayduck = SVF II, 306
Ma se vi è una qualche causa indipendente dalla materia … questo o è
separato dalla materia e sussiste di per sé, o è nella materia,
quale è la forma posta nella materia stessa e, come sembrò agli
Stoici, la divinità e la causa attiva, che per essi è intrinseca
alla materia.
PROCLO, In Plat. Tim., I, p. 266 Diehl = SVF II, 307
Alcuni si pongono il problema come Platone abbia dato come scontato
il fatto che vi sia un artigiano del tutto che mira al modello: non
vi è infatti artigiano che guardi a ciò che rimane sempre immutabile
e uguale a se stesso. Di questa teoria sono stati sostenitori molti
fra i filosofi antichi, e gli Epicurei hanno affermato che non solo
non vi è un demiurgo ma non vi è assolutamente principio causativo
del tutto; gli Stoici hanno ammesso che vi sia, ma tale che non è
separato dalla materia28.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., II, 312 = SVF II, 309
Gli Stoici dunque ipotizzarono la generazione del tutto sulla base
dell’elemento senza qualità, corporeo e unitario: per essi infatti
principio del tutto è la materia senza qualità che può mutarsi in
ogni altra cosa, e mutandosi questa si generano i quattro elementi,
fuoco e aria, acqua e terra.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixtione, p. 224, 3 segg. Bruns =
SVF II, 310
Arrivati a questo punto, facilmente si potrebbe muover rimprovero a
costoro, secondo i quali esistono due princìpi del tutto, la materia
e la divinità, e di essi l’uno è attivo l’altro passivo e
dicono che la divinità si mischia alla materia, permeando questa
totalmente e dandole figura e forma, e ordinandola in forma di
cosmo, in questo modo: se infatti per essi la divinità è di natura
corporea, essendo un soffio intelligente ed eterno, ma anche la
materia è di natura corporea, in primo luogo si dovrà ammettere che
vi sia un corpo che scorre attraverso un altro corpo, quindi questo
soffio dovrà essere o uno di quei quattro corpi semplici che
chiamano anche elementi, oppure un composto formato da questi, come
in qualche luogo essi stessi vengono a dire (sostengono infatti che
la sostanza di tal soffio è insieme ignea ed aerea); 〈se〉 poi fosse
qualcos’altro, questo loro corpo divino dovrebbe essere una quinta
essenza, e questa sarebbe perciò ammessa, senza dimostrazione e
senza argomentazioni, proprio da quegli stessi che rimproverano di
dire stranezze a chi sostiene tale teoria con 〈dimostrazioni〉
appropriate29.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 75 = SVF II, 311
Essi dicono che la materia del tutto, di per sé immobile e priva di
forma, deve ricevere movimento e forma da una causa; e per questo,
come, contemplando un bellissimo oggetto di bronzo, desideriamo
apprendere chi ne sia l’artefice, proprio in quanto tale materia di
per sé non è capace di movimento, allo stesso modo, contemplando la
materia del tutto in movimento, e dotata di ordine e forma, ci
possiamo chiedere quale sia la causa che la muove e che la ordina in
forme molteplici. Non è credibile che ciò sia altro se non una forza
insita all’interno di essa, così come all’interno di noi è l’anima.
Una simile forza o è capace di movimento autonomo, oppure si muove
sotto l’impulso di un’altra forza; se è mossa da un’altra, questa a
sua volta non potrebbe muoversi se pon mossa da un’altra ancora, il
che è assurdo. E, quindi, una forza capace di muoversi di per sé, e
ciò significa che è divina ed eterna. Infatti, o si muove
dall’eternità, oppure da un tempo determinato; ma non è possibile
che si muova solo da tempo determinato; non potrebbe esservi una
causa che le imprimesse movimento solo da un certo tempo. Eterna
quindi è la forza che muove la materia e ordinatamente la conduce a
processo e mutamento; ed essa non può essere altro che la divinità.
PLUTARCO, De comm. not., 48, 1085b = SVF II, 313
Ma questi, che fanno di quel dio che è il principio un corpo
intelligente e un intelletto nella materia, affermano così che esso
non è puro né semplice né incomposto, ma derivato da altro e per
mezzo di altro; quanto alla materia, che di per sé è priva di
ragione e di forma, ha la funzione di elemento semplice e di
principio. La divinità, dal momento che non è né priva di corpo né
di materia, partecipa della materia a guisa di principio. Ma se la
materia e la ragione sono una sola e medesima cosa, essi non possono
poi coerentemente affermare che la materia è priva di ragione; se
sono due cose diverse, ecco che la divinità dovrebbe essere come un
custode dell’una e dell’altra, e non sarebbe un essere semplice ma
un essere composito, che aggiunge all’elemento intellegibile quello
corporeo in virtù della materia che è in esso.
PLOTINO, Enn., VI, 1, 27, 1 segg. = SVF II, 314
Non si sarebbe dovuto, d’altronde, se si vuole che il principio di
tutte le cose coincida col valore più alto, assumere a principio
quello che è privo di forma, passivo, non partecipe di vita né
d’intelligenza, oscuro, indefinito; né dare a ciò l’attributo di
sostanza. Per dare a ciò una forma decorosa, essi chiamano in causa
la divinità; si tratta però di un dio che riceve il suo essere dalla
materia, che è composto e derivato, e che è esso stesso materia
formata in un certo modo … Se non c’è bisogno di nulla che
intervenga dall’esterno, ma questo stesso sostrato può assumere
tutte le forme divenendo qualsiasi altra cosa, come un danzatore che
possa assumere qualsiasi posa, non si tratta più nemmeno di un
sostrato distinto, ma esso si identifica con l’universo stesso30.
ORIGENE, De orat., II, 27, 8, p. 368 Kötschau= SVF II, 318
Quelli che ritengono che la sostanza delle realtà incorporee sia
conseguente, e antecedente quella corporea, dànno queste
definizioni: sostanza è la materia prima del tutto, da cui derivano
le cose che sono; la materia dei corpi e da cui derivano i corpi;
quella delle cose che hanno un nome e da cui esse prendono nome; o
anche è il primo sostrato senza proprietà; o ciò che preesiste alle
cose che sono; o ciò che accoglie in sé tutti i mutamenti e le
trasformazioni restando esso stesso esente da mutamento secondo la
ragione sua propria; o ciò che sopporta ogni cambiamento o
trasformazione. La materia, per costoro, è priva di proprietà e di
forma, e non ha nemmeno una grandezza determinata, ma sottostà a
ogni proprietà come un luogo ben disposto; e con proprietà essi
intendono in generale tutti gli atti e le produzioni in generale,
fra le quali comprendono anche i movimenti e le disposizioni. Dicono
che di nessuna di queste proprietà la materia partecipa per sua
specifica essenza, ma che non la si può concepire senza che di volta
in volta sia affetta da una di esse, disposta com’è a subire o
almeno ad accogliere tutto ciò che compia il principio attivo e
tutti i mutamenti che produca. La tensione che si trova insita in
essa e che risiede in tutte le sue parti è causa di ogni sua
proprietà e dell’economia generale chela riguarda. Dicono che essa è
mutevole e divisibile in ogni sua parte e che ogni materia può
fondersi con ogni altra, suscettibile com’è di unificazione.
PLOTINO, Enn., VI, 1, 28, 5 segg. = SVF II, 319
È causa di ciò il fatto che essi prendono come guida la sensazione,
e la considerano degna di fede allo scopo di stabilire i principi e
tutto il resto. Ritenendo che tutto ciò che è sia corporeo, ma
temendo poi che in tal modo tutte le realtà vengano a tramutarsi
l’una nell’altra, definiscono «essere» quello che sussiste come
sostrato delle trasformazioni: che è un po’ come creder che il luogo
sia più reale dei corpi, dal momento che il luogo non si distrugge …
Il più strano, in tutto questo, è che essi che hanno tanta fede
nella sensazione pongano come essere qualcosa che non è afferrabile
dalla sensazione; e non è coerente che essi le attribuiscano la
resistenza31, giacché la resistenza è una qualificazione.
PLOTINO, Enn., II, 4, 1, 6 segg. = SVF II, 320
Gli uni, affermando che i corpi sono le sole realtà e la sola
sostanza, dicono che la materia è unica, sottostà agli elementi ed è
essa stessa la sostanza: tutte le altre cose sono come sue affezioni
e modi di essere, anche gli elementi. Sono capaci di introdurre un
elemento materiale perfino nella divinità, e concludono col dire che
la divinità stessa non è che un modo di essere della materia.
Attribuiscono a questa anche la corporeità, pur dicendo che è un
corpo privo di qualità; e anche la grandezza.
CALCIDIO, In Plat. Tim., 280, p. 284, 9 segg. Waszink = SVF II, 321
Quelli che affermano che opera della provvidenza è la disposizione
della materia, pensano che essa sia un processo continuo dal
principio alla fine, tuttavia concependola in forme differenti:
diversamente pensano infatti in proposito Pitagora, Platone,
Aristotele, e alquanto diversamente da tutti gli Stoici. Ma in
verità anche tutti costoro la pongono come priva di forma e senza
alcuna qualità.
GALENO, Methodi med., II, 7, Χ, p. 155 Kühn = SVF, 322
… l’estrema minuziosità dei nomi, di cui si compiacciono alcuni
filosofi … evito di parlarne, per il momento… Dico, per esempio, la
minuziosità con la quale fanno distinzione fra ciò che realmente è
(τὸ ὄv) e ciò che ha l’essere (τὸ ὑφεστός)32.
PLUTARCO, Adv. Colotem, 15, 1116 b-c = fr. 721 Hülser
Ciò si verifica anche fra filosofi più recenti. Essi tolgono la
definizione di «essere» a molte cose, e importanti — il vuoto, il
tempo, il luogo, perfino alla specie dei significati, cui è
pertinente in ogni caso l’esser veri. Dicono che realtà di questo
tipo non sono «essere», ma sono tuttavia «qualcosa» (τινά); e di
fatto se ne valgono nel loro vivere, e anche nel loro vivere da
filosofi, come di realtà che sono (ὑφεστῶσι) e sussistono in atto
(ὑπάρχουσι)!33
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 220 = fr. 888 Hülser
Se il non essere poi è oggetto di insegnamento, ecco che il non
essere verrà ad esser vero: giacché insegnamento e apprendimento si
riferiscono a ciò che è vero. Ma se il non essere è vero, ecco che
verrà anche ad essere esistente (ὑπαρκτόν). Ora, gli Stoici dicono
che è vero … ciò che esiste e si contrappone a qualcosa di altro. Ma
è assurdo che il non essere esista; e perciò non sarà nemmeno
insegnabile.
PS. GALENO, De qualitatibus incorporeis, 5, XIX, p. 475 Kühn = SVF
II, 323
Quella che gli Stoici dicono esser materia e sostanza prima, della
quale, dicono, Zeus ha fatto tutto il cosmo e ciascuna delle realtà
che sono in esso, se veramente fosse tutta quanta corporea come le
qualità, non si dovrebbe dire che è qualità essa stessa, piuttosto
che dire che essa ha una qualità? Se altre qualità le mancassero,
avrebbe pur sempre almeno il peso, che essi dicono esser proprio di
qualsiasi corpo; e allora come possono dire che la sostanza prima è
semplice e non composta? Se poi dicono che è limitata e ha confini
precisi, è chiaro che ha anche una forma — è assurdo infatti che un
corpo limitato da confini sia in pari tempo privo assolutamente di
forma, anche se lo si dovesse concepire puramente in via di ipotesi.
Ma dunque, se sono vere le cose che questi dice intorno alla materia
— che cioè essa, come vogliono quei filosofi, si identifica
pienamente con i corpi — essa non può essere né priva di qualità né
semplice … e per le stesse ragioni essi non possono ammettere nulla
che sia esente da mistione.
PS. GALENO, De qualitatibus incorporeis, 6, XIX, p. 478 Kühn = SVF
II, 323a
Il medico che in base a molti farmaci, mescolandoli insieme, ne
formi uno nuovo, dalle molte qualità che sono proprie34 di
ciascuno crea una nuova qualità ottenuta in base a mistione. Essi
però dicono che Zeus non ha mischiato alla sostanza prima né la
forma, né la lunghezza, né alcuna altra proprietà accidentale.
Perché, se le avesse mischiate, è chiaro che anche tali proprietà
dovrebbe essere coeterne ad essa; e come potrebbero dire che solo la
materia prima priva di qualità è eterna e non anche le altre
proprietà e tutti gli accidenti che le sopravvengono? Essi dicono
infatti che Zeus non è un costruttore alla maniera di un artigiano
qualsiasi, ma è artigiano del tutto solo in quanto scorre per tutta
quanta la materia35. Ma se poi dicono che sono sostanze, e sostanze
corporee, le qualità del fuoco divino e gli accidenti ad esse
connessi, e la lunghezza, la larghezza, la profondità, e soprattutto
l’intelligenza e la beatitudine che gli sono proprie, è chiaro che
Zeus è composto di corpi, e che non è una natura semplice, ma un
composto.
AEZIO, Plac, I, 9, 2, Dox. Gr., p. 307 = SVF II, 324
I seguaci di Talete e di Pitagora e gli Stoici considerano la
materia mutevole e trasformabile e cambiabile e scorrente per tutta
la sua estensione.
AEZIO, Plac., I, 9, 7, Dox. Gr., 308 = SVF II, 325
Gli Stoici affermano che la materia è corpo36.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 227, 23 Diels = SVF II, 326
Ma poiché alcuni, e non i primi venuti fra i filosofi, dicono che la
primissima materia è corpo senza qualità, quelli vicini ad
Aristotele e a Platone così come, tra gli antichi, gli Stoici, e tra
i più recenti Pericle Lido37, sarebbe bene indagare su questa
opinione.
PS. GALENO, De qualit. incorp., 5, XIX, p. 477 Kühn = SVF II, 327
È inconcepibile che una simile realtà sia priva di peso o di
leggerezza, e non meno assurdo sarebbe l’ammettere che una cosa
abbia queste due proprietà al tempo stesso, e secondo lo stesso
rispetto, e non relativamente ad altro o separatamente l’una
dall’altra; assurdo anche che quella sostanza che, come essi dicono,
non ha di per sé alcuna qualità dia poi luogo come sue prime
derivazioni a quattro entità che hanno ciascuna la sua qualità … Se
essa di per sé non ha niente di questi, e neanche, per ipotesi, quel
fuoco di etere da cui essi dicono esser nati gli elementi e il
cosmo, come si verificano queste derivazioni, questi prodotti,
queste forme?
ASCLEPIO, In Arist. Metaph., p. 377, 29 ss. Hayduck = SVF II, 328
E di nuovo dicono che vi è un’unica sostanza, per l’appunto quella
sensibile, come affermano i fisici38 e gli Stoici.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 301, 19 segg.
Wallies = SVF II, 329
Si potrebbe così dimostrare che gli Stoici hanno torto ponendo il
«qualcosa» (τί) quale genere dell’essere. Se è qualcosa, è chiaro
che anche è; e se qualcosa è, è suscettibile del ragionamento che si
fa sull’essere; ma costoro, avendo posto a se stessi la norma che
l’essere si predica solo dei corpi, potrebbero sfuggire a questa
difficoltà proprio in quanto affermano che il «qualcosa» è un genere
più elevato dell’essere perché si predica non solo delle realtà
corporee, ma anche delle incorporee.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 359, 12 segg.
Wallies = SVF II, 329
Così si sarà dimostrato che il «qualcosa» non è genere supremo:
perché in tal caso dovrebbe anche genere dell’uno, o in quanto
uguale ad esso o superiore: se «uno» si può dire anche degli atti
puramente mentali, il «qualcosa» riguarda le realtà corporee e
incorporee; ma un atto mentale, per coloro che dicono così, non è né
l’una né l’altra cosa39.
SESTO EMPIRICO, Adv. math., I, 17 = SVF II, 330
Se si insegna alcunché, si dovrà insegnare mediante ciò che è un
«qualcosa» o ciò che non è nemmeno una«qualcosa» (οὔτινα); ma questo
secondo caso non è possibile; ciò che non è un «qualcosa» non esiste
nemmeno come realtà mentale secondo gli Stoici.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., II, 218 = SVF II, 331
Costoro ritengono il tempo una realtà corporea, mentre i filosofi
della Stoa hanno ritenuto che esso sia un incorporeo: di alcune cose
infatti dicono che sono corporee, di altre che sono incorporee, e di
queste ultime ne elencano quattro, il significato, il vuoto, il
luogo, il tempo. Da ciò che è chiaro che oltre a recepire il tempo
come un incorporeo ritengono che esso sia una realtà pensabile di
per sé.
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypot, II, 86 = fr. 718 Hülser
Quel «qualcosa», che dicono essere fra tutti i generi il supremo,
dovrebbe essere o vero o falso, o né vero né falso, o insieme vero e
falso…40
SENECA, Epist. ad Luc., 58, 12 segg. = SVF II, 332
Il genere «essere» non ha sopra di sé altro che sia un genere più
ampio. Esso è l’inizio stesso delle cose, e tutte sono ad esso
subordinate. Ma gli Stoici vogliono porre al di sopra di questo
ancora un genere superiore … Ad alcuni Stoici il «qualcosa» sembra
essere il genere sommo: e dirò subito perché. Nella natura, essi
dicono, alcune cose sono, altre non sono. La natura abbraccia anche
quelle cose che non sono, dal momento che esse ci vengono in mente,
come i Centauri, i Giganti o tutte quelle altre cose che, essendo
pure formazioni della mente, hanno acquistato una qualsiasi figura
pur non avendo alcuna realtà.41
ANONIMO, Proleg. in Arist. Categ., p. 34b Brandis = SVF II, 333
Tre sono gli omonimi generalissimi: l’uno, l’essere, il qualcosa:
essi si riferiscono a tutte le realtà. Per Platone primo è l’uno,
per Aristotele l’essere, per gli Stoici il «qualcosa»42.
PLUTARCO, De comm. not., 30, 1074d = SVF II, 334
E dunque si devono dire «non essere» anche il tempo, il predicato,
il giudizio, il sillogismo, il nesso logico; cioè essi dicono «non
enti» quelle realtà delle quali i filosofi fanno uso al massimo
grado.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 196 = SVF II, 337
Se esiste, essi dicono, il seme, questo è anche causa, dal momento
che il seme è causa delle cose che nascono e si generano da esso; ma
il seme esiste, come si evince dalle cose seminate e dalla
generazione degli animali; e quindi esiste anche la causa. E ancora,
se c’è una natura, c’è anche una causa, giacché la natura è causa
delle cose che si generano o che son nate; che questa natura esista,
è evidente dale sue opere… Quindi, se c’è la natura, c’è anche la
causa: ma è il primo, dunque è il secondo. E in altro modo si può
dire anche che, se c’è un’anima, c’è una causa: l’anima infatti è
causa della vita e della morte, della vita quando è presente, della
morte quando si separa dai corpi. Ma esiste l’anima, essi dicono,
perché anche colui che dice che non esiste ne dimostra l’esistenza
per la stessa ragione che si vale di essa; e quindi la causa esiste.
Inoltre, se esiste un divinità, esiste anche una causa: la divinità
è infatti quella che governa tutte le cose; ma questa esiste secondo
le nozioni comuni di tutti gli uomini, e quindi c’è la causa.
D’altronde, se non vi fosse una divinità, ci sarebbe pur sempre una
causa; perché il fatto che non vi siano dèi avverrebbe pur sempre
per una qualche causa; così mediante l’affermazione dell’esistenza
del divino come mediante quella della non esistenza si giunge ad
ammettere l’esistenza di una causa.
Molte essendo le cose che sono generate e muoiono, che subiscono
accrescimento e diminuzione, che sono in movimento oppure immobili,
si deve ammettere di necessità che esista una causa di tutto questo,
ora della nascita ora della morte, ora dell’accrescimento ora della
diminuzione, ora del moto ora della stasi: e nel caso che tutte
queste cose non sussistessero realmente ma solo apparissero, anche
allora saremmo costretti ad ammettere che ci siano delle cause: ci
deve essere una causa anche del fatto che alcune cose ci appaiono
come oggetti mentre non ci si presentano nella realtà. Se non vi
fosse alcuna causa, tutto potrebbe nascere da tutto e in qualsiasi
luogo e in qualsiasi tempo; il che sarebbe assurdo. Se non esistesse
una causa, insomma, niente impedirebbe che dall’uomo si generasse il
cavallo43: nulla impedendolo, si genererebbe talvolta da un uomo un
cavallo, o da un cavallo, all’occasione, una pianta; non sarebbe
impossibile che in Egitto vi fossero gelate, o aridità nel Ponto, e
che l’inverno e l’estate si scambiassero i loro ruoli; e poiché il
conseguente sarebbe impossibile, bisogna affermare che sia
impossibile anche l’antecedente: così, poiché al non esservi una
causa conseguirebbero molte cose impossibili, si deve dire che la
non esistenza di una causa appartiene alle cose impossibili.
Inoltre, chi dice che non esiste la causa dice ciò con una causa o
senza una causa. Se lo dice senza causa, non è degno di fede, oltre
al fatto che egli non si attiene a tale posizione più di quanto non
si attenga all’opposta, giacché non esiste una causa ragionevole per
la quale si possa dire che non esiste una causa. Se poi lo dice con
una causa, egli contraddice sé stesso, in quanto, nello stesso
affermare che non c’è una causa, la presuppone. È quindi possibile
dare lo stesso valore di prova all’argomento addotto
precedentemente, quello relativo al segno e alla dimostrazione,
argomento che ha questa struttura; «se esiste una causa, esiste; ma
se non esiste, se ne dà pur sempre una causa; ma la causa esiste o
non esiste; perciò esiste». All’esistenza di una causa, infatti,
consegue che la causa esiste, giacché l’antecedente non deve
discordare col conseguente: al fatto che non esiste una causa
consegue comunque che vi sia, giacché quello che dice che non esiste
una causa lo dice pur sempre mosso da una certa causa. Così anche il
ragionamento disgiuntivo in aggiunta alle due premesse ipotetiche
risulta vera, in quanto i membri dell’opposizione si contraddicono a
vicenda, e si può inferire una conclusione da queste premesse, come
dicemmo sopra.
AEZIO, Plac., I, 11, 7 Dox. Gr., p. 310 = SVF II, 338
Gli Stoici definiscono la causa prima come in movimento.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 420, 6 segg. Diels = SVF II, 339
A certuni non sembra di dover porre un motore immobile, ma che ogni
motore sia anche in movimento… È chiaro che di questa opinione sono
stati, fra gli antichi naturalisti, quelli che hanno concepito il
principio in forma corporea, sia esso uno, sia molteplice; e tra i
più recenti gli Stoici.
AEZIO, Plac, I, 11, 5 Dox. Gr., p. 310 = SVF II, 340
Gli Stoici dicono che tutte le realtà sono corporee: infatti esse
non sono che soffio (πνεῦμα).
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 211 = SVF II, 341
Gli Stoici dicono che ogni principio causale, in quanto è corporeo,
è anche causa a ciò che è corporeo di qualche proprietà incorporea.
Per esempio, corpo è il coltello, che a un altro corpo, quale la
carne, è causa di un incorporeo come il predicato «tagliare»;
ugualmente corpo è il fuoco, e ad un corpo, quale il legno, è causa
di quell’incorporeo che è il predicato «bruciare».
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 302, 28 segg. Kalbfleisch = SVF II,
342
Non si dovrebbe prendere inizio dalle azioni che vengono per ultime,
per esempio quelle che riguardano il colpo e l’urto, e così finire
col dar ragione agli Stoici proprio sui punti in cui noi
argomentiamo differentemente da loro: che cioè il principio attivo
agisce per avvicinamento e contatto con qualcos’altro. È meglio
invece dire che non tutto produce azione mediante avvicinamento e
contatto.
PROCLO, In Plat. Parm., IV, p. 653, 14 segg. Stallbaum = SVF II, 343
Quanto al parlare dell’impressione prodotta dal sigillo44, ciò
conviene alle premesse degli Stoici che affermano che ogni azione e
passione si verifica in maniera corporea: essa necessita di urto, di
resistenza e di stabilità, né si verifica altrimenti.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., VIII, 9, p. 96, 11 segg. Stählin =
SVF II, 344-345
Si dice in primo luogo causa ciò che procura qualcosa in forma
attiva. Per ciò diciamo che il ferro taglia non solo in quanto lo fa
in effetti, ma anche quando non lo fa: perché «causa produttiva»
(παρεκτικόν) significa ambedue le cose, il fare in
effetti l’azione e il non farla ancora ma il possedere
virtualmente la capacità di farla. Gli uni dicono che le cause son
corporee, gli altri che non lo sono45. Questi ultimi affermano che
ciò che è corpo è causa per eccellenza, ciò che non è corpo solo
impropriamente e in una forma simile alla causa, mentre gli altri
fanno il ragionamento opposto, dicendo che gli incorporei sono cause
in senso proprio e i corpi in senso improprio.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., VIII, 9 p. 95 Stählin = SVF II, 346
Delle cause, alcune sono incoative (προκαταρκτικά), altre
coessenziali (συνεκτικά), altre coadiuvanti (συνεργά), altre ancora
condizioni necessarie (οὐκ ἄνευ). Incoative sono quelle che offrono
la premessa perché la cosa possa essere, per esempio la bellezza,
che incita fortemente all’amore; essa crea la disposizione amorosa
per il fatto di esser vista, non però necessariamente. Coessenziali
sono quelle che, omonimamente, si chiamano anche cause perfette
(αὐτοτελῆ), in quanto sono autonomamente e di per sé capaci di
produrre l’effetto. Si possono bene e in buon ordine capire queste
diverse specie di cause dall’esempio dell’atto di apprendimento. Il
padre è la causa incoativa dell’apprendimento, il maestro la causa
coessenziale, la natura di chi apprende è la causa coadiuvante; il
tempo, poi, appartiene a quelle condizioni che sono necessarie.
SENECA, Epist. ad Luc., 65, 4 segg. = SVF II, 346a
Gli Stoici intendono che vi sia una sola causa, l’agente… Quella
gran quantità di cause poste da Platone e da Aristotele o ne
comprende troppe o troppo poche. Infatti, se, scartato l’impossibile
in assoluto, tutto il restolo giudicano causa, hanno ancora detto
poco: fra le cause dovrebbero porre anche il tempo, giacché nulla
può compiersi senza il tempo; e il luogo, perché una cosa non si
compie se non vi sia un dove può compiersi; e il moto, perché senza
questo nulla nasce o perisce, né senza moto può esservi alcuna arte
o alcun mutamento. Ma noi cerchiamo la causa prima e generalissima,
e questa deve essere semplice, dal momento che la materia è
semplice: se cerchiamo la causa come ragione operante, essa è la
divinità46.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., VIII, 9, 27, 2 p. 97 Stählin = SVF
II, 347
La causa, l’agente, il «per cui», sono la stessa cosa: se vi è
qualcosa che sia principio attivo e causa, esso è anche «per cui»;
tuttavia non sempre un «per cui» è anche di necessità causa e
principio attivo. Molte cose infatti concorrono a un determinato
evento, per cui si compie un certo scopo, ma non tutte sono cause.
Medea, per esempio, non avrebbe ucciso i suoi figli se non fosse
stata in stato di furia; e non sarebbe stata furente se non fosse
stata gelosa; e non sarebbe stata gelosa se non fosse stata
innamorata; e ciò non sarebbe avvenuto se non fosse stata costruita
la nave Argo; e questo non sarebbe avvenuto se Giasone non avesse
tagliato gli alberi sul Pelio. In tutti questi fatti si ritrova il
«per cui», ma non tutti questi fatti sono causa dell’uccisione dei
figli: di questo, la sola Medea è causa.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., VIII, 9, 31, 1 pp. 100-101 Stählin
= SVF II, 348
Infine si ricerca se, nel caso di più cause concorrenti allo stesso
effetto, 〈le cause〉 siano molte — per esempio molti uomini
concorrono come causa del tirare in secco la nave, 〈e tuttavia
nessuno di essi è singolarmente causa〉47, ma lo è insieme con gli
altri. Altri però dicono che, anche se le cause sono molte, ciascuno
di per sé è causa singola: per esempio, una sola realtà essendo
l’esser felici, ne sono causa insieme le virtù che sono molte, e
similmente dell’aver caldo o freddo molte sono le cause. Con maggior
ragione si può dire che le molte virtù sono causa ciascuna
potenzialmente, e così i molti fattori del caldo e del freddo, e che
la moltitudine delle virtù, che è una secondo il genere, è causa
dell’essere felice. In effetti le cause incoative di una certa
realtà sono molte sia secondo il genere sia secondo la specie:
secondo il genere, per esempio, sono cause dell’essere ammalato il
raffreddamento, la prostrazione, la fatica, l’indigestione,
l’ubriachezza; secondo la specie, la febbre. Le cause essenziali
sono solo secondo il genere, non secondo la specie. Dell’esser
profumato, ad esempio, che è uno secondo il genere, possono esserci
più cause secondo la specie, quali l’incenso, la rosa, il croco, la
resina, la mirra, l’unguento48… la rosa per esempio non si potrebbe
dire che sia profumata quanto la mirra49.
La stessa cosa è causa di contrari, talvolta secondo la grandezza e
la capacità dell’agente, talvolta secondo la disposizione del
paziente. Per esempio la corda, nel primo caso, secondo il suo grado
di tensione o di rilassamento produce suono acuto o grave; nei
secondo caso, secondo cioè la disposizione del paziente, il miele
provoca sensazioni di dolcezza ai sani ma di amarezza agli ammalati;
e lo stesso vino induce alcuni all’ira, altri alla rilassatezza; e
lo stesso sole liquefà la cera e secca il fango.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., VIII, 9, 33, 1 segg., p. 101
Stählin = SVF II, 351
Ci sono cause incoative, coessenziali, concause, cause coadiuvanti…
Delle incoative l’effetto rimane una volta che esse siano rimosse:
mentre la causa coessenziale è un tipo di causa, permanendo la quale
permane anche l’effetto, ma questo si annulla se la causa sia
rimossa. Per sinonimia la causa coessenziale (συνεκτικόν) è chiamata
anche perfetta (αὐτοτελές), poiché essa in forma autonoma e di per
sé è capacedi produrre l’effetto. Se tale causa chiaramente rivela
un potere produttivo perfetto, la concausa (συναίτιον) indica invece
subordinazione e cooperazione insieme con un altro elemento; ma se
non procurasse alcun effetto, non dovrebbe esser chiamata concausa;
se invece lo procura, ecco che in ogni caso diviene anche causa di
ciò che coopera a produrre, in quanto è derivato da essa; vi è
quindi una concausa che col suo esserci produce un certo effetto,
manifestamente se è presente in modo manifesto, occultamente se in
modo occulto; e anche la concausa appartiene al genere delle cause,
così come il compagno di milizia è anch’egli un soldato e il
compagno di efebia un efebo. La causa coadiuvante (συνεργόν)
collabora con la causa perfetta in vista del compimento completo
dell’effetto che ne deriva; la concausa non è compresa nello stesso
concetto; può esservi infatti una concausa anche se non vi sia una
causa coessenziale. La concausa si concepisce in concomitanza con
un’altra causa che non sia capace di produrre di per sé
perfettamente l’effetto, essendo causa insieme con un’altra causa di
diverso genere. La causa coadiuvante differisce dalla concausa in
quanto questa è connessa, con un’altra causa di per sé incapace di
produrre da sola l’effetto, mentre la causa coadiuvante non è capace
di produrlo perfettamente di per sé, ma si accompagna a qualcosa di
altro che può essere causa perfetta, e con ciò collabora in vista di
un più totale conseguimento dell’effetto stesso. Quando poi,
soprattutto, da incoativa una causa si fa coadiuvante, allora
dispiega tutto il suo potere causativo50.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., I, 16, 82, 1, p. 53 Stählin = SVF
II, 353
So che molti … dicono che anche il non impedimento è una sorta di
causa… Ma a costoro si può rispondere che la causa si concepisce
come qualcosa che agisce, fa, produce, mentre il semplice «non
impedimento» non ha alcun potere produttivo.
PSEUDO-GALENO, Defin. med., 154-160, XIX, pp. 392-393 Kühn = SVF II,
354
Causa è ciò che, producendo alcunché in un corpo, di per sé è
incorporeo… La causa si divide in tre tipi: causa incoativa, causa
principale, causa coessenziale51. Incoativa è quella che, dopo aver
prodotto alcunché, si distacca dal suo effetto; per esempio un cane
dopo aver dato un morso… In altri termini: cause incoative sono
quelle che danno luogo a un processo destinato ad avere un certo
effetto; anteriormente ad esse non esiste alcun elemento
determinante. Causa principale (προηγούμενον) è quella che con la
sua presenza fa sì che si attui l’effetto, che col suo crescere o
diminuire cresca o diminuisca, che col suo venir meno venga meno.
Causa coessenziale è quella che con la sua presenza fa si che la
malattia si conservi e col suo esser rimossa cessi…
Inoltre causa perfetta (αὐτοτελές) è quella che produce l’effetto in
sé edi per sé… Concausa (συναίτιον) è quella che, pur avendo la
capacità di produrre qualcos’altro, di per sé soltanto non è capace
di produrre l’effetto. Causa coadiuvante (συνεργόν) è quella che,
capace di produrre un certo effetto, ma con difficoltà, cooperando
con un altro rende più facile la produzione di esso ad altri fattori
di per sé incapaci di produrlo da soli.
GALENO, Adv. Iulian., 6, XVIII A, p. 298 Kühn= SVF II, 355
Non si può dire che la causa coessenziale sia concepibile in altra
maniera che questa, se non per il fatto che un certo effetto si
produce per virtù di essa e cessa cessando quella (a meno che egli
non voglia puramente e semplicemente professarsi stoico, come del
resto ha fatto in altri scritti)52.
GALENO, Synopsis med. de pulsibus, 9 = IX, p. 458 Kühn = SVF II, 356
Va ricordato che essi prima di tutti hanno usato il termine di causa
«coessenziale» (συνεκτικόν) e non propriamente ma in maniera
impropria. Quella causa che noi chiamiamo puramente e semplicemente
«coessenziale» nessun altro l’ha chiamata così prima degli Stoici né
alcun altro ne ha ammessa l’esistenza. Quelle che anche prima di noi
sono state dette in qualche modo «cause coessenziali» sono state
concepite come cause di un certo processo, ma non dell’esistenza
stessa.
ARIO DIDIMO, Epit. Phys., Dox. Gr., p. 475, 17 = SVFII, 357
Un corpo è ciò che ha tre dimensioni, la larghezza, la profondità,
la lunghezza: e queste cose si dicono in più modi. Talvolta si dice
che lunghezza è la massima estensione di un corpo, talaltra solo la
sua dimensione dal basso all’alto; con larghezza si intende a volte
la seconda dimensione, a volte l’estensione dalla destra alla
sinistra; profondità è a volte la dimensione interna, a volte
l’estensione dalla parte anteriore alla posteriore. Secondo la prima
definizione, né le sfere né i quadrilateri né altre figure del
genere hanno alcuna dimensione, ma in base alla seconda definizione
ogni corpo ha le tre dimensioni, perché viene a ricadere sotto di
essa secondo ogni posizione.
FILONE ALESSANDRINO, De opif. mundi, 36, I, p. 11, 9 Wedland = SVF
II, 358
Per natura il corpo è solido e in quanto tale ha tre dimensioni; ma
ci sono altri concetti di corpo solido, a parte quello di ciò che si
estende in tutte le direzioni53.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., II, 4, 15, 1 p. 120 Stählin = SVF
II, 359
Essi sostengono che esiste solo ciò che è passibile di urto e
contatto, identificando corpo e sostanza.
AEZIO, Plac., I, 10, 5, Dox. Gr., p. 309 = SVF II, 360
Gli Stoici, che prendono inizio da Zenone, dicono che le idee sono
nostre formazioni mentali (ἐννοήματα).
SIRIANO, In Arist. Metaph., p. 104, 15 segg, Kroll =SVF II, 361
Che non vi può esser scienza delle cose che fluiscono è opinione non
solo di Platone, ma anche di colui che scrive (= Aristotele); né
scienza dei particolari, sia che li si concepisca puramente e
semplicemente in fluire perpetuo, com’è opinione di Eraclito, sia
che essi nascano e muoiano pur permanendo nell’insieme in virtù
della causa ideale che li fa essere, come vuole Platone, o sia che
alcuni le consideri realtà che sono, come usò fare Aristotele; o,
come gli Stoici, le sole realtà che sono.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 69, 19 segg. Kalbfleisch = SVF II,
362
Essi distruggono la natura degli universali e credono che questi
sussistano solo nei particolari, mai prendendoli in considerazione
di per sé stessi.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 263 = SVF II, 363
Secondo costoro, ciò che è incorporeo non è capace né di agire né di
subire.
PLUTARCO, Praec. coniug., 34, 142e-f = SVF II, 366
Quei filosofi dicono che i corpi sono alcuni composti di parti
separate tra loro, per esempio una schiera o un esercito; altri di
parti che stanno insieme per contatto, per esempio una casa o una
nave; altri ancora di parti unite e connaturate, come ogni essere
vivente.
ACHILLE, Isag., 14, pp. 41-42 Maass = SVF II, 368
Si dicono corpi unitari quelli che sono dominati da un’unica
disposizione, per esempio il legno, la pietra; la loro disposizione
coincide con lo spirito che tiene insieme quel corpo. Corpi
compositi quelli che non sono tenuti insieme da una sola
disposizione, per esempio una nave o una casa, di cui l’una consta
di più tavole e l’altra di più pietre. Corpi separati quelli come,
per esempio, un coro. Di questi ultimi c’è un’ulteriore
suddivisione: ve ne sono alcuni, come appunto il coro, fatti di
corpi in numero ed definito esiguo, altri di un numero indefinito di
corpi, come una folla. Si ponga dunque l’astro come un corpo
unitario, e la costellazione come un corpo fatto di entità separate
in numero definito; per ciascuna costellazione infatti si indica il
numero degli astri componenti.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 66, 32 segg. Kalbfleisch = SVF II,
369
Gli Stoici ritengono che il numero dei generi primi debba esser
ridotto a meno54. Ne accolgono quindi un numero minore, e la loro
suddivisione è quadruplice: sostrati, qualità, modi di essere, modi
relativi di essere. È evidente che così facendo trascurano molte
cose: anzitutto la quantità, per esempio, e l’essere in un certo
tempo e in un certo luogo. Se infatti ritengono che tutto questo sia
compreso nel modo di essere, per esempio «l’anno scorso» e «nel
Liceo» o lo star seduti o l’essere calzati, in quanto tutte queste
cose ricadono sotto questa categoria, si può dire in primo luogo che
troppo grande è la differenza che intercorre fra tutte queste cose e
che il ridurle tutte al genere «modo di essere» è troppo povero di
distinzioni; e in secondo luogo che anche al sostrato e in
particolare alla quantità si adatta un simile genere, perché anche
queste realtà si pongono in un certo modo55.
PLOTINO, Enn., VI, 1, 25, 1 segg. = SVF II, 371, 373
Contro coloro che pongono quattro generi dell’essere e fanno la
suddivisione in quattro parti, sostrati, qualità, modi di essere,
modi relatividi essere, e come genere supremo di questi pongono il
«qualcosa» comprendendoli quindi in un sol genere (proprio in quanto
assumono il «qualcosa» comegenere comune e unico di tutte le
realtà), molto ci sarebbe da obiettare. È infatti
incomprensibile e illogico questo loro «qualcosa», e tale che non
può convenire insieme a corpi e incorporei. Né hanno lasciato
sussistere differenze in cui dividere il «qualcosa»… Prendiamo in
esame la suddivisione di per sé: in quanto pongono come primi i
sostrati e considerano la materia anteriore a tutte le altre cose,
ecco che vengono a porre ciò che per loro èil primo principio sullo
stesso piano di ciò che viene dopo il principio. In primo luogo essi
riconducono sotto lo stesso genere termini anteriori e termini
posteriori; ma è impossibile che l’anteriore abbia lo stesso genere
del posteriore. In tutte quelle cose in cui c’è un posteriore e un
anteriore, il posteriore trae il suo essere dall’anteriore; al
contrario, le realtà che ricadono sotto lo stesso genere traggono
tutte ugualmente il loro essere da questo, dal momento che il genere
è ciò che nella definizione deve esser predicato della specie. E mi
sembra che essi stessi dicano che è dalla materia che tutte le cose
traggono il loro essere. Quando poi contano il sostrato come uno,
non dànno con ciò inizio a una enumerazione degli esseri, ma
compiono una ricerca dei princìpi; ed è cosa ben diversa parlare dei
princìpi dell’essere e degli esseri stessi. Se poi dicono che la
materia soltanto è vero essere, e tutto il resto non è che affezione
della materia, non avrebbero dovuto porre preliminarmente uno stesso
genere dell’essere e di tutte le altre realtà, ma dire piuttosto
che, se l’uno è sostanza; le altre sono affezioni, e quindi compiere
una suddivisione fra queste ultime. E quanto al dire che da un lato
ci sono i sostrati, dall’altro lealtre realtà, dal momento che il
sostrato è unitario e indifferenziato, a parte quelle differenze che
gli provengono dalla divisione, come una massa che si divide in
parti (ma in realtà esso non si divide affatto, dal momento che la
sostanza è per loro un’entità continua56) sarebbe stato preferibile
che essi parlassero di un solo sostrato.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 94, 11 segg. Diels = SVF II, 372
Perciò egli (Aristotele) disse che l’essere è in più modi; se non
che gli altri modi sono accidenti della sostanza, secondo la quale
si caratterizza il sostrato; e perciò alcuni hanno soppresso tutte
le altre realtà, come hanno fatto gli Stoici, contro l’evidenza.
DEXIPPO, In Arist. Categ., p. 23, 25 segg. Busse = SVF II, 344
A tali difficoltà bisogna aggiungere quest’altra, che il sostrato è
duplice sia secondo gli Stoici sia secondo i filosofi più antichi.
Uno è il sostrato primo, cioè la materia priva di qualità, quella
che Aristotele chiama corpo in potenza; il secondo sostrato è invece
la qualità, che può sussistere o in forma generica o in forma
specifica: sia Socrate sia il bronzo sono soggetti delle cose che
avvengono o che sono predicate a loro proposito. Si è poi ritenuto
che il sostrato debba dirsi in senso relativo (come sostrato di
qualcosa), oppure in assoluto di quegli eventi che si determinano in
esso e ne sono predicati, o in senso proprio: ora, in assoluto è la
materia prima ch’è sostrato di tutto ciò che si verifica e che vien
predicato; ma ad alcuni di questi eventi o di questi predicati è
sostrato il bronzo, oppure Socrate. Vi sono quindi due tipi di
sostrato e molti accidenti: riguardo al primo sostrato si tratta di
eventi che si verificano in esso; riguardo al secondo sostrato,
eventi che non sarebbero tanto in esso quanto addirittura parti di
esso.
PLOTINO, Enn., IV, 7, 8, 11 segg. = SVF II, 375
È chiaro da quanto segue che i corpi hanno la loro capacità in virtù
di capacità incorporee. Essi devono convenire che altra cosa è la
qualità rispetto alla quantità, e che ogni corpo ha una quantità,
mentre non necessariamente ha anche una qualità (non ha qualità, per
esempio, la materia in quanto tale). Ma una volta concesso questo,
dovranno anche ammettere che, se la qualità è altra cosa dalla
quantità, è anche un altro corpo. Come potrà non esser corpo essendo
quantità, dal momento che ogni corpo è una certa quantità?… Se essi
ammettono che la materia rimane la stessa, essendo, come essi
dicono, un corpo, ma che produce cose differenti nel suo accogliere
diverse qualità, come può non essere evidente che queste qualità
sopravvenienti sono essenze immateriali e incorporee?
PLOTINO, Enn., VI, 1, 29, 1 segg. = SVF II, 376
Secondo quanto essi dicono, le qualità devono esser cosa diversa dai
sostrati: se fossero lo stesso, non le avrebbero classificate per
seconde. Tuttavia, se sono differenti, devono esser semplici
anch’esse; e se semplici, non composte; e in quanto tali non
dovrebbero avere materia, ed essere incorporee e attive… Se poi essi
dicono che le qualità sono «una certa qual materia», bisognerà
ammettere in primo luogo che le loro ragioni siano immateriali e non
riposte nella materia perché possa prodursi un qualche composto; ma
prima dello stesso composto, saranno composte di materia e forma
esse stesse: esse non sono dunque specie né ragioni. Se dicono che
tali ragioni non sono altro che materia che ha un certo modo di
essere, è chiaro che vengono a identificare qualità e modo di essere
〈relativo〉57, e quindi si trapassa al quarto genere. Ma se questa è
un’altra disposizione, quale è la differenza? Non ne deriva
chiaramenteche il modo di essere ha un grado di realtà maggiore
delle qualità?
PS. GALENO, De qualit. incorp., 1, XIX, p. 463 Kühn = SVF II, 377
Si dovrebbe parlare delle qualità e di tutti gli accidenti, che per
i seguaci degli Stoici non sono altro che corpi.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 222, 30 segg. Kalbfleisch = SVF II,
378
Gli Stoici dicono che la definizione generale della qualità consiste
nell’essere essa una differenziazione della sostanza per ciò che
riguarda i corpi, non concepibile separatamente di per sé, ma tale
che mette capo a un concetto58 e ad una proprietà specifica; e che
essa non è caratterizzata specificamente dal tempo o da una
capacità, ma da una qualificazione sua propria, dalla quale deriva
in concreto la qualità. Ma se essi stessi hanno affermato che non ci
si può essere un accidente comune di corpi e di incorporei, non
dovrebbero poi porre la qualità come un genere.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 360, 9 segg. Wallies
= SVP II, 379
Con ciò vien meno la definizione della qualità come «spirito che ha
un certo modo di essere» o «materia che ha un certo modo di essere»…
Sbaglia anche chi dica che il pugno è una mano in un certo modo di
essere: il pugno non è la mano; «pugno» sta a «mano» come a suo
sostrato.
PLUTARCO, De comm. not., 50, 1085e = SVF II, 380
Dicono inoltre che sostanza e materia sono sostrato delle qualità,
come suona press’a poco la loro definizione; e inoltre fanno delle
qualità sostanze e corpi; tutto ciò crea una gran confusione. Se
infatti le qualità hanno una sostanza propria in virtù della quale
si dicono e sono corpi, non ci sarebbe bisogno che inerissero a
un’altra sostanza, dal momento che già possiedono la loro. Ma se ad
esse fa da sostrato solo questo essere generale che chiamano
sostanza o materia, è evidente che fanno parte di ciò ch’è corporeo,
ma non sono corpi59, giacché ciò che fa da sostrato e da ricettacolo
differisce necessariamente da ciò nei cui riguardi esercita appunto
questa funzione. Essi, insomma, vedono una metà della verità: dicono
che la materia è priva di qualità, però non vogliono ammettere chele
qualità siano immateriali.
PS. GALENO, De qualit. incorp., 10, XIX, p. 483 Kühn = SVF II, 381
Se anche ciascuno degli accidenti è un corpo, che cosa essi
intendono quando dicono che solo il corpo si divide all’infinito, e
perché non lo dicono allo stesso modo per la figura, la dolcezza, e
ogni altra realtà del genere? e ciò non per semplice connessione con
ciò che chiamiamo abitualmente corpo, né per analogia, ma in senso
proprio? Perché, come già si disse, del solo corpo pongono la
definizione «ciò che ha tre dimensioni e presenta resistenza
all’urto», e non danno la stessa definizione anche del colore, del
sapore, del gusto, di ciascuno degli altri accidenti? Se dicono che
tutte queste realtà sono corpi (è per la specie che li si può
distinguere, ma sono tutti corpo quanto a genere, per loro) … dicano
anche che si può definire ogni accidente come sostanza corporea a
tre dimensioni dotata di resistenza all’urto.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 271, 20 segg. Kalbfleisch = SVF II,
383
Ma nemmeno l’opinione degli Stoici, secondo i quali le figure sono
corpi come tutte le altre qualità, si accorda con quella di
Aristotele.
AEZIO, Plac., IV, 20, 2, Dox. Gr., p. 410 =SVFII, 387
Per gli Stoici la voce è corpo; tutto ciò che agisce e opera è un
corpo per essi, e la voce è agente: la ascoltiamo infatti e la
sentiamo arrivare all’udito e urtarlo come un dito fa con la cera.
Ed è corpo anche tutto ciò che è capace di provocare commozione o
fastidio; ora, un suono gradevole ci commuove, mentre ci
infastidisce un suono sgradevole. Ed è corpo tutto ciò che si muove;
ora, la voce si muove, e cade sulle superfici lisce mentre si spezza
contro altre, come vediamo quando lanciamo una palla contro una
parete; e nelle piramidi egizie una sola voce che risuoni
all’interno si rompe producendo quattro o cinque echi.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 208, 33 segg. Kalbfleisch = SVF II,
388
Alcuni hanno abolito certe qualità e ne hanno lasciato sussistere
certe altre. Di coloro che hanno accordato ad esse esistenza, alcuni
hanno ritenuto che tutte siano prive di corpo, così i più antichi;
altri, come gli Stoici, che quelle degl esseri incorporei siano
incorporee, quelle dei corpi corporee60.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 217, 32 segg. Kalbfleisch = SVF II,
389
Gli Stoici dicono che le qualità sono corporee se proprie di corpi,
incorporee se proprie di incorporei. Sbagliano però nel credere che
le cause siano della stessa essenza rispetto agli effetti che da
esse derivano e nel supporre che vi sia un solo concetto di causa
valido per i corpi e per gli incorporei. Come, per esempio, potrà
essere fatta di soffio vitale la sostanza delle qualità corporee,
dal momento che il soffio vitale è una realtà composita e consta di
più elementi, e quindi divisibile, e tale che il suo carattere
unitario è semplicemente acquisito, sì che non possiede l’unità come
sua essenza propria né eminentemente di per sé? Come potrebbe dunque
esser causa alle altre realtà di coesione unitaria?
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 212, 7 segg. Kalbfleisch = SVF II,
390
Dal momento che Aristotele pone in noi le nostre proprietà (ἑκτά)61
e i nostri atti (ἐνεργείας), mentre gli Accademici pongono entrambe
queste cose ai di fuori di noi e gli Stoici pongono le proprietà in
noi, gli atti e i prodotti fuori di noi, combinando fra loro le due
opinioni precedenti, bisogna dire che il solo coerente con il suo
assunto è stato Aristotele, il quale ha ricondotto la realtà
qualificata (ποιόν) alla qualità (ποιότης), ritenendo che entrambe
siano in noi. Alcuni degli Stoici, dando dell’essere qualificato
(ποιόν) una definizione triplice, affermano che due accezioni sono
sovrabbondanti rispetto al concetto di qualità, mentre una si adatta
puntualmente a questo. Nel primo significato vengono comprese tutte
le specie della differenziazione, ciò ch’è in moto e ciò ch’è in
quiete, ciò ch’è facile e ciò che è difficile a risolversi. E
secondo questa definizione è un essere qualificato non solo chi è
saggio o chi protende il pugno, ma anche chi corre e così via.
Secondo un altro significato, invece, non si prendono in
considerazione gli esseri in moto, ma solo gli stati di quiete; ed è
ciò che essi hanno anche definito «essere secondo differenza»; così
per esempio chi è saggio, o chi si copre con lo scudo. Di queste
realtà costanti secondo differenza le une sono tali in forma
delimitata secondo l’enunziato (κατ’ἐκφοράν) e secondo il concetto
(κατ’επίνοιαν), le altre non esattamente; ma queste ultime essi le
rifiutano, e considerano esseri qualificati solo quelli che sono
delimitati e costanti secondo differenza. Esser puntualmente
definiti in base a differenza significa poi identificarsi
esattamente alla qualità in sé; così per esempio il saggio o il
grammatico, nessuno dei quali due hain sé qualcosa che sia in
eccesso o in difetto dal punto di vista della qualità; e così anche
l’amatore dei pesci o del vino; mentre invece quelli che sono
qualificati dal loro agire, come il mangiatore di pesci o il
bevitore di vino, poiché le cose di cui godono rientrano nella loro
definizione come parti di essa, devono esser definiti anche in base
a queste. Infatti il mangiatore di pesce è anche amatore di pesce,
mentre non si può dire il contrario, che chi è amatore del pesce
necessariamente ne sia anche mangiatore. Se vengono meno le parti in
base alle quali egli è mangiatore di pesce, il mangiar pesce vien
meno, ma la disposizione ad amare il pesce non viene abolita. Perciò
la qualità è definibile in tre modi, e nell’ultimo la qualità in
generale viene a corrispondere all’essere qualificato. E quando essi
definiscono la qualità in generale una «condizione dell’essere
qualificato» (σχέσις ποιοῦ), bisogna intendere questa definizione
come tale che accoglie in sé questa terza e ultima forma. La qualità
in generale infatti si definisce in un solo modo secondo gli Stoici;
l’essere qualificato, in tre modi diversi62.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 214, 24 segg. Kalbfleisch = SVF II,
391
Anche gli Stoici potrebbero esser condotti alla stessa aporia in
base alle loro premesse, in quanto dicono che tutte le qualità in
concreto si predicano secondo qualità in generale. Dal momento che
essi dicono che le qualità in generale sono proprietà che si
possiedono (ἑκτά), le vedono possibili solo nel caso di realtà
unitarie; nel caso di realtà che stanno insieme per contatto, come
una nave, o per giustapposizione di elementi separati, come
l’esercito, non vi è alcuna proprietà che si possieda, né è
possibile in esse trovare una realtà unica fondata sul soffio vitale
o che abbia in sé una sola ragione, sì da metter capo a un’unica
sostanza con una sola disposizione. Ma l’essere qualificato (ποιόν)
si coglie concettualmente anche nelle realtà composte secondo
contatto o giustapposizione di elementi separati: come un grammatico
singolo si forma costantemente in base a ripetizione ed
esercitazione, così allo stesso modo si forma anche un coro. Si può
dire insomma che le qualità concrete si definiscono anche in base
alla loro disposizione d’insieme e al fatto che esiste una
collaborazione in vista del compimento di un’opera; qualità concreta
vi è dunque separatamente dalla qualità in generale. In entità del
genere non vi è disposizione: in entità fatte di elementi separati e
non aventi un legame naturale reciproco che le porti a unità non vi
è qualità in generale né disposizione. Ma se, pur essendovi qualità
concreta, non vi è qualità in generale, essi non potrebbero dire che
queste realtà si coprono reciprocamente, né che è possibile rendere
la quantità in generale per mezzo della qualità concreta. A queste
cose è possibile obiettare che la specie, essendo incorporea, si
estende, restando una e identica, a molte realtà, essendo dovunque
la stessa nella sua totalità; ma se è così, ci dovrà essere una sola
disposizione e qualità generale che si estende per le qualità delle
cose formate di elementi separati o per contatto.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., P. 276, 27 segg. Kalbfleisch = SVF II,
392
Sì che ciò che differisce integralmente lo fa in virtù della
differenza, e la differenza differisce da se stessa, o piuttosto è
autodifferenziantesi. E anche gli Stoici introducono delle qualità
pertinenti a qualità quando introducono degli abiti che sono
possessivi di se stessi63; non hanno infatti bisogno di altri che
introducano le differenze; sono qualità che differiscono rispetto a
se stesse e reciprocamente.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 237, 25 segg. Kalbfleisch = SVF II,
393
Merita di essere appresa la divisione abituale dei termini fatta
dagli Stoici. Al contrario di Aristotele, essi sembrano ritenere la
διάθεσις un abito e la ἔξις una semplice disposizione; le ἓξεις,
essi dicono, o disposizioni, ammettono accrescimento o diminuzione,
mentre le διαθέσεις ο abiti non ammettono ciò. Anche l’esser diritto
che è proprio di un bastone, per quanto sia soggetto a mutamento (il
bastone può venir piegato), essi lo chiamano un abito (διάθεσις);
infatti l’esser diritto non subisce né accrescimento né diminuzione,
non ha variazioni di più meno; è quindi una disposizione costante,
uno stato fisso. E le virtù per loro sono abiti non per la proprietà
di esser costanti, ma in quanto non sono suscettibili di variazione
in fatto di accrescimento; le arti invece, anche se subiscono
variazioni difficilmente, non sono veri e propri abiti. Essi
sembrano considerare le semplici disposizioni per tutta l’ampiezza
della specie, ma gli abiti in relazione alfine di essa e al suo
grado massimo; sia nel caso che possano esser soggetto a mutamento
(come nel caso del bastone e del suo esser dritto), sia che non vi
sia alcuna possibilità di mutamento. Occorrerebbe poi vedere se ciò
che gli Stoici chiamano «condizione» ο σχέσις sia la stessa cosa che
Aristotele chiama disposizione ο διάθεσις, e se si differenzi
dall’abito per il suo essere facile a risolversi a differenza di
quello, che è difficile a dissolversi; ma anche in questo c’è
divergenza fra di loro. Aristotele dice infatti che la salute
malferma è una διάθεσις o disposizione; ma gli Stoici non ritengono
che la salute, comunque sia, sia mai una condizione e le
attribuiscono la caratteristica della ἓξις64. Le condizioni
(σχέσεις) sono caratterizzate da circostanze di carattere
estrinseco, mentre le disposizioni (ἓξεις) lo sono da atti
intrinseci. Perciò le disposizioni, secondo loro, non ricevono la
loro specificazione dalla lunghezza o dalla forza del tempo, ma da
una certa loro proprietà e un certo loro carattere; e come ciò che
ha radici può averle più o meno profonde, ma ha pur sempre una
proprietà generale, quella di stare attaccato alla terra, così anche
la disposizione è un concetto che si applica tanto a ciò che
difficilmente cambia quanto a ciò che è facilmente mutevole. Quelle
cose che contengono in sé molte qualità entro lo stesso genere,
possiedono in forma libera quella proprietà che dà loro significato
specifico: il vino può essere acre e la mandorla amara, e il cane
molosso o maltese, tutte realtà cui compete la stessa caratteristica
secondo il genere, ma lo spazio di somiglianza è breve, la forma
libera, pur rimanendo esse nella forma razionale propria della loro
costituzione; e la loro mutevolezza dipende spesso da altra causa.
Gli Stoici perciò estendono il concetto di ἓξις o disposizione in
senso generale anche a quelle che Aristotele chiama διαθέσεις in
quanto disposizioni mutevoli; e ritengono che esse differiscono pur
sempre molto dalle condizioni. Per esempio, la disposizione di colui
che ricupera la salute si differenzia radicalmente dalla condizione
di chi siede o cammina e altre condizioni di questo tipo; le une
sono prive di radici e di ogni solidità, le altre invece, anche se
le si perde, permangono secondo la propria natura, perché hanno di
per se stesse la capacità di persistere, e una ragione loro propria.
E per questa ragione non chiamano disposizione (ἓξις) nemmeno una
condizione, qualunque sia, che sia difficile a risolversi; se tale
difficoltà a risolversi viene ad essa da ragioni estrinseche — come
nel caso, per esempio, di un dito che stia dentro un guanto è pur
sempre una stabilità che non deriva da disposizione; se invece
l’esser così ha la sua ragione intrinseca — nel caso per esempio
della creta che diventi un coccio — allora si tratta di
disposizione, giacché essa è divenuta tale per processo spontaneo.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 284, 32 segg. Kalbfleisch = SVF II,
393
Viene terza la setta degli Stoici, alcuni dei quali distinguono le
virtù dalle arti medie, dicendo che le virtù non subiscono
accrescimento né diminuzione, mentre le arti medie subiscono l’una e
l’altra. Si deve dunque dire che secondo loro vi sono disposizioni
(ἓξεις) e qualità suscettibili di accrescimento e diminuzione, altre
non suscettibili.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. De an., p. 17, 15 segg. Bruns
= SVF II, 394
Ma neanche per quelli che dicono che ogni corpo è materia o composto
di materia varrebbe il principio che la specie è un corpo… Se
dicessero che la specie è formata di materia e specie stessa, non di
un’altra specie, ma in quanto esso ha il suo essere dallo stare
insieme con la materia, non potrebbero più dire che la materia è
priva di qualità, come è in base alle loro premesse… E non è assurdo
il dire che la materia si qualifica coll’assumere una specie e una
qualità, cioè aggiungere in più una certa materia? e necessariamente
finiscono col dire questo coloro che considerano un corpo inerente
alla materia la specie e la qualità.
SIMPLICIO, In Arist. De an., p. 217, 36 segg. Hayduck = SVF II, 395
… se anche alle realtà composte è pertinente quella specie
individuata che si chiama qualità in senso proprio (ἰδίως) presso
gli Stoici, e che sopravviene tutta insieme e tutta insieme vien
meno o rimane la stessa per tutta la durata del composto, anche se
le parti di volta in volta diversamente nascono o muoiono65.
PLUTARCO, De comm. not., 36, 1077d = SVF II, 39666
Sono in realtà contro la logica quelle loro affermazioni e
costruzioni, secondo cui a una sola sostanza si applicano due
qualità in senso proprio e una stessa sostanza, che ha già una
qualità come sua propria, al sopravvenire di un’altra è suscettibile
di accogliere anche questa e di conservarle in sé entrambe67.
SIRIANO, In Arist. Metaph., p. 28, 17-19 Kroll = SVFII, 398
Anche gli Stoici pongono le qualità generali prima di quelle in
senso proprio68.
DEXIPPO, In Arist. Categ., p. 34, 19 segg. Busse = SVF II, 399
Se poi si intendesse porre la maggior parte delle categorie sotto il
modo di essere, come fanno gli Stoici, bisogna dimostrare che così
facendo si tralascia gran parte delle realtà, quelle che sono in un
luogo, in un tempo, secondo numero, le quantità e cose come l’esser
di una certa età, o l’esser calzato, o altre simili: non vi è nulla
di questo che sia compreso nel «modo di essere».
PLOTINO, Enn., VI, 1, 30, 1 segg. = SVF II, 400
Quanto ai «modi di essere», è ugualmente assurdo porli come terzi
nella serie o in qualsiasi altro luogo, dal momento che tutte le
cose che si verificano nella materia sono modi di essere. Ma essi
risponderanno che c’è una differenza fra modo e modo di essere e che
una cosa è che la materia sia così o così in un certo modo, altra
cosa sono le differenze che sussistono fra i modi di essere; e
inoltre che le qualità sono modi di essere che si verificano nella
materia, i modi di essere in senso proprio riguardano invece
direttamente le qualità. Tuttavia, se è vero che i modi di essere
non sono altro che una materia che è in un certo modo; ecco che tali
modi di essere si riconducono pur sempre alla materia e sono
relativi ad essa. Come si potrà porre un solo modo di essere per
tutti, se fra essi c’è tanta diversità? Come possono ricadere sotto
lo stesso genere una misura — per esempio tre cubiti — e il bianco,
se l’uno è una quantità, l’altro una qualità? Come potranno
ricadervi il «quando» e il «dove»? e come possono esser tutti modi
di essere realtà come «ieri», «l’anno scorso», «nell’Accademia (o
nel Liceo)»? In che modo può dirsi «modo di essere» il tempo? Non lo
sono in verità né il tempo né il luogo, né le realtà che sono nel
tempo e nel luogo. E il fare, come può dirsi un «modo di essere»?
Chi agisce non è secondo un certo modo, ma agisce in un certo modo;
addirittura non si dice che è, ma che agisce; e ugualmente chi
subisce non è in un certo modo, ma subisce in un certo modo, e
addirittura non si dice che è, ma solo che subisce. Forse il modo di
essere potrebbe adattarsi solo allo «stare» e all’«avere». Ma se ben
si guarda l’avere è solo ἔχειν, non ἔχειν in certo modo.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 373, 7 segg. Kalbfleisch = SVF II,
401
Boeto si contrappone agli Stoici, i quali intendono riportare anche
lo ἔχειν al πὼς ἔχειν69.
PLOTINO, Enn., VI, 1, 30, 21 segg. = SVF II, 402
Quanto al relativo, se essi non lo facessero rientrare in un solo e
medesimo genere rispetto alle altre categorie, si potrebbe fare un
altro discorso per vedere se essi diano a tali stati una vera e
propria sostanzialità; e spesso non la danno. Quanto all’essere
nello stesso genere, trattandosi di realtà che sopravvengono
rispetto ad alcune che già sono, sarebbe assurdo porle nello stesso
genere di quelle che sono prima di loro: necessariamente sono prima
l’uno e il due, poi in secondo luogo la metà e il doppio70.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 165, 32 segg. Kalbfleisch = SVF II,
403
Gli Stoici a questo proposito, invece di un sol genere, ne contano
due, e pongono certe realtà sotto la categoria del relativo, altre
sotto quella del modo di essere relativo71. E nella divisione
contrappongono i relativi alle realtà che sono «per sé», i modi di
essere relativi ai relativi secondo differenza; per esempio,
relativi sono per loro il dolce, l’amaro e simili, e tutte le
cose che sono in questa posizione; modi di essere relativi realtà
quali «il padre», «la destra» e simili; mentre relativi secondo
differenza sono tutte quelle realtà caratterizzate da una certa
forma. Come, dunque, si distinguono fra loro le due nozioni di «per
sé» e di «secondo differenza», altrettanto si distinguono quelle di
«relativo» e di «modo di essere relativo». Inversa è però
l’implicazione delle coppie di concetti: alle realtà che sono «per
sé» sono inerenti quelle «secondo differenza», giacché tutte le
realtà che sono di per sé hanno anche qualche differenza (per
esempio l’esser bianco o nero); però l’esser secondo differenza non
è necessariamente congiunto all’essere di per sé: il dolce
e l’amaro, per esempio, sono caratterizzati dalla loro
differenza, ma non per questo sono «per sé». Quanto ai modi di
essere relativi, che vengono contrapposti all’essere per differenza,
in assoluto sono anch’essi dei relativi: lo sono, allo stesso tempo
che sono in un certo modo, anche «destra» e «padre». E il dolce
e l’amaro, relativi, sono anche secondo differenza; ma i modi
di essere relativi sono contrapposti all’essere secondo differenza.
È impossibile infatti che i modi di esser relativi siano per sé o
secondo differenza: essi dipendono solo dalla loro posizione
rispetto ad altro72. Quanto ai relativi, certo non sono per sé (non
possono sussistere indipendentemente) ma si potrà dire che sono
secondo differenza, in quanto sono caratterizzati concettualmente da
una proprietà specifica…
Per cercar di render più chiaro, riassumendo, quanto si è detto
finora: essi dicono che i relativi sono quelle realtà che, pur
ponendosi secondo un carattere proprio, si riferiscono tuttavia in
certo modo a qualcos’altro; i modi di essere relativi sono quelli
che per natura risultano o non risultano accidentali a
qualcos’altro, senza suo cambiamento o trasformazione, guardando la
cosa dall’esterno; sì che, quando qualcosa si riferisca a
qualcos’altro dal punto di vista della differenza, si tratta di un
relativo puro (per esempio la disposizione, la scienza, la
sensazione), mentre si tratta di un modo di essere quando sia
ca-ratterizzato non da una differenza inerente ad esso, ma dalla sua
pura e semplice relazione ad altro. Il figlio e la destra, infatti,
hanno bisogno di qualcosa che stia fuori di loro per esistere
(basterebbe, anche se non avvenisse alcun cambiamento che li
riguardasse direttamente, che il figlio morisse o che la parte
contrapposta cambiasse posizione, perché il padre e la destra non
fossero più tali; invece il dolce e l’amaro non subiscono
cambiamento a meno che non cambi proprio la capacità ad essi
relativa. Dunque, se i modi di essere relativi, senza subire alcun
evento, cambiano semplicemente per la posizione dell’altro nei loro
riguardi, è chiaro che il loro essere dipende solo dalla posizione e
non da una differenza.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., II, 453 = SVF II, 404
La testimonianza dei dogmatici ci insegna con evidenza che quelli
che sono i modi di essere relativi hanno la loro sussistenza nel
pensiero ma non posseggono esistenza reale (ὕπαρξις); infatti essi,
nel delimitare il concetto di relativo, dicono: «relativo è ciò che
viene pensato in relazione ad altro»73.
GALENO, De const. art. med., 8, Ι, p. 251 Kühn = SVF II, 405
Poiché l’elemento è ovunque mutevole, esaminiamo ordinatamente
quanti siano gli elementi, prendendo a principio dei nostri discorsi
i fenomeni evidenti. Le cose che recano cambiamento in alcunché
necessariamente lo recano da tutta prima col loro contatto, come
insegna la sensazione e come dimostra la natura stessa delle cose…
In realtà, se ciò che porta mutamento lo porta per contatto, esso
deve necessariamente agire secondo certe proprietà delle realtà con
cui viene a contatto. Che cosa ci impedisce di prenderle tutte in
esame? Per esempio, ciò che è aguzzo taglia ciò con cui viene a
contatto, tuttavia non trasforma la sua essenza, e analogamente il
peso schiaccia, comprime, ma non produce un totale cambiamento della
sostanza che lo subisce. Così pure la durezza non può modificare ciò
con cui viene a contatto in modo tale da farlo passare ad altra
specie. Invece il caldo e il freddo possono trasformare
integralmente la sostanza con cui vengono a contatto; e ugualmente
l’umido e il secco, anche se non con la stessa velocità delle due
realtà anzidette, pur tuttavia col tempo anch’esse cambiano ciò che
è ad essi soggetto. C’è forse da enumerare qualche altra forma
capace di operare un simile cambiamento, oppure abbiamo in queste
l’intero numero di tali forme? Conviene nominare e ritenere solo
queste qualità operanti in tal senso, e in esse particolarmente vi è
la contrapposizione primitiva, e di per sé opera soprattutto il
caldo: questa è la più attiva delle qualità; poi viene di seguito il
freddo, quindi l’umido e il secco. Nessun’altra qualità trasforma
completamente allo stesso modo ciò con cui viene a contatto… Quei
corpi dunque che possiedono queste qualità bisogna ritenerli
elementi di tutto il resto e della carne: essi sono la terra,
l’acqua, l’aria, il fuoco, che tutti quei filosofi che non rifuggono
dalla dimostrazione hanno riconosciuto essere elementi generatori
delle cose che nascono e periscono. E dicono che essi si trasformano
l’un nell’altro, ma che vi è alla base di essi un elemento comune.
GALENO, De natur. facult., I, 3, II, p. 7 Kühn = SVP II, 406
Ci sono alcuni, non pochi e non oscuri, filosofi e medici, che
attribuiscono carattere attivo al caldo e al freddo, contrapponendo
a questi, come principi passivi, il secco e l’umido. Aristotele per
primo ha cercato di ricondurre a questi le cause delle singole cose;
gli tenne poi dietro il coro degli Stoici74. In verità era del tutto
ragionevole che questi, dal momento che riferiscono a processi di
scioglimento e condensamento il trapasso degli elementi l’uno
nell’altro, facessero del caldo e del freddo due princìpi attivi.
PLUTARCO, De primo frigido, 2, 946a =SVF II, 407
Il freddo non produce naturalmente minori affezioni e mutamenti ai
corpi che non il caldo: sotto l’azione del freddo, infatti,
molte cose si induriscono, si irrigidiscono, si ispessiscono; la
stabilità e la fermezza ch’esso dà non è tenue, ma costante e forte,
capace di sussistere e stare insieme in virtù di una forza dotata di
tensione75. Perciò la privazione diviene un venir meno e un ritrarsi
della capacità opposta, e molte cose si raffreddano anche se in esse
si trova ad essere un forte calore: alcune cose poi il freddo, se
avviene che le accolga in sé quando sono più calde, le fa indurire e
ispessire, come per esempio avviene di un ferro rovente quando sia
immerso nell’acqua; e gli Stoici dicono che alla stessa maniera il
soffio vitale si raccoglie insieme nel corpo dei neonati per il
raffreddamento e, trasmutandosi, da semplice natura diventa anima.
GALENO, De elem. sec. Hippocr., I, 6, I, p. 469 Kühn = SVF II, 408
Tutti quei filosofi cui Ateneo76 procura di seguire dicono che il
calore acuto è un elemento più semplice del fuoco e che il fuoco si
forma nella materia quando un tale calore sopravvenga. Principio
infatti della nascita del fuoco è quella materia senza qualità che
fa da sostrato a tutti gli elementi più il calore acuto che si forma
entro di essa, e anche questo è da loro generalmente accettato: e
così pure sostengono che la materia esiste per tutta l’eternità,
giacché non conosce né nascita né morte, mentre si può dire che ciò
che invece in essa nasce e muore è la qualità; e che l’elemento
necessariamente deve appartenere allo stesso genere di ciò di cui è
elemento. L’elemento differisce dal principio proprio in questo, che
i princìpi non appartengono necessariamente allo stesso genere delle
cose di cui sono princìpi, mentre gli elementi devono esser uguali
di genere a ciò che formano.
GALENO, In Hippocr. de nat. hom., I, 2, XV, p. 30 Kühn = SVF II, 409
Queste realtà (= la materia e le qualità primarie) non sono elementi
né dell’essere umano né di tutte le altre cose: sono invece
princìpi. Questi due concetti furono confusi dagli antichi, che non
erano giunti alla esatta differenza fra principio ed elemento, e ciò
per il fatto che il termine «elemento» (στοιχεῖον) può essere usato
anche per i princìpi77. Ma le due cose son ben chiaramente
differenti l’una dall’altra: l’uno è la parte minima del tutto,
l’altro è ciò in cui concettualmente si può dividere questo minimo.
Lo stesso fuoco, ad esempio, non è possibile dividerlo in due corpi
e dirlo misto di entrambi, come non si può farlo per l’acqua o
l’aria o la terra. In effetti bisogna riflettere che una cosa è la
sostanza di ciò che cambia, un’altra è il cambiamento ch’essa
compie. Non è infatti lo stesso corpo che muta col cambiamento che
avviene in esso: ciò che muta è il sostrato, e il suo cambiamento si
verifica per uno scambio qualitativo.
GALENO, De facult. nat., II, 4, II, p. 88 segg. Kühn = SVF II 410
Il caldo, il freddo, il secco e l’umido esercitano azioni gli
uni sugli altri e viceversa; il principio più attivo fra di essi è
il caldo, secondo per forza viene il freddo… Tutte le realtà che
hanno nutrimento lo hanno da questi princìpi e così pure le realtà
che si mescolano fra loro e quelle che si tramutano… La digestione è
un cambiamento e una trasformazione della realtà nutritiva in
qualità propria del corpo nutrito; così pure è un cambiamento la
irrorazione di sangue e lo è il nutrimento e quella crescita che
deriva da tensione del corpo in ogni direzione e da nutrimento. Ma
il cambiamento si verifica soprattutto sotto l’azione del
caldo, e così anche la nutrizionee la digestione e la genesi di
tutti gli umori: perfino alle secrezioni le qualità derivano dal
calore connaturato…
Che Erasistrato non ha nulla a che vedere con la fisiologia di
Aristotele, lo dimostra l’elenco di opinioni su esposto: che per
primo furono di Ippocrate, per secondo di Aristotele, in terzo luogo
degli Stoici, i quali mutarono un sol punto: che anche le qualità
sono corporee78.
GALENO, Introd. med., 9, XIV, p. 698 Kühn = SVF II, 416
Secondo Ateneo sono elementi dell’uomo non i primi quattro corpi,
fuoco, aria, acqua, terra, ma le loro qualità, il caldo, il freddo,
il secco e l’umido; e di questi due sono principi causali
attivi, il caldo e il freddo, due sono principi materiali, il secco
e l’umido: per quinto egli introduce, seguendo gli Stoici, quel
soffio vitale che scorre per tutte le cose, in virtù del quale tutta
la realtà sta insieme ed è ordinata.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 56, p. 329 Kötschau = SVF II, 417
Si cercherà rifugio in Aristotele e nei filosofi del Peripato, che
dicono esser privo di materia l’etere79, e dotato della quinta
natura oltre i quattro elementi: al cui ragionamento si attennero
non ignobilmente i seguaci di Platone e gli Stoici.
AEZIO, Plac., I, 15, 11, Dox. Gr., p. 314 = SVF II, 419
Gli altri dicono che gli elementi hanno colore per natura.
GALENO, De const. art. med., 9, Ι, p. 245 Kühn= SVF II, 420
Il nostro scopo è … indagare su questo punto, quali siano per natura
le parti prime e più semplici. Il nostro discorso dovrà svolgersi …
non in relazione a tutto l’universo, ma ad un singolo corpo: per
esempio si può prendere in esame la carne, per vedere dapprima se
l’elemento che la genera sia uno quanto a forma (niente di male c’è
nel chiamare così80 la parte prima e più semplice in essa); se
invece non sembri di poter affermare ciò, vedere se gli elementi
siano molteplici, e quali e quanti, e quale sia il loro modo di
produrre la sintesi. Dal momento che la carne duole forte se la si
tagli o la si bruci, è impossibile che la sua forma sia una per
specie, a quel modo che Epicuro pensava fosse l’atomo. Che un
siffatto elemento non sia uno per la forma, è chiaro da quanto
segue. La natura degli atomi di per sé non è in alcun modo fredda o
calda, e neanche in alcun modo bianca o nera … nell’insieme si può
dire che non vi sia alcuna qualità nell’atomo, come vogliono i
sostenitori di questa dottrina. Qualità siffatte appaiono tutte
trascorrere per i corpi, sì che agli atomi resta semplicemente
inerente la figura, la resistenza, il peso; se poi cose di questo
tipo si possono chiamare qualità o differentemente, non porta
cambiamento rispetto allo scopo che mi sono proposto… Ciò che è uno
non può mutarsi in altro, poiché non esiste ciò in cui potrebbe
mutarsi; ma ciò che non può mutarsi è anche non soggetto ad
alterazione né subisce alcun accidente, e ciò che non subisce
accidente non può nemmeno subir sofferenza. Dalle premesse anzidette
deriva quindi la conclusione che ciò ch’è uno non è soggetto ad
accidenti. Ma allora si può anche argomentare in questo modo: «se
l’elemento che compone la carne fosse uno, di specie, la carne non
patirebbe sofferenza; ma la carne patisce sofferenza; dunque
l’elemento che compone la carne non è uno di specie». Si può fare lo
stesso ragionamento anche in un’altra forma: «se l’elemento di cui
si compone la carne è tale che non subisce accidenti, non potrà
subire sofferenza; ma esso la subisce; quindi non può essere esente
da accidenti». E se anche ci fosse chi concede che gli elementi
siano più d’uno, ma non che si trasformano, si potrebbe argomentare
in questa forma: «se gli elementi della carne sono privi di
accidenti, non sentono dolore; maessi in realtà lo sentono; quindi
gli elementi della carne non sono esenti da accidenti». Col primo
argomento viene rifiutata la ipotesi degli atomi, o dei corpi privi
di agganci81, o dei minimi; con il secondo la dottrina delle
omeomerie e quella di Empedocle; quest’ultimo infatti ritiene che i
corpi siano composti di quattro elementi, ma che questi non
trapassino l’uno nell’altro.
… Ciò che può avvertire la sofferenza deve essere capace di subire
accidenti e di natura sensibile. Ma ciò che è di natura sensibile
non necessariamente deve esser composto dei primi sensibili, ma
basta solo il suo esser capace di subire accidenti; infatti può in
qualche caso divenire di natura sensibile, e tale che si muta e si
trasforma. Poiché i mutamenti e le mescolanze di ciò che deriva
dagli elementi possono essere infinite per moltitudine, risulteranno
infinite proprietà particolari dei corpi, secondo le quali non è
affatto assurdo che si producano anche più realtà prive di
sensazione; e anche degli esseri dotati di sensazione ve ne saranno
alcuni che hanno sensazioni più acute, altri meno.
CICERONE, De nat. deor., III, 13, 35-37 = SVF II, 421
Ma i vostri, Balbo, son soliti riportare tutto a una forza ignea,
seguendo, io credo, Eraclito… Voi dunque dite che tutto è forza
ignea, e che causa della morte degli esseri animati è il venir meno
del calore, e che in tutta la natura ha vita e vigore ciò che ha in
sé calore… E così, mi sembra, ritenete che non vi sia altro
principio d’animazione intrinseco alla natura e all’universo se non
il fuoco?… Ma se questo è già di per sé un essere animato, senza
bisogno che gli si aggiunga alcun’altra realtà, giacché esso,
essendo intrinseco ai nostri corpi, è causa a noi di sensazione,
esso stesso non può poi mancare della facoltà di sentire… Tuttavia
in tal modo finite col non poter assicurare l’eternità neanche al
fuoco. Non dite voi stessi che ogni fuoco ha bisogno di nutrimento e
non può sussistere se non sia alimentato? Non dite che il sole, la
luna, gli altri astri sono alimentati dalle acque, alcuni da quelle
dolci, altri da quelle marine?82
AGOSTINO, De civ. dei, VIII, 5 = SVF II, 423
Infatti alcuni di essi ritennero che realtà viventi possano nascere
da realtà prive di vita, come gli Epicurei: mentre altri ritennero
che realtà vive e non vive debbano nascere entrambe da qualcosa di
vivente, e tuttavia i corpi da un corpo. Gli Stoici, infatti,
ritennero che dei quattro elementi dei quali si compone il mondo
visibile uno, il fuoco, sia vivente e sapiente e artefice del mondo
stesso e di tutte le cose che sono in esso; e questo stesso fuoco in
assoluto lo ritennero la divinità.
GALENO, De diff. puls., III, 6, VIII, p. 672 Kühn = SVF II, 424
Di quelli che hanno preso in esame che cosa sia l’aria, medici e
filosofi, non tutti affermano ch’essa sia vuota; ma alcuni, alla cui
opinione noi pure aderiamo, ritengono che sia un corpo continuo in
ogni sua parte, senza alcun inserirsi in essa del vuoto; altri
invece ritengono che nel vuoto si muovano molti corpi, piccoli ed
elementari, che si urtano, rimbalzano, senza intrecciarsi né dar
luogo a composti… Non vi è alcun simile vuoto nell’universo, ma non
vi è nemmeno in prevalenza: se non c’è in assoluto il vuoto
nell’universo, come potrebbe esservi in prevalenza?… Essi non
ritengono che vi sia un simile spazio vuoto nell’universo, ma che
tutta la materia sia una in se stessa83.
AEZIO, Plac., IV, 19, 4, Dox. Gr., p. 409 = SVF II, 425
Gli Stoici dicono che l’aria non consta di frammenti spezzati, ma è
continua per tutta la sua estensione, e non ha in sé alcun vuoto.
Quando è colpita dal vento, essa ondeggia in circoli diritti
all’infinito, fino a riempire tutta l’altra aria che la circonda,
come avviene quando si getta una pietra in una vasca: questa si
muove in circolo, l’aria in forma sferica.
GALENO, De simpl. med., I, 24, XI, p. 423 Kühn = SVF II, 426
Non vi è chi non dica che l’aria è composta di parti minute, perché
chiaramente si spezzetta in piccole parti e scorre prontamente
attraverso i corpi più spessi.
GALENO, De simpl. med., I, 14, XI, p. 405 Kühn = SVF II, 428
Dico sostanza leggera quella le cui parti sono separate da spazi
vuoti, essendo noi però ben consci e sempre ricordando che cosa
significa spazio vuoto per chi ritenga che la sostanza è una in se
stessa: non come insegnano Epicuro e Asclepiade84, ma nel senso che
in tutti i corpi leggeri lo spazio vuoto è in realtà pieno d’aria.
GALENO, De simpl. med. II, 20., XI, p. 510 Kühn = SVF II, 431
Mentre Aristotele e i suoi discepoli ritengono che l’aria sia
calda, gli Stoici invece ritengono che sia fredda.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De an. libri mantissa, p. 124, 9 segg.
Bruns = SVF II, 432
Inoltre, se, come essi ritengono, le qualità sono corpi, è corpo
anche la luce, giacché essa è una qualità.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De an. libri mantissa, p. 132, 30 segg.
Bruns = SVF II, 432
Se essi dicono che la luce, essendo un corpo, passa attraverso
l’acqua e altri corpi, evidentemente per render vano il loro
discorso basta dimostrare che la luce non è un corpo. Se infatti il
suo urto con le altre cose avviene per il fatto che è un corpo, essa
non avrebbe alcun urto nel caso contrario; ci si può chiedere poi,
se la luce diviene tale per un processo di divisione, perché col
freddo dell’acqua non compia il processo opposto, cessando di essere
luce. Inoltre, nel ghiaccio dovrebbe esservi meno luce, in quanto
meno calore. È assurdo che non si rapprenda il soffio vitale se si
rapprende l’acqua e diventa gelo, se è vero che la luce è aria
divisa.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De an. libri mantissa, p. 138, 2 segg. Brims
= SVF II, 432
Se la luce è un corpo, o è fuoco o è emanazione di fuoco, quello che
essi chiamano raggio o terza forma del fuoco… Se poi la tenebra è un
corpo, l’aria in cui si forma la luce o accoglierà questa, che è
corporea, per tutta la sua estensione, e così un corpo penetrerà per
tutto un altro corpo, oppure dovrà avere dei pori per i quali possa
passare la luce. Ora questi pori, quando non vi sia luce, dovranno
pur sempre esser pieni di qualche altro corpo, qualunque essi dicano
che questo sia, e allora come potrà passarvi a sua volta la luce?
Questo corpo dovrà esser più leggero non solo dell’aria, ma della
luce stessa, se cede e cambia luogo al giungere di questa; ma come
potrebbe esserci, secondo loro, un corpo più leggero della luce?… Se
poi i pori dell’aria restano vuoti quando è buio, in primo luogo si
dovrà ammettere, contro le loro premesse, che c’è del vuoto nel
cosmo, e in atto85; poi che l’aria è più rarefatta della tenebra
(dal momento che ha in sé dei vuoti) mentre prima sembrava essere
più spessa; infine la luce non potrà essere, come essi dicono, una
realtà che divide e assottiglia l’aria, ma sarà vero il contrario.
GALENO, In Hippocr. Epidem., VI, comment. 4, XVII, p. 161 Kühn = SVF
II, 433
L’acqua pura non diviene luminosa perché da fuori cade su di essa un
raggio, ma per la trasformazione che riceve dalla luce che viene a
contatto con essa, così come accade all’aria. Neanche questa,
infatti, è luminosa di sua natura, altrimenti, lo sarebbe anche la
notte; ma si trasforma tutta per il venire a contatto dei raggi del
sole con i suoi confini superiori, ed essendo in sé continua si
trasforma e si cambia tutta quanta. Che nell’acqua e nell’aria ci
siano spazi vuoti, per Epicuro ed Asclepiade è una conseguenza della
composizione atomica; per Aristotele e per gli Stoici invece è vero
il contrario: essi sono convinti che mai da nessuna parte
nell’universo c’è vuoto, ma che tutto quanto è ripieno di corpi. E
neanche quei vuoti che si trovano all’interno dei corpi fisici, per
esempio la pomice, dicono che sono veramente vuoti: dicono che in
essi dovunque penetra l’aria. Nell’acqua poi non vi è nemmeno
porosità, sul tipo della pietra pomice: essa è per tutta la sua
estensione assolutamente continua.
Scholia in Pindarum, Olymp., I, 1, p. 18 Drachmann = SVF II, 436
Seguendo l’opinione dei filosofi, dissero che dall’acqua derivano
gli altri tre elementi: la parte leggera, di questa dicono che
divenne aria, la parte più spessa, rapprendendosi, terra: l’etere
infuocato facendosi più leggero produsse il fuoco86.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 225. VI, p. 78 Cohn Reiter =
SVF II, 437
Quando al caos … alcuni degli Stoici pensarono che fosse acqua,
ritenendo che il suo nome sia derivato dall’esser sciolto (χύσις).
GALENO, De simpl. med., IX, 1, XII, p. 165 Kühn = SVF II, 438
Uno di questi significati del nome terra è familiare a tutti,
l’altro è solo dei filosofi, i quali dicono che elementi dei corpi
sono la terra, l’acqua, l’aria, il fuoco. Terra chiamano in fatti il
corpo che fra tutti è più secco e più freddo. Secondo costoro, la
terra in quanto elemento non corrisponde a nessuno dei corpi che
cadono sotto i nostri sensi; però, dicono, della terra in quanto
elemento hanno i caratteri soprattutto alcune specie, per esempio il
diamante e la pietra; e in genere quanto più un corpo ha di durezza
tanto più dicono che ha l’essenza della terra… Secondo il
significato che danno i filosofi a questo nome, la terra si
definisce secondo tre diversi generi. Essa può presentarsi come
pietra, come corpo metallico, come terra lavorata; e laloro
discordia verte solo sulla fusione dei corpi metallici, quali il
bronzo, lo stagno, il piombo; alcuni di loro dicono che questi non
sono formati in maggior parte di terra, ma di acqua… La divisione
anzidetta, fra corpi in pietra e in metallo e terra lavorata, ancora
prescinde da quelli che sono i corpi fisici in senso vero e proprio:
se aggiungessimo questi, dovremmo dire che tutti i legni e molte
parti dei frutti e anche degli animali hanno natura di terra (per
esempio, delle frutta i noccioli delle olive, i vinacciuoli
dell’uva, gli involucri delle noci e delle pigne, e molte altre cose
simili; degli animali le ossa, le corna, i denti).
GALENO, De plenitudine, 3, VII, p. 525 seg. Kühn = SVF II, 439-440
Quelli che hanno parlato per primi di una forza di coesione, gli
Stoici, hanno fatto però due cose diverse di ciò che opera e ciò che
subisce questa azione: ciò che procura la coesione è la sostanza del
soffio vitale, ciò che ne subisce l’azione è la sostanza materiale.
Perciò dicono che l’aria e il fuoco sono forze attive, la terra e
l’acqua elementi passivi… Questa causa che fa stare insieme il
tutto… la comprendono fra le cose che sono o fra quelle che non
sono?… Se fra quelle che sono, si ricordino di aver detto che tutto
ciò che è richiede una causa essenziale (συνεκτικόν87) per il suo
stesso poter essere. Allora avverrà che la stessa causa abbia
bisogno, per il suo essere, di un’altra causa, e questa ancora di un
altra, e così si andrà all’infinito. Ma se poi dicessero che delle
cose che sono alcune hanno bisogno di una causa e altre sussistono
di per sé, andrebbero contro il loro assunto iniziale… Né i medici
erofilei88 né, poi, gli Stoici89 adducono alcuna dimostrazione
del loro sostenere che il soffio vitale e il fuoco sono capaci di
tenere insieme se stessi e tutte le altre realtà, mentre l’acqua e
la terra necessitano qualcosa all’infuori di sé per la loro
coesione.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixtione, p. 223, 25 segg. Bruns =
SVF II, 441
Se le cose stanno così, come potrebbe esser vero che il tutto è
assolutamente uno e sta tutto raccolto insieme per via del soffio
vitale che tutto lo percorre?… E che cos’è quella tensione del
soffio vitale che lega fra loro le realtà creando continuità fra le
parti affini e ponendo a contatto le cose giustapposte?… Se poi il
soffio vitale che tiene insieme i corpi è causa del loro non
disgregarsi ma star compatti, si dovrebbe dire che quelle parti dei
corpi che si disgregano non hanno come elemento collegatore il
soffio vitale.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixtione, p. 224, 14 segg. Bruns =
SVF II, 442
Inoltre, se il soffio vitale, derivante da aria e fuoco, abita in
tutti i corpi, 〈per il fatto che〉90 si mischia con essi tutti e
l’essere di ognuno di essi dipende dal soffio vitale, come potrebbe
questo esser ritenuto un corpo semplice? Come, se esso deriva in
secondo luogo da altri corpi che sono semplici, l’aria e il fuoco,
per il loro mischiarsi, senza di cui non esiste alcun altro corpo?
Se il soffio vitale viene all’essere in virtù di essi, ma nessun
altro corpo può esistere senza il soffio vitale, non si può porre
nessun altro corpo che sia anteriore a questo; allora però, non
essendovi alcun altro corpo prima di esso, nemmeno il soffio vitale
potrebbe nascere. E come si potrebbe dire che anche nel freddo vi è
in atto un qualche calore? quale sarebbe quel suo movimento verso il
contrario, movimento in virtù del quale, come essi dicono, il soffio
vitale, insieme di per sé e rivolto in sé, fa coesistere la realtà
nella quale è insito?
PLOTINO, Enn., IV, 7, 3, 25 segg.; 4, 1 segg. = SVF II, 443
Spinti dalla forza della verità, anche costoro devono ammettere che,
anteriormente a ciò ch’è corporeo, deve esserci qualcosa di
migliore, una certa forma di anima, e perciò affermano resistenza di
un soffio vitale intelligente e di un fuoco intellegibile: come se
senza fuoco o soffio vitale non ci potesse essere nei corpi una
parte superiore come se questa dovesse cercare un luogo in cui
collocarsi!… E, se essi affermano che la vita e l’anima non sono
altro che soffio vitale, che cosa è mai quel loro famoso «modo di
essere» in cui si rifugiano quando sono costretti ad ammettere che
c’è una natura attiva differente dai corpi? Se non è possibile che
il soffio sia sempre anima, dal momento che ci sono infinite forme
di soffio senza che ci sia anima, essi dovranno definire l’anima una
forma di soffio secondo un certo modo di essere; questo modo di
essere e questo stato, poi, dovranno chiarire se appartiene o no
all’essere; se non vi appartiene, è chiaro che c’è solo il soffio, e
che il «modo di essere» è puro nome. E allora accadrà ad essi di non
poter parlare altro che dell’esistenza della materia: e dovranno
dire che nient’altro sono l’anima e la divinità, che tutto il resto
non è che nome, e che la materia sola esiste91.
PLUTARCO, De comm. not., 49, 1085c = SVF II, 444
Mentre chiamano i quattro corpi, terra acqua aria fuoco, elementi
primi, non so poi come ne giudichino gli uni puri e semplici, gli
altri composti e misti. Infatti dicono che la terra e l’acqua non
sono atte a tener insieme né se stesse né gli altri elementi, ma
conservano la loro unità in quanto partecipano della forza propria
del soffio e del fuoco; invece l’aria e il fuoco stanno consistenti
insieme in virtù di una loro valida tensione (εὐτονία) intrinseca, e
procurano agli altri due elementi, mischiandosi con essi, la
tensione, la stabilità, la sussistenza stessa92.
Scholia in HESIOD., Theog., v. 120, p. 27 Di Gregorio = SVF II, 445
Dopo aver parlato di tre elementi cita il quarto; il fuoco, che
afferma essere amore in forma demonica: per sua natura tende ad
armonizzare e ad unificare93.
GALENO, De tremore, palp., convuls., 6, VII, p. 616 Kühn = SVF II,
446
Se noi riteniamo che elementi del corpo non siano corpuscoli e pori
… ma riteniamo che il corpo sia tenuto insieme da un soffio e come
confluente in se stesso, il calore non può esser considerato
sopravveniente dal di fuori, né posteriore alla nascita dell’essere
animato, ma primo, fonte di vita, innato. La natura e l’anima non
sono altro che questo, e non si sbaglierebbe a definirle sostanza
che muove se stessa e sostanza che si muove sempre… Essendo sempre
in movimento, il calore innato non è mosso solo soltanto
dall’interno o dall’esterno, ma in esso sempre un movimento ne
accoglie un altro: infatti la sua stabilità interna potrebbe
portarlo all’immobilità, quella esterna potrebbe dividerlo e in tal
modo distruggerlo. Invece, spegnendosi e accendendosi secondo certe
misure, come dice Eraclito94, si conserva perennemente in moto. Si
accende col suo tendere al basso per cercare alimento, si spegne col
suo sollevarsi e disperdersi da tutte le parti. Ma possiede il
movimento verso l’alto e quello verso l’esterno e quasi, si potrebbe
dire, una forma di dispiegamento a partire dal principio proprio,
perché è caldo per natura; e il movimento verso il basso e interno
cioè il processo verso il proprio principio, lo possiede perché in
qualche modo partecipa del freddo; infatti è misto di caldo e di
freddo: di caldo, secondo la sua prima ragione, in quanto è dotato
di movimento spontaneo e ha bisogno soprattutto di questo per le sue
operazioni attuali; tuttavia anche il freddo gli offre grande
utilità. Per sua natura il caldo è portato ad innalzarsi e a
procurare insieme con sé il nutrimento; se non gli facesse da
ostacolo il freddo; arriverebbe al più alto grado; ma il freddo
sopravviene a impedire che questo movimento proprio del caldo si
estenda in tal maniera da portarlo a distruzione. Il pericolo è,
infatti, che non se ne vada addirittura dai corpi per la sua
leggerezza e il grande impulso a salire; è il freddo che lo
trattiene, e impedisce ciò, e toglie violenza a questo movimento
eccessivo.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, V, 8, 48, 1, p. 358 Stählin = SVF
II, 447
«Sfinge» non è, come dice il poeta Arato, la comprensione
dell’universo e il movimento complessivo del cosmo, ma piuttosto la
tensione del soffio vitale che tutto percorre e tiene insieme
l’universo; meglio ritenere che sia l’etere, che tiene tutto insieme
e tutto insieme costringe: come dice Empedocle: «la terra e il mare
ricco di onde e l’umida aria, e il Titano etere che tutto stringe
insieme in circolo»95.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mantissa, p. 131, 5
Bruns = SVF II, 448
In generale presenta molte difficoltà il discorso intorno alla
dottrina del movimento per tensione. In primo luogo, essendo
uniforme, muove se stesso spontaneamente, il che si dimostra
impossibile per chi prenda in esame i movimenti singoli delle cose.
In secondo luogo, poiché abbraccia in un solo essere il cosmo nel
suo insieme e le cose che sono in esso, e tiene insieme le singole
realtà parziali dei corpi, come non dovrà esser lo stesso moto a
produrre i movimenti opposti?
GALENO, De musc. mot., I, 7, IV, p. 400 Kühn = SVF II, 450
In primo luogo svolgiamo l’argomentazione così come costoro
insegnano. Supponiamo che un corpo di quelli privi di anima —
pietra, per esempio, o legno — si muova tirato da qualcos’altro, e
supponiamo ancora che un corpo simile a sua volta sia tratto al
movimento contrario, sempre per l’azione diun altro corpo, di modo
che con la nuova forza si domini il precedente moto di trazione e il
corpo segua perciò la nuova direzione di movimento, ma in ogni caso
muovendosi meno velocemente che non se fosse tirato in senso
opposto. Immaginiamo poi di porre per un corpo in simili condizioni
un terzo stato, che cioè esso sia proteso con la stessa forza verso
parti opposte. Ora, non è forse vero che nella prima situazione il
corpo si muove, in quanto lo può la forza del movente, e lo
costringe a procedere per quanta distanza quanto è capace il movente
di spingerlo, nella seconda situazione il corpo si muove per una
distanza tanto minore quanto l’uno dei due movimenti è capace di
contrastare spingendo in direzione opposta, nella terza situazione,
in quanto il primo moto porta in avanti e il secondo moto respinge
indietro contrastandogli, di necessità il corpo resta nello stesso
luogo, e non tuttavia come se fosse del tutto privo di movimento? in
questo caso esso resterebbe del tutto immobile, invece nel caso che
abbiamo descritto ha un movimento doppio, come se fosse uno che
nuota in senso opposto rispetto alla corrente di un fiume: costui,
anche se fosse della stessa forza rispetto alla corrente del fiume,
rimarrebbe sempre nello stesso luogo… Non è dunque vero che in
simili situazioni il corpo si muove sia verso l’alto sia verso il
basso soggetto in parte ad affezioni contrarie, e per il fatto che i
cambiamenti sono rapidi ed alacri e i moti avvengono con intervalli
brevissimi sembra restare nello stesso luogo, o addirittura in
realtà lo occupa per tutto il tempo?… Ci basti per ora aver
esaminato come si produce questo e un siffatto tipo di atto, sia che
lo si voglia chiamare «di tensione» sia in altro modo…
NEMESIO, De nat. hom., 2, 42, P. G. XL, col. 539 = SVF II, 451
Se essi dicessero, come gli Stoici, che vi è un movimento di
tensione nei corpi, che si attua in direzione interna e in direzione
esterna, e che quella esterna sia produttrice di grandezze e di
qualità, quella interna di unità e di sostanza … e se poi dicessero
che come il corpo ha tre dimensioni anche l’anima, che scorre
per tutto il corpo, ha tre dimensioni e per questo è in tutto e per
tutto un corpo…
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 269, 14 segg. Kalbfleisch = SVF II,
452
Gli Stoici affermano che esiste una forza, o meglio un movimento, di
condensazione e rarefazione, l’uno verso l’interno l’altro verso
l’esterno; e dicono che l’uno è causa dell’essere, l’altro della
qualità.
FILONE ALESSANDRINO, De sacr. Abel, 68, Ι, p. 230, 5 segg. Wendland
= SVF II, 453
… muovendosi non di movimento di traslazione, sì da assumere o
abbandonare un luogo, ma di quel movimento che si dice «di
tensione».
CLEOMEDE, De motu circ. corp. caelestium, p. 46, 20 segg. Ziegler =
SVF II, 455
Non ci sono che i corpi solidi che possano assumere una varietà di
figure; quando la materia è aerea o ignea e non vi è all’esterno
alcun impedimento ciò non può avvenire. È del tutto plausibile che
essa raggiunga la figura sua propria per natura in virtù della
tensione, che fa sì che si estenda da ogni parte ugualmente a
partire dal proprio centro, dal momento che la sua sostanza è
cedevole e non c’è alcun altro solido chela forzi ad assumere una
forma diversa. E se l’aria ha figura sferica, necessariamente è una
sfera anche l’etere che si effonde intorno ad essa e non è spinto da
alcun corpo solido ad assumere angoli né da alcuna forza a stendersi
in lunghezza96.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 264, 34 segg. Kalbfleisch = SVF II,
456
Gli Stoici dicono che è la tensione a produrre la figura, così come
anche la distanza intermedia fra i punti. Perciò definiscono la
linea retta quella che è tesa verso gli estremi97.
GALENO, De dignosc. puls., IV, 2, VIII, p. 923 Kühn= SVF II, 457
Quanto alla tensione, non c’è accordo intorno ad essa: ciò che si
dice della tensione per i corpi degli esseri viventi non può
convenire a coloro che frammentano la sostanza universale in
corpuscoli minimi, o indivisibili, o privi di agganci che siano98.
Riescono ad accordarsi su questo punto solo coloro che — e sono i
soli — parlano di una tensione assolutamente unica.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. alleg., II, 22, Ι, p. 95 Wendland = SVF
II, 458
L’intelletto … ha più capacità, quella di sussistere, quella
generativa, quella psichica, quella logica, quella dianoetica, e
altre infinite secondo generi e specie. La tendenza a sussistere è
comune anche agli esseri inanimati, e di essa partecipano anche
quelle parti in noi che sono simili alle pietre, cioè le ossa. La
tendenza generativa si estende anche alle piante; e in noi ci sono
parti che sono simili alle piante, per esempio le unghie e i
capelli: la loro natura è dotata per l’appunto di questa capacità di
movimento. L’anima è una natura particolare che può giungere alla
formazione di rappresentazioni e di impulsi; essa è comune anche
agli animali privi di ragione. Anche il nostro intelletto ha
qualcosa di analogo all’anima dell’animale privo diragione: ma poi
la capacità raziocinante è propria dell’intelletto, e quella logica
si può dire comune a noi e agli esseri più divini di noi, sebbene si
possa dire che nei mortali è propria dell’essere umano. Ed è doppia:
c’è infatti la facoltà logica in base alla quale partecipiamo
dell’intelletto e quella mediante la quale partecipiamo del
discorso99.
FILONE ALESSANDRINO, Quod Deus immut., 35, II, p. 64Wendland = SVF
II, 458
Dei corpi alcuni sono tenuti insieme da disposizione a sussistere,
altri dalla natura, altri dall’anima, altri dall’anima razionale.
Dei corpi lignei o di pietra, che hanno la loro forza interna per
una sorta di coesione naturale, egli ha fissato con arte100 a
solidissimo legame la disposizione a sussistere; essa è il soffio
vitale nel suo atto di volgersi in se stesso. Comincia dal centro a
tendersi verso gli estremi, e toccate le superfici estreme si volge
indietro fino a ritornare nel luogo donde ha preso le mosse. E
proprio della disposizione a sussistere un tipo di corsa doppia,
eterna e indistruttibile, imitando la quale i corridori alle feste
triennali, nei comuni teatri di tutti gli uomini, danno uno
spettacolo grande e splendido e molto ambito. La natura la distribuì
alle piante producendola in base alla mistione di più capacità, la
nutritiva, la trasformativa, la accrescitiva… Quanto all’anima, il
creatore la fece differenziata in se stessa secondo tre diverse
capacità, sensazione, rappresentazione, impulso. La sensazione, come
spiega il nome stesso, essendo una specie di salto101, porta alla
mente ciò che appare; la mente poi è come un immenso ripostiglio e
recipiente che accoglie tutto in sé, e in esso è riposto come in
tesoro tutto ciò che si arriva a possedere mediante la vista o
l’udito o altri organi di senso. La rappresentazione è
un’impressione che si riceve nell’anima102: ciò che ciascuna
sensazione ha introdotto in noi imprime in essa il suo carattere
proprio come farebbe un anello o un sigillo. Simile a cera, la mente
conserva l’impronta fedelmente in sé fino a che il nemico della
memoria, l’oblio, spianando l’impronta, la rende oscura o la
nasconde del tutto. Ciò che appare alla rappresentazione e che
produce un’impronta influisce diversamente sull’anima, talvolta
destando in essa una disposizione appropriata, talvolta una
disposizione opposta. Questo accidente che l’anima subisce si chiama
impulso, quello che è stato definito come il primo movimento
dell’anima. Ecco quindi che per tali e tante proprietà gli esseri
umani sono superiori ai vegetali; ma vediamo a quali degli altri
esseri viventi siano pure superiori. Come suo attributo particolare
e specifico l’uomo ebbe il pensiero, in virtù del quale può
comprenderela natura diversa di tutti quanti gli altri esseri, dei
corpi come degli eventi. Così come nel corpo la parte direttiva è la
vista, e nell’universo lo è la luce, allo stesso modo ciò che
governa in noi è l’intelletto: esso è la vista dell’anima, che
risplende di raggi propri, e in virtù di questa si lacera la grande
e profonda tenebra che l’ignoranza delle cose raccoglie in sé.
CRITOLAO, presso FILONE, De aetern. mundi, 75, VI, p. 96 Cohn-Reiter
= SVF II, 459
Come non si potrebbe dire sempiterna la natura del cosmo se essa è
«ordinamento delle cose disordinate, armonia degli elementi
disarmonici, concordia degli elementi discordanti, unificazione di
ciò ch’è diviso, forza di coesione dei legni e delle pietre, natura
generativa di arbusti ed alberi, anima di tutti gli esseri viventi,
intelletto e ragione dell’uomo, virtù perfettissima dei saggi»103?
GALENO, De nat. facult., II, 3, II, p. 82 Kühn = SVF II, 462
Quella natura che ha foggiato tutte le cose e rapidamente le fa
crescere in ogni modo, si protende anche attraverso tutti i singoli
esseri: essa foggia infatti tutte le cose in tutte le loro parti e
le nutre e le custodisce, interiormente e non solo esteriormente…
Non vi è nella natura alcuna parte che non sia plasmata, foggiata,
ordinata.
GALENO, In Hippocr. de nat. hom., I, 2, XV, p. 32 Kühn = SVF II, 463
Alcuni dicono che solo le quattro qualità fondamentali si mescolano
fra loro per l’universo: altri affermano che si mescolano anche le
sostanze. Alla prima opinione si attengono i Peripatetici, alla
seconda gli Stoici.
GALENO, De elem. sec. Hippocr., I, 9, I, p. 480 Kühn = SVF II, 464
Ma non è necessario che i medici apprendano come le sostanze si
mescolino le une con le altre, se si tratti solo delle qualità
prime, come suppose Aristotele104, oppure se penetrino le une nelle
altre anche le sostanze corporee.
PLUTARCO, De comm. not., 37, 1077e = SVF II, 465
È contro la comune opinione affermare che un corpo possa essere il
luogo di un altro corpo o in altri termini che un corpo penetri
attraverso un altro senza che sia interposto alcun vuoto, ma
supponendo che il pieno penetri attraverso il pieno, e che accolga
ciò che sopravviene a mischiarsi non avendo nessuno spazio vuoto
entro di sé, per la sua assoluta continuità; dicono sciocchezze
quelli che spingono non una sola cosa, né due, né tre o dieci, ma
tutte le parti del cosmo a comprimersi insieme su di un singolo
punto preso a caso, e negano105 che un sensibile minimo sia
inadattabile all’incontro con uno di grandissime proporzioni106.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixt., p. 219, 16 segg. Bruns = SVF
II, 466
Se questo è proprio e peculiare di un corpo, quelli che dicono che
un corpo può passare attraverso un altro, per il fatto stesso che
smentiscono questo principio (= che un corpo, estendendosi in tre
dimensioni, con l’aggiungersi a un altro ugualmente esteso lo
accresca), giacché dalla mistione di entrambi deriva talvolta un
corpo minore o uguale, si può dire che aboliscano gli stessi
princìpi fondamentali della natura del corporeo.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 530, 9 segg. Diels = SVF II, 467
Che un corpo passi attraverso un altro corpo gli antichi lo
considerarono un evidente assurdo: ma i seguaci della Stoa più tardi
lo sostennero come principio conseguente alle loro premesse, che
ritenevano dover essere valide sotto ogni aspetto: infatti, dal
momento che dicevano che tutto ciò che esiste è corporeo, così pure
l’anima e le qualità, e si accorgevano che l’anima e le qualità
penetrano i corpi per tutta la loro estensione, ammisero che, nelle
mescolanze, un corpo può penetrare attraverso un altro corpo… E
dicendo che i corpi si compenetrano reciprocamente non ritengono che
causa di ciò possa essere il vuoto.
FILONE ALESSANDRINO, De confus. ling., 184, II, p. 264 Wendland =
SVF II, 472
Si ritiene che la commistione (μῖξις) sia propria delle cose secche,
la mescolanza (κρᾶσις) delle cose umide. La commistione avviene fra
cose differenti fra loro, e non è una giustapposizione in ordine,
come sarebbe nella formazione di un mucchio l’insieme di chicchi o
grani o semi o altre specie del genere raccolte insieme. La
mescolanza anch’essa non è una giustapposizione, ma una
compenetrazione di parti dissimili che penetrano totalmente le une
nelle altre, in modo tuttavia che ancorain via artificiosa è
possibile distinguere le reciproche qualità, come dicono avvenire
dell’acqua e del vino: queste due sostanze, incontrandosi, producono
una mescolanza; tuttavia nonostante questo il prodotto della
mescolanza può ricostruirsi nelle due qualità distinte dalle quali
esso è derivato. Una spugna immersa nell’olio assorbirà l’acqua ma
respingerà il vino: forse ciò avviene perché la spugna è nata
dall’acqua, è quindi è proclive ad assorbire la sostanza cui è
apparentata, appunto l’acqua, e a respingere quella che le è
estranea, il vino. La fusione poi è un processo in cui si
distruggono le qualità originarie, che si compenetrano totalmente
nelle loro parti e producono un singolo effetto del tutto nuovo e
diverso, come avviene per esempio in medicina quando si produce il
tetrafarmaco107: lo formano, credo mischiati insieme, cera, sego,
pece, resina; ma quando sono mischiati è poi impossibile risolverli
negli elementi originari: ciascuno di essi si è dissolto, e la
distruzione di essi ha dato luogo alla formazione di un’altra realtà
con proprietà del tutto peculiari.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixt., p. 226, 34 segg. Bruns = SVF
II, 475
Sono stato spinto a dire ciò a causa di quelli che contraddicono la
dottrina di Aristotele circa il quinto corpo e tentano di opporsi
alle sole cose dette in maniera conveniente a proposito delle realtà
divine per pura invidia, senza accorgersi quale sia il fondamento
primo delle assurdità che conseguono alle loro affermazioni, da cui
dipendono le principali e più importanti fra le loro credenze
filosofiche e su cui si basa il loro mirabile principio che un corpo
può passare attraverso un altro corpo. Non verte su altro oggetto il
loro ragionamento relativo alla mescolanza, ma dipendono da esso
anche le loro dottrine sull’anima, e 〈da esso〉 deducono la loro
prova circa la famosa teoria del destino e della provvidenza
universale; e così pure la loro (dottrina) dei princìpi108 e quella
dell’unità del tutto e della simpatia universale di esso con se
stesso. Tutto questo per loro non è altro che la divinità che scorre
attraverso la materia. E tale principio, che un corpo possa passare
attraverso un altro, dal quale dipendono quasi tutte le convinzioni
proprie della loro scienza della natura, sostenuto contro le
prenozioni comuni e contro le opinioni di tutti i filosofi, riceve
secondo loro una prova di tipo evidente dal fatto che il ferro,
quando sia infuocato, non si accende e si infiamma come quelle cose
delle quali il fuoco 〈si serve〉 come materia di combustione, ma il
fuoco si suppone scorrere per tutto il ferro stesso insieme con
quella materia in virtù della quale, poiché essa è affine al ferro,
può scaldarlo e accenderlo109.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mantissa, p. 140, 10
segg. Bruns = SVF II, 477
Se è vero che tutte le realtà si protendono per l’estensione di
tutte le altre (con cui si mischiano), le più piccole per le più
grandi fino all’estremo della loro superficie, il luogo occupato in
precedenza da una di esse, sarà poi occupato dalla mistione di
entrambe… E se il luogo è uguale, anch’esse sono uguali di
grandezza, e quelle da cui risulta la mistione saranno uguali l’una
all’altra, e la mistione derivata da entrambe a ciascuna di esse:
per esempio un vaso di vino versato nel mare sarà di estensione
uguale al mare, e il mare insieme col vaso lo sarà al solo vaso. Non
ha nessun significato dire che non è però uguale quanto a capacità:
in ordine al discorso esposto prima risulta che si tratta di
uguaglianza secondo la quantità. Inoltre, non si può dire che il
fuoco penetri attraverso il ferro più di quanto il ferro non penetri
attraverso il fuoco: e infatti anche l’anima penetra attraverso il
corpo, e la vita naturale attraverso le piante, e la forza di
coesione attraverso gli altri esseri, e viceversa. E dal momento che
tutte le cose, sia le più spesse sia le più leggere, sono ugualmente
esenti da vuoto, in questo processo di compenetrazione non c’è
rarefazione o condensazione… Inoltre, qual è la causa per cui,
mischiandosi certe realtà fra loro, il volumesi accresce, e
mischiandosi certe altre diminuisce? È infatti un controsenso
dire che il ferro diviene più spesso per il suo mischiarsi col
fuoco.
PLOTINO, Enn., II, 7, 1, 23 segg. = SVF II, 478
Quelli che sostengono che la mescolanza delle cose è totale,
potrebbero rispondere che i corpi si dividono, ma senza dissolversi
in frammenti, anche nel caso di una mescolanza completa di tutto:
anche il sudore, per esempio, cola senza produrre tagli nel corpo e
senza che questo si apra in fori. E se qualcuno dicesse che nulla
vieta di pensare che la natura abbia fatto il corpo in maniera tale
che il sudore possa passarvi attraverso, si può obiettare che anche
negli oggetti fabbricati avviene che, quando essi sono sottili e
continui, si possa vedere come un liquido li impregni completamente
sì da passare da parte a parte. Trattandosi di corpi, non è facile
comprendere come possa avvenire questo penetrare l’uno nell’altro
senza produrre divisione; è evidente però che, se avvenisse
divisione, si distruggerebbero reciprocamente. Quando si dice che
non vi è accrescimento di volume, rispondono che ciò avviene a causa
dell’uscita dell’aria dai corpi che si mischiano; se invece
l’estensione di tali corpi nella mistione aumenta, pur essendo
difficile rendersene ben conto, è sempre possibile affermare che in
questo caso ciascuno dei due corpi apporta alla mistione la propria
grandezza insieme con altre qualità e che perciò necessariamente
avviene accrescimento di volume. Infatti la grandezza non si
distrugge dopo la mistione, come non si distruggono le altre
qualità; e così come dalla qualità deriva una forma ulteriore
commista delle qualità di entrambi i corpi, così ci sarebbe anche
un’altra grandezza, prodotta da un altro tipo di mistione, quella
fra le grandezze di entrambi… Resta il caso in cui un corpo minore
penetri attraverso uno maggiore, o il corpo più piccolo 〈attraverso〉
il più grande110; se tale miscuglio si verifica in una maniera
evidente — se non è evidente è sempre possibile dire, prevedendo
l’obiezione, che l’un corpo non si estende completamente attraverso
l’altro — quando la mescolanza si rivela chiaramente, non è
possibile cavarsela così; e allora essi potrebbero rispondere che si
tratta dell’estensione di corpuscoli. Ma è inverosimile parlare di
una simile estensione per una massa piccolissima: è assurdo che essi
vogliano attribuire ai corpi, nel loro reciproco trasformarsi, un
aumento di grandezza, per esempio nel passare dall’acqua all’aria.
PLUTARCO, De comm. not., 38, 1079a = SVF II, 484
Tutti gli uomini pensano così finché non siano divenuti Stoici; ma
una volta divenuti tali devono pensare che l’uomo non consta di un
maggior numero di parti di quante non ne consti il dito, né
l’universo di un numero maggiore di parti rispetto all’uomo: lo
Stoico infatti porta all’infinito il principio della divisione, e
dato un numero infinito di cose non esiste in esse né un più né un
meno, né vi è sovrabbondanza in quantità o al contrario una
cessazione della divisione nella parte residua, sì che si possa
parlare di un insieme di parti costituenti di per sé una certa
molteplicità.
PLUTARCO, De comm. not., 38, 1078e = SVF II, 485
È infatti contro l’opinione comune il ritenere che non vi sia nella
realtà naturale dei corpi alcun estremo, né 〈una
parte〉111 prima né una parte ultima in cui venga a cessare la
grandezza, ma che 〈qualcosa〉112 che sta costantemente al di là di
ciò che si comprende riduca l’oggetto all’infinito e indeterminato.
PLUTARCO, De comm, not., 40, 1080d-e = SVF II, 486-487
È contro la comune opinione l’affermazione che nulla tocca alcuna
cosa; ma è non meno assurdo il dire che un corpo tocca l’altro ma
con qualcosa che non è nulla; eppure devono arrivare per forza a
questa conclusione quelli che dicono che non esistono parti minime
dei corpi, ma sempre assumono qualche parte come anteriore a ciò che
appare toccare alcunché né cessano mai di procedere oltre. Ciò che
essi obiettano in particolare a quelli che sostengono l’esistenza di
parti ultime indivisibili è che il contatto non può avvenire né fra
i corpi nella loro totalità né fra le parti di essi: l’una cosa
infatti provocherebbe non contatto ma mescolanza; l’altra non può
verificarsi perché non vi sono parti dei corpi indivisibili. Come
dunque può poi avvenire che essi stessi cadano in questo errore,
essi che non ammettono né parti prime né parti ultime? Perché essi
dicono che i corpi sono in contatto reciproco non con parti, ma con
limiti; e tuttavia il limite non è un corpo.
PROCLO, In Eucl. elem. libr., p. 89, 15 segg. Friedlein = SVF II,
488
Non si deve credere che questi limiti dei corpi esistano solo per
pura e semplice immaginazione, come supposero gli Stoici; è da
credersi invece che esistano realmente alcune siffatte nature nella
realtà113.
SIRIANO, In Arist. Metaph., p. 140, 6 segg. Kroll = SVF II, 490
Quando (i Pitagorici) dicono che la monade è forma delle forme,
indicano in essa la causa direttiva originaria, che comprende in sé
primariamente le forme di tutti i numeri; e anche gli Stoici non
esitarono a definirla come uno-molteplice114.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., II, 123 = SVF II, 491
Cominciamo ordinatamente il nostro discorso dalla prima posizione,
quella di coloro che dicono tutte le cose dividersi all’infinito. I
sostenitori di questa teoria dicono che il corpo che si muove tutto
intero in uno stesso tempo percorre una distanza divisibile, e non
occupa prima una prima parte di tale percorso, poi nell’ordine una
seconda in un secondo tempo; al contrario, percorre tutto insieme in
un tempo l’intera distanza divisibile.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., II, 52 = SVF II, 492
E dicono che il movimento è passaggio da luogo a luogo o del corpo
intero oppure delle parti costituenti il tutto.
GALENO, Method. med., I, 6, Χ, p. 46 Kühn = SVF II 494
Dopo aver detto che il movimento è cambiamento di una realtà
preesistente, dicono che tale cambiamento avviene o secondo qualità
o secondo luogo: e il cambiamento che riguarda il luogo chiamano
traslazione, quello che riguarda la qualità trasmutazione o
alterazione. Perciò la traslazione è cambiamento o mutamento o
scambio o trasmutazione di luogo; … l’alterazione è o trasmutazione
che riguarda la qualità o cambiamento della qualità preesistente115.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 1320, 19 segg. Diels = SVF II, 496
Gli Stoici dicevano, a proposito del movimento di qualsiasi tipo,
che in esso si nasconde il movimento locale; il quale consiste o in
intervalli grandi, oppure in intervalli tali che solo il pensiero li
può concepire116.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 306, 14 segg. Kalbfleisch = SVF II,
497
Plotino, e quegli altri che dalla consuetudine degli Stoici sono
passati alla setta di Aristotele117, dicono che l’elemento comune
del fare e del patire siano i movimenti.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 307, 1 segg. Kalbfleisch = SVF II,
498
E gli Stoici, dice Giamblico, non afferrano bene il movimento quando
dicono che il movimento si considera imperfetto non perché non sia
atto (esso è in verità atto), ma perché torna e ritorna di continuo
su se stesso, e non per metter capo a un atto (ciò che è di già) ma
per attuare un’altra realtà che è ad esso concomitante. Questo
affermano gli Stoici118.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 306, 18 segg. Kalbfleisch = SVF II,
499
E quando gli Stoici dicono che le differenze di specie sono da un
lato il muoversi di per sé, così come per esempio la spada ha la
facoltà di tagliare per sua propria costituzione (l’azione è
compiuta infatti secondo la sua figura e la sua forma), dall’altro
il dar luogo al movimento per proprio tramite, così come producono
azione le realtà naturali o le capacità mediche (ad esempio come
quando il seme riempie, gettato, i luoghi adatti, e insemina la
materia sottoposta e forma in essa le ragioni (λόγοι)), bisogna
prendere in considerazione anche il produrre di per sé, ossia in
generale il produrre secondo impulso proprio, in altra forma in base
a impulso razionale; e ancora più specifico è l’attuare qualcosa
secondo virtù.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 436, 3 segg. Kalbfleisch = SVF II,
500
Gli Stoici poi ritengono che siano cose differenti le une dalle
altre il rimanere, lo star calmo, il riposare, lo stare immobile,
l’esser privo di movimento (ἀκινητίζειν). Rimanere si dice non
riguardo a un solo momento, ma riguardo sia al presente sia al
futuro; e diciamo che è rimasto ciò che ha preso consistenza.
Qualche volta, essi dicono, usiamo dell’espressione rimanere anche
per il non muoversi, ma impropriamente: anche delle realtà
incorporee si potrebbe dire che «rimangono» invece di dire che «non
si muovono». Di tutti i corpi può esser proprio il rimanere; ma lo
stare calmo e il riposare sono accidenti non propri se non degli
esseri viventi; una pietra non sta calma, e il riposare riguarda
pure gli esseri viventi. Invece lo star fisso e immobile si dice dei
corpi che non hanno proprio per natura il muoversi, ed equivalgono
all’esser privi di movimenti.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., II, 7 segg. = SVF II, 501
Se vi è un alto e un basso, una destra e una sinistra, un davanti e
un dietro, vi è anche un luogo: queste sei direzioni sono parti del
luogo, ed è impossibile che, se esiste una parte di qualcosa, non
esista quel qualcosa di cui questa è parte. Ma alto e basso, destra
e sinistra, avanti e dietro, esistono nella natura delle cose: vi è
dunque il luogo. Se dove era Socrate, ora che Socrate è morto, vi è
un’altra persona, per esempio Platone, è chiaro che c’è il luogo.
Così come quando un’anfora si vuota del liquido che conteneva e ve
ne viene versato altro noi diciamo che l’anfora è il luogo dove
stavano prima l’uno e poi l’altro, così, se il luogo ove stava
Socrate quando era vivo è ora occupato da un altro, noi diciamo che
esiste il luogo. E in altra forma si può dire che, se c’è un corpo,
c’è anche il luogo; ma il primo è, quindi è anche il secondo119.
Inoltre, se dove per natura si muove ciò ch’è leggero non può
muoversi per natura ciò ch’è pesante, ciò vuol dire che vi è un
luogo proprio di ciò ch’è pesante e di ciò ch’è leggero; ma è il
primo, quindi è il secondo. Quanto al fuoco, dal momento che è per
natura leggero, è portato a muoversi verso l’alto, e l’acqua, per
sua natura essendo pesante, tende verso il basso: vi è quindi un
luogo per natura proprio a ciò ch’è pesante e a ciò ch’è leggero.
Così come sussiste la causa derivativa, e quella generativa, e
quella per cui qualcosa è, allo stesso modo esiste il luogo ove una
determinata cosa si verifica: la prima, ciò da cui l’essere deriva,
è la materia; la seconda, ciò che lo genera, è la causa vera e
propria; ciò per cui si verifica, poi, è il fine; vi è quindi anche
ciò in cui si verifica, e questo è il luogo. Gli antichi, nel
disegnare l’ordine dell’universo, posero il luogo come principio di
tutte le cose; partendo da questo punto Esiodo proclamava:
«all’inizio c’era il caos, e poi la terra dal largo seno, stabile ed
eterna sede di tutte le realtà»120. E per caos intendeva il luogo
che accoglie in sé tutte le cose: senza presupporre questo non
sussisterebbero né la terra né l’acqua né gli altri elementi, né
potrebbe sussistere l’universo nella sua totalità, e anche se, per
atto di immaginazione, abolissimo tutte le cose, non potremmo
abolire il luogo in cui esse sussistono, ma questo resterebbe,
dotato di tre dimensioni, la lunghezza la profondità la larghezza,
senza però la solidità, perché questa è proprietà dei corpi.
PS. GALENO, De qualit. incorp., 1, XIX, p. 464 Kühn = SVF II, 502
Che questa proprietà (dico l’esser di tre dimensioni) sia comune al
corpo, al vuoto, al luogo, gli Stoici devono necessariamente
ammetterlo, dimostrando con ciò che ammettono resistenza del vuoto
nella natura delle cose, anche se dicono che non c’è vuoto
nell’universo.
AEZIO, Plac., I, 20, 1 Dox. Gr. p. 317 = SVF II, 504
Gli Stoici … dicono che differiscono fra loro il vuoto, il luogo, lo
spazio: e che il vuoto è dove manca un corpo, il luogo dove è
contenuto un corpo, lo spazio (χώρα) ciò che lo contiene
parzialmente, così come un’anfora contiene il vino.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., II, 3 = SVF II, 505121
Gli Stoici dicono che il vuoto è ciò che potrebbe contenere un
essere, ma in realtà non lo contiene, oppure un intervallo privo di
corpo, oppure un intervallo non occupato da corpo; il luogo ciò che
è occupato da un corpo che sia uguale per estensione al contenente
(per «un essere» intendono un corpo, come è chiaro dal fatto che le
due parole sono interscambiabili). Spazio chiamano poi l’intervallo
che in parte è occupato e in parte non è occupato da un corpo.
Alcuni poi di essi122 hanno definito spazio «il luogo più
grande del corpo», nel senso che spazio e luogo differiscono in
quanto il secondo non comporta l’ammissione della grandezza per il
corpo contenuto (si chiama luogo anche se contenga un corpo minimo),
mentre il primo comporta una grandezza considerevole del corpo che
in esso è contenuto.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 361, 7 segg. Kalbfleisch = SVF II,
507
Giamblico si chiede per prima cosa se siano le cose esistenti nel
luogo a definire il luogo stesso, che è intorno ad esse o
concomitante ad esse; oppure se sia il luogo a definire le cose, in
quanto è quello che le delimita; e dice: «se, come dicono gli
Stoici, il luogo preesiste ai corpi, esso prende anche la sua
definizione da essi per quel tanto che è riempito dai corpi».
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 571, 22 segg. Diels = SVF II, 508
O è necessario che il luogo sia la forma di ciò che è nel luogo
stesso, o la sua materia, o l’intervallo che sta fra gli estremi del
contenente (definizioni che diedero fra i più antichi Democrito, fra
i più recenti Epicuro e gli Stoici, e così pensarono anche alcuni
della scuola di Platone), oppure gli estremi stessi del contenente…
Democrito ed Epicuro coi loro discepoli ritennero che vi sia il
vuoto, sì che non si riempia mai completamente dicorpi e continui a
sussistere; i Platonici e gli Stoici ritennero che esso sia qualcosa
d’altro al di là dei corpi123, e che tale sia la natura dei corpi da
non lasciar sussistere alcun vuoto.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, VI, p. 89 Cohn Reiter = SVF
II, 509
… sì che si può rettamente concedere ciò a quelli che sono soliti
definire il tempo «intervallo del movimento cosmico».
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi., 54, VI, p. 89
Cohn Reiter = SVF II, 509
E forse qualche Stoico in vena di nuove definizioni dirà che si deve
ammettere che il tempo è intervallo del movimento cosmico, non solo
del cosmo già ordinato, ma di quello che si può congetturare dopo la
conflagrazione.
FILONE ALESSANDRINO, De opif. mundi., 26, I, p. 8, 7segg. Wendland =
SVF II, 511
Non vi era il tempo prima dell’universo; questo è nato o insieme con
esso o dopo di esso. Dal momento che il tempo è l’intervallo del
movimento cosmico, non potrebbe esserci movimento anteriore a ciò
che è mosso; necessariamente il movimento si determina o insieme o
posteriormente; ed è quindi necessario ammettere che il tempo sia o
coevo all’universo o posteriore ad esso124.
AEZIO, Plac, I, 22, 7, Dox Gr. p. 318 = SVF II, 514
I più fra gli Stoici affermano che essenza del tempo è il movimento.
SESTO EMPRICO, Adv. physicos, II, 170 = SVF II, 513
Alcuni poi hanno detto che il tempo è intervallo del movimento
dell’universo.
PLUTARCO, Quaest. plat., 8, 1007a = SVF II, 515
Bisognerebbe allora dire che quelli che sono turbati da queste cose
per ignoranza credono che il tempo sia «misura del movimento e
numero che procede per antecedenti e conseguenti», come dice
Aristotele125, o «quantità in movimento», come dice Speusippo126, o
«intervallo del movimento» e nient’altro, come definiscono alcuni
Stoici in base a proprietà accidentali, non comprendendo né la sua
essenza né la sua funzione.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 700, 16 segg. Diels = SVF II, 516
È oscura la sua essenza, anche se alcuni ritengono che il tempo sia
movimento e traslazione circolare dell’universo … alcuni addirittura
la sfera del cielo, come i Pitagorici raccontano che dicessero
alcuni che forse avevano male compreso l’insegnamento di Archita,
secondo il quale in generale il tempo è intervallo della natura
dell’universo, o come dicevano alcuni degli Stoici127.
PLUTARCO, De comm. not., 41, 1081c = SVF II, 519
È contro la comune opinione dire che il tempo è in quanto passato e
futuro, ma quello presente non è in realtà tempo; che cioè il dopo e
il prima sono, ma l’adesso in realtà neanche c’è. Questo è proprio
degli Stoici, i quali non ammettono un tempo minimo né ritengono che
ci sia un «adesso» indivisibile, ma dicono che quello che si riesce
a pensare come se fosse presente è in realtà parte futuro, parte
passato128.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 140 = SVF II, 520
Sono simili anche questi incorporei, fra i quali è il tempo: esso è
intervallo del movimento del cosmo. Di esso passato e futuro sono
infiniti, il presente è finito.
PROCLO, In Plat. Tim., III, p. 95, 7 segg. Diehl=SVF II, 521
Dalle cose anzidette si può inoltre comprendere questo, che il tempo
per Platone è da pensarsi in una maniera ben diversa da quella degli
Stoici o anche di molti fra i Peripatetici: gli uni, per pura e
semplice immaginazione, supponendo essere esso qualcosa di effimero
e molto vicino al non essere (il tempo è infatti per loro uno degli
incorporei, che sono da loro disprezzati come incapaci di produrre
effetto e in realtà privi di essere e consistenti in pure formazioni
mentali); gli altri dicendo che esso è un accidente del movimento.
AEZIO, Plac., II, 1, 7, Dox. Gr., p. 328 = SVF II, 522
Gli Stoici dicono che differiscono fra loro il tutto (πᾶν) e
l’universo (ὅλον): il tutto comprende il vuoto infinito, l’universo
è il cosmo, senza tener conto del vuoto.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 332 = SVF II, 524
E i filosofi della Stoa dicono che l’universo è altra cosa dal
tutto: definiscono universo il cosmo, tutto il cosmo con il vuoto
che lo circonda; perciò l’universo è delimitato, il cosmo è infatti
finito; invece il tutto è infinito, perché tale è il vuoto che si
trova al di fuori del cosmo.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 336 = SVF II, 524
Quanto al rapporto fra la parte e il tutto, per gli Stoici non è di
identità, ma neanche di alterità: la mano infatti non è l’uomo ma
non è altro rispetto ad esso: è solo con le mani che un uomo può
esser pensato in quanto tale129.
PLUTARCO, De comm. not., 30, 1073d = SVF II, 525
È in generale assurdo, e contrario all’opinione comune, dire che
qualcosa è, ma che è un non essere; 〈costoro〉, affermando 〈che molte
cose sono un qualcosa〉, ma in pari tempo che non esistono, arrivano
al massimo dell’assurdo quando estendono questo discorso alla
totalità dell’universo130. Supponendo che un vuoto esterno sia
intorno al mondo, dicono che l’universo non può dirsi né corporeo né
incorporeo; ma a ciò consegue che il tutto non sia, perché essi
stessi chiamano col nome di essere in senso proprio solamente ciò
che è corporeo, giacché esso ha la capacità di produrre o di subire
alcunché; ora, se l’universo è un non essere, vuol dire che
l’universo non può esser causa di null’altro e neanche può essere
effetto… Così di necessità essi devono affermare che l’universo non
si trova né in stato di quiete né in stato di moto… Devono anche
riconoscere che non può essere né animato né inanimato… Quindi
costoro vengono a dire che l’universo non è perfetto: ciò ch’è
perfetto è infatti finito, e quindi il tutto è imperfetto a causa
della sua infinitudine; vi è quindi per essi qualcosa che non è né
imperfetto né perfetto. Ma il tutto non può essere neanche parte,
giacché non c’è nulla che sia più grande di esso; neanche
l’universo, come essi dicono. L’universo infatti si predica di una
entità finita, mentre il tutto per la sua infinitudine è qualcosa di
indeterminato e di disordinato. Quindi non vi è qualcosa di altro
che sia causa del tutto, perché il tutto non ammette l’esistenza di
qualcosa che sia altro al di fuori di sé; e se non di altro, neanche
può esser causa di se stesso. Non gli è proprio per natura il
produrre; ma il concetto di causa si pensa di ciò che è produttivo.
ARIO DIDIMO, presso EUSEBIO, Praep. evang., XV, 15, segg. (Dox. Gr.,
p. 464) = SVF II, 528
Essi affermano che la divinità non è altro che il cosmo in tutte le
sue parti: e dicono che questo è unico, limitato, vivente, eterno,
divino. In esso sono racchiusi tutti i corpi, entro di esso non vi è
alcun vuoto. Dicono che si pone come (cosmo) la qualità di tutta la
sostanza 〈e〉ciò che ha una simile disposizione in virtù
dell’ordinamento universale131; secondo la prima premessa dicono che
il cosmo è eterno, ma quanto all’ordinamento esso è generato e
subisce mutamenti in infiniti cicli nel passato e nell’avvenire; ma
per quel che riguarda la qualità di tutta la sua sostanza il cosmo è
eterno e divino. Il cosmo si può definire un insieme organico di
cielo, aria, terra e mare e delle nature che sono proprie di questi.
Si può anche definire l’abitazione degli dèi e degli uomini, 〈o il
complesso organico degli uomini, degli dèi〉 e degli eventi relativi
a entrambi. A quel modo che la città indica insieme l’abitazione di
chi vi risiedee l’insieme dei cittadini con i residenti in essa,
così anche il cosmo, come una città, è composto di uomini e dèi, gli
dèi avendo la direzione, gli uomini essendo a loro soggetti. Vi è
comunanza fra gli uni e gli altri in virtù della ragione di cui
entrambi partecipano, secondo la legge della natura; e tutte le
altre cose sono generate in ordine ad essi. Conseguentemente a tutto
questo, si deve credere che la divinità che governa il tutto
eserciti azione provvidenziale nei riguardi degli uomini, essendo
benefica, buona, amica del genere umano, giusta, dotata di tutte le
virtù. Per questa ragione il cosmo si dice anche Zeus, dal momento
che è a noi causa di vita (ζῆν). E in quanto governa tutto le cose
in maniera assolutamente necessaria in base a una parola pronunciata
dall’eternità, si dice anche fato; e si dice Adrastea perché è
impossibile sfuggirle (άποδιδράσκειν); e provvidenza perché governa
tutte le cose per il loro vantaggio.
CLEOMEDE, Circul. doctr., I, 1, p. 2 Ziegler = SVF II; 529
Poiché il cosmo si definisce in più modi, il discorso che qui ci si
oppone è quello che riguarda l’ordinamento cosmico; così essi lo
definiscono: cosmo è insieme organico di cielo, terra e realtà
naturali in essi contenute. Esso racchiude in sé tutti i corpi,
giacché nessun corpo sussiste fuori di esso, come altrove si è
dimostrato.
AEZIO, Plac., I, 5, 1, Dox. Gr. p. 291 = SVF II, 530
Gli Stoici affermarono che vi è un unico cosmo, che dissero anche
essere il tutto (τὁ πᾶν) e la sostanza corporea.
FILONE ALESSANDRINO, De migrat. Abr., 180, II, p. 302. Wendland =
SVF II, 532
Essi, posta un’armonia fra realtà terrestri e realtà celesti, e
dimostrata, come in base a ragioni musicali, la perfetta concordanza
del tutto in base alla comunanza e alla simpatia reciproca delle
parti fra di loro, che sono divise quanto a luogo ma non separate
quanto a parentela, opinarono che un cosmo come questo, che si
rivela nelle varie forme degli esseri, sia unico, dio esso stesso
oppure tale che contiene in sé il divino, e foggiarono un’anima del
mondo che sia anche fato e necessità132.
PROCLO, In Plat. Tim., Ι, p. 456, 10 segg. Diehl = SVF II, 533
Affermò (Platone) che il cosmo è unico133, perché unico è il suo
modello. Inoltre evitò di ricorrere a modi relativi alla materia
nella sua trattazione: non fece infatti derivare ciò dal fatto che
la natura sia unica, come Aristotele, o dalla definizione dei luoghi
naturali, oppure dal fatto che la realtà sia unica in quanto tutta
la realtà naturale è corporea, come gli Stoici.
CLEOMEDE, Circul. doctr., I, 1, pp. 2-4 Ziegler = SVF II, 534
Non è infinito il cosmo, ma finito, e ciò è evidente dal fatto che
una forza naturale lo governa. Nessuna forza naturale può …
esplicarsi in ciò che è infinito: essa deve dominare la natura di
qualcosa che è. E che il cosmo possieda una forza naturale che lo
governa, lo si può capire in primo luogo dalla disposizione delle
sue parti; poi dall’ordinamento delle cose che si producono in esso;
in terzo luogo dalla simpatia che le sue parti hanno le une verso le
altre; in quarto luogo dal fatto che le cose singole si producono
tutte in vista di qualcosa; e da ultimo per il fatto che tutte le
realtà offrono prestazioni della più grande utilità; per tutte
queste cose dunque bisogna arrivare alla conclusione necessaria che
il mondo è finito.
SIMPLICIO, In Arist. De caelo, p. 284, 28 segg. Heiberg = SVF II,
535
Gli Stoici, sostenendo che esiste il vuoto al di fuori del cielo, lo
stabiliscono sulla base delle seguenti ipotesi. Sia concesso,
dicono, che uno che si trovi al limite estremo del cosmo immobile
stenda la mano verso l’alto; se può stenderla, bisogna intendere
ciò, secondo loro, nel senso che c’èqualcosa fuori del cielo verso
la quale si possa stenderlo; altrimenti non potrebbe neppure
stenderla, perché vi sarebbe qualcosa di fuori che impedirebbe
l’atto dello stendere la mano. E se poi viceversa ci fosse qualcuno
capace di stendere la mano verso il limite del cosmo, lo stesso
sarebbe il problema: si dimostrerebbe che c’è qualcuno che sta al di
fuori del cosmo stesso.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaest., III, 12, p. 101, 10 segg.
Bruns = SVF II, 536
Il ragionamento che vuol dimostrare l’infinità dell’essere con la
supposizione che vi sia al limite dell’universo qualcuno che possa
stendere la mano al di fuori o comunque che non incontri alcun
impedimento a farlo, afferma che in entrambi i casi si deve
ammettere che vi sia qualcosa al di fuori del cosmo: o ciò che lo
impedisce è fuori, o si trova dove sta colui che tende la mano, e in
entrambi i casi il ragionamento deriva la sua credibilità dalla
rappresentazione e dalla sensazione, come quello che dice che tutto
è limitato per il fatto che c’è qualcosa che delimita.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaest., III, 12, p. 106, 10 segg.
Bruns = SVF II, 536
Quelli che suppongono che esista il vuoto non ammettono che nella
realtà vi siano più di tre dimensioni, a parte la materia, 〈che〉,
essi dicono, è 〈ciò che〉134 è capace di accogliere in sé i corpi; ed
ecco che vengono a dire non altro che l’intervallo è capace di
accogliere in sé l’intervallo.
CLEOMEDE, Circul. doctr., I, 1, 3, p. 6 Ziegler = SVF II, 537
Se anche il fuoco distruggesse tutta quanta la sostanza, come sembra
ad alcuni dei nostri fisici più distinti, necessariamente essa
dovrebbe occupare un luogo più che immensamente esteso, dal momento
che passa allo stato di fumo per completa esalazione dei corpi
solidi. Ma il luogo che nella conflagrazione, una volta che la
sostanza del mondo si sia dissolta, viene occupato da questa, ora è
vuoto, giacché allo stato presente nessun corpo lo riempie.
CLEOMEDE, Circul, doctr., I, 1, 5, p. 10 Ziegler = SVF II, 540
Anche questo essi dicono (i Peripatetici)135, che se vi fosse il
vuoto al di fuori dell’universo, una volta che la sostanza delle
cose si sia dissolta, dovrebbe necessariamente disperdersi e
dissolversi tutta in parti infinite. Ma rispondiamo che non
necessariamente essa andrà soggetta a questo: infatti ha in sé una
forza connaturata di coesione che salva la sua sussistenza. Né le fa
nulla il vuoto che la circonda: essa infatti, poiché dispone di una
straordinaria forza interna, si conserva nel suo essere pur nel suo
alterno rapprendersi e dissolversi nelle sue varie trasformazioni
naturali, di volta in volta dissolvendosi in fuoco oppure tornando a
produrre le realtà del cosmo.
CLEOMEDE, Circul. doctr., I, 1, 4, p. 8 Ziegler =SVF II, 541
Bisogna dunque ammettere di necessità l’esistenza reale del vuoto.
La nozione più semplice che si può avere di esso lo indica come
privo di corpo e privo di consistenza tattile, non avente figura né
forma, incapace di fare o subire alcunché, capace però di accogliere
in sé in assoluto i corpi.
GALENO, De animi peccat. dignosc., 7, V, p. 101 Kühn = SVF II, 542
Lo Stoico afferma che non c’è vuoto all’interno del corpo, ma che
esso sussiste all’esterno di esso … (ma l’Epicureo) non accetta che
questo cosmo sia l’unico come crede invece lo Stoico, che in questo
ha la stessa opinione dei Peripatetici136.
GALENO, In Hippocr. Epid., 4, 6, XVII B, p. 162 Kühn = SVF II, 544
Che vi siano spazi vuoti all’interno dell’acqua o dell’aria, è
teoria che in Epicuro o Asclepiade137 consegue all’ipotesi dei corpi
elementari: opposta è l’opinione degli Stoici e di Aristotele, i
quali non credono che sussista alcun vuoto nel cosmo, ma che questo
sia tutto riempito da corpi. Anche quegli intervalli che ci sono
nella pietra pomice, fra i grani di terra, non sembrano loro vuoti:
dicono che essi in realtà sono pieni di aria. Nell’acqua poi non vi
è alcuna formazione di pori come avviene nella pomice; ma essa è in
realtà perfettamente continua.
CLEOMEDE, Circul. doctr., I, 1, 4, p. 8 Ziegler = SVF II, 546
Tale essendo il vuoto, esso non si trova all’interno del cosmo. E
ciò è chiaro in base ai fenomeni. Se la sostanza del tutto non fosse
in tutto e per tutto connaturata, non potrebbe stare insieme in
virtù della sua natura e governare il cosmo, né vi sarebbe simpatia
fra le sue parti le une nei riguardi delle altre: né sarebbe
possibile per noi vedere o udire se non vi fosse una sola tensione
che tiene insieme tutto e un soffio vitale che risiede nelle cose
per loro intrinseca natura. Se si frapponessero nel reale dei vuoti,
sarebbero rese da questi impossibili le sensazioni.
AEZIO, Plac., II, 2, 1, Dox. Gr., p. 329 = SVFII, 547
Gli Stoici dicono che il mondo ha forma sferica.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Exodum, II, 90, p. 528
Aucher = SVF II, 548
Non vedi che la terra e l’acqua, come quelle che sono al posto
intermedio rispetto all’aria e al fuoco, essendo il cielo tutto
quanto intorno, hanno la loro stabilità non da altro che per il
fatto che si tengono insieme con mutui vincoli, giacché le lega la
parola divina138 con sapientissima opera d’arte e sapientissima
composizione armonica?
CICERONE, De nat. deor., II, 45, 115 = SVF II, 549
È così stabile il mondo e tale forza di interna coesione ha per
sussistere, che nulla si potrebbe escogitare di più appropriato.
Tutte le parti di esso, da ogni lato tendendo verso il luogo
intermedio, si tengono in equilibrio reciproco. I corpi poi in
maniera particolare rimangono saldamente legati fra loro perché sono
quasi allacciati reciprocamente da un legame che li circonda: e ciò
è prodotto da quella forza naturale che è diffusa per tutto
l’universo, etutto produce con intelligenza e ragione, e attira e
volge al centro le parti estreme.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, presso SIMPLICIO, In Arist. Phys., p.
671, 4 segg. Diels = SVF II, 552
(Dice Alessandro che) è possibile valersi di questo argomento anche
contro gli Stoici, i quali dicono che un infinito vuoto circonda il
cosmo. E per quale ragione, se c’è questo vuoto infinito, il cosmo
rimane là dov’è e non si muove? o se si muove, perché mai in un
certo luogo e non altrove? Il vuoto infatti è senza proprietà e cede
ugualmente da ogni parte. Se essi poi dicono che il cosmo rimane
fermo in virtù di una sua disposizione interna che lo tiene insieme,
si può rispondere che forse questa disposizione potrebbe contribuire
a far sì che le sue parti non si dividano e non si disperdano
andandosene qua e là; ma non c’è disposizione che possa far sì che
esso nella sua totalità rimanga fermo e non si muova.
ACHILLE, Isag., 9, p. 38 Maass = SVF II, 554
È dottrina degli Stoici e dei matematici che il cosmo rimanga
immobile. Questa dottrina poggia sui seguenti argomenti: «Se il
cosmo, che sta in mezzo aun infinito vuoto, si muovesse verso il
basso, i rovesci di pioggia non raggiungerebbero la terra; ma la
raggiungono; ciò vuol dire che il cosmo non si muove, ma sta fermo…
E i venti a loro volta spirano alcuni dalla terra verso l’aria,
altri invece verso il basso; ma se non …139 vuol dire che l’universo
non è in movimento…».
Dicono che il cosmo rimane immobile in mezzo all’infinito vuoto in
virtù della tendenza a muoversi verso il centro: infatti tutte le
parti di esso tendono al luogo centrale. Sono sue parti la terra,
l’acqua, l’aria, il fuoco, che tutte tendono verso il centro: per
questo il cosmo non subisce mai alcuno spostamento.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 142, 31 segg. Kalbfleisch = SVF II,
556
Ma alcuni non credono che «alto» e «basso» siano tali per natura, ma
che siano considerati tali solo soggettivamente… Invece gli Stoici
ritengono che non lo siano in senso soggettivo, ma in quanto
rispondenti alla dimensione del tutto: essa ha le due direzioni dal
centro agli estremi e dagli estremi al centro, e questa differenza è
secondo natura.
CLEOMEDE, Circul. doctr., I, 1, 9, pp. 17-18 Ziegler= SVF II, 551
Il cosmo stesso, che è un corpo, deve necessariamente avere un basso
e un alto e tutte le altre caratteristiche consimili. Dicono che ha
la parte davanti volta verso occidente, perché muove verso là, e la
parte di dietro verso oriente, perché procede partendo da quel
punto. Di conseguenza ha poi la destra verso il settentrione e la
sinistra verso il mezzogiorno. Non c’è nulla di oscuro in queste
posizioni. Le rimanenti posizioni diedero molto da fare ai fisici
più antichi ed essi fecero diversi errori in proposito, non potendo
comprendere che nel cosmo, che ha forma sferica, il punto più
centrale è necessariamente in basso a partire da ogni sua parte, in
alto è ciò che va dal centro del tutto verso gli estremi e la
superficie, e che le due posizioni vengono a coincidere e il centro
si identifica col basso.
SERVIO, In Aeneid., I, v. 381, p. 129 Thilo-Hagen = SVF II, 559
… secondo quei fisici che dicono che la terra «sta al di sotto»,
poiché tutto ciò che contiene sta al di sotto di ciò che è
contenuto.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Exod., II, 81, p. 523
Aucher = SVF II, 561
Uno solo è il cielo, e non è simile ad alcuna altra realtà per la
sua figura e per le sue capacità. Infatti i quattro elementi hanno
una reciproca parentela sia quanto a materia sia quanto a movimento:
per la materia, perché si trasformano l’uno nell’altro; per il
movimento, perché osservano moto rettilineo; dal centro verso l’alto
fuoco e aria, sotto il centro l’aria e la terra; mentre il cielo non
si muove in linea retta, ma circolarmente, ed ha una figura da ogni
parte uguale e perfettissima.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Exod., II, 88, p. 527
Aucher = SVF II, 561
Per quanto la terra sia distinta dall’acqua, e l’acqua dall’aria, e
l’aria dal fuoco, e il fuoco da tutte queste altre realtà una per
una, tuttavia tutte quante sono armonizzate in una sola forma
stabilita. Quella materia che è stata formata compiutamente in base
a tanti e tali eventi, deve essere una, soprattutto perché lo
dimostra evidentemente il loro reciproco trapassare l’uno
nell’altro.
Schol. in Hesiod. Theogon., 119, p. 26 Di Gregorio = SVF II, 563
Dice che l’aria circonda la terra e ciò ch’è in essa. È ragionevole
pensare che essa, diffondendosi ed esalandosi in maggior volume per
via della sua minore umidità, sia cupa fino a che non accolga in sé
il sole; e allora si protende fin dove arriva il sole, e sono
rispettivamente come il fuoco e il ferro infuocato. Oppure dicono
che l’aria è il Tartaro, [per il suo esser cupa (τοράττεσθαι)]140.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et. solut. in Genes., II, 85, p. 526
Aucher = SVF II, 562
L’aria è oscura, non avendo in sé alcuna forma di luce; perciò
prende la luce da altra fonte.
Scholia in Hesiod. Theogon., v. 115, p. 22 Di Gregorio = SVF II, 565
Tre cose furono prodotte all’inizio: il caos, la terra, l’amore
celeste, che è anche dio (quello che viene da Afrodite è
più recente). Dall’acqua nacquero gli elementi: la terra per
rapprendimento, l’aria per esalazione; la parte più leggera
dell’aria divenne fuoco; il mare derivò poi da risucchiamento, i
monti per espulsione dalla terra141.
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 5, 922d = SVF II, 570
(L’aria) è ben temperata per la sua leggerezza riguardo a qualsiasi
qualità e capacità, e soprattutto se sia raggiunta, come dite, e
toccata dalla luce si illumina volgendosi da ogni parte.
AEZIO, Plac., I, 12, 4, Dox. Gr., p. 311 = SVF II, 571
Gli Stoici dicono che dei quattro elementi due sono leggeri e due
pesanti, e leggero per natura è ciò che tende ad allontanarsi dal
suo centro, pesante ciò che tende verso di esso. L’aria che sta
intorno alla terra va in linea retta; l’etere, invece, si muove
circolarmente142.
CLEOMEDE, Circul. doctr., I, 11, 60-61, p. 110 Ziegler = SVF II, 572
Non bisogna provar difficoltà a ritenere che la terra, pur essendo
un punto rispetto alla grandezza del cosmo, mandi nutrimento al
cielo e agli astri che sono in esso contenuti, e che sono tanti per
moltitudine e grandezza. La terra è piccola per volume ma
grandissima per potere, poiché essa in effetti ha in sé quasi la
maggior parte della realtà: se pensassimo che possa dissolversi in
fumo o in aria, la vedremmo diventare maggiore di tutto il circuito
del cosmo; e non solo se si risolvesse in fumo o aria o fuoco, ma
perfino in polvere. Si può veder come anche la materia del legno, se
si dissolve in fumo, si estenda quasi all’infinito, e così pure
l’incenso acceso, e tutti quegli altri corpi solidi che si
volatilizzano. Se invece ci figurassimo il cielo con tutti gli astri
e con l’aria concentrato nella grandezza della terra, dovremmo
pensarlo ridotto in ben piccolo volume. Non è quindi impossibile che
la terra, essendo per il suo volume un punto rispetto al cosmo ma
usufruendo di una forza indicibile e avendo una natura tale da
potersi diffondere quasi all’infinito, mandi nutrimento al cielo e
alle realtà che sono nel cielo143.
Né per questo dovrebbe dissolversi, giacché a sua volta prende
qualcosa dall’aria e dal cielo. Una sola è la via che scende e che
sale, come dice Eraclito144, per tutta quanta la realtà che per
natura è mutevole e trasformabile e in tutto disposta a cedere
all’opera dell’artefice che mira al governo e alla conservazione
dell’universo.
Scholia in Hesiod. Theogon, v. 397, p. 252 Flach = SVF II, 573
Dapprima si separò l’acqua, coprendo la terra, e si sollevò verso
l’aria: l’acqua, infatti, ha il suo luogo al di sotto dell’aria.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., V, 14, 92, 4, p. 387 Stählin = SVF
II, 574
Anche gli Stoici dicono che il cosmo è generato.
AEZIO, Plac., II, 4, 1, Dox. Gr., p. 330 = SVFII, 575
Pitagora, Piatone145, gli Stoici dicono che il cosmo è generato da
Dio.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 1121, 12 segg. Diels =SVF II, 576
Tutti quelli che dicono che il cosmo è sempre esistito ma non è
sempre lo stesso e diviene di volta in volta diverso in determinati
periodi di tempo, dicono che esso conosca la nascita e la morte:
così Anassimene, Eraclito, Diogene146 e più di recente gli Stoici. È
evidente che tutti costoro hanno anche la stessa opinione nei
riguardi del movimento: nei periodi di esistenza del cosmo,
necessariamente c’è anche il movimento.
FILONE ALESSANDRINO, De provid., I, 9, p. 5 Aucher =SVF II, 577
E certo sappiamo che le parti del mondo, per poter essere, devono
aver avuto un inizio. Ma se, per essere, le parti hanne avuto
bisogno di un inizio, certamentene ha avuto bisogno anche il tutto.
E se una parte è soggetta a distruzione, necessariamente vi è
soggetto anche il tutto.
FILONE ALESSANDRINO. De provid., I, 10, p. 6 Aucher = SVF II, 578
E non riconoscono forse tutti che l’uomo è una parte dell’universo
tale che col suo essere ha dato luogo all’umanità? Non ci può essere
in alcun luogo umanità se prima non vi è un qualche uomo. Ma quel
tale uomo ha una generazione iniziale, ed è parte dell’umanità; né
si dà umanità senza un qualche uomo, e distrutto questo anche
l’umanità è distrutta. Se quindi un singolo uomo ha avuto inizio per
umana generazione, necessariamente l’intera umanità soggiace a un
atto di creazione147.
AEZIO, Plac., II, 6, 1, Dox. Gr., p. 333 = SVF II, 582
Gli Stoici dicono che la genesi del cosmo inizia dalla terra come da
un centro: infatti principio della sfera è il centro148.
ACHILLE, Isag., 7, p. 38 Maass = SVF II, 583
Gli Stoici dicono che il movimento circolare esterno ha il suo
inizio dalla terra. Poiché la terra ha una disposizione centrale,
come il cerchio nasce dal centro, così è ovvio che dalla terra nasca
il movimento circolare esterno.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Exod., 1, 1, p. 445 Aucher
= SVF II, 584
Il tempo in cui il mondo fu creato, se si voglia esaminare la verità
della questione con opportuno consiglio, è la primavera; in questo
periodo tutte le cose fioriscono e germinano e la terra porta a
compimento i suoi frutti. E, come ho già detto, non vi era nulla di
incompiuto nella prima generazione dell’universo. Infatti con tale
opera si stabiliva che questa nostra stirpe avesse vita ottima nel
mondo, avendo ottenuto come propria la miglior sorte a premio della
sua pietà: dico questa grande città che è il mondo, e la vita
civile149.
AEZIO, Plac., II, 4, 7, Dox. Gr., p. 331 = SVF II, 585
Gli Stoici dicono che il cosmo è distruttibile, ma per
conflagrazione.
Commenta Lucani, VII, p. 220 Usener = SVF II, 586
Si può intendere secondo Platone, il quale dice che il mondo è stato
generato ma non può venir meno. Diversamente ritengono gli Stoici
egli Epicurei, che affermano essere il mondo generato e perituro.
Commenta Lucani, VIII, 459, p. 274 Usener = SVF II, 587
Ciò che dicono gli Stoici: se c’è un periodo in cui non fu,
ugualmente potrà non essere. Non può avere inizio ciò che non ha
fine.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 141 = SVF II, 589
Ritengono anch’essi che il mondo sia perituro, in quanto generato,
pensando ciò in base a un ragionamento fondato sull’esperienza dei
sensi: ciò di cui le parti sono periture, è anche perituro nel suo
insieme; ma le parti del cosmo sono periture, giacché trapassano le
une nelle altre; quindi il mondo nel suo insieme è perituro. E se
qualcosa è suscettibile di cambiare in peggio, è destinato a venir
meno; ma tale è il cosmo, che può inaridirsi oppure farsi acquoso.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., V, 14, 105, 1, p. 396 Stählin = SVF
II, 590
Cose simili a Eraclito150 dicono nella loro dottrina i più famosi
fra gli Stoici filosofando sulla conflagrazione, sull’ordinamento
del mondo, sulle proprietà specifiche del cosmo e dell’uomo e sulla
sopravvivenza delle nostre anime.
FILONE ALESSANDRINO, De provid., L 13, 14, p. 7 Aucher = SVF II, 591
Il venir meno delle particelle di una qualsiasi parte del cosmo e la
stessa distruzione di una minima parte di questa particella, se
derivi dalla stessa natura ed essenza del corpo, preannuncia che
tutto il corpo nella sua totalità potrà venir meno. Che cos’è
infatti quella distruzione che si insinua dapprima in una qualsiasi
parte di un corpo se non una differenza che si introduce nella parte
o particella e fa sì che esse diventino diverse da quei corpi da cui
si staccano? E certamente ciò che era di una sola e identica natura
subisce la dissoluzione conseguente alla distruzione, di modo che
anche su tutti gli altri corpi incombe la stessa sorte, e alla fine
la morte conduce tutti i corpi che sono nell’universo alla stessa
fine. Chi, dotato di ragione naturale, vede che la condizione ci
tutti gli esseri animati e anche degli esseri dotati di ragione e di
tutte le cose che sono nell’universo consiste nell’essere in
continuo mutamento151, non dovrà riconoscere che anche tutto
l’universo nel suo insieme è destinato a subire la distruzione
secondo la norma che è propria di ogni sua parte?
FILONE ALESSANDRINO, De provid., I, 15 segg., p. 8 Aucher = SVF II,
592
Esaminata e ben ponderata la natura della terra e dell’aria, non si
potrebbe trovare in esse differenza rispetto alle altre parti del
mondo, se non che esso è nel suo genere tutto quanto di una e
medesima natura; e tuttavia i termini dell’una e dell’altra sono la
genesi e la distruzione. Essendo infatti soggette a mutamento,
variazioni e vicissitudini, hanno anche fine e mutamento della loro
natura ad opera del fuoco. Così avviene che, consumatasi in lungo
tratto di tempo e ormai venuta meno la naturale fertilità, la terra
non riesca più a produrre germi; ciò sarebbe stato suo perenne
intento, ma non ne è stata più capace, impedita nella produzione dal
fuoco, o resa fangosa per la distruzione recata dall’acqua oppure
trasmutatasi per altre vicissitudini. Come potrebbero presumere di
dirla immortale quelli che ricercano le tracce della sapienza? …
parlerò … dell’aria, non facendo meno conto di quella affezione
naturale per cui ci accorgiamo che anche l’aria è soggetta a vari
stati abnormi e può poi tornare allo stato normale: ragion per cui
anche a parere dei medici si sostiene che le malattie insorgono a
causa dei suoi cambiamenti, dal momento ch’essi hanno detto che i
corpi esistenti nell’universo si ammalano per via di esso, in
quantodi esso sono partecipi. E chi può essere soggetto a malattia,
vicissitudine, alterazione senza correre il pericolo di perdere la
vita stessa? … Se c’è qualcuno che creda che l’aria è immortale e
che la sua sussistenza sarà perpetua, come può, di grazia, avvenire
che in un corpo immortale vengano di regola a morire esseri mortali?
gente, intendo, che dovrebbe esser avvezza a saturarsie impregnarsi
di quest’aria dalla vita perpetua.
CICERONE, De nat. deor., II, 46, n8 = SVF II, 593
Le stelle sono fatte di fiamma per loro propria natura; perciò sono
alimentate dai vapori della terra, del mare, delle acque, che il
sole fa sorgere dalle pianure e dagli specchi d’acqua con il
riscaldarli; a loro volta poi le stelle, dopo essersi nutrite e
rinnovate, e con esse tutto l’etere, ridanno indietro lo stesso
nutrimento, e quindi lo traggono nuovamente dagli elementi, sì che
nulla o quasi viene a distruggersi, consumato dal fuoco degli astri
o dalla fiamma dell’etere. Da ciò i nostri deducono … che alla fine
tutto il mondo andrà in fuoco, quando, consumato che sia
completamente l’umore, né potrà più alimentarsi la terra né potrà
passare l’aria il cui sorgere impedisce la consumazione totale
dell’acqua; così nulla resterà fuorché il fuoco, dal quale
nuovamente, essendo esso animato e divino, avverrà la genesi del
cosmo e si attuerà di nuovo lo stesso ordine di prima.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Meteor., p.61, 34 segg.
Hayduck = SVF II, 594
Di qui egli dice che quelli che in base ai fatti minimi e guardando
a ciò che avviene in piccolo tentano di arguire le cause di questo
mutamento della terra, per cui i luoghi paludosi e umidi divengono
abitabili e convenienti per il sopravvenuto prosciugamento, mentre
quelli che prima erano convenienti divengono inabitabili per
l’eccesso della siccità, ritengono che proprio un processo del
genere sia causa dell’alterazione e distruzione del tutto. Basandosi
su questi indizi, essi ritengono che avvenga una conflagrazione
dell’universo, come disse Eraclito prima di lui (Aristotele) e
quelli della setta eraclitea, e come poi dopo di lui affermarono gli
Stoici152. In base a questo dicono che, essendo il cosmo generato e
perituro, si deve credere che causa della sua genesi sia, come per
la terra, il fatto che si passi alternamente dalla siccità
all’umidità. È assurdo tuttavia pensare che in base a brevi
alterazioni il tutto subisca un tale mutamento e possa nascere e
perire. La grandezza della terra è nulla paragonata a tutto il
cielo; ma essi dicono che la terra nei riguardi del tutto ha
funzione di centro.
MINUCIO FELICE, Octav., 34, 2 = SVF II, 595
Chi dei sapienti può dubitare, chi ignora che tutte le cose che sono
nate avranno pure una fine, tutte le cose che sono state create
devono anche morire? Anche il cielo con tutto ciò che esso contiene,
così come ha avuto un inizio, se venga a mancare il nutrimento che
la dolce acqua delle fonti porta al mare, finirà con il distruggersi
nel fuoco; questa è opinione costante degli Stoici, che cioè questo
nostro universo sia distrutto dal fuoco una volta che si sia
consumata ogni umidità.
AEZIO, Plac., II, 4, 13, Dox. Gr., p. 332 = SVFII, 597
Quelli che dicono che questo ordinamento del mondo durerà
eternamente, pongono però determinati periodi di tempo, nei quali
torneranno a verificarsi le stesse cose e si manterrà la stessa
disposizione e lo stesso ordinamento dell’universo… Gli Stoici
ritengono che il cosmo non subisca accrescimento né diminuzione, ma
semplicemente che possa ora estendersi in uno spazio più vasto, ora
contrarsi.
IPPOLITO, Refutat., 21, Dox. Gr., p. 571, 20 = SVF II, 598
Ammettono che vi sia una conflagrazione del cosmo e una sua
purificazione, gli uni parlando di tutto l’universo, altri di una
parte; dicono che esso subirà parzialmente una purificazione, e
chiamano purificazione quasi la distruzione e la nascita di un altro
cosmo da essa.
EUSEBIO, Praep. Evang., XV, 19, 1 (= ARIO DIDIMO, Epitome, Dox. Gr.,
p. 469) = SVF II, 599
Giunta a tal punto la ragione universale e la natura universale
divenuta maggiore e più ricca, alla fine, inariditosi il tutto, si
raccoglie in se stessa da ogni parte della realtà, tornando a quella
sua ragione che si è precedentemente detta e a quella famosa
resurrezione153 che produce il grande anno, nel quale avviene di per
sé sola e in sé la restaurazione del tutto. Tornando indietro nello
stesso ordine che era stato quello dell’inizio, compie secondo certa
ragione lo stesso processo di prima, verificandosi dall’eternità
senza sosta altrettanti siffatti periodi. Non è possibile che vi sia
un principio e una fine della realtà154 né di colui che la governa.
La realtà esiste nelle cose in divenire e per natura è soggetta a
tutti questi cambiamenti, e così pure l’attività che l’ha foggiata,
in quanto c’è in noi una natura che ha capacità artigianale; e un
siffatto essere è di necessità ed eternamente nel cosmo. Non è
verosimile che ci sia un inizio della generazione in tale natura. E
a quel modo che è ingenerata, è anche impossibile che sia distrutta,
né in sé di per sé, né per il sopravvenire di un elemento
distruttore dall’esterno.
ORIGENE, Contra Celsum, VIII, 72 p. 288 Kötschau = SVF II, 600
Quelli poi della Stoa ritengono che la conflagrazione abbia il
sopravvento su tutte le altre cose in virtù di quell’elemento che è
più forte, e che tutto si trasmuti in fuoco.
DIONE CRISOSTOMO, Orat. XL, 37, 1, p. 56 Arnim = SVFII, 601
Quel predominio dell’etere, così come vien chiamato da alcuni dei
sapienti, in cui sta l’elemento dominante e più forte della potenza
psichica (che spesso essi non esitano a denominare senz’altro
fuoco)155, quando si verifica in forma delimitata e senza violenza,
sembra avvenire con ogni amicizia e concordia. Ma quando l’avidità e
la discordia si verificano contro la legge, allora si raggiunge
l’estremo traguardo della distruzione, non ancora avvenuto
nell’universo perché vi era nella realtà pace e giustizia etutte le
cose obbedivano e seguivano, cedendo persuase, la legge
intelligente.
DIONE CRISOSTOMO, Orat. XXXVI, 51, II, p. 14 Arnim = SVF II, 602156
Poiché le forme si trasmutano e trapassano l’una nell’altra, fino a
che tutte le cose non giungano a fondersi in una stessa natura,
vinte dall’elemento che è più forte… come se un prestigiatore, dopo
aver foggiato dei cavalli nella cera, poi li distruggesse
raschiandoli in modo da dare loro diverse forme di volta in volta e
infine fondendoli tutti e quattro ricavasse una forma sola da tutta
quanta la loro materia. Ma una simile cosa avviene non come nelle
cose inanimate per opera di un artigiano che foggi e trasformi la
materia dall’esterno, ma la trasformazione si effettua all’interno
di essi, come se essi gareggiassero in un grande e verace agone per
la vittoria… (Il cavallo di Zeus), essendo più forte di tutti gli
altri e igneo per sua natura, distrutti rapidamente gli altri,
veramente come se fossero di cera, in un tempo che in realtà non è
lungo, ma che a noi sembra infinito … e raccolta in sé tutta la
sostanza propria degli altri, si manifesta assai più forte e
splendente di prima … deve per forza occupare un luogo della massima
estensione e un assai più grande spazio che non precedentemente…
Esso è in realtà l’anima dell’auriga e padrone, o meglio ancora la
parte che è intelligente e che sta alla guida di essa… Allora
l’intelletto, rimasto solo di tutta la realtà e avendo riempito un
luogo immenso di se stesso, e diffusosi ugualmente da ogni parte,
giacché nulla di solido è rimasto in esso, ma la leggerezza ha vinto
pienamente su tutto il resto, giunge al colmo della sua bellezza,
assumendo la natura purissima di un raggio incontaminato; e subito
prova nostalgia della vita precedente. Accolto in sé l’amore … si
volge a generare nuovamente il cosmo e a far vivere le cose e
afoggiarle, dando luogo dall’inizio a un mondo molto più bello e più
splendido, in quanto più nuovo. Dardeggiando raggi non certo
scomposti e sorditi, ma puri e immuni del tutto da tenebra, esso si
muta con la velocità del pensiero; e aspirando a unirsi con Afrodite
e con la generazione ecco che si addolcisce e si fa più tenero, e
diminuendo di molto l’intensità del suo raggio si volgein forma di
aria accesa da un fuoco mite. Unendosi con Era successivamente e
partecipando del coniugio più perfetto, si ferma ed emette il
liquido seminale generatore del tutto: è questo che i discepoli dei
saggi157 cantano nei misteri, parlando di nozze felici di Era e
Zeus. Avendo resa umida tutta la realtà, scorre esso stesso nel seme
dell’universo, che è uno, e così il soffio vitale plasma e foggia le
cose come nel liquido seminale fa il seme; e in quest’azione in
maniera particolare si avvicina alla sussistenza degli altri esseri
animati, in quanto si può dire non per metafora che esso consta di
anima e corpo; e così facilmente foggia e plasma per impressione
tutte le altre cose, versando intorno a sé la materia liscia e
tenera e cedevole tutta quanta prontamente. Dopo averla lavorata e
compiuta, rivela il nuovo universo rinato, bello di forma in maniera
indicibile, e molto più splendido di quanto ora noi lo vediamo.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 480, 27 segg. Diels = SVF II, 603
Eraclito diceva che tutte le cose sono di fuoco delimitato, e si
dissolveranno nuovamente in esso158. Sembra che anche gli Stoici
siano stati della stessa opinione. La conflagrazione allude a
qualcosa del genere, ed essi dicono che ogni corpo è delimitato.
PLUTARCO, De comm. not., 17, 1067a = SVF II, 606
Quando, secondo costoro, avviene nel cosmo la conflagrazione, non
resta nulla che sia cattivo, ma il tutto è saggio e sapiente.
PORFIRIO, In Arist. Categ., p. 119, 34 Busse = SVF II, 607
Ma anche se qualcuno ritiene che tutti gli esseri viventi siano
distrutti, come dicono gli Stoici, all’atto della conflagrazione, si
potrà dire che non esiste più la sensazione, non essendovi più
esseri viventi; tuttavia c’è sempre il sensibile, poiché vi sarà
sempre il fuoco.
Commenta Lucani, VII, 813, p. 252 Usener = SVF II, 608
… quella conflagrazione che, secondo gli Stoici, seguirà ai
cataclismi.
AEZIO, Plac., II, 9, 2 Dox. Gr., p. 338 = SVF II, 609
Gli Stoici dicono che vi è il vuoto in cui, essendo esso infinito,
può dissolversi il cosmo all’atto della conflagrazione.
ACHILLE, Isag., 8, p. 38 Maass = SVF II, 610
Gli Stoici, i quali dicono che vi è conflagrazione dell’universo in
periodi determinati, ammettono il vuoto ma non l’infinito159: esso è
tanto grande quanto basta per contenere il cosmo all’atto del suo
dissolversi.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 86, VI, p. 99 Cohn-Reiter =
SVF II, 612
Vi sono tre specie di fuoco: il tizzone ardente, la fiamma, il
raggio. Il tizzone ardente è fuoco nella materia terrea, che vi si
annida alla maniera di un soffio e cova in essa proteso fino ai suoi
limiti; la fiamma è fuoco che si solleva per via dell’alimento che
riceve; il raggio è quel fuoco che viene emesso dalla fiamma, ed è
un aiuto per gli occhi ad afferrare le realtà visibili.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 47 VI, p. 87 Cohn-Reiter =
SVF II, 613
E in verità quelli che hanno introdotto la teoria della
conflagrazione e risurrezione del cosmo credono e affermano che gli
astri siano dèi, né si vergognano di considerarli in pari tempo
perituri col loro ragionamento. O bisognerebbe affermare, come fanno
alcuni, che sono massa di materia incandescente … oppure, se li si
crede nature divine o demoniche, accordar loro anche
quell’immortalità che si addice agli dèi. Ma essi sono talmente
fuori strada nella loro dottrina da non accorgersi che in tal modo
la stessa provvidenza — che è in realtà l’anima del cosmo — viene da
loro dichiarata peritura; e quindi arrivano a grande inconseguenza
nel loro filosofare.
GIUSTINO, Apol., I, 20, pp. 62-64 Otto = SVF II, 614
Quei filosofi che son detti Stoici sostengono come loro dottrina che
lo stesso dio viene a distruzione risolvendosi in fuoco, e poi
nuovamente il cosmo rinasce in alterna vicenda… Sembra che noi
adottiamo la dottrina di Platone quando diciamo che tutte le cose
sono generate e ordinate da Dio; degli Stoici quando diciamo che
tutto si risolverà nel fuoco160.
GIUSTINO, Apol., II, 7, pp. 218-220 Otto = SVF II, 614
Anche noi diciamo che vi sarà la conflagrazione universale; ma non
però, come gli Stoici, in base al ragionamento del trasmutarsi
reciproco di tutte le cose.
ATANASIO, Orat. IV contra Arianos, 13, P. G. XXVI, col. 484 = SVF
II, 615
Forse ha appreso ciò dagli Stoici, i quali affermano che la divinità
si raccoglie e si estende in alterna vicenda con la costruzione del
tutto e infinite volte viene a cessazione.
FILONE ALESSANDRINO, De spec. legibus., I, 208, V, p. 50 Wendland =
SVF II, 616
La disposizione delle membra dell’animale dimostra che tutte le cose
sono una, o derivano da uno, o tendono ad uno; e questo fu chiamato
da alcuni sazietà-fame161, da altri conflagrazione / ordinamento:
conflagrazione quando vi sia predominio sulle altre cose del potere
di ciò ch’è divino, ordinamento quando si verifichi una uguale
distribuzione (ἰσονομία)162 delle forze reciproche.
SIMPLICIO, In Arist. De caelo, p. 294, 4 segg. Heiberg = SVF II, 617
Ed Eraclito dice che il cosmo ora va in fuoco, ora risorge dal fuoco
in determinati periodi di tempo; ed usa per questo l’espressione:
«accendendosi e spegnendosi secondo misura»163. Di questa stessa
opinione furono poi gli Stoici.
SIMPLICIO, In Arist. De caelo, p. 307, 15 segg. Heiberg = SVF II,
617
Egli è passato a parlare di quelli che affermano anch’essi il cosmo
esser generato, ma alternativamente in una serie di distruzioni e
rinascite, e ciò continuamente; come ritennero Empedocle164 ed
Eraclito e più tardi gli Stoici.
PLUTARCO, De comm. not., 35, 1077b = SVF II, 618
Ma essi dicono che il fuoco è quasi il seme genitale del cosmo, e
che questo durante la conflagrazione si cambia in seme, avendo
minore massa corporeae diffusione molto maggiore, e occupando uno
spazio infinito dell’immenso vuoto con il suo crescere a dismisura;
ma quando poi il cosmo viene di nuovo generato la sua grandezza si
ritira e si riduce, poiché la materia all’atto della genesi è
portata a ritrarsi tutta in se stessa165.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 101 segg. VI, pp. 103-104
Cohn-Reiter = SVF II, 619
Il contrario (che nel singolo essere) avviene nel cosmo. Il seme di
questo dovrà pensarsi più grande di esso stesso e occupante un
maggior spazio, mentre l’essere compiuto sarà più piccolo e apparirà
raccolto in minor spazio; e il cosmo nasce dal suo seme non
accrescendosi gradualmente, ma restringendosi vicendevolmente da un
maggior volume in uno minore. È facile capire quantosi è detto: ogni
corpo che si dissolva in fuoco si scioglie e si fonde, mentre quando
si spegne la fiamma che è in esso si restringe e si raccoglie: né
c’è bisogno di addurre prove particolari per fatti chiari in tal
modo come se fossero oscuri. Perciò il cosmo, andando in fuoco,
diviene più grande, in quanto tutta la sua materia si dissolve
disperdendosi per l’etere leggerissimo: e proprio in previsione di
questo, con argomenti razionali gli Stoici hanno lasciato sussistere
l’infinito vuoto fuori del cosmo, sì da non dover porsi il problema,
una volta che fosse avvenuta una diffusione infinita della materia,
dove questa potesse trovare un luogo atto a contenerla. Quando
dunque si è accresciuto ed esteso in modo tale che la grandezza
infinita della sua estensione quasi corrisponde all’infinita natura
del vuoto, si trova allo stato di seme166; quando invece, nel
rinascere, tutta la sua sostanza si riduce a un numero finito di
parti167, la trasformazione avviene restringendosi allora il fuoco,
nel suo spegnersi, in aria spessa, e poi contraendosi ancora l’aria
in acqua e poi mutandosi ancora in terra, ch’è il più denso degli
elementi. Ma tutte queste cose sono contro le nozioni comuni di chi
è capace di ragionare secondo la coerenza dei fatti.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 8-9, VI, p. 75 Cohn-Reiter =
SVF II, 620
Democrito, Epicuro e la grande quantità di coloro che si richiamano
alla Stoa ammettono una nascita e una morte del cosmo, ma non allo
stesso modo… Gli Stoici dicono che il mondo è uno, e che della sua
nascita è causa la divinità, mentre della sua distruzione non è
causa la divinità, mala forza del fuoco indomabile presente nella
realtà, forza che in lunghi periodi di tempo dissolve in se stessa
tutte le cose; e poi da questa distruzione si verifica dinuovo una
rinascita del cosmo, per la provvidenza intelligente dell’artefice.
Per questa ragione si potrebbe dire allo stesso tempo che il cosmo è
eterno oppure che è perituro: perituro quanto all’ordinamento,
eterno in virtù del suo perenne rinascere dal fuoco, e immortale in
quanto i cicli periodici non vengono mai meno.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 4, VI, p. 73 Cohn-Reiter =
SVF II, 621
In terzo luogo, come ritengono gli Stoici, (il cosmo) è «la realtà
che procede fino alla conflagrazione, o ordinata o senza ordine», e
dicono che il tempo è l’intervallo del suo movimento.
NEMESIO, De nat. hom., 38, p. G. XL, col. 760-762 = SVF II, 625
Gli Stoici dicono che i pianeti, disposti nella stessa costellazione
per lunghezza e larghezza, là dove ciascuno era all’inizio, quando
per la prima volta fu costituito il cosmo, effettuano la
conflagrazione e la distruzione di tuttele cose168; poi nuovamente a
partire dall’inizo il cosmo si ristabilirà nella stessa forma, e
muovendosi nuovamente gli astri in maniera simile ciascuno di essi,
così come è stato nel periodo precedente, tornerà a compiere senza
variazioni il suo giro. E ci sarà un nuovo Socrate, e un nuovo
Platone, e ciascun uomo sarà lo stesso con gli stessi amici e
concittadini; le stesse cose si seguiranno, le stesse si useranno;
allo stesso modo di prima si ricostituirà ogni città, ogni
villaggio, ogni territorio. Questo rinnovamento del tutto non
avverrà una sola volta, ma più volte: o piuttosto avverrà che le
stesse cose si ricostituiscano nella stessa forma all’infinito.
Quelli degli dèi che non sono soggetti alla distruzione, seguendo a
questo unico periodo, da esso conoscono tutte le cose che dovranno
verificarsi nei periodi seguenti. Non vi sarà nulla di estraneo
rispetto alle cose già precedentemente avvenute, ma tutto quanto
procederà in maniera assolutamente immutata fino ai minimi
particolari.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 68, p. 338, 3 segg. Kötschau = SVF II,
626
I più fra gli Stoici dicono che questo ciclo periodico non solo
riguarda le cose mortali, ma le stesse cose immortali e gli dèi
stessi; dopo la conflagrazione universale, che c’è stata infinite
volte e infinite volte avverrà di nuovo, c’è stato e ci sarà di
nuovo lo stesso ordinamento dal principio fino alla fine. Cercando
comunque di portar rimedio in qualche modo alle loro assurdità, gli
Stoici dicono anche che, non so come, tutti i periodi saranno
immutati rispetto ai precedenti: sì che rinascerà non proprio un
altro Socrate ma qualcuno non mutato rispetto a Socrate, e che
sposerà una donna del tutto simile a Santippe, e sarà accusato da
uomini non diversi da Anito e Meleto. Non so spiegarmi come lo
stesso cosmo sia sempre lo stesso e non semplicemente «non mutato»
rispetto a un altro, mentre invece le cose che sono in esso non si
dice che siano le stesse, ma semplicemente «non mutate».
ORIGENE, Contra Celsum, V, 20, p. 21, 23 segg. Kötschau = SVF II,
626
Dicono gli Stoici che dovrà esservi secondo determinati cicli
periodici la conflagrazione del tutto e poi di seguito lo stesso
ordinamento si riprodurrà immutato nella forma dell’ordinamento
precedente; ma quelli fra loro che hanno un certo ritegno di fronte
a questa dottrina dicono che ci sarà un piccolo mutamento, molto
tenue, in un ciclo periodico rispetto alle cose che si sono
verificate nell’altro ciclo169.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 886, 11 segg. Diels =SVF II, 627
Questo problema si adatta meglio alla palingenesi degli Stoici: sono
questi infatti che a ragione si pongono il problema se io sia uno di
numero prima e dopo, in quanto nella sostanza sono lo stesso, ma
sono diverso per il mio costituirmi e ricostituirmi dall’uno
all’altro periodo cosmico.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 12 p. 282, 8 segg. Kötschau = SVF II,
628
Uomini che sono vissuti prima di Mosé e alcuni dei profeti non hanno
accolto da altri le dottrine circa la conflagrazione del cosmo, ma
(se bisogna parlare stando correttamente ai tempi) sono piuttosto
gli altri che, fraintendendo questi e non comprendendo esattamente
le cose da essi dette, hanno immaginato ritorni uguali in
determinati cicli di tempo e 〈mondi〉170 immutati nelle proprietà
specifiche e negli accidenti; noi, al contrario, non supponiamo
cataclismi né conflagrazioni in dati cicli e periodici ritorni di
astri.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., V, 1, 9, 4 p. 332 Stählin = SVF II,
630
Anche questi (Eraclito) ha appreso dalla filosofia barbarica la
distruzione di tutto nel fuoco … quella che poi gli Stoici
chiamarono conflagrazione. In base a ciò, affermano, rinascerà anche
la qualità specifica (ἰδίως ποιόν).
PLUTARCO, De defectu orac., 29, 425e-f = SVF II, 632
E chi non avrebbe timore delle altre asserzioni degli Stoici, i
quali chiedono «come può rimanere uno solo il destino e la
provvidenza, e non esservi invece più Giovi, una volta che vi sono
più cosmi?» In primo luogo, se è assurdo che vi siano più Giovi, vi
saranno ancora cose molto più assurde di queste: essi infatti
finiscono col postulare, negli infiniti cicli dei cosmi, infiniti
Elii e Seleni e Apolli e Artemidi e Posidoni171.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Genes., IV, 188, p. 397
Aucher = SVF II, 635
(Ha eterna letizia) tutto il cielo e il mondo, poiché è un animale
dotato di ragione, un essere animato dotato di virtù, filosofo per
sua natura; e per questa causa è privo di tristezza e timore, ed è
pieno di gioia.
SENECA, Epist. ad Luc., 92, 30 = SVF II, 637
Come può avvenire che tu non creda che esista qualcosa di divino in
ciò che è parte di dio? ma dio è uno e tutto ciò in cui siamo
racchiusi, e noi siamo suoi compagni e sue stesse membra.
PS. GALENO, Si animal est quod ventr., 1, XIX, p. 160 Kühn = SVF II,
638
Vediamo ora se il mondo è un essere vivente e se, nato che sia
all’inizio172, conserva natura perfetta. Il cosmo è un complesso
organico di cielo, terra e nature intermedie … e di acqua e di aria,
e ciò che scorre per tutte le cose, il soffio vitale primigenio che
tutto dirige, che i discepoli di quei filosofi chiamano anima o
monade o indivisibile(?)173 o fuoco oppure soffio primitivo in forma
omonima a quello che è il suo genere. Queste realtà sussistevano
anche prima di ottenere il nome che ad esse compete, ma all’origine
erano indistinte e indifferenziate, e, come dicono alcuni, avevano
il nome generico di «materia», mentre ora si chiamano «cosmo» per il
loro agire con cura e buon ordine e per il fatto che il movimento si
verifica secondo un certo ritmo e ordine… Di cose intere si compone
il cosmo in quanto intero, ed è perfetto in quanto consta di
elementi perfetti, compiuto in quanto di elementi perfettamente
compiuti: e fu e sarà un essere vivente in movimento. Ma allora
possedeva anche una capacità inseminata e avente in sé la ragione
del tutto; e separatosi distintamente ed emergendo dalle tenebre
mostrò la virtù propria dei suoi semi, e si rivelò ora come terra,
ora come acqua, ora come fuoco… Estendendosi ovunque con l’aria
nell’atto della crescita secondo la natura degli elementi,
illuminando il tutto come agli occhi avviene con il sole e con la
luna, si faguida ad ogni movimento con il suo fulgido e radioso
splendore: si è infatti mischiato ad esso anche questo fin dalla sua
origine e non appena esso si è costituito nella sua natura. Questo
nostro cosmo è stato fin dall’inizio e ancora appare un essere
animato, dotato di respiro e di intelligenza. Così come non si
oserebbe dire che non sia un essere vivente quello che può trovarsi
in stato di gravidanza (abbiamo dimostrato come sia intero in quanto
si compone di elementi interi, perfetto in quanto si compone di
elementi perfetti; come non potrebbe offrire parti perfettamente
compiute se non fosse tale esso stesso?), così nessuno potrebbe dire
che nonsia un essere animato ciò che è dotato di ciò facoltà
generativa. Allo stesso modo che chi scolpisca nel bronzo o nel
ferro o faccia statue o costruisca navi o chiunque produca qualcosa
di simile non si potrebbe dire che fornisca nulla di perfetto se
qualche elemento mancasse … mentre ciò che non manca di nulla e di
tutto è fornito … è perfetto, così il cosmo non potrebbe trovarsi in
stato di perfezione se fin dall’inizio, quando dapprima ebbe
l’essere, non avesse accolto in sé la natura del tutto174.
PLUTARCO, De comm. not., 34, 1076f = SVF II, 645
Ma dicono che il cosmo è una città e che cittadini sono gli astri, e
se questo è, sono anche membri di tribù o partecipial governo, per
esempio il sole è un buleuta ed espero è un pritane o un astinomo; e
non so se argomenti del genere rendano più ridicoli chi li sostiene
o chi cerchi di confutarli175.
IL FATO
PS. PLUTARCO, De fato, 11, 574e = SVF II, 912
Secondo il ragionamento opposto a quello esposto pocanzi,
sembrerebbe in primo luogo che nulla possa avvenire senza causa, ma
sempre secondo cause principali; in secondo luogo che questo mondo
sia governato da un ordine naturale, essendo tutto pervaso dal
soffio vitale e in simpatia reciproca nelle sue parti; in terzo
luogo attestazione di ciò sembra essere176 la mantica, che è in
grande fama presso gli uomini in quanto veramente coopera con la
divinità177; essa è espressione del consenso dei sapienti a ciò che
avviene, poiché tutto ciò che avviene avviene per destino. Ancora in
terzo luogo occorre porre quel famosissimo principio che tutto ciò
che avviene è vero o falso.
AEZIO, Plac. I, 28, 4, Dox. Gr., p. 324 = SVF II, 917
Gli Stoici definiscono il destino recinto delle cause, o in altri
termini ordinamento e collegamento invalicabile.
NEMESIO, De nat. hom., 37, P.G. XL, col. 752 = SVF II, 918
Se il fato è veramente il recinto invalicabile delle cause — così
gli Stoici lo definiscono — cioè ordinamento e collegamento
immutabile178, essa conduce ai suoi fini non in vista dell’utile, ma
secondo il proprio movimento e la propria interna necessità.
SERVIO, In Verg. Aeneidem, III, v. 376, p. 409 Thilo-Hagen = SVF II,
919
La definizione del fato, secondo Tullio179, è: «il fato è una
connessione fra tutte le cose che si regge con alterne vicende per
l’eternità, e si muta secondo un proprio ordine e una propria legge,
inmodo tale peraltro che il mutarsi si verifichi per l’eternità».
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mantissa, p. 185 Bruns =
SVF II, 920
Ma essi sono d’accordo che tutte le cose si verificano in virtù del
fato secondo ordine e consequenzialità e vengono in certo modo di
seguito le une alle altre … perciò dicono che il fato è un «recinto
delle cause».
CICERONE, De divinatione, I, 55, 125 = SVF II, 921
Chiamo fato quello che i Greci chiamano εἱμαρμένη: cioè l’ordine e
la serie delle cause, dal momento che le cose si generano in quanto
una causa si connette con l’altra. Questa è una realtà sempiterna,
che scorre da tutta l’eternità. Stando così le cose, non avviene
nulla che non debba nuovamente avvenire; e allo stesso modo non
avverrà in futuro nulla di cui le cause non siano già racchiuse
nella natura. Si comprende da ciò che per fato si intende non ciò di
cui si parla nel mito, ma lo si intende secondo la scienza della
natura: la causa eterna delle cose, per cui sono avvenute le
passate, sono le attuali, saranno quelle destinate a prodursi in
seguito.
CICERONE, De natura deorum, III, 6, 14 = SVF II, 922
… soprattutto dal momento che voi affermate che avviene per fato
tutto ciò che avviene, e che ciò che è vero da tutta l’eternità,
questo è il fato.
SERVIO, Ad Verg. Aen., I, v. 257, p. 96 Thilo-Hagen =SVF II, 923
… e così di passaggio indica il principio stoico, secondo cui per
nessuna ragione il fato può mutare.
SERVIO, In Verg. Aen., II, v. 689, p. 96 Thilo-Hagen = SVF II, 923
Parla al modo degli Stoici, che affermano la necessità del fato.
Commenta Lucani, II, 306, p. 69 Usener = SVF II, 924
E ciò secondo la dottrina degli Stoici, i quali dicono che tutto si
governa per fato e che le cose che siano state stabilite in un certo
modo non possono mutarsi nemmeno per opera degli dèi.
GIUSTINO, Apologia, II, 7, p. 218 Otto = SVF II, 926
Gli Stoici affermavano che tutto avviene per via del fato… La natura
di ogni essere generato è suscettibile di bontà e cattiveria;
nessuno di essi potrebbe esser soggetto a lode se non avesse la
capacità di volgersi nell’una o nell’altra direzione. Dimostrano
questo tutti coloro che dettano norme e formulano dottrine secondo
retta ragione per il fatto stesso che comandano di fare alcune cose
e di fuggirle altre. Gli stessi filosofi stoici nella loro dottrina
etica rendono grande onore a cose che non è loro possibile
giustificare in base alla loro dottrina circa i princìpi e gli
incorporei180. Se infatti poi vengono a dire chetutte le cose che
sono compiute da parte degli uomini avvengono per fato, o bisogna
dedurne che non vi è nessun dio al di là delle cose che hanno vita
vegetativa, e subiscono cambiamento e distruzione, e si può avere
solo comprensione di cose periture e che la stessa divinità si
risolva nel male o nelle sue parti o addirittura in tutta la sua
sostanza, o negare che vi siano il bene e il male; cose chesono
contrarie a ogni saggio pensare, ragionare, riflettere.
Scholia in Hesiodi Theog., v. 411, p. 253 Flach = SVF II, 930
«Egli generò Ecate» — questo si dice per il fatto che ciascuna cosa
(ἓκαστον) è retta da provvidenza. È il fato che ha potere su tutte
le cose che sono racchiuse nella terra e nel mare; tutti rivolgono
preghiere alla Parca come a una dea181.
Scholia in Hesiodi Opera, 105, p. 47 Pertusi = SVF II, 929
Non è possibile che devii dall’intento la mente di Zeus, cioè il
fato, giacché questo gli Stoici chiamano «mente di Zeus».
Scholia in Homeri Iliad., VIII, 69, p. 262 Maass = SVF II, 931
Dicono gli Stoici che il fato si identifica con Zeus.
ANONIMO, In Arist. de interpr., p. 54, 8 segg. Tarán = fr. 1014
Hülser
Si sappia che gli Stoici, nell’intento di abolire il contingente,
hanno due aporie, una più superficiale e l’altra più seria… Questa
seconda aporia, che offre problemi di qualche rilievo, è la
seguente: la divinità, dicono, o conosce le cose o non le conosce.
Ma dire che non le conosce è assurdo al massimo grado: le conosce,
dunque. Se le conosce, le conosce in forma o definita o indefinita.
Ma nuovamente è assurdo dire che le conosce in maniera
indefinita: se così fosse, la divinità non differirebbe in nulla
dagli uomini; e quindi di necessità le conosce in maniera definita.
Ma se questo è vero, come lo è, necessariamente le cose conseguono
alla conoscenza che ladivinità ha di esse. Se poi la divinità sappia
che qualcosa non si verificherà, è chiaro che è per necessità che
questo qualcosa non si verifica. Quindi le cose o si verificano
necessariamente, oppure è impossibile che si verifichino; mai dunque
vi è spazio per il contingente182.
AGOSTINO, De civitate Dei, V, 8 = SVF II, 932
Coloro poi che chiamano col nome di fato non la disposizione degli
astri, a seconda di come ciascuno di essi è concepito o nasce o ha
inizio, ma la connessione e la serie ordinata di tutte le cause, in
virtù delle quali avviene tutto ciò che avviene183 — con questi non
è il caso di disputare a lungo intorno a una questione ch’è in
realtà di pure parole, dal momento che questo stesso ordinamento
causale e questa connessione essi poi lo attribuiscono alla volontà
e al potere di un Dio supremo, che essi credono — ed è credenza vera
e ottima — sappia già tutto prima ancora che le cose avvengano e
niente lasci sussistere senza ordine; un Dio dal quale derivano
tutti i poteri anche se non da lui ugualmente derivino tutti gli
atti di volontà. È provato in tal modo che ciò che essi chiamano
fato non è altro che questa volontà precipuamente del Dio supremo,
il cui potere insuperabile percorre tutto il reale.
CALCIDIO, In Platonis Timaeum, 144, p. 183, 6 segg. Waszink = SVF
II, 933
Pertanto alcuni ritengono che sia presupposta una differenza fra
provvidenza e fato, mentre in realtà si tratta di una
cosa sola. Infatti la provvidenza è la volontà di Dio; ma la
volontà di Dio non è altro che la serie delle cause; e dal fatto
stesso che, in quanto volontà, è provvidenza, deriva poi che, in
quanto serie delle cause, prende anche il nome di fato. Da ciò
deriva che le cose che sono secondo il fato sono anche secondo la
provvidenza e viceversa, come ritiene Crisippo; altri invece
ritengono che le cose che avvengono in virtù della provvidenza
avvengano anche per il fato, ma non tutte quelle che avvengono per
fato avvengono anche per provvidenza; così Cleante184.
PLOTINO, Ennead., III, 1, 4, 1 segg. = SVF II, 934
Ma forse che una sola anima scorrendo per tutto l’universo attua
tutte le cose, e ciascuna si muove in virtù della sua azione, poiché
è una parte del tutto che essa muove? e necessariamente, poiché da
essa procedono le cause, ne consegue la continuità, la connessione,
il fato; come se, dal momento che una pianta ha il suo principio
nella radice, si dicesse che quest’ultima è la forza che percorre
interamente la pianta stessa e le sue parti, ed è la sua
generazione, la sua forza persuasiva, il suo legame con le altre
cose, il suo ordine interno, in una parola il suo fato.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 9, p. 175 Bruns = SVF II, 936
E in verità come non potrebbe essere cosa assurda e contro ogni
evidenza il dire che la necessità giunge fino al punto che nulla
possa variare in alcuna forma né produrre variazione in alcuna sua
parte — là dove è sempre parso ovvio, al contrario, che sussistesse
la possibilità di mutare o di non mutare — ma che tutto, un moto
fortuito del collo, il tendere un dito, il sollevare le palpebre, o
altre cose di questo tipo, non possano verificarsi se non come
effetto di cause predeterminanti, e che da parte nostra nulla si
possa produrre se non in questo modo?185.
SERVIO, In Aen., III, 90, p. 357 Thilo-Hagen = SVF II, 938
«Viste d’improvviso»: segue qui gli Stoici è gli Accademici, i quali
dicono che le cose che sono contro natura non avvengono in realtà ma
sembrano avvenire (e da questo l’arte magica viene destituita di
ogni fondamento, come insegna Plinio Secondo nella Storia
Naturale)186.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 30, p. 200 Bruns = SVF II, 940
È ragionevole dire che gli dèi prevedono le cose che verranno (è
assurdo infatti dire che essi sono nell’ignoranza del futuro); ma
una volta assunto questo principio non è poi né vero né ragionevole
il dedurne che tutte le cose si verificano per necessità e per fato.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 31, p. 201 Bruns = SVF II, 941
e 928
Quelli che levano inni alla mantica e dicono che essa si giustifica
solo in base alle loro proprie dottrine e con questa fiducia si
valgono del principio che tutte le cose avvengono per fato … osano
dire … delle vere assurdità. Quando poi alcuni formulano delle
aporie nei loro riguardi, chiedendo loro perché allora, se tutte le
cose si verificano per necessità, le predizioni da parte degli dèi
somigliano a consigli, ascoltati i quali gli interessati possono
fare qualcosa o guardarsi dal fare qualcosa per scongiurarne l’esito
(e ricordano l’oracolo dato a Laio, nel quale Apollo Pizio gli dice
che non deve generare figli: «se genererai un figlio, il generato ti
ucciderà e tutta la tua casa perirà nel sangue»), rispondono che lo
scritto dichiara questo: non lo si può intendere nel senso che il
dio non sa che Laio non ubbidirà (egli lo sa più di ogni altra
cosa), ma che se egli non avesse usato questi mezzi non si sarebbe
compiuto l’insieme delle vicende di Laio e di Edipo. Laio non
avrebbe esposto, come fece, il figlio che gli era nato; né il
bambino sarebbe stato sottratto da un pastore e dato in offerta al
corinzio Polibo; né, fatto uomo e imbattutosi con Laio sulla via, lo
avrebbe ucciso, a Laio essendo ignoto e Laio per lui un ignoto; né
certo se fosse stato allevato nella casa come figlio avrebbe potuto
ignorare a tal punto i propri genitori da uccidere l’uno, condurre
l’altra a nozze. Proprio perché l’azione prevista dal destino
potesse compiersi appieno, il dio per mezzo dell’oracolo diede a
Laio la credenza illusoria187 di potersi guardare da tutto ciò; e
quando quegli, nell’ebbrezza, ebbe generato un figlio, ed esposto il
figlio così generato nell’intento di farlo morire, questa
esposizione sarebbe divenuta poi la causa vera e propria della
sciagurata vicenda. Ma come possono accordarsi fra di loro il
discorso secondo il quale il fato si identifica con la divinità e si
vale delle cose che sono e che divengono in vista della salvezza del
cosmo e dell’ordine ch’è in esso, e il discorso che asserisce del
fato in pari tempo cose siffatte?
PROCLO, De Providentia et de fato, 49, I, p. 71 Cousin = SVF II, 942
Alcuni attribuirono a Dio una conoscenza determinata; altri ammisero
la necessità nelle cose che si verificano. Questi principi sono
propri della setta peripatetica e della stoica188.
CICERONE, De divinatione, I, 56, 127 = SVF II, 944
Inoltre, dal momento che tutte le cose avvengono in virtù del fato …
se ci potesse essere un mortale capace di abbracciare nella sua
mente la connessione di tutte le cause, nulla certamente gli
potrebbe sfuggire. Ma chi possiede le cause delle cose future, non
può non conoscere tutto ciò che avverrà. E poiché nessuno può fare
ciò se non è un dio, all’uomo non rimane se non presentire il futuro
da alcuni segni che annunciano determinate conseguenze. Le cose che
avverranno non vengono infatti improvvisamente all’esistenza: ma il
passare del tempo è come il volgersi di una ruota, che non produce
nulla di nuovo e ritorna su se stessa189.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 22, p. 191 Bruns = SVF II, 945
Dicono che questo universo, che contiene tutte le cose esistenti
entro di sé ed è unico ed è governato da natura vegetativa e
raziocinante e intellegibile, ha un governo delle cose che procede
entro un certo limite che lo racchiude, e un certo ordine, giacché
sussistono cause prime produttrici di effetti che in tal modo
vengono tutti collegati gli uni agli altri, e in quest’ordine non si
verifica nulla che possa essere indipendente dal resto e non
conseguirne come da causa; al contrario nulla di ciò che avviene in
seguito può essere indipendente da ciò che è avvenuto
precedentemente, ma ad ogni caso che si verifica consegue
necessariamente qualcos’altro che ne dipende come da sua causa.
Delle cose che si verificano nell’universo nulla infatti avviene
senza che ve ne sia una causa, per il fatto stesso che nulla di ciò
che avviene è indipendente e separato da quello che è
precedentemente avvenuto. Se si introducesse un qualche movimento
privo di causa, il cosmo si lacererebbe e dissolverebbe, né potrebbe
restar sempre unito e diretto secondo un unico ordine un’unica
disposizione; e significherebbe voler introdurre un simile movimento
privo di causa il dire che non tutti gli esseri e gli eventi che si
verificano hanno proprie cause precedenti, cui seguono di
necessità190. Affermano che dire che qualcosa possa verificarsi
senza causa è lo stesso che dire che qualcosa possa nascere dal
nulla; se tale fosse veramente l’ordine del cosmo, essa andrebbe in
effetti e senza possibilità di ritorno dall’infinito all’infinito.
Una volta posta questa differenziazione fra le cause, essi la
espongono dettagliatamente creando un vero sciame di cause: le
preliminari, le concomitanti, le essenziali, le coessenziali, e
altro ancora … Pur essendovi un gran numero di cause, di tutte, essi
affermano, si può comunque asserire una stessa cosa: che non è
possibile che, qualora sussistano le stesse circostanze determinanti
circa l’effetto e la causa, l’effetto possa essere di volta in volta
diverso; perché se così avvenisse si dovrebbe ammettere che vi siano
eventi privi di causa. Ma il destino stesso, e la natura, e la
ragione secondo cui il tutto è governato, nonsono altro che la
divinità, la quale sussiste in tutti gli esseri esistenti e in tutti
gli eventi che si verificano, e si serve di tutte le cose che, a
seconda della natura loro propria, cooperano ai fini
dell’ordinamento del tutto.
… Ma ciò che si è esposto, che essi pongono a mo’ di catena la
connessione di tutte le cause che producono gli esseri, sì che le
seconde si riallacciano alle prime — e in ciò pongono l’essenza del
fato — come si può negare che sia in contrasto con i fatti stessi?
PLUTARCO, De procreatione animae in Timaeo, 6, 1015c
Essi non consentono191 con Epicuro che possa esservi una
declinazione sia pur minima degli atomi, perché questo sarebbe di
fatto introdurre un movimento che ha la sua radice nel non essere;
tuttavia poi essi stessi devono riconoscere che la cattiveria e
l’infelicità e tante altre infinite assurdità di carattere fisico,
dal momento che non possono aver la loro causa nei principi, non
possono che sopravvenire accidentalmente.
PLOTINO, Ennead., III, I, 2, 17 segg. = SVF II, 946
Quelli che risalgono al principio di tutte le cose deducono poi
tutto da esso, considerando questo anche causa che abita
nell’universo scorrendo per tutte le cose e non solo causa motrice,
ma anche causa produttrice: la pongono come destino e causa
principalissima, che produce tutto192, non solo tutte le altre cose
che vengono all’esistenza, ma ritengono che anche i nostri pensieri
derivano dai suoi movimenti, così come le parti di un essere vivente
non si muovono di per sé, ma, in ciascun essere vivente, in virtù
del principio che lo regge… E chiunque dica cose di tal fatta — che
c’è una connessione reciproca delie cause, e che vi è un superiore
limite che le racchiude; che sempre a cose antecedenti susseguono
altre conseguenti che avvengono in virtù di esse né sarebbero senza
di esse, e che le conseguenti dipendono strettamente dalle
antecedenti — non farà altro che, anche se con altri termini,
affermare resistenza del fato. Ma non sbaglierebbe chi dicesse che
questi assertori del fato sono di due tipi: gli uni fanno dipendere
il tutto da un principio unico, altri diversamente193.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 23, p. 193 Bruns = SVF II, 947
Quando essi vengono a scontrarsi con difficoltà di questo genere
(sc. fenomeni superflui o mostruosi) e dicono che c’è anche di
questi una causa194 ma poi si rifugiano nella affermazione che è
oscuro quale causa sia (come in realtà sono spesso costretti a fare
parlando della loro provvidenza), non fanno che ricorrere a una
scappatoia cavandosela con aporie.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 25, p. 194 Bruns = SVF II, 948
Come può non essere evidente che è una menzogna il dire che tutto
ciò che consegue a qualcos’altro ha da esso la causa del suo essere,
e che tutto ciò che antecede una certa cosa è anche causa di
quella?… Ci si può ben meravigliare che essi offrano una spiegazione
delle cause nel senso che ciò che si è verificato prima è causa di
ciò che vien dopo, e postulare un legame generale e una continuità
assoluta delle cause e addurre questo come la stessa ragione per cui
nulla può verificarsi senza causa.
… (ma non si può dire certo che) per il fatto che la notte è causa
del giorno o l’inverno dell’estate, e che essi non si susseguono
collegati come in una catena, si verifichino senza causa195; né che,
se non avvenisse così, l’unità di tutto l’universo e delle cose in
esso contenute si dissolverebbe… Allo stesso modo non si può addurre
come causa del fatto che nulla avviene senza causa quello che essi
chiamano il «recinto delle cause».
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 25, p. 196 Bruns = SVF II, 949
Come non potrebbe essere assurdo il dire che la serie delle cause
procede all’infinito, e che il loro «recinto» e la loro connessione
sono tali che non ci può essere né un termine primo né uno ultimo?…
Se accettassimo questo ragionamento, sarebbe abolita ogni
possibilità di scienza, dal momento che la scienza in senso più
proprio è la conoscenza delle cause prime, mentre secondo loro non
vi è un termine primo nella serie delle cause. Né è vero che ogni
trasgressione dell’ordine distrugge totalmente ciò nel cui ambito si
verifica … né, se una cosa del genere si verifica nel cosmo, è detto
che ciò distrugga in assoluto la felicità del cosmo stesso, così
come una occasionale omissione dello schiavo non distrugge la
felicità della casa e del padrone.
ORIGENE, Contra Celsum, II, 20, p. 149, 22 segg. Kötschau = SVF II,
957
Ci varremo contro i Greci di quanto fu detto, in questo modo, a
Laio:
«Non generare stirpe di figli, spinto da forza demonica:
se genererai un figlio, il rampollo ti ucciderà
e tutta la tua casa si dissolverà nel sangue196».
Con tutto ciò si dimostra come fosse possibile a Laio non generare
stirpe di figli; l’oracolo non avrebbe potuto ordinargli qualcosa di
impossibile; era tuttavia possibile anche il generarla, e né l’una
né l’altra cosa doveva avvenire per necessità. Ma a lui, se non si
fosse guardato dal generare, conseguiva di necessità il subire gli
effetti di quella generazione, e tutti i luttuosi eventi di Edipo e
Giocasta. È di questo tipo anche il cosiddetto «discorso pigro»
(λόγος ἀργός), che è un sofisma: esso consiste in un ragionamento
ipotetico che prende spunto da un ammalato, e che a mo’ di sofisma
lo dissuade dal rivolgersi al medico per la sua salute. Esso suona
così: «se ti è fissato per destino di riprenderti dalla malattia, ti
riprenderai sia che tu ricorra al medico sia che tu non ricorra a
lui; ma se al contrario non è destino che tu ti riprenda, non ti
riprenderai sia che tu ricorra al medico sia che tu non ricorra a
lui; invano quindi tu ricorri al medico». Ma spiritosamente viene
paragonato a questo discorso uno siffatto: «se è tuo destino
generare figli, sia che tu abbia rapporto con una donna sia che tu
non lo abbia, li genererai; e se non è tuo destino generarli, sia
che tu abbia rapporto con una donna sia che tu non lo abbia, non li
genererai; è quindi inutile che tu abbia rapporto con una donna».
Come infatti è in questo caso — dal momento che è impossibile
generare figli se non si abbiano rapporti con una donna, non è certo
inutile averli — così, se il riprendersi da una malattia avviene in
virtù dell’arte medica, il medico diventa un momento necessario
della guarigione, ed è falso l’assioma «invano ricorri al
medico»197.
SERVIO, In Verg. Aen., IV, v. 696, pp. 582-53 Thilo-Hagen = SVF II,
958
Se infatti viviamo sotto il dominio del fato, che valore hanno i
meriti? E se invece diamo peso ai meriti, quale è il potere del
fato? come può egli qui ammettere insieme il fato e i meriti? Quando
poi dice: «ciascuno ha fissato il suo giorno», come può anche dire
«prima del suo giorno»? Si giustificano tali affermazioni al modo
seguente: vi sono predizioni di tipo perentorio e altre di tipo
condizionale198. Perentorie sono quelle che annunciano eventi che
dovranno verificarsi in assoluto: per esempio: «Pompeo trionferà tre
volte»; il fato riserva a quest’uomo, dovunque egli si trovi, un
triplice trionfo, né può accadere diversamente: perciò la predizione
che dichiara ciò è perentoria. Invece quella condizionale ha questa
forma: «se Pompeo, dopo la battaglia di Farsalo, sbarcherà in
Egitto, sarà ucciso»; non era cioè necessario in assoluto che
quell’uomo toccasse l’Egitto; se il caso lo avesse condotto altrove,
sarebbe sfuggito alla morte.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 10, p. 176 Bruns = SVF II, 959
Il dire che, per essere tutte cose rette dal destino, non si
sopprime il possibile né il contingente — giacché è pur sempre
possibile che avvenga ciò che non è impedito da niente, anche se poi
in realtà non si verifica — o che delle cose che si verificano per
fato nulla impedisce che si verifichino anche gli opposti; anche se
non si verificano, infatti, restano pur sempre possibili — o che
reca dimostrazione del loro non impedimento a esistere il fatto
stesso che i fatti impedienti ci sono ignoti, ma tuttavia sono pur
sempre fatti realmente esistenti — e ancora: che quelle che sono le
cause del verificarsi degli opposti ai fatti che avvengono per
destino, queste stesse sono anche causa del loro non verificarsi,
quando poi essi affermano che è impossibile che sotto le stesse
circostanze si producano effetti opposti; ma, come ancora dicono,
per il fatto che non ci è noto quali essi siano, per questa ragione
non c’è impedimento al loro verificarsi — il dire tutte queste cose,
non equivale a prenderci in giro?
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, p. 179, 11 segg, Bruns = SVF
II, 1140
Se tutto ciò che facciamo lo facessimo in virtù di qualche causa
predisposta, sì da non avere alcuna libertà di fare o di non fare
una certa cosa, ma lo compissimo in virtù di una determinazione,
allo stesso modo di come il fuoco riscalda, o la pietra cade verso
il basso, o il cilindro rotola a precipizio, che bisogno mai avremmo
di deliberare intorno a ciò che è da farsi?… Vano sarebbe quindi
l’aver deliberato, anche per quelle cose per cui il deliberare
sembra servirci, offrendoci vantaggi. Per questo si è detto che in
questo caso la natura ci avrebbe dato invano l’esser capaci di
deliberare. Ma poiché questi stessi filosofi dicono — e ciò sembra
del resto a tutti i filosofi — che la natura non abbia mai fatto
nulla invano199, ne deriva che non si può sostenere qualcosa in
virtù di cui si dovrebbe dire che invano la natura ci ha resi capaci
di deliberare.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 10, p. 177 Bruns = SVF II, 960
Per salvare la natura del possibile, così come abbiamo detto,
affermano che le cose che si verificano in virtù del fato non
avvengono per assoluta necessità, anche se non potrebbero avvenire
in altro modo, dal momento che è possibile che si verifichi anche il
loro opposto: e ciò è possibile, nel modo che abbiamo detto.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 10, p. 177 Bruns = SVF II, 961
Simile a questo è anche il dire: «domani ci sarà una battaglia
navale»: è vero che potrà esservi, ma non ugualmente necessario.
Necessario è ciò che è vero per sempre, mentre un discorso del
genere cessa di esser vero dopo che la battaglia sia avvenuta. Ma se
il discorso non è necessario, non è neanche necessario ciò che esso
indica, che cioè ci sarà una battaglia navale. Se vi sarà, ma non di
necessità (giacché è vero che ci sarà una battaglia navale, ma
non che necessariamente ci deve essere), è chiaro che si tratta di
un contingente; e se è così, non è vero che la contingenza sia del
tutto abolita per la ragione che tutto si verifica in virtù del
fato.
BOEZIO, In Arist. De interpr., p. 234, 1 segg. = fr. 988 Hülser
Gli Stoici considerano possibile ciò che può ricevere il predicato
di vero qualora non si oppongano determinate circostanze al suo
verificarsi (circostanze esterne, ma che tuttavia vengono a
interferire con esso). Impossibile considerano ciò che non può mai
divenir vero, perché altre realtà dal di fuori impediscono il suo
verificarsi. Necessario poi considerano ciò che, essendo vero, non
può in alcun modo ricevere il predicato di «non vero» (falsum)200.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaestiones, 1, 4, p. 10 Bruns = SVF
II, 962
Ne conseguirebbe, a coloro che dicono che tutto si verifica in virtù
del fato, che sia possibile solo ciò che è di necessità, intendendo
tuttavia questo non per necessità forzata, ma come quello di cui
l’opposto è impossibile201. E infatti solo secondo loro, che dicono
che tutto si verifica in virtù del fato, ciò che avviene per
necessità è altro da ciò che avviene necessariamente, né ciò che
avviene per necessità è ciò che avviene per forza; ma è ciò che
avviene per connessione di cause202. Si può apprendere da ciò come
per quelli che dicono che tutto avviene in virtù del fato non c’è
nulla che possa avvenire per forza. Se infatti gli eventi che si
verificano per fato avvengono entro il recinto delle cause e secondo
un ordine divino, nulla di ciò che avviene secondo quest’ordine può
avvenire per forza, e altrettanto ciò che avviene in virtù del fato…
Ma il dire che il fato opera cose tali che senza forza non possono
obbedire alle cause, sembra significare qualcosa di assolutamente
diverso dell’ordinamento divino. Se tutto si verifica in virtù del
fato, viene soppressa la possibilità che qualcosa avvenga per forza;
anche questo, come si è detto, rientrerebbe in questo caso
nell’ordinamento divino… E inoltre, se tutto ciò che avviene per
destino avviene anche provvidenzialmente, come può esser ragionevole
il dire che c’è chi agisce provvidenzialmente contro le cose che
accadono secondo un ordine razionale, o chi agisce secondo un ordine
razionale contro le cose che avvengono in virtù della provvidenza?
STEFANO, In Aristotelis artem rhetoricam, p. 263, 23 segg. Rabe =
SVF II, 963
«…ma non in assoluto, come alcuni definiscono»; così fanno gli
Stoici… Essi hanno identificato il «per lo più» col necessario:
infatti, dal momento che sanciscono con la loro dottrina che tutto
avviene per necessità, hanno soppresso il contingente, ossia quello
che, nell’uno o nell’altro modo si sia verificato di fatto, aveva
uguale possibilità di accadere203.
ORIGENE, Comm. in Genesin, I, 6-7, P. G. XII, col. 65 segg. = SVF
II, 964
Ma noi non possiamo concedere loro che il «sarà in ogni modo» voglia
dire che ciò che è conosciuto in precedenza avverrà necessariamente…
Se però qualcuno dicesse che «sarà in ogni modo» vuol dire che
alcune cose certamente saranno, ma avrebbero potuto anche avvenire
diversamente, a questo consentiremo; Dio infatti non può mentire, e
fra le cose che avverranno o non avverranno se ne possono pensare
alcune di ordine contingente… La conoscenza divina dice che «è
possibile che uno compia una certa azione, ma anche la contraria;
ammessa questa possibilità, io so che farà precisamente una delle
due cose». Se è vero che Dio può dire «non è possibile prevedere he
quest’uomo volerà» non può certo ugualmente predire, per usare
questa parola, «non è possibile prevedere che quest’uomo agirà
saggiamente»: l’uomo infatti non ha in assoluto la capacità di
volare, ma ha la capacità di agire saggiamente oppure
sconsideratamente.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 333, 1 segg. Diels = SVF II, 965
Da ciò alcuni convengono che la sorte e la causa siano poi la stessa
cosa: che cosa poi essa sia, non lo sanno però dire; ritengono che
essa sia oscura al pensiero umano, in quanto cosa divina e
straordinaria, e tale che per questo sorpassa la conoscenza degli
uomini; così sembrano dire gli Stoici… Ma l’opinione che la sorte
sia una vera propria divinità sembra esser stata corrente fra i
Greci anche prima di Aristotele; non sono gli Stoici i primi
sostenitori di essa, come alcuni credono204.
AEZIO, Plac., I, 29, 7, Dox. Gr., p. 326 = SVF II, 966
Anassagora e gli Stoici205 ritengono che la sorte sia una causa
oscura alla mente umana: alcune cose avvengono per necessità, altre
per fato, altre per libera scelta, altre per sorte, altre per caso e
spontaneità.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mantissa, p. 179, 6
segg. Bruns = SVF II, 967
Il dire che la sorte è una causa oscura alla mente umana non si
accompagna in loro a concedere alla sorte una natura sua propria, ma
all’affermazione che la sorte consiste in un certo atteggiamento
umano nei confronti delle cause… Se infatti dicessero non che la
sorte è oscura ad alcuni uomini, ma in generale a tutti gli uomini,
non ammetterebbero in assoluto che esistesse la sorte, concedendo,
come invece fanno, importanza alla divinazione come all’arte che
conosce le cose che agli altri sembrano oscure.
BOEZIO, In Arist. De interpr., p. 193, 21 segg. Meiser = fr. 1006
Hülser
Ciò che avviene per caso, essi lo commisurano non alla stessa natura
in sé della fortuna, ma alla nostra ignoranza.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 8, p. 173, 13 segg. Bruns =
SVF II, 968
Se le cose stanno cosi, se cioè alcune cose sono tali che non si
verificano in virtù di una causa principale … come può reggere un
sol punto di quanto hanno detto prima, che cioè le cose che sono e
che avvengono si verificano in base a cause principali e
determinanti e che ciascuna delle cose che sono presuppone una
causa, se poi ciò che è o si verifica non vi è necessità che sia
così? Quanto a quello che essi poi dicono proprio perché non si
vanifichino le loro premesse (cioè il dettar norme circa la sorte
gabellando questa sotto altro nome), il dire che il fatto che non
sopprime ciò il porre tutte le cose dipendenti dalla necessità, e
quindi non sopprime neanche la sorte, è puro sofisma… In questo modo
nulla impedisce di affermare che sono la stessa cosa il destino, e
la sorte, e che essi sono così lontani dall’abolire la sorte che
anzi si potrebbe dire che tutto ciò che avviene avviene in virtù
della sorte.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 7, p. 172, 12 segg. Bruns =
SVF II, 969
Non si può tener fermo all’opinione che alcune cose avvengano in
virtù della sorte semplicemente perché, sopprimendo la vera natura
di questo tipo di avvenimenti, si mette il nome di sorte alle cose
che avvengono per necessità.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 8, p. 173, 13 segg. Bruns =
SVF II, 970
Che altro fanno coloro che definiscono la sorte e la casualità
spontanea «causa oscura alla mente umana» se non introdurre e
definire un qualcosa che significa propriamente la sorte? E valersi,
per fondare questo, di argomenti del tipo «alcuni si ammalano in
maniera casuale quando sia loro oscura la causa della malattia», è
una menzogna.
TEODORETO, Graec. affectionum curatio, VI, 15, p. 258 Canivet = SVF
II, 971
E quelli della Stoa Pecile danno (alla sorte) il nome di «causa
oscura alla ragione umana».
SERVIO, In Verg. Aen., VIII, 334, p. 248 Thilo-Hagen = SVF II, 972
Parla secondo la dottrina degli Stoici, i quali attribuiscono al
fato la causa della nascita e della morte, e alla sorte tutte le
cose intermedie fra queste: incerti infatti sono tutti gli eventi
della vita umana. Per questo Virgilio ha messo insieme i due
concetti (fato e sorte), per indicare la dottrina al completo: in
realtà nulla è tanto contrario al fato quanto il caso, ma qui si
deve intendere ch’egli parlasse alla maniera degli Stoici206.
AEZIO, Plac., I, 27, 3, Dox. Gr. p. 322 = SVF II, 976
Platone ammette il fato in ciò che riguarda le anime e le vite degli
uomini, ma introduce come causa anche la libertà del volere. Gli
Stoici si comportano similmente: anch’essi dicono che la necessità è
una causa immutabile e costrittiva, e che il fato è una connessione
ordinata di cause, connessione nella quale vi è uno spazio anche per
la libertà del volere: sì che alcune cose avvengono in virtù del
fato, ma alcune no.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 13, p. 181, 13 segg. Bruns =
SVF II, 979
Dopo aver soppressa la libertà di azione e di scelta fra cose
opposte da parte dell’uomo, dicono poi che ciò che viene compiuto da
noi è in nostro potere207. Dal momento, essi dicono, che le nature
delle cose che sono e che si verificano sono diverse e altre (non
sono infatti le stesse le nature degli esseri animati e di quelli
inanimati, ma non sono uguali nemmeno quelle di tutti gli esseri
animati; essi indicano con differenze fra le nature le differenze
degli esseri secondo le specie), ogni evento si verifica per ciascun
essere secondo la natura sua propria: gli eventi relativi al legno
secondo la natura del legno, quelli che si riferiscono al fuoco
secondo la natura del fuoco, quelli che si riferiscono agli esseri
viventi secondo la natura dell’essere vivente; e niente di ciò che
avviene a ciascun essere secondo la natura sua propria può avvenire
altrimenti, ma avviene necessariamente secondo quella, in virtù di
una necessità che non è forzata, ma perché ciò che ha una natura di
un certo tipo, date certe circostanze, non può aver moti diversi da
quelli che le sono propri. Per esempio la pietra, se gettata
dall’alto, non può non ricadere verso il basso, a meno che
intervenga qualcosa a impedir ciò; per il fatto stesso che essa ha
un peso, e questa è la causa secondo natura di una simile caduta,
quando siano presenti anche cause esterne a cooperare col movimento
naturale, non è possibile che la pietra non si muova secondo la sua
natura (la soccorrono infatti in questo frangente e necessariamente
tutte le cause per cui il suo movimento si verifica); e non solo non
può non muoversi se queste sussistono, ma si muove necessariamente,
e si tratta in realtà del movimento del fato che si verifica per
mezzo della pietra. Anche negli animali vi è un movimento secondo
natura, ed è quello che si verifica per impulso. Ogni essere
animato, proprio in quanto tale si muove di un movimento prodotto da
impulso; e tale movimento è compiuto dal fato attraverso l’essere
animato. Così stando le cose, e verificandosi movimenti e atti per
opera del fato in tutto il cosmo, alcuni per terra, altri per
l’aria, altri per l’acqua, altri per il fuoco, altri ancora per
altro, e alcuni essendo in particolare movimenti propri degli esseri
viventi (quelli cioè che avvengono per impulso), dicono che i
movimenti propri degli esseri viventi sono in realtà movimenti del
fato relativi agli esseri viventi, e similmente tutti quelli che di
necessità si verificano in tutti gli altri esseri, per il fatto che
devono sussistere in quel frangente anche cause esterne, sì che per
necessità essi debbano compiere movimenti spontanei e retti da
impulso; si che alcuni movimenti si verificano per impulso e
assenso, mentre fra le altre cose alcune si verificano in virtù del
peso, o del calore, o di qualche altra 〈causa〉 di questo tipo …
〈dicendo essi〉208 che questa è la causa che si riferisce agli esseri
viventi, e non quelle altre, che si riferiscono l’una alla pietra,
l’altra al fuoco. Questa è la loro opinione intorno alla libertà del
volere, per dirla in breve.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 14, p. 183, 5 segg., 21 segg..
Bruns = SVF II, 980, 981
Poiché gli eventi che riguardano gli esseri animati non potrebbero
verificarsi se non per un impulso dello stesso essere animato, ma
l’impulso poi si attua se ci sia un assenso, e non si attua senza un
assenso, dicono che è in potere dell’essere animato dar questo o non
darlo; è necessario che ciò avvenga da parte sua (gli eventi di
questo tipo non potrebbero altrimenti verificarsi); però il non
potersi verificare per via di altro se non di questo, o non
altrimenti se non così per via di questo, dicono essere dipendente
dalla libera volontà dell’essere animato… E per questa ragione si
potrebbe chieder loro meravigliati che tipo di affezione sia questa,
per cui ritengono che la libertà del volere stia nell’impulso e
nell’assenso, ragion per cui affermano esservi tali cose in tutti
gli esseri animati. Non è vero che — come essi dicono — la
libertà del volere consista, quando ci si presenti un’immagine, nel
cedere spontaneamente ad essa, spinti da impulso verso ciò che ci
appare.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 14, p. 184, 11 segg., 20 segg.
Bruns = SVF II, 981
Se la libertà del volere consiste nell’assenso razionale, che
avviene per mezzo dell’atto deliberativo209, per essi invece, che la
fanno risiedere nell’impulso e nell’assenso, è chiaro che si tratta
di un atto irrazionale, e lo dimostra ciò che affermano con tanta
leggerezza in proposito… Trascurando come fanno di porre la ragione
nell’atto di libertà del volere e parificando questo all’impulso, il
loro sofisma dimostra anche non tengono conto nemmeno della
deliberazione.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 15, p. 185, 7 segg. Bruns =
SVF II, 982
Quanto poi al fatto che essi sospendono il giudizio sul problema
«se, date le stesse circostanze, si possa agire indifferentemente in
un modo o nell’altro, ecco che si introduce un moto senza causa», e
per questo dicono che non si può fare l’opposto di ciò che si farà
in effetti, non è forse questo un travedere?
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 15, p. 186, 3 segg. Bruns =
SVF II, 983
E quanto al dire che anche chi ha compiuto un atto di deliberazione
dà il suo assenso ad una qualche rappresentazione, e che perciò si
adegua alla rappresentazione alla stessa maniera degli altri esseri
viventi, non è vero: non tutto ciò che appare è infatti una
rappresentazione. La rappresentazione pura e semplice, irrazionale,
deriva da eventi estrinseci e si modella sull’attività sensoria, per
cui ha la sua massima forza negli animali privi di ragione, mentre
ve ne sono alcune che sono mediate dalla ragione e derivano la causa
del loro apparire da un ragionamento logico, sì che nessuno
parlerebbe più per esse di pura e semplice rappresentazione: ora,
chi dà il suo assenso in virtù del ragionamento logico che compie
nell’atto del deliberare, quello è causa a se stesso, di per sé, del
suo assenso.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 32, p. 204, 12 segg. Bruns =
SVF II, 985
Né potrebbe avere alcun significato, negli dèi, l’essere prudenti,
cosa che pure essi hanno introdotto fra i loro problemi, dicendo che
vi è nella natura di quelli una siffatta caratteristica; ma nulla di
simile è proprio a esseri così costituiti.
PLOTINO, Enn., III, I, 7, 1 segg. = SVF II, 986
Resta da vedere che cosa sia quel principio unico che collega
insieme tutte le cose e quasi le racchiude e conferisce a ciascuno
il proprio essere, e in virtù del quale tutto si compie in base alle
ragioni seminali. Questa opinione è vicina a quella che fa
discendere ogni nostro atteggiamento e movimento, in particolare e
in generale, dall’anima del tutto; tuttavia quelli che la sostengono
cercano di fare graziosamente qualche concessione a noi in quanto
individui, in tema di libertà del volere. Ma essa è tale che implica
la necessità universale sotto ogni aspetto, e, una volta assunte
insieme le cause di ogni avvenimento, è impossibile che questo
avvenimento non si verifichi: se tutte queste cause sono comprese
nel destino, nulla può impedirlo né far sì che esso si verifichi in
altro modo. Tali essendo le cause, che muovono da un principio
unico, a noi non resterà che esser portati là dove esse ci spingano:
le rappresentazioni conseguiranno a quelle che le precedono, gli
impulsi le seguiranno, la libertà del volere non sarà che un puro
nome. Il fatto che siamo noi ad avere impulsi, non vuol dire niente
di più, se poi l’impulso si verifica in base a tale causa: il nostro
impulso non sarà né più né meno che quello degli altri animali, o
dei neonati che sono diretti da impulsi ciechi, o dei pazzi;
anch’essi hanno impulsi; e, per Zeus, anche il fuoco ha gli impulsi
suoi propri, come tutto ciò che si conforma alla sua propria
costituzione e si muove in conseguenza.
CICERONE, De fato, 16, 36 = SVF II, 988
Dicono che c’è differenza fra ciò che è tale che senza di esso non
può compiersi una determinata cosa e ciò che è tale che una
determinata cosa si compie insieme con esso. Nessuna di tali realtà
è una causa, giacché non compie per sua propria virtù quella
determinata cosa di cui si dice esser causa; non è causa, infatti,
ciò senza di cui qualcosa non si verifica, ma ciò che, quando si
viene a produrre in aggiunta, dà luogo necessariamente a ciò di cui
è causa. Forse era necessario che, essendo stato Filottete straziato
dal morso di un serpente, fatto la cui causa è nella natura
dell’universo, egli fosse poi abbandonato nell’isola di Lemno? In
realtà vi fu di questo una causa più propria e in più stretta
connessione con l’effetto. La ragione naturale dell’evento non fa
altro che aprire la via alla causa210.
CICERONE, Top., 15, 58-59211
Ci sono due generi di cause: uno, ciò che produce in maniera
determinata autonomamente ciò che è in suo potere (per esempio, il
fuoco, che accende); l’altro, ciò che non ha di per sé natura tale
da poter produrre un effetto, ma senza di cui l’effetto non potrebbe
prodursi: per esempio come se qualcuno dicesse che il bronzo è causa
della statua, nel senso che la statua non potrebbe esser prodotta
senza di esso. Di questo genere di cause poi (quelle senza di cui
non si compie l’effetto), alcune sono quiescenti e non attive,
ottuse si potrebbe quasi dire: per esempio così sono il luogo, il
tempo, la materia, gli strumenti ed altre realtà dello stesso tipo;
altre invece hanno una capacità introduttiva rispetto all’effetto e
portano in sé elementi tali da risultare coadiuvanti, anche se non
determinanti: per esempio l’accostamento con un altro essere ha dato
luogo all’amore; l’amore ha dato luogo al delitto. Da queste genere
di cause, incombenti in successione perpetua, è considerato
intessuto il fato dagli Stoici.
ORIGENE, De princ., III, 1, 2, 3, p. 196 Kötschau = SVF II, 988
Delle cose che si muovono, alcune hanno la causa del loro movimento
in se stesse, e altre la ricevono dall’esterno. Semplicemente dal di
fuori si muovono tutte le cose soggette a traslazione come i legni,
le pietre, e tutti quei tipi di materia che stanno insieme per
semplice disposizione. Si prescinda nel nostro ragionamento dal
chiamare movimento lo scorrere di certi corpi fisici, perché non c’è
bisogno per il nostro assunto di prendere in considerazione questo.
Si dicono avere in sé stessi la causa del proprio muoversi gli
esseri viventi e le piante e in generale tutti quegli esseri che
sono tenuti insieme da natura e anima, fra i quali si dice esservi
anche i metalli. Inoltre anche il fuoco è capace di movimento suo
proprio, e forse anche le fonti. Di quelle realtà che hanno in sé la
causa del proprio muoversi dicono che alcune si muovono da sé e
altre di per sé: da sé gli esseri inanimati, di per sé gli esseri
animati; infatti gli esseri animati si muovono quando, al
sopravvenire di una rappresentazione, si eccita un impulso; e ancora
in alcuni di questi esseri viventi nascono rappresentazioni che
eccitano l’impulso in quanto la natura rappresentativa muove
ordinatamente l’impulso, così come nel ragno nasce la
rappresentazione del tessere e segue subito l’impulso a tessere — in
essi la natura della rappresentazione è infatti tale che suscita
solo questo impulso e l’essere vivente ordinatamente obbedisce a
quella rappresentazione soltanto e a nessun’altra — e così
similmente si può dire per le api quanto al fare la cera. Invece
l’essere razionale, oltre alla rappresentazione, possiede anche la
ragione che la giudica, e alcune rappresentazioni respinge, altre
accetta, scegliendo di agire sotto l’impulso di queste. Quindi,
poiché nella natura della ragione è anche il primo impulso alla
distinzione fra il bene e il male, e seguendo noi, questo
comprendendo razionalmente quale è il bene e quale è il male,
seguiamo l’uno e rifiutiamo l’altro, e siamo degni di lode se
attuiamo nel nostro agire il bene, di biasimo in caso contrario. Non
va ignorato che la maggior parte della natura ordinata in vista di
compiere tutte le operazioni risiede negli esseri viventi, e in
gradazione di più e di meno, sì che si può dire che in certo modo
sono più vicini alla ragione per le opere che compiono animali quali
i cani segugi oppure i cavalli da guerra. Che dal di fuori ci
sopravvenga l’una o l’altra rappresentazione che muove l’uno o
l’altro impulso, tutti son d’accordo nel dire che non dipende da
noi: ma quanto al sapersi valere di ciò che accade incidentalmente
in questo determinato modo o in un altro, non è opera di altro che
della ragione che è in noi, sia che agisca secondo gli istinti
anzidetti212 che conducono al bene sia nel senso contrario. E se
qualcuno volesse sostenere che ciò che sopravviene dall’esterno è
così forte che non è possibile resistergli una volta che si sia
verificato, questi vigili sui propri moti e sulle proprie affezioni,
sì da non concedere la propria approvazione e il proprio assenso e
fare inclinare la parte direttiva della sua anima verso qualcosa per
le sue apparenze di credibilità. Per esempio, a colui che ha
stabilito di dominarsi ed essere continente e astenersi dal coito
l’apparire di una donna che lo attragga a compiere un atto contrario
al suo proposito non è affatto una causa sufficiente perché egli
agisca contro le sue intenzioni; solo perché ha ceduto e dato il suo
assenso alla seduzione del piacere, e non vuole resistere e attuare
quanto si è prefisso, egli si lascia andare ad un’azione
incontinente.
ORIGENE, De oratione, II, p. 314, 4 Kötschau = SVF II, 989
Se c’è qualcuno che si turba chiedendosi se non ci inganni quel Dio
che sa già tutte le cose che stanno per sopravvenire, in quanto esse
sono necessarie, bisogna dirgli che tutto ciò è saldamente noto a
Dio, e cioè che non saldamente e non fortemente l’uomo vuole le cose
migliori o che gli capiterà di voler le cose peggiori in modo tale
da non esser suscettibile di un cambiamento verso ciò ch’è a lui
giovevole.
ORIGENE, De princ., III, 5, pp. 199-200 Kötschau = SVF II, 990
Dal momento che ci avviene in tal modo di incolpare le circostanze
esterne e assolvere noi stessi dalla colpa, ecco che noi trattiamo
in definitiva noi stessi come legni o pietre, che sono trascinati da
forze esterne che li muovono, e ciò non è né vero né sensato: la
definizione di un essere dotato di volontà deve esser tale da
caratterizzare concettualmente la sua capacità di
autodeterminarsi213. E se chiedessimo in che cosa questa consista,
si risponderà che consiste nel fatto che, senza la presenza di
alcunché di esterno, essendoci proposti qualcosa, si possa poi
attuare un’azione nel senso contrario… Inoltre accusare solo la pura
e semplice circostanza è contro ogni evidenza, giacché un discorso
capace di educare può aver presa anche su quelli che sono più
incontinenti e più rozzi e trasformarli, se essi seguano
l’esortazione, sì che avviene perlopiù cambiamento e miglioramento
dei loro costumi, e spesso gli individui più sfrenati diventano
migliori di quanti prima non sembravano esser tali per natura, e gli
individui più rozzi possono mutarsi arrivando a una tale gentilezza
che quelli che non sono mai arrivati a tal grado di rozzezza
sembrano poi al giudizio comparativo con essi, così mutati che
siano, rozzi alla loro volta… Così la ragione ci ammonisce che le
cose esterne non dipendono da noi, ma che il potere usare di esse in
un certo modo o nel modo oppostosta nella ragione stessa che le
giudica e che esamina come ci si deve comportare di fronte alle cose
esterne, in un modo o nell’altro.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., II, 12, 54, 5, p. 142 Stählin = SVF
II, 992
L’assenso non solo i Platonici ma anche gli Stoici dicono che sta in
noi darlo o no: ogni opinione, giudizio, supposizione, apprendimento
… non sono altro che forme dell’assenso.
AGOSTINO, De civ. Dei, V, 10 = SVF II, 995
E perciò è da temersi la necessità; e proprio perché la temevano gli
Stoici si sono dati tanto da fare a distinguere fra di loro le cause
della realtà in modo tale che alcune di esse le hanno sottratte e
altre distolte alla necessità stessa, e in quelle che non hanno
inteso assoggettare alla necessità hanno posto anche le nostre
volontà, perché non apparissero prive di libertà in quanto soggette
alla necessità.
ORIGENE, Commentarium in Genesin, 8, P. G. XII, col. 69 = SVF II,
996
Che molte fra le cose che dipendono da noi siano poi causa di cose
che non dipendono da noi, noi pure lo concediamo: se queste non si
verificassero, dico le cose che non dipendono da noi, non si
compirebbero nemmeno azioni che sono in nostro potere; si compiono
infatti alcune di queste conseguentemente a cose che son
indipendenti dal nostro volere, dal momento che è possibile, in base
agli stessi fatti verificatisi, compiere anche azioni diverse
rispetto a quelle che in realtà compiamo. Se si cerca come la nostra
libera volontà possa essere indipendente dal tutto, cosicché non
debba avvenire che scegliamo determinate cose invece di altre in
base ad avvenimenti accidentali, ci dimentichiamo che essa è una
parte del cosmo, circondata dalla comunanza degli altri uomini da un
lato, dall’ambiente naturale dall’altro.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 36, p. 210, 3 segg. Bruns =
SVF II, 1004
Nulla rimane in piedi di un ragionamento elaborato con simile arte,
e ad essi conseguirà quella conclusione — una volta impostato così
il ragionamento — che essi stessi dicono conseguire a quelli che
vogliono sopprimere del tutto la libertà del volere; cosa che essi
invece intendono salvare, ma, una volta poste certe premesse, trarre
certe conseguenze che conducono in tal senso porta all’assurdo
(anche se essi ritengono di sfuggire a tutto questo214). Infatti, se
non sono legittimi gli onori e le punizioni, non lo sono neanche la
lode e il biasimo; se non lo sono questi, non esistono azioni
lodevoli e azioni colpevoli; se non esistono queste, non esiste
neanche la virtù e il vizio; e se non esistono questi, essi dicono
infine, non ci sono neanche gli dèi. Ma la prima premessa — che cioè
non vi sia luogo né ad onori né a punizioni — consegue al fatto che
tutto quanto nella realtà si verifichi in virtù del fato, come si è
dimostrato; e quel che segue è tutto quanto assurdo ed impossibile.
Bisogna dunque abolire la premessa che tutto avviene per fato.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 38, p. 211, 28 segg. Bruns =
SVF II, 1006
Non c’è neanche bisogno di affermare — l’abbiamo già fatto prima —
che non salvano la libertà del volere quelli che credono di farlo in
base al fatto che negli esseri viventi rimane il moto per impulso
anche se tutto si verifica in virtù del fato, a meno che non si
voglia indicare semplicemente ciò che si verifica in quel
determinato individuo a seconda della natura a lui propria.
GLI DÈI, L’UNIVERSO
AEZIO, Plac., I, 6, 1 Dox. Gr, p. 292 = SVF II, 1009
Così gli Stoici definiscono la sostanza divina; soffio intelligente
igneo, che non ha di per sé forma, e si muta in ciò che vuole,
assimilandosi a tutto. La nozione del divino si ha inizialmente
dall’apparire della bellezza. Nulla infatti di ciò che è bello è
nato a caso e fortuitamente, ma esso è indice di una arte che lo ha
foggiato. Il mondo è bello: e lo è, evidentemente, per la sua forma,
il suo colore, la sua grandezza, il vario disegno delle stelle che
lo circonda. Ed è sferico, il che significa che ha la forma
migliore215.
FILONE ALESSANDRINO, De spec. legibus, I, 32, V, p. 8 Cohn = SVF II,
1010
Nelle ricerche sulla divinità, due sono le domande circa le cose
supreme che si pone chi faccia dell’autentica filosofia: una se ci
sia un Dio … l’altra quale sia la sua essenza… Sempre per natura ciò
che è foggiato induce alla conoscenza di colui che lo ha foggiato:
chi, guardando statue e pitture, non pensa subito allo scultore o al
pittore? e chi vedendo vesti o navi o case non ha una nozione del
tessitore o del nocchiero o dell’architetto? E se qualcuno giunga in
una città ben amministrata, in cui tutte le cose relative alla
costituzione sono in buon ordine, che cosa pensa o suppone se non
che questa città sia retta da buoni governanti? Ecco che allora uno
che giunga in questa vera Megalopoli216, il mondo, e vedendo monte e
piano ridondanti di animali e piante, e le correnti di fiumi che
vengono di lontano, e l’effondersi dei mari, e l’aria ben temperata,
e il mutarsi dei venti stagionali; e inoltre il sole e la luna,
signori del giorno e della notte, e l’errare e le danze di tutte le
stelle fisse e mobili e di tutto il cielo, non dico ragionevolmente,
ma necessariamente si farà un’idea del padre e fattore e signore di
questo universo. Nulla delle opere d’arte nasce a caso: e il mondo è
la più grande opera d’arte, sì che non può esser stata foggiata
altro che da un essere superiore per scienza e perfettissimo in
assoluto.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 78-87 = SVF II, 1013-1014
Dei corpi alcuni sono unitari, altri constano di parti contigue,
altri ancora di parti separate. Unitari sono quelli che sono retti
da una unica disposizione, come le piante e gli animali; contigui
nelle loro parti quelli che sono composti di parti giustapposte e
tendenti a un solo fine costitutivo, per esempio una catena, una
torre, una nave; fatti di elementi separati quelli che constano di
parti separate e a sé stanti, come per esempio un esercito, un
gregge, un coro. Ora, dal momento che l’universo è corporeo, si
impone che sia o un corpo unitario, o un corpo fatto di parti
contigue, o un corpo fatto di elementi separati. Che esso non ricada
in nessuno di questi due casi, lo si dimostra in base alla simpatia
che lo regge. Per esempio, a seconda del crescere o del calare della
luna molti fra gli animali terrestri e acquatici si distruggono o
hanno incremento, e in certe parti del mare si verificano alte o
basse maree. Così pure avviene che, a seconda di certo sorgere e
tramontare di stelle, vi siano trasformazioni nell’ambiente che
circonda e diversissime variazioni dell’aria, talvolta in meglio,
altre volte in maniera esiziale. Da tutto ciò è chiaro che
l’universo è per sua natura un corpo unitario. Nei corpi che stanno
insieme per contiguità o constano addirittura di parti separate, non
vi è simpatia delle parti fra di loro: per esempio, in un esercito,
se tutti meno uno i soldati siano uccisi, quello che si salva non
sembra subire danno per trasmissione; invece nel caso di un corpo
unitario la simpatia che congiunge le parti fa sì che per esempio,
tagliato che sia un dito, tutto il corpo soffra. Si può quindi dire
che l’universo è un corpo unitario.
I corpi unitari sono poi tenuti insieme o da pura disposizione,
(ἓξις), oda tendenza naturale (φύσις), o da un principio animato
(ψυχή), (il primo caso è quello del legno o delle pietre, il secondo
delle piante, il terzo degli animali); e quindi l’universo deve di
necessità esser retto da uno di questi tre principi. Ma non potrà
esserlo da pura disposizione: le cose che sono rette da questa non
sono suscettibili di nessun notevole cambiamento, e per esempio cose
come legno o pietra non subiscono altri processi che quelli della
dilatazione o compressione; invece il cosmo subisce rilevanti
cambiamenti, e l’ambiente che ci circonda si fa di volta in volta
glaciale oppure ardente, secco o umido, e subisce ancora altri
mutamenti a seconda dei moti del cielo; non è dunque possibile che
l’universo sia retto da pura disposizione. Se non da questa, lo è
certamente da disposizione naturale; ma ciò perché anche i corpi che
sono retti da un principio animato lo sono in primo luogo in virtù
di disposizione naturale, ed è necessario che risponda al principio
della migliore natura quello che comprende in sé le nature di tutte
le cose. Ma quello che contiene in sé le nature di tutte le cose di
necessità contiene le nature razionali, e non è certo possibile che
il tutto sia di natura inferiore a certune delle parti che contiene.
Se poi ammettiamo che la natura che regge il cosmo è la migliore fra
tutte, dobbiamo pensarla come intelligente e buona e immortale. Una
simile natura è la divinità: vi sono quindi gli dèi.
E se nella terra e nel mare esistono molti esseri animati della più
grande varietà, che partecipano di capacità psichica e di funzioni
sensitive, è di gran lunga più credibile che anche nell’aria (che è
molto più pura e sottile in confronto alla terra e all’acqua)
esistano esseri viventi dotati di anima e intelligenza. Ciò si
accorda col detto che i Dioscuri sono buoni démoni, «salvatori delle
ben calibrate navi», e che tre volte diecimila sono i guardiani
immortali di Zeus sulla terra ricca di frutti, posti a guardia degli
uomini mortali217.
Inoltre, se è credibile che ci siano esseri viventi propri
dell’aria, è del tutto ragionevole supporre che ve ne siano anche
nell’etere, donde gli uomini traggono la loro intelligenza,
partecipando della sua proprietà specifica. Se vi sono esseri
viventi eterei, che sono anche con tutta evidenza superiori agli
esseri terrestri, in quanto indistruttibili e ingenerati, si dovrà
ammettere di necessità che vi siano anche dèi, non differenti da
questi.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 95-100 = SVF II, 1015
Tale è il discorso di Senofonte218 e ha tale forza induttiva: «molta
terra è nel cosmo e tu ne hai una piccola parte; e molta acqua è nel
cosmo e tu ne hai una piccola parte; e analogamente, poiché molta è
l’intelligenza nell’universo, tu ne hai una piccola parte; quindi
l’universo è intelligente; e quindi è divino». Ci sono alcuni che
stravolgono questo discorso traducendolo in altre espressioni, e
dicono: «molta terra è nel cosmo e tu ne hai una piccola parte, e
molta acqua è nel cosmo e tu ne hai una piccola parte; analogamente
si può dire dell’aria e del fuoco; e quindi anche si può dire che
c’è molta bile nell’universo e tu ne hai una piccola parte, e
analogamente si può dire del flegma e del sangue». Ne conseguirà che
l’universo sia considerato produttivo di bile e sangue, il che è
assurdo. Ma essi si difendono dicendo che questo argomento non ha
alcuna somiglianza con l’argomentazione di Senofonte, perché quello
basa il suo discorso su corpi primi ed elementari come aria acqua
terra e fuoco, quelli che stravolgono il suo discorso si valgono ad
esempio di corpi composti… È possibile proporre l’argomento anche in
questa forma: «se nell’universo non ci fosse niente dell’elemento
terra, nemmeno in te ve ne sarebbe; e se non vi fosse niente
dell’elemento acqua, nemmeno in te ve ne sarebbe; similmente per ciò
che concerne aria e fuoco. Se quindi nell’universo non vi fosse
intelligenza, neanche in te ve ne sarebbe; ve n’è quindi. Perciò il
cosmo è intelligente e se è intelligente è anche divino». E la
stessa efficacia ha quell’altro argomento di questa forma: «se tu
vedessi una statua costruita con arte sareste in dubbio se una mente
intelligente dotata di capacità artistica ne sia il produttore? o
saresti così lontano dal nutrire dubbi in proposito che anzi
ammireresti la straordinaria abilità e arte di chi l’ha prodotta? Ma
allora, se contemplando la forma di cose esterne tu rendi
testimonianza a chi le ha foggiate e affermi che ne esiste un
produttore, contemplando l’intelligenza che è in te, intelligenza
che per la sua così grande varietà è ben superiore a qualsiasi
statua e a qualsiasi pittura, potresti forse pensare che essa si sia
prodotta in virtù del puro caso, e non invece per opera di qualche
artigiano dotato di capacità e di intelligenza superiore?
E questo non potrebbe vivere se non nell’universo, governandolo e
facendo nascere e crescere le cose che sono in quello. Ma un essere
simile è dio; quindi gli dèi esistono».
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 111-114 = SVF II, 1016
Inoltre gli Stoici e quelli che la pensano come loro cercano di
dimostrare l’esistenza degli dèi anche in base al movimento
dell’universo. Che l’universo si muove chiunque lo accorderebbe
facilmente, in base a molte prove. Perciò si muove o per tendenza
naturale, o per libera scelta, o per vortice o per necessità. Ma non
è ragionevole pensare che si muova per una di queste due ultime
cause. Il vortice è disordinato oppure ordinato: ma se è disordinato
non ha la possibilià di imprimere ad alcunché un moto ordinato; se
poi imprime un movimento qualsiasi con ordine e armonia, ha in sé
qualcosa di divino o demonico; né potrebbe muovere il tutto in forma
ordinata o tale da conservare il suo essere se non fosse esso stesso
intelligente e divino. Un essere che sia così però non si può più
chiamare un vortice: questo è per sua natura disordinato e di breve
corso. Necessario è quindi affermare che il cosmo non si muove in
virtù di un vortice come vorrebbe Democrito; ma neanche in base a
una tendenza naturale priva di capacità di rappresentazione, perché
la natura intelligente è superiore a una simile tendenza. Se poi è
vero che noi vediamo che nature intelligenti sono comprese
nell’insieme dell’universo, necessariamente dobbiamo dedurne che
anch’esso ha una simile natura, in virtù della quale è mosso
ordinatamente; e questa natura è senz’altro la divinità219.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 123-131 = SVF II, 1017-1018
Osserviamo poi di seguito anche l’argomentazione che fa conseguire
assurdità alla negazione del divino. Se non vi fossero gli dèi, non
vi sarebbe la pietà220. La pietà è scienza del culto divino: ma non
vi può esser servizio di qualcosa di non esistente, quindi non vi
potrebbe esser nemmeno una scienza intorno a questo. E come non è
possibile che vi sia una scienza del culto degli ippocentauri, dal
momento che questi non esistono, così si dovrebbe dire della scienza
del culto degli dèi, dal momento che si afferma che questi non
esistono. Se non vi sono degli dèi, non esiste la pietà; ma questa
esiste; bisogna quindi ammettere che vi siano gli dèi.
Inoltre: se non vi sono gli dèi, non esiste la santità, che è una
forma di giustizia nei riguardi degli dèi stessi; tuttavia secondo
le nozioni comuni e anticipazioni221 di tutti gli uomini esiste la
santità, perciò vi sono cose sante; e quindi il divino esiste. E se
non vi fossero dèi, non dovrebbe esistere la sapienza, che è scienza
delle cose umane e divine; e a quello stesso modo che non si dà
scienza delle cose degli uomini e degli ippocentauri, per il fatto
che gli uomini esistono ma gli ippocentauri no, così non ci potrebbe
essere una scienza insieme delle cose relative agli uomini e agli
dèi se gli uomini esistono e gli dèi no. Ma è assurdo dire che non
esiste la sapienza; e quindi è assurdo anche dire che gli dèi sono
inesistenti. E se è stata introdotta la nozione di giustizia proprio
in virtù della relazione reciproca fra gli uomini e di questi con
gli dèi, si dovrà dire che, se non ci sono gli dèi, non sussiste
neanche la giustizia; il che è assurdo… E perché gli Stoici dicono
che c’è questo legame reciproco fra gli uomini e fra uomini e dèi?
Non possono basare questa loro asserzione sulla dottrina dello
spirito che pervade tutto il cosmo, perché in questo caso sarebbero
costretti ad affermare che c’è una relazione giuridica anche fra noi
e gli animali irragionevoli222; ma dicono che ciò avviene perché
abbiamo la ragione che ci pone in relazione gli uni con gli altri e
si estende agli dèi; mentre gli animali irragionevoli, proprio
perché della ragione non sono partecipi, non possono trovarsi in
relazione giuridica con noi. Se quindi c’è il concetto di una
giustizia basata su una certa comunanza degli uomini fra di loro e
degli uomini con gli dèi, bisognerà anche ammettere che, venuti meno
gli dèi, dovrà venir meno anche la giustizia. Ma la giustizia
esiste; bisogna quindi affermare che esistono anche gli dèi.
Inoltre, se non ci sono gli dèi non c’è neanche la divinazione, che
è la scienza che contempla e interpreta i segni dati dagli dèi agli
uomini; non vi è predizione per ispirazione o per astrologia o per
via di sacrifici223 o per via di sogni. Ma è assurdo il voler
abolire una moltitudine di cose comunemente credute da tutti gli
uomini. Vi sono dunque gli dèi.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 77 = SVF II, 1020
Inoltre ciò che genera l’essere ragionevole e saggio deve esser
anch’esso ragionevole e saggio; ma quella forza di cui abbiamo
parlato224 è capace naturalmente di generare gli uomini; e quindi
deve essere ragionevole e intelligente, il che è proprio della
natura divina. Vi sono dunque gli dèi.
SENECA, De beneficiis, IV, 7 = SVF II, 1024
«La natura» dice «ci offre tutte queste cose». Non capisci che, così
dicendo, non fai che parlare di dio con altro nome? che cos’altro è
infatti la natura se non la divinità e la ragione divina che è
insita in tutto il mondo e nelle sue singole parti? Potrà pure di
volta in volta chiamare con altri nomi questo autore della realtà in
cui viviamo; giustamente lo chiamerai Giove massimo, tonante,
statore… Se poi lo chiamerai fato, non ti sbaglierai. Infatti, dal
momento che il fato non è altro che una serie concatenata di cause,
esso è la prima di tutte le cause, quella da cui tutti le altre
dipendono. Giustamente potrai adattare alla divinità tutti i nomi
che hanno in sé un significato indicante una forza e un effetto
operante nel cosmo: essa può ricevere tanti appellativi quanti
funzioni sono in lei.
GIOVANNI DAMASCENO, De haeresibus, 7, p. 22 Kotter = SVF II, 1026
Gli Stoici affermano che tutto è corporeo e ritengono che la
divinità si identifichi con questo nostro cosmo sensibile. Alcuni
ritennero che la sua sostanza fosse di natura ignea. E definiscono
la divinità intelletto, perché è anche anima del tutto e involucro
della terra e del cielo. Corpo della divinità è il tutto, come egli
disse, e occhi sono i corpi luminosi. La carne si distrugge, ma
l’anima di tutti si trasferisce di corpo in corpo225.
AEZIO, Plac., I, 7, 33 Dox. Gr., pp. 305-306 = SVF II, 1027
Gli Stoici dicono che la divinità è intelligente, è un fuoco dotato
di arte, che procede con metodo a produrre il cosmo, e contiene in
sé tutte le ragioni seminali in virtù delle quali ogni cosa avviene
per destino; ed è anche soffio vitale che percorre tutto l’universo,
e assume denominazioni diverse a seconda dei mutamenti della materia
per la quale trascorre. Dèi sono l’universo e la terra e gli astri;
e l’intelletto, che è al di sopra di tutto, nell’etere.
ATENAGORA, Apologia, 6, pp. 32-34 Otto = SVF II, 1027
Gli Stoici, anche se, con denominazioni che variano a seconda dei
mutamenti della materia (per la quale dicono trascorrere il soffio
vitale di dio) riempiono la divinità di nomi, in realtà ritengono
che vi sia un solo dio.
TEODORETO, Graec. affect. cur., 11, 113, pp. 169 Canivet = SVF II,
1028
Si fuggirà anche la sconveniente credenza degli Stoici circa la
natura del divino: essi credono infatti che sia corporeo.
OLIMPIODORO, In Plat. Phaed., p. 35, 3 segg. Norvin = SVF II, 1030
E anche il coro dei filosofi, gli Stoici dico, ritennero corporea la
divinità per il fatto che opera secondo rappresentazione: questa
infatti conferisce corporeità agli incorporei.
SERVIO, In Aen., VI, 727, p. 102 Thilo-Hagen = SVF II, 1031
Ma certo egli parlava seguendo quelli che affermano esser la
divinità corporea e definiscono lo stesso dio come «fuoco dotato di
capacità di sentire»226; se ciò è vero, esso è un corpo.
EUSEBIO, Praep. Evang., III, 9, 9 = SVF II, 1032
… Secondo gli Stoici, che affermano esser la sostanza ignea e calda
la parte direttiva del cosmo, e la divinità essere corpo e
coincidere con il demiurgo, né essere altra cosa dalla capacità
stessa di cui è dotato il fuoco.
TEOFILO, Ad Autolycum, II, 4, pp. 52-54 Otto = SVF II, 1033
Altri sostengono la dottrina secondo cui il soffio vitale che
percorre il tutto è la divinità stessa.
TERTULLIANO, Apol., 47, 6, p. 110 Hoppe = SVF II, 1034
Altri ritengono che sia (la divinità) di natura corporea e altri
incorporea; e sono i Platonici e gli Stoici… Ma gli Stoici ritengono
che essa sia posta fuori dal mondo e che plasmi la mole di questo
come uno scultore la creta.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, V, 14, 89, 2, p. 384 Stählin = SVF
II, 1035
Gli Stoici dicono che la divinità è una sostanza corporea, e secondo
la sua essenza227 è un soffio vitale, come ovviamente anche l’anima…
Ma questi dicono che la divinità è ciò che scorre per tutta la
materia.
TERTULLIANO, Adv. Hermog., 44, p. 173 Kroymann = SVF II, 1036
Ma gli Stoici affermano che dio scorre per la materia allo stesso
modo che il miele per i favi.
SESTO EMPRICO, Pyrrh. Hypotyp., III, 218 = SVF II, 1037
Aristotele diceva che la divinità è incorporea ed è limite del
cielo; gli Stoici invece che è un soffio vitale che scorre anche per
le cose infime.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., 113, 12 segg.
Bruns = SVF II, 1038
Mi sembra che a costoro accada di dire che l’intelletto pur essendo
divino si trova anche nelle cose più vili, così come ritenevano gli
Stoici.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Protrept, 5, 66, 3, p. 50 Stählin = SVF II,
1039
Né trascurerò gli Stoici, i quali dicono che la divinità scorre per
tutta la materia, anche nella parte più vile di essa228.
LATTANZIO, Div. inst., VII, 3, p. 587 segg. Brandt = SVF II, 1041
Gli Stoici dividono la natura in due parti: una dotata di capacità
agente e l’altra che si presta a malleabile oggetto dell’azione.
Nella prima sta la capacità di sentire e nell’altra la materia; né
l’una può star senza l’altra. Ma come può essere la stessa cosa ciò
che foggia e ciò che è foggiato? Se si voglia dire che il rapporto è
quello che c’è fra il vasaio e la creta, o che la creta è la stessa
cosa del vasaio, non è evidente che queste sono discorsi da pazzi?
Costoro sotto un solo nome comprendono due cose diversissime, Dio e
il mondo, l’artefice e l’opera, e dicono che l’uno non ha alcuna
consistenza senza l’altro quasi che la natura si identifichi con la
divinità commista al mondo. E confondono le due talvolta in modo
tale che Dio diviene per loro la mente del mondo, il mondo corpo di
Dio: come se Dio e mondo avessero lo stesso punto d’inizio, e non
invece l’uno fosse autore dell’altro! Essi stessi poi in altri
luoghi son costretti a riconoscere questo, quando affermanc che il
mondo è stato foggiato in vista degli esseri umani... Tuttavia in
ciò errano non poco, dicendo che il mondo è stato foggiato in vista
degli uomini, e non dell’uomo (infatti, il singolare comprende in
realtà tutto il genere umano) e anche in quanto ignorano che un solo
uomo è stato foggiato direttamente da Dio, ma credono invece che gli
uomini si siano prodotti come funghi per tutte le terre e i campi.
SALVIANO, De gubern. Dei, I, 3, pp. 3-4 Pauly = SVF II, 1043
Platone e tutti i Platonici affermano che Dio è il reggitore
dell’universo. Gli Stoici affermano che esso si trova sempre
all’interno di quella stessa realtà che regge.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixtione, p. 225, 18 segg. Bruns =
SVF II, 1044
Inoltre ci si potrebbe chiedere se si può dire che delle cose che
derivano dalla materia sia artefice quella divinità che abita la
materia stessa e risiede in lei. Per argomentare in tal modo essi si
valgono dell’affermazione che le cose prodotte da natura non sono
formate allo stesso modo che quelle prodotte dall’arte. I prodotti
della natura non sono elaborati solo in superficie, ma sono formati
e foggiati in tutti i loro elementi, e anche le loro parti interne
sono foggiate con arte accurata. Dell’arte, al contrario, pur
esistendo un processo formativo, come si vede dalle statue, le parti
interne sono lasciate grezze. Dicono perciò che la causa efficiente
di ciò che è prodotto di arte è esterna e separata, mentre la forza
che plasma e produce ciò è secondo natura è interna alla materia
stessa.
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 12, 926c = SVF II, 1045
E io dissi: «la stessa anima, per Zeus, non circonda certo il corpo
con caratteri che sono contro la natura di questo, rapida mentre
esso è lento, ardente mentre esso è freddo, invisibile mentre essa è
visibile, come voi, (Stoici), dite. Perciò guardiamoci dal dire che
l’anima rispetto al corpo (dell’universo?229) è come una realtà di
natura divina e intelligente che percorre tutto il cielo e la terra
e il mare permanendo in essi e quasi volando in essi, e permea la
carne e i nervi e il midollo e le parti umide piene di infinite
affezioni. È forse Zeus per noi questa realtà che, non valendosi
della sua propria natura, è un fuoco grande e continuo, e ora si
allenta ora si tende in arco ora prende figure varie, divenendo e
pronto a divenire ogni cosa230 nelle sue trasformazioni?».
SOFONIA, Paraphrasis in De anima, p. 36, 9 segg. Hayduck = SVF II,
1046
Ultima e definita opinione circa l’anima, questa: alcuni dicono che
essa è commista con tutto l’universo e ritennero che ogni corpo
esistente sia animato; per cui Talete credeva che tutto fosse pieno
di dèi. E qualcuno potrebbe addurre anche l’opinione degli Stoici,
secondo i quali è un corpo di natura divina ed è presente dovunque
proprio in quanto corpo, non solo per la sua funzione attiva.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixtione, p. 226, 10 segg. Bruns =
SVF II, 1047
Per via di quello che dicono, sembra che concepiscano la divinità
come forma della materia: se infatti secondo loro la divinità si
mischia alla materia come negli esseri viventi l’anima al corpo, e
dio è la forza attiva che è nella materia (dicono infatti che la
materia per mezzo di questa forza produce le cose che sono in
lei),231 sembra che in realtà intendano dire che forma di essa è la
divinità, come l’anima lo è del corpo e la potenza di ciò che è in
potenza. Ma se le cose stanno così; come potrebbe la materia esser
priva di forma secondo la caratteristica che le è propria? se il
fatto di restare coerente a se stessa e di essere materia nella sua
essenza deriva dalla capacità che è insita in essa! A quanto essi
dicono, soprattutto nella conflagrazione universale appare chiaro
che la divinità è la forma della materia, dal momento che nel fuoco,
che è il solo in quel caso a restar sussistente, continuano ad
esistere insieme la divinità e la materia. Si potrebbe quindi dire
che in quel caso la divinità è forma del fuoco in cui consiste la
materia. Ma se ciò è vero, e cioè se il fuoco subisce una
trasformazione in altri corpi mutando di forma, si dovrebbe dire che
la divinità subisce distruzione.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixtione, p. 226, 24 segg. Bruns =
SVF II, 1048
Come non potrebbe essere cosa indegna della prenozione che abbiamo
di dio il dire che esso scorre per tutta quanta la materia posta a
sostrato in tutti i suoi aspetti e rimane sussistente in essa così
come essa è, e la sua opera preminente è il generare sempre qualcosa
e il foggiare qualcuna delle realtà che possono nascere dalla
materia; sì che si finisce col fare la divinità artefice dei vermi e
delle zanzare, come un fabbricante di pupazzi che si diverta col
fango e foggi tutto ciò che da questo può derivare?
PORFIRIO presso EUSEBIO, Praep. evang., XV, 16, 1-2 = SVF II, 1050
Non esitano ad affermare che il dio, pur essendo fuoco intelligente,
è eterno, e dicono che distrugge tutte le cose ma esso di per sé
permane, e intendono un fuoco come quello che noi conosciamo nella
nostra esperienza, opponendosi ad Aristotele, il quale si rifiuta di
ammettere che l’etere sia fatto di un simile fuoco. Se si chiede
loro come faccia un simile fuoco a sussistere sempre, sostengono che
non si tratta di un fuoco estraneo a quello che ci è noto; e così
dicendo e ritenendo che si debba credere alle loro affermazioni,
aggiungono ancora, in connessione con questa loro irragionevole
credenza, che è un fuoco eterno, supponendo che in parte l’elemento
etereo si spenga e si riaccenda successivamente232.
ORIGENE, Contra Celsum, VI, 7, p. 141 Kötschau = SVF II, 1051
Egli crede che quando noi diciamo che Dio è spirito non differiamo
in niente da quei filosofi greci che sono gli Stoici, secondo i
quali la divinità è un soffio vitale che tutto percorre e tutto in
sé contiene… Tutti infatti contiene e abbraccia in sé la provvidenza
quelli che sono i suoi oggetti… Secondo dunque gli Stoici, i quali
dicono che i principi sono corporei, e perciò considerano tutto
distruttibile, e corrono il pericolo di coinvolgere in questa
distruzione perfino la divinità che è al di sopra di tutto, evitando
di arrivare a tale conseguenza solo perché palesemente assurda,
anche la parola di Dio233 che discende agli uomini o alle cose anche
le più infime, non è altro che un soffio vitale di natura corporea.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 14, p. 284, 23 segg. Kötschau = SVF II,
1052
Ma anche il dio degli Stoici, in quanto è di fatto un corpo,
talvolta è esso stesso tutta quanta la realtà in quanto parte
direttiva e ciò per esempio quando avvenga la conflagrazione
universale; talaltra risiede nelle varie parti della realtà, e ciò
quando si sia in periodo di ordinamento dell’universo. Essi non
hanno saputo chiarire la vera nozione naturale del divino, come
assolutamente indistruttibile, semplice, incomposto, indivisibile.
ORIGENE, Contra Celsum, I, 21, p. 72, 11 segg. Kötschau = SVF II,
1053
… poiché egli introduce un principio distruttibile, di natura
corporea; in virtù del quale principio gli Stoici ritengono che
anche la divinità sia un corpo, e non si vergognano di affermare che
essa, trovandosi diffusa per tutto l’universo, cambia e si trasforma
e quasi quasi corre il rischio di distruggersi, ammesso che ci sia
chi la distrugge; ha la fortuna di non venir distrutta solo perché
non vi è qualcosa che sia capace di farlo234.
ORIGENE, In Ioannis Evangelium, XIII, 21, p. 244, 31 segg. Preuschen
= SVF II, 1054
Pochi hanno avuto una esatta comprensione circa la natura del
corporeo e soprattutto di quelle entità corporee che sono foggiate
in base a ragione e provvidenza: e ciò perché hanno affermato che il
soggetto di tale ordinamento provvidenziale è della stessa essenza
di ciò che è oggetto dell’ordinamento stesso secondo la sua
definizione generica, pur essendo perfetto e differente da tale
oggetto. Così essi accolsero nel loro ragionamento proposizioni
assurde, come l’affermazione, per esempio, che la divinità è di
natura corporea, non essendo capaci di prevedere le conseguenze cui
nel loro ragionamento sarebbero evidentemente andati incontro. E
dice ciò con l’esclusione di quelli che affermano esservi una quinta
materia al di là dei quattro elementi fisici. Se ogni corpo ha
natura materiale, che nella sua essenza si trova ad essere priva di
qualità, mutevole e cangiante e tale da potersi trasformare in
tutte, e tale da accogliere in sé tutte le qualità che il demiurgo
voglia darle, necessariamente anche la divinità sarà, in quanto
materiale, mutevole e soggetta a cambiamento e a trasformazione «Ed
essi non si vergognano di dire che la divinità può perire, dal
momento che è un corpo; è tuttavia un corpo fatto di soffio vitale e
di etere, a somiglianza della parte direttiva; pur essendo di sua
natura distruttibile, non si distrugge in effetti perché non c’è
nulla che possa distruggerlo.
PS. GALENO, De qualitatibus incorporeis, 6, XIX, p. 479 Kühn = SVF
II, 1056
Se Zeus, cambiando se stesso, subisce infinite trasformazioni nelle
sue qualità in numero uguale agli accidenti che ho detto, esso sta
peggio del Proteo di cui si favoleggia; quello infatti si cambiava e
trasformava io poche fiatare, e di natura non sconveniente.
questi divenne dapprima un nobile leone
e poi un serpente e una pantera, quindi un grande cinghiale, poi
ancora grande corrente d’acqua, ed albero molto fronzuto235
ma questo non c’è aspetto dei più turpi in cui rifiuti di mutarsi…
Se poi non è lui stesso che si muta, ma semplicemente muta la
materia, e la forma e foggia, mi chiedo come sia capace di compiere
tutto questo.
LATTANZIO, De ira Dei, 18, 13, p. 117 Brandt = SVF II, 1057
Lascio da parte la questione della figura di Dio: gli Stoici infatti
dicono che la divinità non ha alcuna forma.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VII, 7, 37, 1, p. 28 Stählin = SVF
II, 1058
Dio non ha dunque una figura simile all’umana, né questo gli serve
per ascoltare; egli non ha bisogno di sensazioni, come ritennero gli
Stoici, in particolare né di udito né di vista; non può infatti
esser compreso in altra forma236.
SENECA, Apocolocynthosis, 8 = SVF II, 1059
Dicci solo che razza di dio è questo. Il dio di Epicuro, non può
essere; quello non è in affanno né procura affanni agli altri. Forse
il dio stoico? come può esser rotondo, come dice Varrone237, se non
ha né testa né prepuzio? Ma in lui, vedo, c’è qualcosa del dio
stoico; non ha né cuore né capo.
[METRODORO DI LAMPSACO, De sensu?], Voll. Herc.1 VI, 2, p. 250 Scott
= SFV II, 1060
A Stoici e Peripatetici c’è questo da dire: «come può avere, come
sua propria forma, quella sferica?»238.
SERVIO, In Aen., X, 18, p. 385 Thilo-Hagen = SVF II, 1061
«O padre, o eterno potere che regni su uomini e dèi»… L’una delle
due cose la dice secondo l’opinione dei filosofi naturalisti, e
l’altra secondo l’opinione degli scienziati. «Potere su tutti gli
dèi»: perché si identifica con l’etere, che ha il predominio su
tutti gli altri elementi.
SENECA, Epist. ad Luc., 9, 16 = SFV II, 1065
Quale sarà la vita del sapiente se sia lasciato senza amici …
gettato su un lido deserto? Press’a poco quella di Giove, quando,
dissoltosi il mondo e tutti gli dèi confusi insieme, venuta meno per
poco la stessa natura, si raccoglie in se stesso dandosi alla sua
attività, il pensare239. Qualcosa di simile fa il sapiente: si
raccoglie in sé, sta con se stesso.
SERVIO, In Verg. Aen., I, 47, p. 32 Thilo-Hagen = SVF II, 1066
I fisici affermano che per Giove si deve intendere l’etere o il
fuoco, per Giunone240 l’aria; e poiché questi elementi sono simili
per la loro tenuità, dissero che sono fratelli. Ma poiché Giunone,
cioè l’aria, è soggetta a Giove, cioè il fuoco, fu dato il nome di
marito all’elemento che ha una posizione giuridica di superiorità.
SERVIO, In Verg. Aen., IV, 638, pp. 374-375 Thilo-Hagen = SVF II,
1070
Bisogna sapere che gli Stoici dicono che la divinità è una sola, ma
che il suo nome varia a seconda dei suoi diversi atti e delle sue
diverse funzioni. Perciò dicono anche che ci sono divinità dei due
sessi, considerando la divinità maschile quando è attiva e femminile
quando mostra natura passiva241.
CICERONE, De nat. deor., II, 26, 66 = SVF II, 1075
L’aria poi, secondo gli Stoici, interposta fra il mare e il cielo, è
considerata divina col nome di Giunone, sorella e moglie di Giove,
perché essa è simile all’etere e in particolare congiunzione con
esso. Resero femminile tale elemento, e lo attribuirono a Giunone,
poiché non vi è nulla di più cedevole242.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 41, p. 76 Aucher = SVF II,
1079
Se è vero che per fare allegoria su Vulcano, lo si rappresenta come
il fuoco, e Giunone è riportata alla natura dell’aria; Mercurio
invece al raziocinio; così come tutte le altre realtà di questo
tipo, a seconda che certe proprietà li caratterizzano, sulla scorta
della teologia, in tal caso dovrai lodare quei poeti che hai
poc’anzi accusati per aver essi celebrato come si conviene la
divinità.
CICERONE, De nat. deor., II, 28, 71 = SVF II, 1080
Tuttavia, lasciando da parte queste favole, e non considerandole
valide, si è potuto comprendere quale e come sia la divinità che
conviene ad ogni aspetto della realtà — Cerere per la terra, Nettuno
per il mare, altri per altre parti — e qualunque sia il nome che ha
loro dato l’uso comune, sono essi che dobbiamo venerare e
onorare.
Scholia in Hesiod. Theog., v. 134, pp. 223-24 Flach = SVF II, 1086
Dicono simbolicamente che Geo (Koios) è la qualità (ποιότης) e Crio
è il giudizio (κρίσις); Iperione il cielo perché si muove al di
sopra (ὑπεράνω) di noi, e lapeto il suo movimento, per via
dell’essere lanciato (ἳεσθαι) e del volare (πέτεσθαι): il cielo è
infatti sempre in moto. O diversamente, dicono che Iapeto è il
movimento del raziocinio perché esso continuamente interroga e
ricerca intorno a tutte le cose.
Scholia in Hesiod. Theog., v. 459, p. 256 Flach = SVF II, 1087
Lo si crede (Crono) figlio del Cielo e della Terra, perché il tempo
(χρόνος) si svolge in base al sorgere degli astri che sono al di
sopra e al di sotto della terra. In base a questi noi definiamo lo
spazio del giorno, il mese, il momento propizio. Si dice che egli
divorasse i suoi figli per significare che tutte le cose che nascono
nel tempo sono anche distrutte dal tempo243.
Scholia in Hesiod. Theog., v. 459, p. 256 Flach = SVF II, 1088
La sua castrazione si spiega così: avvenuta l’unione del Cielo e
della Terra si produssero molti esseri viventi; il fatto che poi il
tempo abbia separato gli esseri viventi generatisi, uno per uno, e
abbia prodotto ulteriori esseri dall’unione dei singoli, è ciò che
viene espresso con il discorso circa la «castrazione» del cielo.

Esordio di Iusti Lipsi Manuductionis ad stoicam philosophiam, in
Iusti Lipsi Opera.
(Lugduni, apud Horatium Cardon, MDCXIII).
CICERONE, De nat. deor., II, 25, 64 = SVF II, 1091
Essi affermarono che Saturno è quello che domina il corso e la
conversione dei periodi e dei tempi, tanto vero che presso i Greci
esso ha il nome di Kronos, che è lo stesso nome del tempo (χρόνος) o
di un dato periodo di tempo... Si rappresenta nell’atto di mangiare
i suoi figli perché l’età distrugge i tempi determinati… E ancora si
dice che sia stato incatenato da Giove perché i suoi corsi non
fossero privi di misura e fossero frenati dal vincolo dei moti
astrali.
Scholia in Hesiod. Theog., v. 221, p. 232 Flach = SVF II, 1092
Tre dicono essere le Moire, l’una Cloto, perché tesse (ἐπικλώθουσαν)
a ciascuno degli esseri che sono nel divenire il suo destino;
l’altra Lachesi dall’atto della sorte (λαγχάνειν) perché
distribuisce il bene a certuni, il male ad altri; l’altra ancora
Atropo, perché compie quell’atto della sorte che è l’irreversibile
(ἀμετάτρεπτον).
PLUTARCO, De Iside et Osiride, 40, 367c = SVF II, 1093
Ma queste cose sono simili alle opinioni degli Stoici sul divino.
Essi infatti dicono che Dioniso è soffio vitale generatore e
nutritore, Eracle soffio vitale che colpisce e divide, e ancora
Ammone quello che accoglie, Demetra e Core quello che pervade la
terra e i frutti di essa, Posidone quello che pervade il mare.
GIUSTINO, Apol., I, 64, p. 176 Otto = SVF II, 1096
E inoltre, nella loro visione perversa, dissero similmente che Atena
è figlia di Zeus non in virtù di un coito, ma — poiché avevano
compreso che Dio ha creato il mondo per mezzo del logos — come il
primo pensiero di Zeus stesso.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 40 = SVF II, 1097
Forse alcune cose che essi dicono hanno qualcosa di ragionevole,
come quando affermano che la terra è divina, ma non certo quella
arata o scavata, la terra in senso materiale, ma la forza che la
percorre e la natura capace di produrre frutti: questa è veramente
di natura altamente demonica.
Schol. in Aratum, I, v. 1, p. 335 Maass = SVF II, 1100
Egli arriva qui a quello che si denomina Zeus, lo Zeus naturale, che
è l’aria; dicono infatti Zeus «aria» perché esso, per gli Stoici, è
colui che permea il tutto. Ma alcuni dicono però che tale
identificazione con l’aria si addice piuttosto a Proteo; alludendo a
ciò Omero dice: «divenne umida acqua, e albero molto fronzuto, e
fuoco»244; perché Zeus è tutte le cose e da lui deriva tutto, in
quanto ragione (λόγος).
AEZIO, Placito, I, 8, 2, Box. Gr., p. 307 = SVF II, 1101
Talete, Pitagora, Platone, gli Stoici, dicono che i démoni sono
sostanze psichiche; e anche gli eroi sono anime separate dal corpo;
buoni démoni sono le anime buone, cattivi démoni quelle cattive.
SESTO EMPRICO, Adv. phys., I, 71 = SVF II, 812 e 1105
Non è possibile immaginarsi anime che siano portate giù verso il
basso245. Infatti, dal momento che sono leggere, e fatte non meno di
fuoco che di soffio vitale, tendono a collocarsi nei luoghi in alto.
E sussistono separate, e non, è vero che, come ha detto Epicuro, una
volta disciolte dal corpo si dissolvono come fumo. Perché non è il
corpo che ha preminenza e potere su di esse, ma esse sono causa al
corpo del suo sussistere, e ancor molto prima lo sono a se stesse.
Lasciata che abbiano la sfera del sole, vanno ad abitare la regione
inferiore alla luna, e là, per la purezza dell’aria, fan soggiorno
per lungo spazio di tempo; e si nutrono in forma loro adatta con le
esalazioni che vengono dalla terra, come tutti gli altri corpi
celesti; e in quelle regioni non incontrano nulla che possa
distruggerle. Ma dunque se le anime continuano a vivere in tal modo
vuol dire che esse sono identiche ai démoni; e se ci sono dei
démoni, bisogna anche ammettere che ci siano dèi, in nulla la
nozione di questi essendo inficiata dalle leggende che riguardano
l’Ade.
CICERONE, De nat. deor., III, 39, 92 = SVF II, 1107
Voi stessi siete soliti dire che non vi è nulla che la divinità non
possa compiere, e che compie tutto senza alcuna fatica: così come le
membra dell’uomo senza alcuna lotta si muovono sotto l’impulso del
pensiero e della volontà, così per la divina volontà degli dèi tutto
può esser foggiato, mosso, trasformato. Né è un discorso da
vecchiette superstiziose, questo vostro, ma anzi è fondato su
costante ragionamento naturalistico: voi dite infatti che la materia
delle cose, della quale e nella quale tutte sono formate, è
completamente fluida e mutevole, sì che nulla vi è che non possa
d’improvviso formarsi o trasformarsi; chi la foggia e la regge è poi
la provvidenza divina; e questa, in qualunque direzione si muova,
può subito compiere tutto ciò che vuole.
CICERONE, De nat. deor., II, 9-13, 23-36246
Ma poiché ho preso a trattare della cosa diversamente da ciò che
avevo detto all’inizio (avevo infatti detto che questa prima parte
non aveva bisogno che vi si spendessero parole, per la ragione che è
evidente a tutti che devono esservi gli dèi), voglio fondare questo
mio discorso su ragionamenti di ordine fisico, ossia naturalistico.
La realtà è tale che tutte le cose che sono alimentate e hanno
accrescimento contengono in sé una forza di calore tale che senza di
essa non potrebbero fare né l’una cosa né l’altra. Infatti tutto ciò
che è caldo e che ha in sé del fuoco si muove e agisce
spontaneamente; ma ciò che si alimenta e cresce si vale di un suo
moto determinato ed equilibrato, rimanendo il quale in noi rimane
anche vita e capacità di sentire, mentre al contrario se il nostro
calore vien meno per il freddo e si spegne noi stessi veniamo a
morte…247. Vedremo più facilmente tutto ciò se riusciremo meglio a
spiegare le proprietà di questa sostanza ignea che fa muovere ogni
cosa. Tutte le parti del mondo (toccherò poi il tema delle più
grandi) sussistono in virtù del calore. Lo si può vedere per prima
cosa nella natura della terra. Vediamo infatti che il fuoco sprizza
dallo sfregamento delle pietre fra di loro, e vediamo come la terra
fumi dopo uno scavo recente; e anche dai pozzi talvolta sgorga acqua
calda, e ciò avviene soprattutto in tempo invernale, perché nelle
caverne della terra è contenuta una grande quantità di calore e
questa quantità è più densa d’inverno, e per questa ragione il
calore racchiuso nella terra è sottoposto a maggior pressione. Si
dovrebbe fare un lungo discorso, con molti ragionamenti, per
dimostrare come tutti i semi che la terra concepisce e che contiene
dopo averli generati in forma di gemme sulle piante nascano e
crescano in virtù di questa gradazione di calore. Che anche
all’acqua sia mischiato del calore lo dimostra in primo luogo lo
stesso carattere liquido e fuso dell’acqua, perché l’acqua non
potrebbe coagularsi per il freddo né diventare neve o rugiada se non
compisse anche il processo inverso, di liquefarsi e fondersi per
l’immisto calore: l’umidità si rapprende sotto l’effetto di venti
gelidi o di altre forme di raffreddamento, e poi a vicenda sotto
l’effetto del calore si riscalda e si fonde. Anche i mari agitati
dai venti ribollono, sì che è facile capire come in una così gran
massa di umidità sia incluso il calore; quel riscaldamento non deve
essere inteso come esterno e avventizio, al contrario esso per
l’agitazione portata dai venti emerge dalle parti più riposte del
mare, ed è la stessa cosa che avviene anche ai nostri corpi, quando
essi si riscaldano per il moto e l’esercizio. L’aria poi, che per
natura è la realtà più fredda, non è assolutamente priva di calore,
al contrario, è commista di molto calore: essa nasce dal respiro
delle acque, ed è da ritenersi quasi una esalazione di queste; sorge
dal movimento di quel calore che è contenuto nell’acqua; e possiamo
scorgere qualcosa di simile nelle acque che bollono per fuoco
sottoposto. Non rimane che esaminare l’ultimo elemento fisico:
questo è per sua natura tutto ardente, e fornisce a tutte le altre
realtà il calore che è loro salvezza e vita. Si conclude da ciò che,
se tutte le parti del mondo sono tenute in vita dal calore, lo
stesso mondo nel suo insieme deve essere conservato in una così
durevole vita da una forza naturale della stessa specie, e tanto più
va compreso che quella sostanza calda e ignea così diffusa per la
natura del tutto contiene in sé la capacità di procreare e la causa
della generazione; e da essa necessariamente dipende la nascita e la
crescita di tutti gli esseri animati e di tutte le piante che la
terra contiene.
È la natura dunque quella che contiene in sé tutto il mondo e lo
conserva in vita; e fa ciò non senza capacità di sentire e di
pensare. Necessariamente, ogni forma naturale che non è isolata, né
semplice, ma connessa e congiunta con altre forme, deve avere in sé
qualcosa che funga da principio direttivo: nell’uomo questo è la
mente, nell’animale irragionevole è qualcosa di simile alla mente,
la fonte degli impulsi appetitivi; e si pensa che un altro principio
direttivo di questo tipo sia nelle radici degli alberi e di tutte le
piante che nascono dalla terra. Chiamo «principio direttivo» quello
che i Greci chiamano col nome di ἡγεμονικόν: esso in ognuno di
questi tipi di realtà è ciò che vi è di più alto e più nobile.
Necessariamente dunque anche quello che è il principio direttivo
della natura tutta deve essere l’ottimo fra tutte le cose e degno di
avere la supremazia su tutte le realtà dell’universo. Vediamo che in
certe parti del mondo — nulla è nel mondo che non sia parte del
tutto — c’è capacità di sentire e ragione: dunque di necessità deve
esservi anche in quella parte in cui è il principio direttivo del
mondo, e in misura più alta e più acuta. Necessariamente quindi
l’universo nel suo insieme è saggio, e la natura che tiene in sé
racchiuse in connessione reciproca tutte le realtà deve eccellere
sulle altre cose per un più alto grado di perfezione razionale.
Perciò il mondo deve essere divino, e tutta la forza insita nel
mondo deve essere di natura divina.
Ma quell’ardore che è proprio dell’universo, per le cause anzidette,
deve essere di gran lunga più puro, più splendido, più mobile — e
per queste ragioni più atto a muovere i sensi — del nostro calore
usuale, quello in virtù del quale si conservano e vivono le cose che
ci sono note. Sarebbe assurdo dire che, mentre gli uomini e le
bestie sono tenuti in vita da questo calore, e perciò si muovono e
hanno capacità di sentire, il mondo è privo di sensibilità, proprio
quel mondo che è retto da un ardore integro, libero, puro, e perciò
stesso estremamente acuto e mobile; tanto più se si pensa che
quell’ardore che è proprio del mondo non si muove per impulso di
altro né per forza esterna, ma di per sé, spontaneamente; e che cosa
infatti potrebbe essere più forte del mondo, sì da spingere e
muovere quel calore in virtù del quale esso sussiste?…
Perciò — giacché ogni moto ha la sua origine nell’ardore
dell’universo, ma questo ardore si muove di per sé, non sotto
l’impulso di altro — bisogna di necessità dedurne che esso è un
principio animato; e da ciò deriva che il mondo è un essere vivente.
E da ciò si può comprendere come in esso sia un’intelligenza, poiché
certo l’universo nel suo insieme è superiore a qualunque natura
parziale; e così come nel nostro corpo non c’è alcuna parte che sia
superiore a ciò che noi siamo nell’insieme, così analogamente
l’universo nella sua totalità è superiore a ogni singola parte del
mondo stesso. Se non fosse così, avverrebbe che l’uomo, dal momento
che è partecipe di ragione, sarebbe di necessità superiore al mondo
nel suo insieme.
Anche procedendo dalle prime realtà appena abbozzate fino alle
ultime pienamente compiute, necessariamente si metterà capo alla
natura divina. Ci accorgiamo infatti che in primo luogo vengono
mantenute nel loro essere dalla natura le realtà che sono prodotto
della terra, cui la natura ha dato solo la facoltà di vegetare, e
con ciò conservare il proprio essere. La stessa natura ha dato
invece agli animali irragionevoli senso e movimento e anche, insieme
con una certa facoltà appetitiva, la possibilità di saper
distinguere ciò che apporta salvezza da ciò che è causa di rovina.
L’uomo ha in più rispetto a questo, l’aggiunta della ragione, in
virtù della quale egli può dirigere le appetizioni dell’anima, e in
certi casi dar loro libero corso, in certi casi frenarle. Ma c’è
ancora un quarto grado degli esseri, formato da quelli che per
natura sono buoni e sapienti e che hanno ricevuto fin dall’origine
una ragione retta e costante, che è da considerarsi superiore
all’umana e attribuibile alla divinità, cioè all’universo stesso,
giacché necessariamente in esso tale ragione è insita. Non si può
negare che in ogni aspetto della realtà vi sia un limite estremo di
perfezione; questo vale anche per realtà come una vite o una bestia
da armento, e la si raggiunge se non faccia ostacolo qualche forza
avversa. Vediamo che la natura in ogni suo aspetto compie tutto il
suo processo fino all’ultimo, e così come l’opera di un pittore o di
un costruttore ha una sua conclusione con la quale viene totalmente
portata a termine, così e molto di più nella natura dell’universo
dobbiamo ammettere che i processi giungano al loro compimento
completo. Alle altre realtà si possono opporre, di modo che non
arrivino alla perfezione, forze esterne di vario genere; ma la
natura del tutto non ha davanti a sé alcuna forza esterna che le sia
di impedimento, proprio per il fatto che essa contiene in sé e
domina ogni forza naturale. Ecco che quindi è necessario ammettere
questo quarto e ultimo grado, che non può ricevere impedimento da
nulla. E questo il grado in cui si pone la natura stessa: e poiché
essa è tale che tutto dirige senza esser soggetta ad alcun ostacolo,
se ne deve dedurre che l’universo è intelligente, non solo, ma anche
sapiente.
CICERONE, De nat. deor., II, 29-34, 73-87
Non mi resta adesso se non dimostrare che l’universo è retto da
provvidenza divina… Voi dare retta solo alle cose vostre e queste
solo difendete248, condannando le ragioni degli altri senza averle
ben esplorate, così come quando ieri tu dicevi che gli Stoici si
immaginano una specie di vecchia Parca che chiamano Pronoea o
provvidenza. E questo è il solito errore per cui si crede che gli
Stoici si immaginino la provvidenza come una singola dea che regga e
governi tutto il mondo. In realtà noi parliamo in forma abbreviata:
così come, quando si dice che la città degli Ateniesi si regge «per
consiglio», si sottintende «dell’Areopago», allo stesso modo quando
diciamo che il mondo è retto da provvidenza si sottintende «degli
dèi», e tu devi pensare che questo sia il mondo integrale di
esprimere questo concetto, che il mondo si regge per azione
provvidenziale degli dèi… Io affermo dunque che il mondo e tutte le
parti del mondo sono stati formati fin dall’inizio e sono retti in
ogni tempo in virtù di un’azione provvidenziale. La dimostrazione di
ciò può essere articolata in tre parti: la prima discende da quegli
stessi ragionamenti con cui si fonda l’esistenza degli dèi, concessa
la qual cosa è strettamente consequenziale anche il ritenere che il
mondo sia retto per loro consiglio. La seconda è la dimostrazione
secondo cui tutte le cose sono soggette a una natura capace di
intendere e per questa ragione sono rette da essa nel modo migliore;
e stabilito ciò ne consegue che essa ha in sé fin dall’origine un
principio di animazione psichica. La terza trattazione poggia
sull’ammirazione che destano le realtà del cielo e della terra.
Per prima cosa o bisogna negare che esistano gli dèi — il che fanno
in realtà Democrito ed Epicuro, anche se ammettono l’uno i simulacri
e l’altro le immagini di essi249 — oppure ammettere che vi
siano; ma in questo caso bisogna anche ammettere che essi compiano
una qualsiasi azione, e che questa sia ottima. Niente però può
essere migliore del reggimento stesso del mondo; e quindi bisogna
ammettere che questo avvenga per consiglio divino. Se fosse
altrimenti, bisognerebbe ammettere che ci fosse qualcosa di più alto
e dotato di maggiori capacità che non la divinità stessa, qualunque
essa sia: o una natura inanimata, o la necessità, che procede con
grande forza costrittiva, a compiere le opere bellissime che noi
contempliamo; e in tal caso la natura degli dèi non sarebbe
superiore ed eccellente a tutte le altre cose, se essa fosse
soggetta a necessità o forza naturale che reggesse il cielo, i mari,
la terra. Ma nulla vi è di più alto della divinità; il mondo deve
dunque, e non può non essere retto da essa; e se il dio non è
soggetto ad alcuna altra natura superiore, è chiaro che ad esso si
deve attribuire il governo della realtà naturale. Se ammettiamo che
gli dèi siano intelligenti, bisogna anche ammettere che siano
provvidi, e che questa loro azione si esplichi nei riguardi delle
massime cose. E chi ignora che per poter reggere le massime cose e
vigilare su di esse occorre anche esser dotati di una forza tale da
poter assolvere a questo compito? certo non è pertinente alla natura
del divino l’ignoranza della realtà, e la difficoltà di reggere il
mondo per essere impari al compito non è cosa che possa convenire
alla maestà degli dèi. Ecco che da tutto questo scaturisce la prova
che cercavamo: che cioè il mondo è retto da provvidenza divina.
Necessariamente, se gli dèi esistono (come di fatto e certamente
esistono) devono essere dotati di anima; e non solo dotati di anima,
ma anche partecipi di ragione, e uniti fra loro come da una
concordia e comunanza sul tipo di quella che vige nelle città; e ciò
dal momento che reggono il mondo come uno stato e una città
universalmente comune. Ne consegue che in essi c’è una ragione dello
stesso tipo di quella che c’è negli esseri umani, e una stessa
legge, che consiste nella comprensione di ciò che è giusto e nella
repulsione di fronte alla malvagità. E da ciò si comprende anche
come l’intelletto e la saggezza siano derivati agli uomini dagli
dèi…; ma se ragione, consiglio, saggezza sono insiti in noi, tanto
più si deve pensare che gli dèi possiedano tutto questo in misura
superiore; e non solo sia loro proprio il possederlo, ma anche il
valersene per le opere più grandi che esistano. Non c’è però nulla
più grande e più bello che il reggimento del mondo; e
necessariamente dunque questo si deve pensare retto da provvidenza
divina. Da ultimo, quando avremo dimostrato a sufficienza che sono
dèi quelli di cui contempliamo l’aspetto luminoso e tocchiamo con
mano la grande forza, dico il sole, la luna, i pianeti e le stelle
fisse, e il cielo, e l’universo stesso nel suo insieme, e la realtà
di tutte quelle cose che in esso sussistono per utilità e profitto
grande del genere umano, ne deriverà che tutte le cose sono rette da
intelligenza e saggezza divina. Questa valga per la prima parte
della nostra dimostrazione.
Devo ora di conseguenza dimostrare che tutte le realtà sono soggette
alla natura e tutte sono da lei dirette nel modo più bello. Ma
bisogna prima spiegare brevemente che cos’è la natura stessa, perché
più facilmente possa esser compreso ciò che intendiamo dimostrare.
Infatti alcuni ritengono che la natura sia una forza priva di
ragione che eccita nei corpi movimenti necessari; altri una forza
partecipe di ragione e di ordine che procede con metodo e rivela in
se stessa una connessione di cause e di effetti, dotata di una
abilità tale che nessuna arte, nessuna mano, nessun artefice può
riuscire a imitare in maniera perfetta; infatti tanta è la potenza
insita nel seme che, per quanto sia di per sé minimo, tuttavia, se
si combina con una natura che lo concepisca e lo accolga, e trovi
una materia capace di essere alimentata e accresciuta, esso è capace
di foggiare e di portare all’essere qualunque cosa, ciascuna nel suo
genere proprio, si tratti di esseri che traggano alimento dalle
proprie radici o di esseri anche capaci di muoversi, aver
sensazioni, aver desideri, generare da sé esseri a sé simili. Ci
sono di quelli che chiamano tutto col nome di natura (Epicuro, per
esempio, il quale divide la realtà naturale in corpi, vuoto e
accidenti dei corpi)250; ma noi, quando diciamo che il mondo
sussiste ed è retto da natura, non vogliamo intendere cose che non
hanno in sé un principio naturale di ordine, come una zolla o un
frammento di pietra: intendiamo realtà come un albero o come un
animale, nelle quali non c’è nulla di casuale, ma si rivela un
ordine e qualcosa che somiglia all’opera dell’arte.
Ché, se le cose che hanno le loro radici nella terra hanno vita e
vigore in virtù dell’arte della natura, certo lo stesso si può dire
per la terra, dal momento che essa, gravida di semi, partorisce e
getta fuori da sé tutti i prodotti, e abbracciando le varie radici
le alimenta e le fa crescere, ed essa stessa a sua volta è
alimentata dalle nature che la sovrastano e le sono esterne: e per
le esalazioni della terra medesima sono alimentate l’aria, l’etere e
tutte le realtà superiori. Così, se la terra è retta dalla natura e
vige in virtù di essa, la stessa ragione è in tutto il resto
dell’universo: le radici delle piante affondano nella terra, gli
esseri animati vivono in quanto aspirano l’aria; l’aria stessa vede,
ode, risuona con noi, nulla infatti di queste operazioni può esser
compiuto senza il tramite dell’aria; ed essa si muove anche con noi,
e dovunque andiamo, per il fatto stesso che ci muoviamo, la si vede
quasi cedere, dar luogo. Quelle realtà che sono nel punto centrale
del mondo, ch’è il luogo più basso, e quelle che dal centro vanno
verso l’alto, e quelle che con moto circolare girano intorno al
centro, formano nel loro insieme una natura sola e tale che è ciò
che tiene insieme l’universo. E, se quattro sono i corpi elementari,
ecco che la natura del mondo si perpetua in virtù del loro perenne
avvicendarsi. Infatti dala terra nasce l’acqua, dall’acqua l’aria,
dall’aria l’etere251; e poi di converso e a vicenda dall’etere
l’aria, dall’aria l’acqua, dall’acqua la terra che sta al posto più
basso. Così, per il trapassare l’una nell’altra su e giù
alternativamente di queste nature elementari si effettua la
congiunzione delle parti dell’universo. E questa necessariamente è o
eterna, sempre nello stesso ordine che vediamo, o perlomeno di
lunghissima durata e permanente per un tempo lunghissimo e quasi
incommensurabile. Sia vera l’una e l’altra cosa, ne consegue che
l’universo è retto dalla natura. Quale flotta di navi, quale
schieramento di esercito, o, per far paragoni con l’opera stessa
della natura, quale nascita e crescita di una vite o di un albero,
quale figura e conformazione delle membra di un essere vivente può
mostrare in sé altrettanta intelligenza della natura quanta ne
mostra il mondo nel suo insieme? e dunque o non vi è nulla che si
retto da una natura capace d’intendere, oppure bisogna ammettere che
il mondo è retto da una natura siffatta. Infatti, quella realtà che
contiene in sé tutte le altre e i loro semi, come può essa stessa
non esser retta dalla natura? è come se qualcuno dicesse che i denti
o la pelurie puberale spuntano in virtù della natura, e al tempo
stesso non volesse ammettere che l’uomo in cui spuntano viva in
virtù della natura, non comprendendo che quelle cose che producono
da sé qualcosa d’altro hanno natura più perfetta di quelle che sono
così prodotte. Di tutte le realtà che son rette dalla natura il
mondo è come il seminatore e nutritore e padre, e per così dire
l’allevatore e l’alimentatore, e nutre e coltiva tutte le realtà
come sue membra e sue parti. Ma se le parti del mondo sono governate
dalla natura, deve esserlo per forza anche il mondo nel suo insieme.
Questo governo non ha in sé nulla che possa esser biasimato; dalle
nature stesse che esistevano è stato effettuato tutto il meglio che
era possibile. E ci dica pure qualcuno come avrebbe potuto meglio
effettuarsi; ma no, non potrà mai dir come: se qualcuno volesse
apportare alla natura qualche correzione, o farà di peggio, o
lamenterà la mancanza di qualcosa che in realtà non avrebbe potuto
essere.
CICERONE, De nat. deor., II, 38-40, 98-104252
Ma ora, lasciate da parte le sottili disquisizioni, guardiamo in
qualche modo coi nostri occhi la bellezza delle cose che diciamo
esser state stabilite per opera di provvidenza divina. E all’inizio
si guardi la terra nel suo insieme, posta nel mezzo dell’universo,
solida e compatta e da ogni parte conglobata in virtù di spinte sue
proprie, rivestita di fiori, erbe, alberi, messi, la cui incredibile
moltitudine è contrassegnata da inesauribile varietà. Si aggiunga a
ciò il fresco scorrere perenne delle fonti, le limpide correnti dei
fiumi, le verdissime vesti delle rive, le cave profondità delle
spelonche, le asperità delle rupi, le altitudini delle montagne
incombenti e l’immensità delle pianure; e si aggiungano ancora le
vene recondite d’oro e d’argento, l’infinita quantità di marmi. E
poi ancora si pensi quali e quante siano le varietà degli animali,
sia domestici sia selvatici, quali siano i voli e i canti degli
uccelli, quali i pascoli delle greggi, quale la vita degli animali
silvestri. E che dovrei poi dire del genere umano, che, posto quasi
a tutela della terra, non tollera che essa sia resa selvaggia dalla
ferocia delle belve né devastata dalle piante incolte, e per la cui
opera i campi, le isole, le spiagge risplendono segnate di case e
città? certo guardando tutto ciò per tutta la terra non si potrà
dubitare che essa sia retta da ragione divina.
Ma si guardi poi quanta sia la bellezza del mare, quanta quella
dell’universo; quanta sia la moltitudine e la varietà delle isole,
quanta l’amenità di spiagge e lidi; quanti i generi, e quanto vari,
degli animali che vi sono immersi o che fluttuano o nuotano alla
superficie, o stanno sugli scogli aderendo alle pietre su cui son
nati. Il mare stesso tocca in tal modo la terra schizzando sui
litorali che essi sembrano una sola natura fatta di due convergenti.
L’aria che confina col mare, poi, è segnata a vicenda dal giorno e
dalla notte, e di volta in volta o si muove altissima in limpida
sottigliezza, o si raccoglie densa in nubi, e raccogliendo l’umore
dalla terra la fa fertile con le piogge, oppure ancora spirando qua
e là produce i venti. La stessa aria dà luogo alla variazione di
freddo e caldo nel corso dell’anno, sostiene i voli degli esseri
alati, alimenta con il suo spirare le correnti e fa vivere gli
esseri animati. Resta da ultimo, altissimo sopra la sede della
nostra vita cingendo il tutto e racchiudendo la volta del cielo,
quello che si chiama l’etere, ultima sponda e termine ultimo del
mondo, in cui nella forma più ammirevole realtà di fuoco compiono i
loro corsi perfettamente ordinati. Tra di essi il sole, la cui
grandezza supera di molte volte la terra, si volge intorno ad essa,
e col suo sorgere e il suo tramontare produce il giorno e la notte;
e, ora avvicinandosi ora allontanandosi, in ogni anno compie due
movimenti di andata e di ritorno dall’estremo limite in senso
contrario, nel cui intervallo ora fa quasi contrarre la terra in una
sorta di afflizione, ora di converso la rallegra sì che appaia
splendente di gioia in una col cielo. La luna, che — come dicono gli
scienziati — è un po’ più grande della metà della terra, si muove
negli stessi spazi del sole, ma, ora incontrandosi con esso ora
allontanandosene, manda sulla terra la luce che riceve dal sole
oppure subisce essa stessa molte variazioni di luce, e talvolta,
trovandosi o esposta al sole oppure in opposizione rispetto ad esso,
può anche oscurare i raggi del sole e la sua luce; oppure, se cada
essa stessa nell’ombra della terra, quando questa si trova nella
regione del sole, per l’interporsi della terra fra se stessa e il
sole, improvvisamente scompare. Negli stessi spazi si muovono
intorno alla terra quelle stelle che chiamiamo pianeti, e nello
stesso modo sorgono e tramontano; e i loro moti ora sono più rapidi
ora più lenti, ora si arrestano, offrendoci uno spettacolo di cui
nulla può essere più bello. Segue poi l’infinita moltitudine delle
stelle fisse, delle quali la varietà è stata disegnata in modo tale
che dalle figure delle stelle più note siano state tratte
denominazioni secondo criteri di somiglianza con le cose.
CICERONE, De nat. deor., II, 51-53, 127-133
Molta cura fu adibita dalla provvidenza divina perché perpetuo
fosse l’ordine del mondo253, perché ci fossero sempre generi di
animali e di alberi e di tutte quelle realtà che hanno le loro
radici nella terra: e perciò tutte queste realtà hanno in sé semi
con insita la capacità di generare uno o più altre realtà consimili.
Per questa ragione è stato racchiuso il seme nella parte più interna
di quelle gemme che germogliano da qualsiasi genere di stirpe
vegetale; e di quei semi si nutrono gli esseri umani, mentre in pari
tempo le terre si riempiono nuovamente di piante dello stesso tipo.
E che dovrei dire della razionalità che traluce negli animali, in
ordine dalla conservazione della propria specie? In primo luogo essi
sono ora maschi ora femmine, il che la natura ha studiato per
garantire la perpetuità della stirpe; hanno poi parti del corpo atte
al più alto grado a concepire e partorire, e mirabili desideri
spingono i maschi e le femmine a unirsi, e il seme si stabilisce nei
luoghi adatti e quasi attira a sé tutto il cibo, e protetto da
questo foggia un nuovo animale. Quando questo nuovo animale è venuto
fuori dall’utero, negli animali che si nutrono di latte quasi tutto
il cibo che è preso dalla madre si tramuta in latte, e i piccoli
appena nati senza bisogno di alcun maestro, con il solo insegnamento
della natura, cercano le mammelle e si saziano della loro
abbondanza. Per meglio comprendere come nessuna di queste cose sia
fortuita, ma come tutte siano frutto di natura provvida e
intelligente, si veda come a quegli animali che procreano una gran
quantità di rampolli, per esempio le scrofe e le cagne, sia data
anche una gran quantità di mammelle; mentre poche ne hanno quegli
animali che generano pochi rampolli. E che dovrei dire di tutto
l’amore che gli animali irragionevoli hanno nell’allevare e
custodire quelli che hanno generato, fino al punto in cui quelli
siano capaci di difendersi da sé!…
Di volta in volta nei diversi luoghi si trovano diverse condizioni
favorevoli alla vita civile e al benessere degli uomini. Il Nilo
irriga l’Egitto, e dopo averlo tenuto sotto inondazione tutta
l’estate poi si ritira, lasciando i terreni convenientemente
ammorbiditi e coperti di limo, atti così alla coltivazione.
L’Eufrate rende fertile la Mesopotamia, e in essa ogni anno
convoglia il materiale buono per nuovi terreni da coltivare. L’Indo,
che è il più grande di tutti i fiumi, non solo con la sua acqua
allieta e mitiga i campi, ma perfino li coltiva: si dice infatti che
esso porti in sé gran quantità di semi simili a frumento. E
similmente per altre situazioni simili in altri luoghi potrei
portare molti esempi memorabili, circa molti altri terreni divenuti
fertili per frutti portati dall’esterno254. Ma quella così grande
benevolenza della natura si rivela nel suo generare tante cose utili
al nutrimento e tanto varie e piacevoli, e non in una sola stagione
dell’anno, di modo che possiamo sempre dilettarci per la loro
varietà e abbondanza. Essa ha dato i venti etesii, e si sa quanto
siano opportuni, quanto salutari non solo per gli uomini ma per gli
stessi animali e per tutte le cose che nascono dalla terra: al loro
spirare si temperano i calori eccessivi, in virtù di essi anche i
viaggi per mare si dirigono con rapidità e certezza. Molte cose
bisogna per forza trascurare, anche se molte se ne possono dire: non
si può adeguatamente passare in rassegna le felici condizioni
offerte dai fiumi, le maree che molto si alzano e si abbassano, i
monti rivestiti da selve, le saline ben distanti dalla riva del
mare, le medicine salutari di cui è piena la terra, infine le
innumerevoli arti necessarie per vivere e procurarsi da vivere255.
La stessa vicissitudine del giorno e della notte conserva nel loro
esistere gli esseri viventi, proprio in quanto dà a ciascuno un
tempo per operare e un tempo per riposare.
Perciò, da ogni parte si muova, bisogna approdare alla conclusione
che tutte le cose di questo mondo sono abilmente condotte da
intelligenza e saggezza divina in vista della salvezza e della
conservazione del tutto. Ma se qualcuno si chiedesse a quale scopo
sia stata compiuta una così complessa costruzione della realtà —
sembra assurdo che sia stata fatta per gli alberi e per le piante,
le quali, anche se non sono capaci di sentire, sono tuttavia tenute
in essere da natura; e ugualmente per le bestie; non è assolutamente
credibile, non più che nell’altro caso, che gli dèi si siano dati
tanta fatica per esseri muti e privi di intelligenza. In vista di
che cosa si dirà che è stato costruito l’universo? Ma certo in vista
di quegli esseri che dispongono di ragione, cioè gli dèi e gli
uomini, che sono gli esseri di natura migliore, perché hanno una
ragione che è superiore a tutte le altre cose. Diviene così
credibile che in vista degli dèi e degli uomini il mondo sia stato
fatto, e tutte le cose che sono in esso256.
CICERONE, De nat. deor., II, 62-64, 154-162
Fin dall’origine l’universo stesso è stato fatto in vista degli dèi
e degli uomini e allo stesso scopo sono state approntate e scoperte
tutte le cose che sono in esso, perché gli uomini potessero trarne
vantaggio. Il mondo infatti è come una comune casa o una comune
città di dèi ed uomini; giacché questi sono i soli esseri che vivono
in virtù della ragione, secondo norme di diritto. Così come si
ritiene che Atene e Sparta siano state fondate per gliAteniesi e per
gli Spartani, e così come tutto ciò che sta in quelle città si dice
giustamente esser possesso di quei popoli, allo stesso modo tutte le
cose che sono nel mondo devono ritenersi proprietà di uomini e dèi.
E infatti il giro circolare del sole e della luna, anche se ha il
suo scopo primario nel garantire la coerenza del mondo, offre agli
uomini uno spettacolo da contemplare; non vi è nessuna meraviglia
altrettanto inesauribile, e più elevata, più nobile in vista
dell’acquisto di ragione e intelligenza; misurando i loro corsi,
infatti, noi siamo in grado di conoscere quando i tempi siano giunti
a compimento e quali ne siano le variazioni periodiche. Certo se
queste cose sono note solo agli uomini vuol dire che esse sono state
fatte per gli uomini. La terra ricca di messi e di ogni vario genere
di piante commestibili, che produce con la massima generosità, si
dirà che genera tutto ciò per utile delle bestie oppure degli
uomini? e che dovrei dire delle viti o degli ulivi? certo i fecondi
e felici frutti di queste due piante non servono in niente alle
bestie; né queste hanno alcuna scienza del seminare, del
raccogliere, del mietere a tempo giusto; tutte queste cose sono
abitudine e cura degli esseri umani. Così come i flauti e le tibie
si afferma giustamente siano stati costruiti per l’utilità di
coloro che sanno valersene, così le cose che ho detto si può esser
sicuri che sono state approntate solamente in vista di coloro che le
sanno usare; né certo, se le bestie in qualche caso rubano e portano
via alcunché delle stesse cose, si può per questo dire che siano
state generate per loro. Non raccolgono certo gli uomini il frumento
per i topi o per le formiche, ma per le loro mogli, i loro figli, le
loro famiglie; e perciò le bestie ne fanno uso portandolo via di
nascosto, gli uomini che ne sono i padroni apertamente e
liberamente; dunque è per gli uomini che è stata approntata gran
copia di cose siffatte. Né si potrà dire che sorga un dubbio circa
la destinazione di esse ai soli uomini quando si guardi a così
grande abbondanza e varietà di frutti e alla piacevolezza non solo
del loro gusto, ma del loro odore e del loro aspetto stesso! Tanto
ne corre che cose del genere siano state approntate per le bestie,
che anzi possiamo vedere che gli stessi animali irragionevoli sono
stati generati per l’uomo257. Che cosa offrono le pecore, se non che
gli uomini possano vestirsi confezionando e tessendo i loro velli? e
poi esse da sé non potrebbero nutrirsi né sostentarsi né offrire
prodotti senza allevamento e cura da parte degli uomini. La custodia
così fedele che fanno i cani, il loro amore addirittura adulatorio
nei riguardi del padrone e il loro sì grande odio per gli estranei,
l’acume straordinario delle loro narici nella ricerca e la loro
alacrità nella caccia, che altro indica se non che essi sono stati
generati per utilità degli uomini? Che cosa dovrei dire dei buoi? la
loro stessa schiena dimostra alla vista come non sia fatta per
portare carichi, mentre le sue cervici sono fatte per il giogo, così
come la forza e la larghezza delle sue spalle a trarre l’aratro… E
tanta si pensava esser l’utilità dei buoi che si riteneva in
origine un delitto nutrirsi delle loro viscere. Sarebbe troppo lungo
parlare dell’utilità che noi traiamo dai muli e dagli asini: utilità
certo anch’esse approntate per l’uomo. E il maiale che cosa ha di
suo proprio fuorché l’essere un piacevole cibo?258… Che dovrei dire
ancora della moltitudine e piacevolezza dei pesci e degli uccelli?
da essi si trae un così grande piacere che sembra quasi che la
nostra Provvidenza diventi epicurea! Ma essi non potrebbero esser
catturati se non fosse per le sottili arti dell’uomo; benché certi
uccelli, alati e profetici, come li chiamano i nostri auguri, sembra
che siano nati solo in virtù degli auspici che se ne possono trarre.
Ci imbattiamo nella caccia in belve crudeli per poterci nutrire
anche di quelle e per esercitarci nel dar loro la caccia in un’arte
simile a quella della guerra; e anche per valercene una volta che le
abbiamo domate e mansuefatte, come per esempio avviene con gli
elefanti; e dai loro corpi estraiamo medicamenti contro le malattie
e le ferite, così come facciamo anche da certe radici ed erbe, la
cui utilità abbiamo imparato a conoscere dall’uso e dall’esperimento
da lungo e remoto tempo. Percorriamo pure con la mente come con gli
occhi tutta la terra e tutti i mari: dovunque si vedranno spazi
fertili, immense vesti arboree di pianure e montagne boscose,
pascoli di animali, corsi marittimi di incredibile celerità. Né solo
sopra la terra, ma anche nelle sue intime latebre sta nascosta una
quantità di cose utili, che, nate per l’utilità degli uomini, dai
soli uomini possono venir scoperte.
PLUTARCO, De Iside et Osiride, 45, 369a = SVF II, 1108
Non si deve riporre i princìpi del tutto in corpi privi di anima,
come han fatto Democrito ed Epicuro; ma neanche porre una
provvidenza e una ragione che foggi la materia priva di forma, che
tutto pervade e domina, come vogliono gli Stoici.
LATTANZIO, Div. Inst., I, 2, p. 6 Brandt = SVF II, 1109
Fra tutti gli altri filosofi gli Stoici soprattutto sostennero ciò
nella maniera più decisa, insegnando che il mondo non ha potuto
venire all’essere se non in virtù di ragione divina, e che non
potrebbe sussistere se non fosse retto da questa stessa.
Commenta Lucani, II, 9, p. 48 Usener = SVF II, 1110
Dice ciò secondo la dottrina degli Stoici, i quali sostengono
che l’universo è tenuto nel suo essere in virtù di sapienza e
ordine; e che la stessa divinità è legge a se stessa.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, I, 25, p. 13 Aucher = SVF II,
1111
Provvedono … l’uomo ai suoi figli, e il pastore alle greggi, e
l’allevatore ai cavalli, e il bovaro agli armenti; c’è istinto
provvidenziale perfino nell’ape e nella formica. Queste sono
altrettante parti e particelle delle parti dell’universo: parti,
comunque, che hanno capacità di comprendere, e che esercitano cura
provvidenziale. Ciò di cui una parte è saggia e provvidenziale, non
deve anche esserlo nel suo tutto? Tutte le realtà che abbiamo ora
passate in rassegna hanno un principio per cui sono state fatte. Ma
ciò che ha un principio, ha anche un momento d’inizio; e ciò che ha
un momento d’inizio, ha avuto il suo essere da qualcun altro. Perciò
chi fin dall’origine fu fatto sapiente e provvidente prese il suo
inizio da qualche altro. E poi chi potrebbe essere provvido se non
vi fosse la provvidenza, capace di comprendere se non vi fosse la
sapienza? Se non si può esser nessuna delle due cose altrimenti, ci
deve essere stato qualche essere provvido e sapiente da cui tali
realtà hanno avuto originariamente in sorte queste proprietà.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, I, 29, p. 14 Aucher = SVF II,
1112
La natura distribuisce fra gli esseri viventi un consiglio capace di
prevedere, che dà ordine a tutto e produce effetti di saggezza.
Perciò a coloro che considerano le realtà corporee si manifesta
chiaramente come in tutto ciò ch’è sul piano sensibile vi sia un
moto proprio di uno spirito che dà l’impulso iniziale,
e l’invisibile consiglio di un’anima capace di agire
provvidenzialmente, sì da rendere l’opera degli organi propriamente
consona agli intenti di quanti di essi si servono. Né certo
altrimenti vanno intesi quei moti che sono stati diffusi per tutta
la terra dalla provvidenza; sì che ci accorgiamo che con ogni
evidenza tutto si compie per volontà nascosta della provvidenza
stessa. Anche se talvolta può avvenire che tali cose appaiano
verificarsi senza derivare da intelligenza animata o volontà, in
realtà esse, fino alle loro più infime parti, si verificano in virtù
di un consiglio e di un istinto provvidenziale.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, I, 32, p. 15 Aucher = SVF II,
1113
Né è ragionevole pensare … che, mentre le varie parti dell’universo
sono provviste di intelligenza provvidenziale, proprio quella
provvidenza che sussiste dall’inizio dell’universo se ne stia in
ozio e incurante del resto, mentre tutte le altre cose rivelano in
sé una universale armonia e un collegamento ordinato reciproco259.
Se esse dipendono vicendevolmente l’una dall’altra, vuol dire che è
stata data loro la loro perfezione in virtù di un moto che viene da
entrambe. Perciò le parti stesse, nella loro intelligenza e nella
perfezione delle loro opere, che derivano da una armonia universale
delle parti stesse, offrono una prova evidente della provvidenza
universale, che muove invisibilmente il tutto.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, I, 40, p. 19 Aucher = SVF II,
1114
Se non c’è la provvidenza come motore universale di tutto, si deve
pensare che nel mondo nulla possa muoversi. Chi infatti può
affermare che, una volta che si ritenga priva di anima la realtà
dell’universo nel suo insieme, nella natura di una creatura giunta a
compimento vi possano esser moti dovuti a un’anima? Se non è
abbastanza chiaro da questo, si tenga per prova il fatto che nello
stesso uomo, cittadino di questo mondo, l’uomo che è come un piccolo
mondo egli stesso in un mondo grande260, il solo corpo senza l’anima
non può compiere le azioni che gli sono proprie se non si sia
precedentemente valso del consiglio e quasi del parere di un amico
ottimo; e certo solo dopo che si sono affermate nell’anima
deliberazioni invisibili segue visibilmente l’esecuzione ad opera
delle membra visibili.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., I, 8, p. 127 Stählin = SVF II, 1116
Ciò che dà beneficio deve essere superiore a chi riceve il
beneficio. Ma nulla vi è di superiore al bene. Dunque il bene
benefica. Dio è denominato buono: Dio dunque benefica. Il bene in
quanto tale non fa altro che beneficare; dunque tutto benefica la
divinità. E non benefica l’uomo in qualcosa e poi si disinteressa di
lui; e nemmeno se ne interessa e poi non se ne prende cura. Chi
benefica secondo conoscenza è superiore a chi non benefica secondo
conoscenza; ma alla divinità nulla è superiore; e beneficare secondo
conoscenza non è altro che prendersi cura261; dunque bisogna dire
che Dio si prende cura e provvede all’uomo.
SENECA, Epist. ad Luc., 95, 47 = SVF II, 1117
Sa onorare gli dèi chi li conosce … né ciò potrà esser se non si
concepirà un’idea esatta della divinità, tale che tutto possiede e
tutto dona gratuitamente. Per quale ragione gli dèi beneficano?
Perché si identificano con la natura. Sbaglia chi crede che gli dèi
non vogliono fare il male: in realtà non possono farlo. Non possono
ricevere né recare ad altri danno.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaest., II, 21 p. 68, 19 segg.
Bruns=SVF II, 1118
Quanto al dire … che gli dèi compiono le proprie opere in vista
della salvezza dei mortali, ecco una cosa che è del tutto aliena
dall’essenza divina; sarebbe come dire che i padroni e gli uomini
liberi esistono in vista dei servi!
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaest., II, 21, p. 70, 2 segg. Bruns =
SVF II, 1119
Sarebbe assurdo il dire, da parte di quelli che attribuiscono tutto
alla provvidenza, che essa poi compie solo il bello e il buono, e
porre allo stesso tempo questo come dovuto a un nostro atto di
libera volontà; secondo loro in tal modo la divina provvidenza non è
causa agli uomini di qualche determinato bene, allo stesso tempo che
essi dicono che la provvidenza caratterizza l’essenza divina.
OLIMPIODORO, In Plat. Phaed., p. 91, 19 segg. Norvin = SVF II, 1118
Come possono essere nostri padroni gli dèi, dal momento che il
padrone tende al proprio bene e non a quello del servo? è per questo
infatti che si differenzia dal capo della città. Quale bene potrebbe
venire alla divinità dagli uomini? o bisognerà dire che c’è
reciprocità: un padrone di questa fatta si prende cura del servo. Ma
«di per sé», dicono gli Stoici; perché così operano gli dèi: essi
compiono tutte le cose di per sé primariamente… Dominano secondo un
ordine che è a nostro vantaggio, e gli uomini appartengono agli dèi
più come loro servi che come loro soggetti liberi, poiché sono
interamente nelle loro mani e non hanno nulla di veramente proprio.
SENECA, De beneficiis, IV, 25 = SVF II, 1119
Ci è prescritto di vivere secondo natura e di seguire l’esempio
degli dèi: gli dèi, che altro fanno se non seguire la stessa ragione
naturale del loro operare?262 non crederai che agiscano in vista di
trarre un compenso dal fumigare delle viscere delle vittime o dagli
effluvi dell’incenso!
LATTANZIO, De ira Dei, 5 segg., pp. 74-75 Brandt = SVF II, 1120
Si ritiene che gli Stoici e altri abbiano pensato alquanto più
rettamente intorno alla divinità, giacché dicono che in Dio vi è
benevolenza e non ira. È un discorso degno di favore e amabile
quello secondo cui in Dio non si trova quella debolezza dell’animo
che fa credere si possa essere offesi da qualcuno, mentre in realtà
nulla può recar offesa a Dio; né può avvenire che egli nella sua
tranquilla e santa maestà si adiri, si perturbi, infurii: tutto ciò
è proprio della fragilità terrena. L’ira è infatti una commozione
della mente tale da esser del tutto aliena dall’essenza divina. Se
perfino all’uomo, quando sia sapiente e severo, è estranea l’ira —
né può verificarsi quello stato per cui, quando nell’animo di
qualcuno si verifica una fiera tempesta, essa solleva tali flutti da
alterare lo stato della mente, e gli occhi ardono, la bocca trema,
la lingua s’impaccia, i denti scricchiolano, il volto si macchia ora
di diffuso rossore ora di pallore — quanto più a Dio deve essere
estranea una così turpe trasformazione? E se l’uomo che possiede
comando e potere in virtù dell’ira è capace di provocare gravi danni
— versare il sangue altrui, sovvertire le città, distruggere i
popoli, devastare le regioni — quanto più non si deve credere che,
se si adirasse Dio, che ha potestà su tutto il genere umano e su
tutto l’universo, tutto l’universo stesso
perirebbe? È quindi necessario che sia ben lungi da lui un
male così grande, così pernicioso; e se gli è estranea l’ira e la
concitazione, cose turpi e nocive, non resta se non supporre che
egli sia dolce, pacifico, propizio, benefico, fonte di salvezza.
Così potrà esser detto padre comune di tutti, ottimo e massimo, il
che è richiesto dalla natura divina e celeste. Se anche fra gli
uomini appare lodevole il giovare piuttosto che il nuocere, il dar
vita piuttosto che l’uccidere, il dar salvezza piuttosto che
perdizione (e non a torto la mancanza di cattiveria è considerata
una virtù), e chi si comporta così è amato, prediletto, premiato ed
esaltato dai voti e dalle lodi degli uomini, infine per i suoi
meriti e benefici giudicato il più possibile simile a Dio — quanto
più Dio stesso è ovvio che sia dotato di tutte le virtù divine e
perfette, e sopravanzi per merito, lungi da ogni macchia terrena,
per divini e celesti benefici, tutto il genere umano!
SENECA, De beneficiis, II, 29 = SVF II, 1121
Ciò che dagli dèi ci è negato, non può esserci dato… Percorri pure
col pensiero tutte le cose, e, anche se trovassi qualcosa che tu
preferiresti essere totalmente, cogli da tutte le cose singolarmente
quei doni che vorresti avere: ben ponderata che tu abbia la
benevolenza della natura, dovrai confessare per forza che tu sei
stato nelle sue grazie. È così: gli dèi immortali ci hanno
avuti e ci hanno carissimi; anche se non possono darci il posto più
alto nell’universo, ci hanno collocati vicinissimi ad esso. Abbiamo
avuto doni grandi, anche se non possiamo averne di maggiori.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 79, p. 349 Kötschau = SVF II, 1122
Dal momento che il mondo è stato generato per benevolenza divina, e
Dio attende a tutte le realtà, necessariamente i primi frustuli del
genere umano si sono formati in esistenza in virtù della cura
esercitata su di loro da esseri superiori, sì che fin dall’inizio
c’è stata mescolanza di natura divina e umanità. E intuendo ciò il
poeta ascreo diceva: «vi erano allora frequenti riti, frequenti
adunanze / fra gli dèi immortali e gli uomini mortali»263.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., 3, 8, 1, p. 94 Stählin = SVF II,
1123
L’uomo, ch’è opera di Dio, ha anche un valore di per sé: ma ciò che
è eleggibile di per sé è congeniale a chi lo elegge, cioè gli è
amabile e gradito. E se qualcosa è amabile, certo è anche amato; ma
si è dimostrato che l’uomo è un essere amabile; quindi esso è amato,
e lo è da Dio.
FILODEMO, De dis, III, fr. 84 col. 1, p. 16 Diels264 = SVF II, 1124
Non si deve credere che tutti siano «amici», né secondo l’uso
abituale vanno detti «amici». Gli esseri che sono infiniti non
possono giungere a conoscenza reciproca; perciò non si potrebbe dire
… che gli 〈dèi〉 sono amici dei 〈sa〉pienti…265… agli dèi; e ne ammira
la natura e il modo di vivere e cerca di avvicinarsi ad essi e quasi
arde dal desiderio di toccarli e di essere con loro; a questa
stregua si potrebbe dire che i sapienti sono amici degli dèi e gli
dèi dei sapienti. Ma non sembra ragionevole usare per questo il
termine di ami〈cizia〉, sì che è meglio 〈veder〉e come stanno
realmente le cose, e non far violenza 〈inde〉bitamente alle
parole266. E possiamo supporre che gli dèi si amino reciprocamente,
ma non si potrebbe dire d’altra parte che essi facciano elargizione
di cose che son loro proprie a chi è inferiore a loro: essi infatti,
tutti quanti, attendono a procurare a se stessi in forma
autosufficiente il pia〈cere〉 più perfetto.
PLUTARCO, De comm. not., 32, 1075e = SVF II, 1126
Ed essi non tralasciano nessun fatto267 nella polemica contro
Epicuro, gridando a gran voce: «ahimé ahimé» e accusandolo di
sovvertire la prenozione del divino in quanto nega la provvidenza:
bisogna infatti preconcepire e pensare la divinità come amica degli
uomini e tale che si prende cura di loro e fa loro benefici.
GIAMBLICO, De anima, presso STOBEO, Ed. I, 49, 37, p. 372 Wachsmuth
= SVF II, 1128
Come dicono gli Stoici, una è la ragione, e uno solo il pensiero in
assoluto, e uguali i doveri e medesime le virtù delle parti e del
tutto.
DIONE CRISOSTOMO, Orat. XXXVI, 37, II, p. 11, 2 segg. Arnim = SVF
II, 1129
Quando essi dicono che vi è un re che regna sul tutto devono anche
ammettere che l’universo è come un regno, e quando dicono che il
tutto è governato devono anche ammettere che c’è un governo del
tutto. Ma quando si ammette che ci sia un governo si deve convenire
che ciò su cui questo si esercita è una città o qualcosa di molto
simile ad essa. Tale è il discorso di quei filosofi, discorso che
dimostra come il mondo sia una comunità buona e benevola di esseri
demonici e umani, che partecipa di legge e di ordinamento politico,
stabilito in vista non di esseri viventi qualsiasi, ma di quelli che
partecipano di ragione e saggezza.
DIONE CRISOSTOMO, Orat. XXXVI, 29, II, p. 9, 1 segg. Arnim = SVF II,
1130
Il discorso circa la città … non deve essere inteso nel senso che
essi vogliano sostenere che il cosmo è una città in opposizione alle
nostre; a questo discorso si opporrebbe l’altro secondo cui, come
essi dicono, la città è un insieme organizzato di esseri umani; non
sarebbe possibile, dopo aver detto che il mondo è un essere vivente,
dire in pari tempo che esso è una città; nessuno potrebbe supporre
che essi intendano che l’uomo e la città sono la stessa cosa.
Tuttavia questo ordinamento dell’universo, il dividersi del tutto in
molte e diverse forme di piante e animali, mortali e immortali, e
ancora in aria acqua terra fuoco, pur restando di sua natura uno in
tutte le cose e vivente in virtù di una sola potenza psichica, lo
paragonano in qualche modo a una città, per la molteplicità delle
cose che nascono e si verificano in esso, e per l’ordine e la
regolarità del governo del tutto. Questo loro discorso ha, per dirla
in breve, il compito di armonizzare il genere umano con la divinità
e abbracciare in un solo concetto tutto ciò che vi è di razionale
nel mondo, trovando che solo questo, principio di comunanza e di
giustizia può conferire al tutto saldezza e indissolubilità.
PS. GALENO, Defin. med., 95, XIX, p. 371 Kühn = SVF II, 1133
La natura è fuoco artefice che procede con metodo alla generazione
delle cose, e si muove attuandosi per sua propria forza… O
diversamente: la natura è soffio caldo che si muove spontaneamente
e, in virtù di sue forze seminali268 genera, perfeziona e conserva
l’essere umano. O: la natura è una forza che si muove di per se
stessa, causa di generazione e di plasmazione e di perfezione, che
genera e porta a perfezione l’essere umano. Il nome «natura» poi si
dà anche alla commistione delle realtà, alla loro disposizione, al
moto per impulso spontaneo. E «natura», infine, si dice anche quella
potenza che governa e regge l’essere vivente.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, V, 14, 99, 4, p. 393 Stählin = SVF
II, 1134
Gli Stoici definiscono la natura «fuoco artefice che procede con
metodo alla generazione».
GALENO, De usu partium, XVII, 1, IV, p. 350 Kühn = SVF II, 1135
E poiché alcuni prima di loro avevano posto elementi tali, a base
delle sostanze, da non potersi conciliare con l’idea di un’arte
propria della natura, essi intesero combattere tale opinione269. Che
non possano conciliarvisi, lo si può intendere da quanto segue. Ciò
che deve foggiare alcunché con arte, deve o trattarlo alla
superficie, oppure scorrervi all’interno per tutta la sua
estensione. Ma quegli atomi o corpi indivisibili, così come
intendono quelli gli elementi, non sono capaci di per sé di plasmare
i corpi né di compenetrarli per tutta la loro estensione. Non c’è
che da supporre che operino la costruzione dei corpi sensibili
intrecciandosi gli uni con gli altri a caso. Ma ciò che si intreccia
a caso ben di rado dà luogo a una produzione artigianale utile; per
lo più mette capo a una costruzione inutile e priva di senso. Ed è
certo questa la causa per cui quegli uomini non vogliono ammettere
che la natura sia dotata di capacità artigianale, in quanto essi
ritengono che i corpi elementari siano tali quali essi intendono
esser gli atomi.
GALENO, De usu partium, V, 4, III, p. 354 Kühn = SVF II, 1136
Noi spesso facciamo la scelta di ciò ch’è utile senza farne accurato
esame, poiché ci capita talvolta di scegliere qualcosa più atto per
sua natura a far danno alle altre cose che a recarvantaggio in vista
di ciò per cui lo usiamo. Ma la natura non fa niente senza criterio,
né le accade per trascuratezza di scegliere grandi mali in vista di
un bene minore: giudicando con misura esatta la quantità e la
qualità, in ciascuna cosa, sa ben dividere il bene dal male. Al più
alto grado, se fosse possibile, essa genererebbe prodotti alieni dal
male; ma in nessuna delle arti è possibile annullare completamente
la negatività della materia e dar luogo a un prodotto assolutamente
adamantino ed esente da qualsiasi difetto; perciò bisogna ammettere
che essa crea il cosmo ordinato nella misura in cui ciò è permesso.
Le materie sono diverse e a ciascuna è possibile ottenere certi
prodotti: gli astri e noi, per esempio, non siamo fatti della stessa
materia. Non bisogna dunque cercare la assoluta irreprensibilità
nell’agire della natura e biasimarla se, insieme con tante cose
positive, scopriamo in essa anche qualche piccolo danno.
GALENO, De usu partium, XVII, 1, IV, p. 355 Kühn = SVF II, 1137
Il semplice paragone delle dita può dimostrare l’arte stessa della
natura a chi non sia nemico di questa: perché mai non c’è uomo che
abbia dita di grandezza tripla a quella effettiva? o perché mai la
prima falange delle dita in ciascuno di essi è quale è attualmente,
così piccole come esse sono? Io dico che ciò è perché una grandezza
diversa avrebbe distrutto la loro possibilità di uso. Ma tu, o
diligentissimo accusatore delle opere della natura, non guardi a
nessuna di queste cose: solo questo sei capace di vedere, che su un
numero infinito di esseri umani ad uno in particolare essa ha fatto
una mano di sei dita.
GALENO, De usu partium, V, 15, III, p. 402 Kühn = SVF II, 1136
Mai in nessun caso la natura trascura alcunché: essa conosce in
precedenza, e vede in precedenza le cose che conseguiranno di
necessità alle realtà che si verificano in vista di qualcos’altro; e
precede ogni evento nel predisporre i rimedi.
GALENO, De naturalibus facultatibus, I, 12, II, p. 27 Kühn = SVF II,
1138
Due sette di tipo diverso vi sono state nella scienza medica e nella
filosofia … l’un tipo di setta ha avuto a suo presupposto una
natura intesa come sostrato e destinata a venir distrutta nel suo
insieme e soggetta a infiniti mutamenti; l’altra setta una natura
non soggetta a cambiamenti né variazioni nella sua essenza, e
suddivisa in particelle minuscole, e separata da intervalli minimi
di vuoto… Secondo quelli della prima setta, la natura dei corpi non
è ulteriore, ma di gran lunga prima e antecedente; e secondo costoro
essa tiene insieme i corpi degli animali e delle piante, ed è dotata
di alcune forze, atte alcune a trarre le une alle altre ed ad
assimilare le realtà affini, altre atte a separare le forze
eterogenee; e tutto foggia con arte ciò che ha generato, e degli
enti generati si prende cura in virtù di altre forze che ha in sé:
in virtù di amore e provvidenza per i suoi rampolli, in virtù di
concordia e amicizia per le realtà omogenee.
GALENO, De usu partium, XIV, 1, IV, p. 142 Kühn = SVF II, 1139
La natura cercò di fornire a ciò ch’è suo prodotto il grado più alto
possibile d’immortalità: poiché la materia non consentiva ciò
appieno … essa si studiò di offrirle un aiuto in vista
dell’immortalità alla maniera del buon fondatore di città, che non
si occupa solo della coabitazione in vista del futuro immediato, ma
cura provvidamente a che la città che fonda possa conservarsi nel
suo essere per sempre, o almeno per un tempo lunghissimo.
GALENO, De usu partium, XIV, 4, V, p. 151 Kühn = SVF II, 1139
La natura, volendo provvedere a che nessuno dei generi del mondo
animale possa venir meno, per tutti quelli che per la debolezza del
corpo avrebbero avuto breve vita o sarebbero stati preda di animali
più forti inventò come rimedio della continua distruzione la
capacità di produrre moltissimi figli… A tutti quegli animali che
non sono capaci, per la estrema secchezza del loro corpo, di
secernere un umore nutritivo sovrabbondante (= il latte), inventò un
altro ingegnoso sistema di nutrimento dei propri nati, mettendo in
loro una mirabile cura degli essere da loro generati, in virtù della
quale essi difendono i piccoli … e procurano loro abbondante cibo.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 55-57, p. 84 Aucher = SVF
II, 1141-1143
Similmente Dio, nonché creare il vuoto, dal vuoto270 creò questo
mondo che è quasi una grande città; e insieme con essa diede origine
anche al luogo. Poiché, ammesso che tutto il corpo dell’universo sia
pieno e compatto … non vi sarà alcuna parte di spazio che non sia
anche un luogo. La figura del mondo, come il mondo stesso … da parte
della provvidenza fu fatta in forma di globo: in primo luogo perché
è la forma più veloce e più mobile di ogni altra e perciò più
stretta da necessità, e non corre pericolo di rallentare il suo
corso e precipitare a ritroso nel vuoto immenso, dal momento che
tutte le sue parti sono tenute in equilibrio reciproco. Così
soltanto avrebbe potuto ottenere stabilità, col tendere di se stesso
verso il punto medio con curvatura uguale… Quanto al tempo infinito
e incorporeo, Dio non lo ha creato, ma ha creato, valendosi del sole
e della luna come misura, i giorni, i mesi, gli anni, e così pure si
è valso di tutti i giri circolari dei pianeti, in vista della
generazione di animali e piante, che non possono sussistere senza le
stagioni dell’anno. Il nascere e il tramonto del sole, che avviene
di continuo, è stato predisposto per questo scopo.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 62, p. 87 Aucher = SVF II,
1144
La terra occupò il punto medio dell’universo, in primo luogo perché
non potesse muoversi dal centro per un qualsiasi spostamento;
infatti il suo equilibrio stabile tende al centro. In secondo luogo,
perché la disposizione delle cose potesse attuarsi circolarmente
intorno ad essa: per la sua immobilità, dovuta al suo tendere verso
il centro, ogni cosa resta al suo posto sulla sua superficie. Dal
che si dimostra che la sua figura è stata fatta dalla provvidenza in
forma di globo, poiché la circumabitazione di cui si è parlato non
ammette alcuna altra figura; e questo è evidente dalle
considerazioni filosofiche che si possono fare circa le figure e la
disposizione dei luoghi abitati.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 64, p. 89 Aucher = SVF II,
1145
Essi dicono che la distesa del mare è stata creata per l’utilità
degli uomini e degli dèi. Dicono che dagli dèi stessi quest’ordine è
stato stabilito. Il sole, che alcuni di essi hanno ritenuto essere
la stessa parte direttiva dell’universo, in quanto ci fornisce le
cose necessarie, si nutre, a quanto dicono, dal mare; giacché egli
assorbe, traendole a sé, le parti più purificate dell’elemento
umido. Può valerne come prova, fra le altre, il fatto che il corso
del sole durante le stagioni dell’anno tende in direzione contraria,
nell’estate passando per il Cancro e nell’inverno per il Capricorno.
Nel suo moto circolare, infatti, il sole non oltrepassa né l’uno né
l’altro di questi punti limite. E quelle stesse stelle fisse che
sono nutrici dell’universo a loro volta sono poi nutrite
dall’umidità che traggono a sé dall’aria così purificandola. Il che
essi provano nel modo seguente: un poco di questo stesso umore, non
permisto a nient’altro, che con norma costante si rapprende per il
freddo all’aurora, viene rimandato sulla terra accolto che abbia in
sé il colore dell’acqua, nella forma della rugiada, come è d’uso
chiamarlo… Come dunque è di grande utilità il mare per assicurare
nutrimento a tutto il cielo, così lo è anche per la vita degli
uomini, perché senza di esso non vi sarebbe nessuna mutua
comunicazione fra gli abitanti della terra con quelli delle isole o
viceversa, e nemmeno alcuno scambio dei beni che nascono nell’una e
nell’altra regione.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 67, p. 90 Aucher = SVF II,
1146
Ma i vapori che vengono dalla terra a che cosa servono? O uomo
mirabile, forse che la composizione complessa dell’aria non è
apportatrice di salute non solo agli esseri viventi, ma anche alle
piante? Anzi, se è opportuno asserire ancora qualcosa di più, essa è
causa di sussistenza anche a quelle realtà che sono reciprocamente
connesse in virtù della loro natura solida. Essa è in primo luogo
elemento nutritivo per gli esseri viventi ed è fra tutti i cibi e le
bevande quello di cui facciamo più continuamente uso… Infatti le
cose che sono recepite dal corpo, o per la sazietà o per l’esaurirsi
del desiderio finiscono con il procurare a moltissimi fastidio e
stanchezza. L’alimento invece che si trova diffuso per l’aria è
fornito di continuo come un dono della natura sia nel sonno sia
nella veglia, dalla gioventù fino alla vecchiaia; ragion per cui, se
sia anche in minima parte corrotto, genera pestilenze271.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 73, p. 93 Aucher = SVF II,
1147
Le stelle fisse sono ragione del carattere temperato dell’aria,
giacché sono composte di natura fredda e diffondono da sé sostanze
liquefatte; così l’aria, dilatata, diventa atta a favorire la
generazione degli animali, e allo stesso modo si procura la
possibilità di respirare agli animali che già siano stati prodotti.
Alla tenuità dell’aria coopera la molteplicità; al fatto che l’aria
si dilati tutta completamente, e non solo parzialmente, coopera il
movimento circolare periodico.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 76, p. 95 Aucher = SVF
II, 1148
In primo luogo … la luna ha predisposto appositamente i giri
circolari per i vari mesi, che sono altrettante misure del corso
solare. Quindi, col suo crescere e il suo scemare, produce le
variazioni e i mutamenti a seconda delle vicissitudini
dell’universo. Ne danno prova certa tutte quelle diverse situazioni
che si verificano nell’aria: la tranquillità, le fasi di cielo
sereno, le stasi dei venti, le nuvolosità, i venti impetuosi ed
altre cose simili, inoltre i riflussi dell’immenso mare, che ora si
ritrae indietro, ora nuovamente incalza coi flutti; e soprattutto le
variazioni che subiscono alcuni animali.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 84, p. 98 Aucher = SVF II,
1149
Ma pensi tu che noi siamo stati fatti per il mondo, e non piuttosto
il mondo per noi? Forse non hai meditato abbastanza su questo, che
la divisione della terra è stata disposta ad arte per l’abitazione
degli uomini e per lo spazio ad uso degli dèi sensibili272. A noi
infatti nella distribuzione generale è stata concessa, una parte di
spazio più grande di quella che ci sia sufficiente per l’abitazione:
tuttavia occorreva predisporre un elemento nutritivo capace di
alimentare i corpi celesti, che come si sa devono nutrirsi delle
esalazioni del grande mare.
GALENO, De usu partium, XVII, 1, IV, p. 358 Kühn = SVF II, 1151
Chi potrebbe non comprendere immediatamente che vi è un intelletto,
dotato di capacità mirabile, che percorre tutto l’universo
estendendosi per tutte le sue parti? Dappertutto infatti si vedono
nascere animali dotati di una struttura mirabile. E quale delle
parti dell’universo potrebbe sembrare più vile di quelle cose che
sono nella terra? Tuttavia vediamo che una sorta di capacità
intellettiva giunge dai corpi superiori, per cui chi a chi contempli
avviene di ammirare la bellezza della realtà, in primo luogo e
soprattutto del sole, dopo di lui della luna, poi degli astri, in
cui è ragionevole pensare — in quanto anche la loro sostanza
corporea è più pura — che abiti un intelletto di gran lunga più puro
e superiore rispetto a quello che abita nei corpi terrestri… Se
considero tutte queste cose, mi sembra che anche attraverso
quell’aria che ci circonda si distenda l’intelletto in non piccola
misura. Se questo per sua natura partecipa del raggio del sole, deve
partecipare di necessità anche della forza che è a questo propria.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 74, I, p. 343, 23 Kotschau = SVF II,
1157
Celso … non ha visto che così condanna anche i filosofi della Stoa,
che non male hanno parlato dando agli uomini il primo posto
nell’ordinamento universale e preponendo in generale la natura
dotata di ragione a tutti gli animali irragionevoli, e affermando
che la provvidenza ha fatto tutte le cose in primo luogo per gli
esseri dotati di ragione. Ragionevole è ritenere che gli esseri
dotati di ragione, e che hanno il primo posto nell’universo,
generino propriamente dei figli, mentre gli esseri che sono privi di
ragione o sono addirittura privi di anima producono rampolli per
semplice superfetazione della membrana273. E credo che, come nelle
città quelli che si curano delle merci e del mercato lo fanno
esclusivamente in vista degli uomini, ma intanto dell’abbondanza
godono parallelamente anche i cani e altri animali irragionevoli,
così la provvidenza si dà cura fondamentalmente degli esseri dotati
di ragione, ma ne consegue anche gli esseri privi di ragione godano
delle cose che si verificano in virtù del genere umano.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 54, Ι, p. 326, 31 segg. Kötschau = SVF
II, 1155
Egli avrebbe dovuto affermare cose siffatte e polemizzare non solo
con noi, ma anche con quella non ignobile setta che ha preso inizio
da Zenone di Cizio, quando cerca di dimostrare che i corpi degli
animali non sono opera di Dio, e che l’arte che si esercita intorno
a simili cose non è derivata dal primo intelletto; avrebbe dovuto, a
proposito di cose siffatte (e anche a proposito delle cose governate
dalla natura che sussiste in esse inconsciamente, le piante di ogni
genere e quegli animali che sono stati fatti in vista di una non
disprezzabile utilità degli uomini, ai quali servono, diversi come
sono da essi nella loro essenza) non solo affermare, ma anche
dimostrare che non è l’intelletto perfetto quello che ha fornito la
materia delle piante di simili proprietà.
Ex Origene Selecta in Psalmos, P.G. XII, col 1089 = SVF II, 1156
Alcune cose avvengono primariamente e altre semplicemente conseguono
a queste. Primariamente l’animale ragionevole; il bestiame e i
prodotti della terra per sua utilità.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 23, p. 193, 16 segg. Bruns =
SVF II, 1159
Se la corteccia nelle piante è in vista dell’involucro del seme, e
quest’ultimo è in vista del frutto, si innaffia pure in vista del
nutrimento e si nutre perché porti frutti.
CICERONE, Acad. pr., II, 38, 120 = SVF II, 1161
Non è necessario a me, come lo è a te, spiegare … perché Dio, se è
vero che ha fatto tutto per noi, come voi affermate, ha dato tanto
potere ai serpenti e alle vipere… Tanto elegantemente e tanto
sottilmente voi negate che ciò possa essere avvenuto senza un’opera
particolare di intelligenza divina; la cui maestà voi fate
discendere fino alla perfezione delle api e delle formiche, sì che
sembra quasi che ci sia anche fra gli dèi formicarii un demiurgo di
minuscole opere!274.
CICERONE, De legibus, I, 8, 25 = SVF II, 1162
Perciò la natura ha fornito in vista degli uomini e del loro utile
una così grande abbondanza di beni che tutte le cose si producono
appaiono nate non a caso, ma per opera di intelligenza ordinatrice;
né solo quelle cose che sono largite dalle messi o dai frutti della
terra, ma anche il bestiame: poiché è evidente che esse sono state
prodotte parte per utilità degli uomini, parte per trarne frutto,
parte per nutrirsene. Sono poi state trovate arti innumerevoli, con
l’insegnamento della natura: è imitando questa che la ragione è
intelligentemente riuscita ad ottenere beni necessari alla vita.
GALENO, De usu partium, XI, 14, III, p. 899 Kühn = SVF II, 1164
Quanto al tendere vero ciò ch’è proporzionato e verso la bellezza
della forma, anche questo lo si deve riconoscere necessario negli
esseri della realtà naturale… Per esempio i peli che sono sulle
guance non solo le proteggono, ma anche contribuiscono al loro
ornamento, e il carattere della maschilità appare in forma più
solenne soprattutto col progredire dell’età se da ogni parte gli
cresce intorno bellamente disposta la barba. Per la stessa ragione
quelli che chiamiamo gli arti e il naso furono lasciati liberi da
pelo: altrimenti tutto l’aspetto dell’uomo sarebbe stato selvaggio e
ferino, e tutt’altro che adatto a un essere vivente pacifico e
socievole.
CICERONE, De nat. deor., I, 18, 47 = SVF II, 1165
Voi siete soliti … quando vi raffigurate il mondo come opera d’arte
e come fabbricazione di origine divina, descrivere come tutte le
caratteristiche che si trovano nella figura umana siano adatte non
solo all’utilità, ma anche alla bellezza.
CICERONE, De fin. bon. et mal, III, 5, 18 = SVF II, 1166
Delle membra del corpo alcune appaiono essere state donate dalla
natura all’essere umano in vista dell’utilità, come le mani, le
gambe, i piedi, così come quelle che sono all’interno del corpo,
delle quali si disserta fra i medici quale utile gli rechino; ma
altre sono state donate non per una utilità qualsiasi, ma quasi in
vista di un ornamento, come la coda al pavone, le penne di vario
colore ai colombi, le mammelle e la barba ai maschi.
LATTANZIO, Inst. div., II, 10, p. 149 Brandt = SVF II, 1167
La stessa cosa (della Genesi) ha tramandato Ermete275; il quale non
solo ha detto che l’uomo è fatto a immagine di Dio, ma ha anche
tentato di spiegare in virtù di quale ragionamento la divinità abbia
formato ogni membro nel corpo umano, non essendovi fra di essi
nessuno che non abbia valore non solo in vista dell’utilità ma anche
della bellezza. Anche gli Stoici tentano di far ciò quando
dissertano sulla provvidenza; e Tullio (Cicerone) li ha seguiti in
più luoghi.
PLUTARCO, De comm. not., 34, 1076c = SVF II, 1168
Ma essi dicono di non esser d’accordo con quel verso del teatro di
Menandro
«principio massimo dei mali umani
è l’eccedere in beni276»
perché questo lo ritengono contro le nozioni comuni: per loro dio
stesso, che è bene, è anche la fonte dei mali. Infatti non è la
materia di per sé che ha prodotto il male: essa è priva di qualità e
tutte le differenze che ha in sé le deve al principio che la muove e
la foggia in varie forme. Ed è la ragione che risiede in essa a
muoverla e a darle forma, mentre essa per sua natura non sa muovere
se stessa né dar forma a se stessa.
FILONE ALESSANDRINO, De praemiis et poenis, 33-35, V, p. 343
Cohn-Wendland = SVF II, 1171
Così come un medico, di fronte a malattie gravi e pericolose, può
anche esser costretto ad asportare un membro del corpo, ma lo fa
avendo di mira la salute delle rimanenti parti del corpo; e come un
nocchiero, quando sopravvenga la tempesta, getta via il sovraccarico
dalla nave, ma lo fa per la salvezza dei naviganti; e come non
consegue biasimo né al medico per la privazione del corpo di quel
membro, né al nocchiero per quello scarico; anzi all’uno e all’altro
ne consegue lode, perché hanno saputo vedere l’utile e
sceglierlo anche contro il piacevole; allo stesso modo bisogna
ammirare anche la natura del tutto e compiacersi per il fatto che
gli accadimenti naturali sono privi di cattiveria volontaria,
chiedendosi se, quando avvenga in natura qualcosa che sembri andare
contro il piacevole, ciò non sia perché il cosmo è retto e governato
alla maniera di una città retta da buone leggi.
LATTANZIO, De ira dei, 13, 9, p. 101 Brandt = SVF II, 1172
Ma gli Accademici, disputando contro gli Stoici, sogliono chiedere
perché, se la divinità ha fatto tutto in vista dell’utilità degli
uomini, siano reperibili, sia nella terra che nel mare, tante realtà
a noi contrarie e nemiche ed esiziali. Gli Stoici, non avendo una
chiara visione della verità, respinsero in maniera del tutto
insufficiente queste accuse: essi dicono infatti che tra quelli che
generano e nel gran numero degli esseri viventi ve ne sono molti la
cui utilità non è evidente, o almeno non lo è stato fino ad ora,
perché col procedere del tempo la si scopre, così come molte cose
ignote ai secoli precedenti sono state scoperte in virtù di
necessità e utilità.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 75, p. 345 Kötschau = SVF II, 1173
Se la natura ha apprestato cibo per le belve più feroci, non c’è
niente di cui stupirsi; ci sono fra i filosofi alcuni che dicono che
simili fiere sono state create in vista dell’animale ragionevole,
per sua esercitazione.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 78, p. 348 Kötschau = SVF II, 1173
Così dicono che è per esercitazione dei semi di valore che sono in
noi che ci sono state date le stirpi dei leoni, degli orsi, delle
pantere, dei cinghiali e altre simili.
CICERONE, De nat. deor., III, 35, 86 = SVF II, 1179
Ma gli dèi trascurano gli eventi di poco conto, né portano danno
alle viti o ai campicelli dei singoli individui, né bisogna
prendersela con Zeus se la siccità o la grandine ha portato qualche
danno; neanche i re nei loro regni si preoccupano delle cose infime;
è così che voi dite.
CICERONE, De nat deor., III, 37, 90 = SVF II, 1180
Non di tutto si accorgono gli dèi, e neanche i re. Che vuol dire
questo paragone? Se i re trascurano qualche cosa coscientemente,
questa è una loro grave colpa; quanto poi alla divinità, non c’è
possibilità di appellarsi alla sua non-conoscenza. E queste cose voi
le sostenete bellamente, col dire che tale è il potere degli dèi
che, anche se qualcuno si sia sottratto con la morte alla pena a lui
dovuta per il suo misfatto, sarà di ciò pagato il fio dai figli, dai
nipoti, dai discendenti.
PLUTARCO, De comm. not., 16, 1066d = SVF II, 1181
Desidero sapere in che modo quegli uomini facciano precedere i mali
ai beni, il vizio alla virtù… Molte cose vanno blaterando in
proposito, ma in definitiva il senso è che, essendo la sapienza
scienza di ciò che è bene e di ciò che è male, 〈una volta che sia
soppresso il male〉277 anch’essa è soppressa; e così pure essi
pensano che è impossibile che vi siano cose vere se non ve ne sono
di false; e similmente credono convenire che, se vi sono beni, vi
siano anche mali.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, I, 17, 86, 1, p. 55 Stählin = SVF
II, 1184
Ma anche le volontà e gli atti di quelli che compiono apostasia,
essendo di ordine parziale, derivano da una cattiva disposizione,
così come le malattie del corpo: sono infatti dirette dalla
provvidenza universale a un fine salubre, anche se la loro causa sia
nociva. È il massimo beneficio della provvidenza divina quello di
non lasciare che la cattiveria che deriva da un atto cosciente di
apostasia possa nuocere e diventare in generale dannosa. Infatti
opera della sapienza, virtù, potenza divina è non solo quella di
compiere il bene; questa è per così dire la natura stessa del
divino, come la natura del fuoco è il riscaldare e quella della luce
è illuminare; opera ancora più grande è quella di metter capo a un
fine buono per mezzo delle stesse cose che escogitano alcuni con
cattiveria, e di valersi per il bene di quelle cose che appaiono
malvage.
ORIGENE, De princ., IV, 4, 7, p. 303 Kötschau = SVF II, 1185
E infatti delle opere della provvidenza che riguardano il cosmo nel
suo insieme alcune appaiono evidentissime, proprio in quanto opere
della provvidenza di per sé stessa; altre invece sono nascoste in
modo tale da far diffidare della stessa divinità che governa il
tutto con arte e con potere ineffabile. Relativamente alle cose
terrene, la ragione artefice della divinità provvidenziale non è
così manifesta come lo è in riferimento al sole, alla luna, agli
astri; e non è così chiara circa gli avvenimenti umani come per ciò
che riguarda le anime e i corpi degli animali. È mirabile
come chi si prende cura di queste cose possa scoprire in relazione a
che e in vista di che cosa si verifichino gli impulsi e le
rappresentazioni e le nature diverse degli animali e le strutture
dei loro corpi.
CICERONE, De nat. deor., III, 27, 70 = SVF II, 1186
Solete rispondere così a questo punto: non perché molti usano male
del beneficio largito dagli dèi viene inficiata l’opera benefica
della provvidenza: anche dei patrimoni ereditati molti fanno pessimo
uso, ma non per questo si può dire che essi non abbiano ricevuto dai
loro padri un beneficio.
CICERONE, Acad. pr., 33, 107 = SVF II, 1188
… mentre Panezio dice di nutrire dubbi su quella cosa che tutti gli
Stoici al contrario tranne lui hanno creduta con assoluta certezza,
che siano cioè vere le divinazioni degli aruspici, gli auspici, gli
oracoli, la visione in sogno, i vaticinii278.
AEZIO, Plac., V, 1, 1, Dox. Gr., pp. 415 = SVF II, 1190
Platone e gli Stoici sostengono la mantica come qualcosa di
divinamente ispirato perché ha in sé un elemento di
contemplazione279; e così pure la divinazione in base ai sogni. Essi
accettano la maggior parte delle forme della divinazione.
CICERONE, De divinatione, II, 17, 41 = SVF II, 1193
Così infatti essi, tagliando corto, usano argomentare: «Se ci sono
gli dèi, c’è la divinazione; ma gli dèi ci sono; e dunque c’è la
divinazione».
CICERONE, De legibus, II, 13, 32 = SVF II, 1194
Se infatti ammettiamo che ci siano gli dèi, e che il mondo sia
governato dalla loro intelligenza, e che la loro divina potenza
provvede al genere umano e può manifestarci i segni delle cose
future, non vedo perché si debba negare valore alla divinazione. Ma
tutte le cose che ho postulato sono vere; e quindi da ciò discende
per necessità il nostro assunto.
QUINTILIANO, Inst. orat., V, 7, 35 = SVF II, 1195
Se si vogliano poi aggiungere quelle che essi chiamano attestazioni
divine, e che constano di responsi, oracoli, auguri, si sappia che
la trattazione di simili cose è duplice: vi è un tema generale, sul
quale verte una polemica continua fra i seguaci della setta stoica e
della epicurea, se il mondo sia o no retto dalla provvidenza; uno
speciale, che riguarda le diverse specie della divinazione, a
seconda che si viene a discutere dell’una o dell’altra di esse. Si
può infatti confermare e rifiutare in un modo la veridicità degli
oracoli e in un altro degli aruspici, degli auguri, dei
congetturatori, dei matematici, dal momento che un diverso metodo
presiede a queste diverse forme.
TERTULLIANO, De anima, 46, 11, pp. 64-65 Waszink = SVF II, 1196
Ma anche gli Stoici ritengono che Dio, sommamente previdente verso
la specie umana, tra gli altri aiuti offertici dall’arte divinatoria
ci abbia dato anche i sogni, sollievo proprio di un oracolo
naturale.
CICERONE, De nat. deor., III, 39, 93 = SVF II, 1197
Ma dopo aver detto che gli dèi non stanno dietro a tutte le cose,
non siete poi proprio voi stessi a ritenere che siano gli dèi
immortali a dividere e distribuire i sogni fra gli uomini (proprio
di questo discuto con te, giacché questa è la vostra opinione circa
la veridicità dei sogni) e che i voti siano necessariamente
accolti?280
CALCIDIO, In Plat. Tim., 251, p. 260, 20 segg. Waszink = SVF II,
1198
Eraclito, e gli Stoici assentono a ciò, riconnette la nostra ragione
con la ragione divina, che regge e governa le cose dell’universo; e
poiché essa, in virtù di questa associazione inscindibile, è fatta
consapevole della legge della ragione universale, quando l’anima è
in riposo, per mezzo dei sensi, rivela il futuro. Da ciò deriva che
ci appaiono immagini di luoghi ignoti e simulacri di uomini sia vivi
che morti. Lo stesso Eraclito parla dell’utilità della divinazione,
e che essa preammonisce quelli che hanno ben meritato, sotto
l’insegnamento delle potestà divine.
CICERONE, De divin., I, 27, 56 = SVF II, 1200
Che dire di quei due sogni che così di frequente sono ricordati
dagli Stoici … in particolare quello di Simonide, il quale aveva
visto il cadavere di un naufrago e gli aveva dato sepoltura; avendo
intenzione poi di imbarcarsi, fu ammonito in sogno da colui che
aveva sepolto, che non lo facesse, o altrimenti sarebbe morto in
naufragio. Così Simonide tornò indietro; e quelli che si erano
imbarcati perirono.
CICERONE, De divin., I, 23, 72 = SVF II, 1207
I sistemi di divinazione che si servono di congetture oppure
compiono le loro osservazioni in base a particolari eventi, sono
detti non naturali ma artificiosi; tra quelli che li praticano sono
gli aúguri, gli aruspici, i congetturatori. Sono respinti dai
Peripatetici, ma approvati e difesi dagli Stoici281.
CICERONE, De divin., I, 49, 109 = SVF II, 1208
E che c’è di strano che il sistema della divinazione artificiosa sia
più facile, mentre quello della divina282 alquanto più oscuro? Gli
indizi che vengono dalla viscere delle vittime, dalle folgori, dai
portenti, dagli astri, si possono rilevare ogni giorno. In tutti i
tipi di realtà l’antichità del tempo in virtù della gran massa di
dati osservati e raccolti fornisce una possibilità incredibile di
conoscenza; e ciò può avvenire anche senza esser mossi e ispirati
dalla divinità, semplicemente per il fatto che si osserva di
frequente quale effetto si verifichi in base a una certa causa e che
cosa indichino i vari eventi. Altro tipo di divinazione è quella
naturale, come già prima ho detto: essa nel nostro discorso
filosofico intorno alla natura va riferita alla divinità stessa,
dalla quale, come ritengono i più sapienti e dotti, le nostre anime
vengono riempiti e colmati; dal momento che tutte le cose sono piene
e ricolme di sensibilità eterna e intelligenza divina,
necessariamente l’anima umana si commuove a contatto283 dell’anima
divina.
CICERONE, De divin., I, 52-53, 118-120 = SVF II, 1210
Infatti gli Stoici non ritengono che gli dèi siano responsabili in
alcunché del fegato aperto e dei canti degli uccelli; né ciò può
essere conveniente, né in alcun modo degno degli dèi; ma ritengono
invece che il mondo abbia avuto fin dall’inizio una tale struttura,
che eventi stabiliti siano precorsi da segni stabiliti,
manifestantisi alcuni nelle viscere, altri negli uccelli, altri
nelle folgori, altri nei prodigi, altri ancora negli astri, o nelle
visioni dei sogni, o nelle parole degli invasati. Se essi vengono
bene interpretati, è difficile ingannarsi; e se sono mal
congetturati e mal interpretati risultano falsi non per colpa della
realtà, ma per imperizia degli interpreti.
Una volta però dato e concesso che esiste una forza divina che regge
la vita dell’uomo, non è difficile arguire in virtù di quale logica
avvengano le cose che vediamo di fatto avvenire… Quella stessa
intelligenza divina fa sì che gli uccelli volino ora da una parte,
ora dall’altra, o si nascondano ora da una parte ora dall’altra, e
che gli uccelli augurali cantino ora da destra ora da sinistra. E se
ogni animale può servirsi delle parti del suo corpo come vuole, con
moto prono, obliquo, supino, e piega le membra al modo che vuole, o
le torce, o le protende, o le contrae, e compie tutte queste cose
quasi ancor prima di averle pensate — quanto più tutto ciò sarà
facile da compiersi alla divinità, al cui potere tutto obbedisce!
Questa stessa divinità manda a noi anche quei segni che in grande
abbondanza la ricerca ci fa conoscere.
CICERONE, De divin., II, 14, 33 = SVF II, 1211
Che parentela hanno queste cose (= i moti delle viscere ecc.) con la
natura nel suo insieme? Se essa è congiunta e tenuta insieme da un
universale consentimento, ciò che vedo sia stata opinione dei
filosofi naturalisti e soprattutto di quelli che hanno affermato
l’unità di tutto ciò che esiste, che cosa può avere l’universo che
lo congiunga con eventi come il ritrovamento di un tesoro?… Per
affermare che vi è in natura questo contatto delle cose fra loro,
che posso anche ammettere vi sia… gli Stoici raccolgono molti dati a
prova; dicono infatti che i fegati dei topolini si gonfiano a causa
del freddo invernale e che in quegli stessi giorni freddi fiorisce
il puleggio in genere arido, e si dilatano e si rompono le
vescichette delle piante; e i semi dei meli che sono inclusi in esse
germinano in direzioni contrarie; nelle cetre le corde risuonano in
maniera diversa sotto diversi tocchi; le ostriche e le conchiglie
avviene che spuntino e crescano insieme con la luna; per gli alberi,
quando in periodo invernale al decrescere della luna risultano esser
più essiccati, è il momento migliore di tagliarli. E che dire poi
dei cavalloni marini e delle maree, che sono rette e governate nel
loro andare e venire dai moti della luna? Sia pur possibile portare
infiniti esempi di questo genere, per provare la parentela naturale
di realtà di per sé distanti l’una dall’altra … concediamolo pure …
ma per quale congiunzione della natura, per quale armonia e
consenso, quella che in greco si dice sympatheia, può esser
apparentato un fegato aperto con il mio piccolo vantaggio e questo
stesso col cielo, la terra, la natura tutta?
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 88, p. 360, 13 segg. Kötschau = SVF II,
1212
Dapprima ci si chiede se vi è una vera e propria arte di trarre
auspici e in generale sia lecita una divinazione sulla base degli
animali; in secondo luogo poi, da parte di chi ritiene che essa sia
legittima, non si è d’accordo circa la causa del verificarsi di
questa divinazione; dal momento che alcuni dicono che i movimenti
degli animali si verificano in virtù di alcuni démoni e dei preposti
alla mantica, per gli uccelli nella forma di differenti voli e
differenti voci, per gli altri nella forma di movimenti di vario
genere, mentre altri ritengono che siano le loro stesse anime ad
essere divine e quindi adatte a questo scopo, il che è incredibile
al più alto grado.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 90, p. 362, 20 segg. Kötschau = SVF II,
1212
Anche concesso questo (= la validità della divinazione augurale),
c’è sempre una grande superiorità dell’uomo sugli animali
irragionevoli anche in ciò che riguarda la divinazione, né mai li si
può paragonare. Si direbbe che, se veramente in essi ci fosse una
natura divina capace di conoscere il futuro e tanto ricca da
rivelare il futuro ad altri, a maggior ragione essi dovrebbero
prevedere ciò che li riguarda; e conoscendolo284 dovrebbero esser
cauti là dove gli uomini hanno teso loro reti e trappole o arcieri
col favor delle tenebre gettano contro loro volanti i dardi… In una
parola, nessun uccello potrebbe mai esser catturato da un uomo, in
quanto essere più divino e più saggio.
CICERONE, De divin., II, 57, 117 = SVF II, 1215
Ma … perché non sono più emessi in tal modo gli oracoli a Delfi, e
non dico solo ai nostri tempi, ma già da un lungo periodo, sì che
non c’è nulla che sia più trascurato ormai di quelli? Incalzati da
queste obiezioni, dicono che per l’antichità è venuto meno il potere
insito nel luogo, ove un tempo dalla terra si sprigionava un soffio
da cui veniva ispirata la Pizia nella sua mente, sì da poter dare
oracoli285.
METEOROLOGIA
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 151-156 = SVF II, 651, 693,
698, 692, 702, 704, 558, 651, 649
Dicono che l’inverno è un raffreddamento dell’aria dovuto al grande
allontanarsi che il sole fa dalla terra, la primavera è la buona
mistione dell’aria per il suo riavvicinamento a noi, l’estate è il
riscaldamento dell’aria per il viaggio del sole verso le orse,
l’autunno è dovuto al tornare indietro del sole allontanandosi da
noi. 〈I venti sono correnti d’aria; nel loro differenziarsi la loro
denominazione deriva〉 dal luogo da cui provengono286; causa del
loro prodursi è il sole che fa evaporare le nubi. L’arcobaleno è
fatto di raggi che si riflettono da nubi umide o, come dice
Posidonio nei Meteorologici, è il riflesso di un segmento del sole o
della luna in una nuvola rugiadosa che sia cava e offra continuità
di rappresentazione, che appare come in uno specchio in forma di
cerchio. Le comete, le stelle barbate, le meteore sono fuochi che si
formano quando l’aria spessa sale nelle regioni più alte dell’etere.
La stella cadente è un accendersi di fuoco raccolto insieme che
scorre velocemente nell’aria e assume nella rappresentazione la
forma di una lunghezza. La pioggia è il cambiamento da nube in
acqua, quando l’umidità che il sole fa levare dalla terra o dal mare
non si dissolve in vapore; ma se quest’aria si raffredda allora si
forma la brina. La grandine è una nube congelata, che sia poi
dispersa da un soffio di vento: la neve è umidità che proviene da
una nube congelata, come dice Posidonio nell’VIII trattato della
Fisica287; il lampo è l’accendersi di nubi sfregate l’una contro
l’altra o rotte dal vento, come dice Zenone nel Dell’universo; il
tuono è il rumore che proviene da questo sfregamento o da questa
rottura; il fulmine è un’accensione violenta, che ricade sulla terra
con molta forza; il tifone è un fulmine molteplice, violento,
accompagnato da gran vento, oppure è il fumo infuocato che viene da
una nube che si lacera; la folgore è una nube lacerata, con vento,
piena di fuoco. 〈Si verificano i terremoti quando il vento
penetra〉288 nelle cavità della terra oppure quando è imprigionato
nella terra, come dice Posidonio sempre nell’ottavo libro289: e i
terremoti possono avvenire per scuotimento, per aprirsi di voragini,
per vortice, per sussulto.
Ritengono che l’ordinamento del cosmo sia: la terra al centro, con
il ruolo di punto centrale dell’universo: dopo di essa l’acqua,
disposta in forma sferica, concentrica alla terra; sì che la terra
di fatto si trova nell’acqua; dopo l’acqua viene un’altra sfera,
quella dell’aria. Nel cielo ci sono cinque cicli, di cui il primo è
l’artico, quello che si vede sempre; il secondo è il tropico estivo,
il terzo è l’equinoziale, il quarto il tropico invernale, il quinto
è l’antartico, invisibile. Essi si dicono paralleli in quanto non
tendono l’uno verso l’altro, e sono linee tracciate intorno al
medesimo centro. Lo zodiaco è invece obliquo, e attraversa le sfere
parallele. Le zone della terra sono cinque: la prima è quella
settentrionale, al di sopra del ciclo artico, inabitabile per il
freddo; la seconda è la temperata; la terza è quella inabitabile per
il caldo, chiamata torrida; la quarta è la temperata dal lato
opposto al nostro; la quinta è la meridionale, anch’essa inabitabile
per il freddo.
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 6, 923c = SVF II, 646
«Voi dite che la terra rimane al suo posto senza bisogno di sostegno
né di radici». «Certo» disse Farnace «perché occupa il luogo che le
compete secondo natura, quello centrale; è questo il punto intorno
al quale stanno in equilibrio tutti i corpi persanti e verso cui
tutte le cose si muovono e tendono da ogni parte. La regione
superiore, anche se accolga in sé un corpo fatto di terra, gettato
in alto con forza, subito di nuovo lo espelle, o piuttosto lo
rimanda dove per natura esso è spinto dalla sua tendenza a scendere
in basso»290.
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 8, 924d = SVF II, 646
Dicono che altri si rendono ridicoli col loro collocare la luna, che
è terra, in alto, cioè in un luogo che non è centrale. E in realtà
se ogni corpo che ha un peso tende verso lo stesso punto e gravita
con tutte le sue parti intorno al suo proprio centro, la terra avrà
questa tendenza naturale verso le sue parti, che sono pesanti, non
più in quanto centro generale dell’universo che non in quanto essa
costituisce un tutto di per sé. Prova di ciò è il fatto che 〈la
tendenza dei〉corpi che cadono 〈a portarsi verso il basso〉 non
dice nulla circa la posizione 〈della terra〉 al centro dell’universo,
ma si spiega con la affinità e col carattere connaturato che hanno
verso questa, sì che anche respinti da lei vi tornano
ricadendovi291.
AEZIO, Plac., III, 9, 3, Dox. Gr., p. 376 = SVF II, 647
Gli Stoici dicono che la terra è una e delimitata.
AEZIO, Plac., III, 10, 1, Dox. Gr., p. 376 = SVF II, 647
Talete292, gli Stoici e i loro seguaci dicono che la terra è
sferica.
ACHILLE, Isagoge, 19, p. 46 Maass = SVF II, 653
La forma del sole alcuni dicono che è come un disco; Eraclito dice
che è a mo’ di una barca; gli Stoici dicono che è sferica293.
AEZIO, Plac., II, 22, 3, Dox. Gr., p. 352 = SVF II, 654
Gli Stoici dicono che il sole è sferico come il cosmo e gli altri
astri294.
AEZIO, Plac., II, 20, 4, Dox. Gr., p. 349 = SVF II, 655
Gli Stoici dicono che il sole è una esalazione infuocata dal mare,
dotata di intelligenza.
Schol. in Dionys. Thr., p. 121, 12 segg. Hilgard = SVF II, 656
E bisogna spiegare la definizione anche ai meno esperti di logica
dicendo di che è definizione, non come gli Stoici, i quali per
definire il sole dicono che esso è una esalazione infuocata dalle
acque marine dotata di intelligenza.
SERVIO, In Georg., I, v. 249, p. 189, 6 segg. Thilo = SVF II, 657
E in ciò segue gli Stoici, i quali dicono che il sole va
vicendevolmente per l’uno e l’altro emisfero e produce
vicendevolmente la notte per l’uno e per l’altro295.
AEZIO, Plac., II, 23, 5, Dox. Gr., p. 353 = SVF II, 658
Gli Stoici dicono che il sole scorre per tutta la distanza
dell’elemento nutritivo che gli è sottoposto: questo è l’oceano o la
terra, delle cui esalazioni esso si pasce.
SERVIO, In Aen., I, v. 607, p. 179 Thilo = SVF II, 659
I fisici insegnano che gli astri cioè i fuochi celesti, sono
alimentati dalle acque marine… Alcuni affermano che i raggi del sole
traggono alimento dall’umidità della terra.
Commenta Lucani, VII, 15, p. 220 Usener = SVF II, 660
Come argomentano gli Stoici, che cioè la fiamma del sole si accenda
in virtù delle nubi.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Meteor., p. 72, 22 segg.
Hayduck = SVF II, 661
Sono perciò ridicoli tutti quelli che hanno avanzato l’ipotesi in
primo luogo che il sole sia alimentato dall’umidità. Alcuni dicono
che questo è pure la causa per cui egli effettua i suoi moti
ciclici: infatti esso non può procurarsi sempre lo stesso nutrimento
negli stessi luoghi296. È necessario che abbia questo nutrimento, o
altrimenti è condannato a venir meno: anche il fuoco che cade sotto
i nostri sensi, infatti, vive fino a che riceva alimento. E solo
l’umidità può essere alimento del fuoco, e ciò avviene quando la
parte dell’umidità che si solleva più in alto arriva vicino al sole
o per il fatto che l’ascesa di esso è tale quale si verifica nella
fiamma: traendo prova da tutto questo fecero, secondo ragione
probabile, le loro supposizioni relative al sole.
PLUTARCO, De Iside et Osir., 41, 367e = SVF II, 663
Gli Stoici dicono che il sole si accende e si nutre dal mare, e che
alla luna i pascoli delle fonti e delle paludi mandano una
esalazione dolce e mitigata.
FILONE ALESSANDRINO, De confus. linguar., 156, II, p. 259 Wendland =
SVF II, 664
Che l’etere, fuoco sacro, è una fiamma inestinguibile, come dice
anche il suo nome, da αἴθειν, che significa nella lingua comune
«bruciare» (καίειν), lo si è già detto297. Ne è testimone una parte
della pira celeste, il sole, il quale, pur essendo tanto lontano
dalla terra, spingendo i suoi raggi fino ai recessi di questa, da un
lato riscalda, dall’altro accende la terra stessa e quell’aria che
da essa si alza fino alla sfera urania, e che per sua natura è
fredda: riscalda semplicemente quelle cose che sono molto lontane
dal suo moto oppure che incontra obliquamente, accende con forza le
cose che sono vicine oppure su cui cade in linea retta.
AEZIO, Plac., II, 26, 1, Dox. Gr., p. 357 = SVF II, 666
Gli Stoici dicono che la luna, come anche il sole, è maggiore della
terra.478 298
AEZIO, Plac., II, 27, 1, Dox. Gr., p. 357 = SVFII, 667
Gli Stoici dicono che la luna ha forma sferica, come anche il sole.
Essa varia di forma spesso, e infatti assume le figure della luna
piena, della mezzaluna, della falce, del mese intero (μηνοειδής).
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 15, 928c = SVF II, 668
Gli Stoici dicono che parte dell’etere diviene radiosa e leggera per
il carattere rarefatto del cielo, mentre un’altra parte,
comprimendosi e raccogliendosi, dà luogo agli astri; fra questi la
luna è il più spento e impuro.
AEZIO, Plac., II, 30, 5, Dox. Gr., p. 361 = SVF II, 669
Gli Stoici ritengono che la composizione della luna non sia del
tutto pura per una commistione di aria.
AEZIO, Plac., II, 28, 3, Dox. Gr., p. 358 = SVF II, 670
Gli Stoici ritengono che la sua luce abbia qualcosa di oscuro perché
commista con aria.
AEZIO, Plac., II, 25, 5, Dox. Gr., p. 356 = SVF II, 671
Posidonio299 e la maggior parte degli Stoici ritengono che la luna
sia mista di fuoco e aria.
PLUTARCO, De jacte in orbe lunae, 21, 933f = SVF II, 672
Farnace disse che il fatto che indica la luna come astro è che essa
ha sostanza ignea: nelle stesse eclissi infatti non è del tutto
invisibile, matraspare un certo colore che le è proprio, simile alla
brace e tenebroso.
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 21, 921f segg. = SVF II, 673
«Ma, disse, non dobbiamo assolutamente aver l’aria di provocare
Farnace, trascurando così quella inaccettabile opinione degli
Stoici; dì dunque qualcosa a quest’uomo il quale avanza la
supposizione che la luna sia un miscuglio di aria e di fuoco mite, e
dice che l’aspetto 〈della sua faccia〉300 si formi per oscuramento
prodotto dall’aria così come nel mare in bonaccia scorre un brivido
che lo increspa… La chiamano tuttavia Artemide e Atena, pur dicendo
che è un misto e un’impasto di aria tenebrosa e di fuoco allo stato
di brace, e che non ha ardore né raggio suo proprio, ma è come un
corpo difficile a definirsi, famoso sempre e bruciato dal fuoco,
così come certi fulmini che i poeti descrivono privi di luce e
fumosi… Infatti sono in disaccordo con Empedocle301, che la riteneva
aria rappresa in brina racchiusa al di sotto di una sfera di fuoco:
essi ritengono invece che sia una sfera di fuoco, ma che contenga in
sé dell’aria sparsa qua e là, e senza per questo avere in sé
interruzioni o profondità o cavità come ammettono quelli che la
ritengono di terra, ma tale aria è tutta alla superficie, s’intende
della convessità».
FILONE ALESSANDRINO, De somniis, I, 145, III, p. 236 Wendland = SVF
II, 674
Si dice che la luna non sia un addensamento di etere puro, come
tutti gli altri astri, ma una mistione di sostanza eterea e
aeriforme: quel nero che compare su di essa, che alcuni dicono la
sua faccia, non è altro che l’aria commista, aria che, essendo
nera per sua natura, si estende fino al cielo.
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 23, 936b = SVF II, 675
Sembra confutare l’ipotesi della riflessione della luce dalla luna
soprattutto questo, che a quelli che si trovano di fronte a raggi
riflessi avviene di vedere non solo ciò che viene illuminato, ma
anche la sorgente di luce. Nel caso infatti che un raggio balzi da
uno specchio d’acqua sulla parete e la vista penetri nel luogo
illuminato in forma di luce riflessa, essa riesce a vedere tre cose,
il raggio riflesso, l’acqua che produce la riflessione, il sole
stesso, dal quale parte il raggio che cade sull’acqua per poi
riflettersi. Essendo queste cose accettate ed evidenti, costringono
chi creda che la terra è illuminata dalla luna per riflessione a
dimostrare che di notte il sole si mostra alla luna, come di giorno
splende sulle acque; allora si verifica la riflessione della luce.
Se esso non si mostrasse, l’illuminazione, ritengono, avverrebbe in
altro modo e non per riflessione. Ma se non è questo, la luna non è
un corpo di terra.
AEZIO, Plac., II, 29, 6, Dox. Gr., p. 36c = SVF II, 676
Talete, Anassagora302, Platone303, gli Stoici, coerentemente a
quanto dicono i cultori delle scienze, ritengono che la luna compia
ogni mese la sua fase di oscuramento in quanto compie la stessa
strada del sole ed è circondata dalla sua luce, le eclissi invece
perché cade nell’ombra della terra: essa infatti sta nel mezzo di
questi due astri o piuttosto si frappone fra di essi.
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 25, 940c = SVF II, 677
Dicono infatti che la luna stessa, come il sole, è un essere vivente
di fuoco, grande più volte la terra, e dicono che è alimeritato
dall’umidità che viene dalla terra, e così tutti gli altri astri,
che sono infiniti: suppongono dunque che le regioni superiori del
cosmo portino in sé dei viventi così di poco conto e così indigenti
del necessario304.
PLUTARCO, De facie in orbe lunae, 25, 940a = SVF II, 679
… ponendo le maree dell’Oceano e i rigonfiamenti del mare, così come
quelli dicono, come verificantisi a causa della luna: essi si
dilatano e ingrossano per fornire a questa l’umidità.
AEZIO, Plac., II, 14, 1, Dox. Gr., pp. 343-44 = SVF II, 681
Gli Stoici dicono che gli astri sono anch’essi sferici come il
cosmo, la luna, il sole.
ACHILLE, Isagog., 11, p. 40 Maass = SVF II, 682
Gli Stoici dicono che gli astri sono fatti di fuoco; di un fuoco
divino ed eterno e non simile a questo nostro; questo infatti è
perituro e non è sempre del tutto luminoso.
ACHILLE, Isagog., 12, p. 40 Maass = SVF II, 682305
Alcuni di essi dicono che gli astri somigliano a foglie fatte di
fuoco, che cioè non hanno profondità ma sono come linee. Gli Stoici
dicono però che hanno forma sferica, come il sole e il cielo che ci
circonda.
CICERONE, De nat. deor., II, 15, 39 = SVF II, 684
E preso in esame il carattere divino del mondo, questo stesso
carattere bisogna attribuirlo agli astri, che nascono dalla parte
più mobile e più pura dell’etere e non sono commisti con alcun altra
sostanza naturale, e sono interamente ardenti e splendenti: cosicchè
ben a ragione anch’essi posson dirsi esseri animati dotati di senso
e di intelligenza306.
ORIGENE, Contra Celsum, V, 10, p. 11, 13 Kötschau = SVFII, 685
… dal momento che anche gli astri nel cielo sono esseri viventi
dotati di ragione e saggezza.
ACHILLE, Isagog., 13, p. 41 Maass = SVF II, 686
Gli Stoici, per provare che gli astri sono esseri viventi, usano di
queste argomentazioni: tutte le realtà celesti sono ignee, e si
muovono secondo natura, in lunghi periodi di tempo, con moto
ciclico. Hanno dunque anche giudizio: ma se hanno giudizio, sono
esseri viventi. E hanno anche movimenti varii: ma anche questo
consegue all’essere vivente. Inoltre, tutti gli elementi hanno in sé
animali loro propri: ma sarebbe assurdo che il migliore degli
elementi fosse privo di esseri viventi307.
FILONE ALESSANDRINO, De Providentia, II, 74, p. 94 Aucher = SVF II,
688
E similmente il loro (delle stelle fisse) muoversi in circolo
avviene senza fatica e sforzo, in primo luogo per la loro vicinanza
alla natura divina, e poi per la caratteristica stessa
del fuoco, che non può indebolirsi, giacché è nutrito dall’esca
migliore fra tutte, né cessare col tempo.
AEZIO, Plac., II, 15, 2, Dox. Gr., p. 344 = SVF II, 689
Gli altri Stoici dicono che gli astri, quanto ad altezza e
profondità, sono alcuni prima di altri.
AEZIO, Plac., II, 17, 4, Dox. Gr., p. 346 = SVF II, 690
Eraclito e gli Stoici dicono che gli astri sono alimentati dalle
esalazioni della superficie terrestre308.
SERVIO, In Aen., X, v. 272, p. 421, 10-11 Thilo-Hagen = SVF II, 691
Le comete in latino si chiamano anche «chiomate»; gli Stoici dicono
che sono stelle, e che sono più di trentadue.
FILONE ALESSANDRINO, De provid., II, 78, p. 96 Aucher = SVF II, 695
Il sole produce la durata ineguale dei giorni e delle notti, per il
fatto che si muove in circolo inegualmente e con vario ritmo: col
suo avvicinarsi e allontanarsi produce estati, inverni, equinozii,
tempi annui che sono la causa del nascere, del crescere, del venire
a compimento di ogni cosa sotto il cielo.
AEZIO, Plac., III, 8, 1, Dox. Gr., pp. 375-376 = SVF II, 696
Empedocle e gli Stoici dicono che viene l’inverno quando l’aria si
rafforza col farsi spessa e viene respinta verso l’alto; l’estate al
contrario quando il fuoco viene spinto con forza verso il basso.
AEZIO, Plac., III, 7, 2, Dox. Gr., pp. 374-375 = SVF II, 697
Gli Stoici ritengono che ogni vento sia una corrente d’aria, che
assume nomi diversi a seconda del cambiamento di luogo: quando viene
dall’occidente zeffiro, perché da ζῶφος (tenebra), e δύσις
(tramonto); quando dall’oriente (ἀνατολἡ) e dal sole (ἣλιος),
apeliote; borea quando viene dalla regione delle Orse (il
settentrione); libeccio quando viene dal meridione.
CICERONE, De divin., II, 69, 44 = SVF II, 699
Gli Stoici ritengono che i venti siano quei respiri della terra che
sono freddi, quando cominciano a scorrere; quando si siano poi
inseriti in una nube e abbiano cominciato a dividere e lacerare ogni
sua parte più tenue, e a fare ciò con molta rapidità e violenza, si
producono tuoni e lampi; se poi da uno scontro di nubi si sprigioni
e fuoriesca il fuoco, si verifica il fulmine.
AEZIO, Plac., III, 3, 12, Dox. Gr., p. 369 = SVF II, 705
Gli Stoici dicono che il tuono è un attrito di nubi, il lampo una
accensione per sfregamento, il fulmine una accensione più veemente e
la folgore una più blanda309.
GIOVANNI LIDO, De ostentis, 7, p. 12 Wachsmuth = SVF II, 706
C’è una stretta comunanza fra fenomeni celesti e terrestri, anche se
gli Stoici sono di altra opinione310.
AEZIO, Plac., III, 15, 2, Dox. Gr., p. 379 = SVF II, 707
Gli Stoici dicono: il terremoto è l’umidità interna alla terra che
si divide da questa erompendo in aria e ricadendo311.
ANTROPOLOGIA, PSICOLOGIA
AEZIO, Plac., V, 26, 3, Dox. Gr., p. 438 = SVF II, 708
Gli Stoici e gli Epicurei dicono che le piante non sono esseri
animati. Alcuni animali hanno soltanto un’anima impulsiva e
appetitiva, altri anche un’anima raziocinante; ma le piante si
muovono spontaneamente, non per via di un’anima312.
TEMISTIO, In Arist. de an., p. 45, 16 segg. Heinze = SVF II, 709
Aristotele sta in mezzo fra Platone e la Stoa, poiché dice che le
piante hanno un’anima pur senza essere animali; invece Platone
riteneva che fossero l’una e l’altra cosa, gli Stoici né l’uno né
l’altro313.
FILONE ALESSANDRINO, De opif. mundi, 43, I, p. 13 Wendland = SVF II,
710
Ma non solo i frutti erano nutrimento per gli animali, ma anche
allestimento per la successiva continua produzione di medesimi
frutti, giacché avevano in sé l’essenza seminale in cui è la ragione
invisibile e nascosta del tutto, che diviene poi aperta ed evidente
nei cicli temporali.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., II, 20, no, 4, p. 173 Stählin = SVF
II, 714
Di ciò che si muove, alcune cose si muovono in virtù di impulso e
rappresentazione, come gli animali; alcuni per semplice spostamento,
come le cose inanimate; tuttavia, dicono che fra le cose prive di
anima, le piante si muovono per cambiamento in quanto sono soggette
a crescita (ammesso che qualcuno conceda loro che le piante sono
prive di anima). Di disposizione congenita sono partecipi le pietre,
di tendenza naturale le piante, di impulso e rappresentazione, le
due cose anzidette, sono partecipi gli animali, anche quelli privi
di ragione: la facoltà raziocinante, essendo propria della natura
umana, non deve procedere per impulso come negli animali privi di
ragione, ma distinguere fra loro le rappresentazioni e non lasciarsi
trascinare da esse.
GALENO, In Hippocr. epid., V, 6, XVII B, p. 250 Kühn = SVF II, 715
Gli Stoici usano chiamare natura il principio da cui sono governate
le piante, anima quello da cui sono governati gli animali: sostanza
dell’uno e dell’altro ritengono sia il soffio vitale connaturato, e
credono che a differenziarle sia la qualità. Più arido infatti è il
soffio vitale dell’anima, più umido quello della natura, ma tutti e
due, per mantenersi in esistenza, richiedono non solo nutrimento, ma
anche aria.
PSEUDO-GALENO, Introd. med., 9, XIV, p. 697 Kühn = SVF II, 716
Secondo gli antichi vi sono due tipi di soffio vitale, quello fisico
e quello psichico; ma gli Stoici ne hanno postulato anche un terzo,
che chiamano ἑκτικόν dalla disposizione congenita permanente
(ἓξις)314.
PROCLO, In Plat. Parm., V, p. 693 Stallbaum = SVF II, 717
Perché le forme rimangano sempre e mai vengano meno, c’è bisogno di
un’altra causa … alcuni credono che questa consista nelle ragioni
seminali e le pongono come eterne, come gli Stoici.
GALENO, Adv. Iulian., 5, XVIII A, p. 266 Kühn = SVF II, 718
Ogni pianta è governata da natura, ogni animale da natura più anima:
se noi tutti uomini chiamiamo la natura causa del nostro nutrirci e
crescere e altri simili fatti, l’anima è causa della sensazione e
del movimento autonomo.
FILONE ALESSANDRINO, De fuga et invent., 112, III, p. 133 Wendland =
SVF II, 719
Il verbo di colui che è315, legame universale di tutto, come è
detto, tiene e costringe insieme tutte le parti, impedendo che esse
si dissolvano e si separino. L’anima singola, per quel tanto di
potere di cui è partecipe, non permette che alcuna parte del corpo
si separi e sia recisa dall’insieme contro natura, ma conduce
interamente tutte le parti di esso ad armonia e unione reciproca
indissolubile.
GIAMBLICO, De anima, presso STOBEO, Ecl. I, 49, 37, p. 375 Wachsmuth
= SVF II, 720
Secondo gli Stoici, simili prodotti della vita procedono verso gradi
di maggior imperfezione, e quanto più ci si inoltri
nell’irrazionalità, tanto più le specie, più manchevoli delle
precedenti, cadono nell’imperfezione.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromat., VII, 6, 34, 1, p. 26 Stählin = SVF
II, 721
Gli animali che stanno sulla terra e quelli alati si nutrono
respirando la stessa nostra aria, avendo anch’essi un’anima che ha
parentela congenita con l’aria; ma essi dicono che i pesci non
respirano questa aria, ma quella che subito, nella prima generazione
del tutto, è stata mescolata con l’acqua, così come anche con altri
elementi; il che è dimostrazione del perché si conservino in vita.
FILONE ALESSANDRINO, De opif. mundi, 66, I, p. 21 Wendland = SVF II,
722
Perciò generò prima i pesci, che sono partecipi più di sostanza
corporea che di sostanza psichica, in certo senso animali e non
animali, o quasi esseri inanimati in movimento, giacché la sostanza
psichica è stata in loro seminata solo in vista della conservazione
in vita dei corpi, così come il sale si mette nelle carni perché non
si corrompano facilmente316.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 87, pp. 357-358 Kötschau = SVF II, 725
Se tra le altre cose si può ammettere che gli animali conoscano i
rimedi ai mali, che cosa manca a chi in essi trova questo a
dichiarare addirittura che essi non hanno solo tendenza naturale ma
ragione?… Ma è chiaro dal modo come ordinatamente ciascun animale
per sua natura inclina verso ciò che gli è di aiuto che in essi non
vi è saggezza né ragione, ma una disposizione naturale verso la
propria conservazione, derivata solo secondariamente dalla ragione.
FILONE ALESSANDRINO, De animal. adv. Alex., p. 147 Aucher = SVF II,
726
Un cane, nell’inseguire una fiera, essendo giunto a una profonda
fossa presso la quale correvano due sentieri, uno verso destra,
l’altro verso sinistra, fermatosi un attimo meditava quale prendere.
Correndo a destra e non trovando alcuna orma, tornò indietro e andò
nell’altra direzione. Ma poiché neanche in questa appariva alcun
segno, saltando al di là del fossato indagò curiosamente,
accelerando la sua corsa a seconda di ciò che gli diceva il fiuto; e
questo comportamento dimostrerebbe che esso non faceva tutto ciò a
caso, ma per una vera e propria indagine intelligente. Il
ragionamento che sta alla base di una meditazione del genere, dicono
i dialettici, è del quinto tipo: poiché la fiera o è fuggita a
destra, o è fuggita a sinistra, o infine è saltata nella fossa, 〈se
non è andata né a destra né a sinistra, vuol dire che è saltata
nella fossa〉317… Ma è da respingere l’opinione di coloro secondo i
quali un cane cacciatore inseguendo le fiere avrebbe mostrato di
sapersi valere di un ragionamento del quinto tipo.
SESTO EMPRICO, Adv. log., II, 270 = SVF II, 727
Che dire degli uomini, dal momento che alcuni di costoro concedono
perfino agli animali privi di ragione la conoscenza del segno? Anche
il cane, quando segue le orme della fiera, argomenta in base a segno
… e così il cavallo, che all’urto dello sprone o al tendere della
frusta balza … e si lancia alla corsa.
FILONE ALESSANDRINO, De animal, adv. Alex., p. 155 Aucher = SVF II,
728
Ecco infatti che alcuni animali, oltre alle sopraddette virtù,
offrono anche esempi di giustizia: così i pesci, quelli di terra
ferma, i volatili. Tra gli animali marini, la pinna e i suoi
satelliti mostrano chiaramente che c’è giustizia nel loro vivere
comune: si riuniscono in un luogo comune a mangiare e lo
distribuiscono equamente a tutti. E così tutti ammettono che
facciano anche il trochilo e il pompilo, pesci più piccoli, che
risultano anch’essi fare una vita comune. Tra gli uccelli poi la
cicogna mostra di conoscere la giustizia al grado supremo, in quanto
nutre i genitori, e subito, non appena le siano cresciute le ali,
non si propone altro che restituire i benefici avuti ai suoi
benefattori. Ma anche degli animali di terraferma si sa che alcuni
fanno lo stesso… Ciò ch’è giusto è quindi pertinente non a una parte
dei viventi, ma a tutti; tuttavia quella parte in cui si può parlare
di bene e di male in senso proprio è quella fornita di raziocinio,
perché l’uno e l’altro son propri della ragione.
CICERONE, De nat deor., II, 48, 123-124 = SVF II, 729
La pinna … allargandosi con due grandi conchiglie va insieme con la
piccola squilla quasi unendosi insieme con questa per procurarsi il
cibo; e quando i piccoli pesciolini entrano nuotando nella grande
conchiglia aperta, allora a un segnale della squilla, un morso, la
pinna chiude entro di sé i pesciolini. Così avviene la ricerca del
cibo in forma comune per animali molto dissimili fra loro. E in ciò
è da chiedersi con meraviglia se esse per natura non siano unite fra
loro da una convergenza originaria.
FILONE ALESSANDRINO, De anim. adv. Alex., p. 169 Aucher = SVF II,
730
Chi non vuol credere a ciò, lo può apprendere perfino dagli alberi e
dalle piante… Queste, anche se non sono partecipi di anima, tuttavia
offrono non minori manifestazioni di familiarità o di inimicizia. Si
muovono, crescono, e si abbracciano talvolta come in un abbraccio di
affetto, come l’ederà intorno all’ulivo, la vite intorno all’olmo;
mentre la stessa vite non solo avversa, ma evita addirittura altre
piante… Non credo però che nessuno possa esser così folle da
sostenere che ciò sorge da veri e propri stati d’animo di fedele
amicizia o di ostilità: esse sono spinte a congiungersi oppure, nel
caso vi sia un disaccordo tra loro, a disgiungersi dalla suprema
ragione insita nella natura.
FILONE ALESSANDRINO, De anim. adv. Alex., p. 163 Aucher = SVF II,
731
Considera … se le api e i ragni, in quanto questi sono tessitori, le
prime fanno il miele, facciano ciò che per un’attività intelligente
di vera e propria arte, oppure agiscano all’infuori della ragione,
per pura tendenza naturale. Certamente, se bisogna dire il vero,
desta ammirazione quella loro diligenza, anche se non discende da
una scienza. Come potrebbe essere una vera e propria scienza quella
che non è preceduta dalla comprensione razionale, in cui risiede il
principio vero e proprio delle arti? l’arte, infatti, è un insieme
di concetti che concordano fra loro318.
FILONE ALESSANDRINO, De animal. adv. Alex., p. 168 Aucher = SVF II,
733
Se poi tu pensi che altri animali sono dotati di una specie di
prudenza economica, come la formica e le api, anche se nessuno di
essi usufruisca di arte politica, concederai che possa esservi in
quella specie una falsa apparenza di ciò che è vero rispetto al suo
genere. Non ignori, io credo, ciò in cui consiste la loro economia,
la loro politica: queste sono infatti figlie della stessa virtù,
uguali per la specie anche se diverse per la grandezza rispetto alla
casa e alla città. Tuttavia l’arte politica manca loro né si può per
esse parlare di giustizia distributiva.
FILONE ALESSANDRINO, De anim. adv. Alex., p. 171 Aucher = SVF II,
734
Finora abbiamo parlato del ragionamento possibile alla loro
intelligenza, adesso parliamo della favella. In verità merli, corvi,
pappagalli e altri uccelli del genere, anche se emettono la voce in
modo variato, non sono peraltro capaci di pronunziare mai alcun
vocabolo in forma articolata. A quel modo, credo, che in certi
strumenti musicali vi sono fori disposti secondo una ragione
costante, ma non sempre sono costanti i suoni razionali, così anche
le voci degli animali che abbiam detto sono privi di significato e
non formate, ed esprimono la forma del discorso non per via di
vocaboli, ma per una sorta di cantilena.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De mixtione, p. 233 Bruns = SVF II, 735
Giacché essi, per dimostrare che i corpi penetrano l’uno nell’altro,
si servono come esempio anche della crescita degli animali in virtù
del nutrimento… La crescita 〈si verifica〉 in conseguenza del
porgere il nutrimento; 〈sì che〉, se le realtà suscettibili di
crescita crescono, ciò avviene perché da ogni parte si aggiunge
nutrimento nuovo al corpo già prima sussistente. Non sarebbe
possibile che i corpi si accrescessero da ogni parte se il
nutrimento non fosse loro portato attraverso tutto e verso tutto; ma
se è vero che il nutrimento è portato per tutto il corpo, essendo
corporeo anch’esso, si dovrà necessariamente ritenere che un corpo
penetra attraverso l’altro; e questo è la sostanza nutritiva che
produce la crescita… Se infatti si dice che l’ingresso della
sostanza nutritiva avviene attraverso alcuni spazi vuoti,
necessariamente si dovrà anche ammettere che il vuoto si trova
all’interno di ogni corpo suscettibile di nutrimento!
GALENO, De symptom. causis, III, 4, VII, p. 227 Kühn = SVF II, 736
Quelli che non vogliono ammettere che i corpi che ricevono
nutrimento subiscano una trasformazione in virtù della nutrizione
(questa, dicono, è nome che indica passività, non dominio), non
possono dire nulla di corretto né intorno alla trasformazione degli
animali né tanto meno delle piante.
CICERONE, De legibus, I, 8, 24 = SVF II, 738
Quando si indaga sulla natura umana, si usa dibattere … se nel
perpetuo ripetersi dei moti e delle conversioni celesti si sia
prodotto a un certo punto il momento di seminare il genere umano:
che, sparso per le terre e inseminato, ebbe poi in più il dono
divino dell’anima.
ORIGENE, Contra Celsum, I, 37, p. 88, 20 segg. Kötschau = SVF II,
739
Presso gli stessi Greci c’è la dottrina secondo cui gli esseri umani
non sono tutti e sempre nati da un uomo e da una donna: se il cosmo
è generato, come fu opinione di molti Greci, bisogna necessariamente
ammettere che i primi uomini non siano nati dalla congiunzione di
altri esseri umani, ma direttamente dalla terra, per il sussistere
nella terra di ragioni seminali.
PS. GALENO, Defin. Med., 439, XIX, p. 450 Kühn = SVF II, 742
Secondo gli Stoici lo sperma è quell’umore che l’uomo emette insieme
con spirito vitale e anima, come qualcosa che non faccia parte di
lui319.
GALENO, De foetuum format., 6, IV, p. 699 Kühn = SVF II, 743
Ci si può chiedere con meraviglia in che modo possa verificarsi la
somiglianza degli esseri generati rispetto a quelli generanti:
sembra infatti che sia l’anima stessa, foggiatrice del corpo, a
trasmettersi all’essere che viene partorito, in quanto è contenuta
nel seme… Alcuni di loro dicono che lo sperma non è materia, ma
strumento dell’anima, perché materia in effetti è il sangue materno;
mentre altri di loro invece dicono il contrario: sembra ad essi che
lo sperma sia l’artigiano stesso che foggia, senonché alcuni dicono
lo sperma stesso, altri lo spirito vitale ch’è in esso
racchiuso…320. L’anima racchiusa nello sperma — quella che
Aristotele chiama vegetativa, Platone concupiscibile, gli Stoici
natura piuttosto che anima vera e propria — foggia l’embrione, essi
ritengono, senza avere alcuna sapienza, non solo, ma neanche alcuna
razionalità vera e propria321.
PLUTARCO, De comm. not., 35, 1077b = SVF II, 744
… in quanto essi dicono che si chiama «sperma» l’inseminazione fatta
in gran moltitudine per piccoli corpuscoli, e «natura» la
connaturazione e diffusione di quelle ragioni e numeri che si
dischiudono e si effondono al suo verificarsi.
FILONE ALESSANDRINO, De opif. mundi, 67, I, p. 22 Wendland = SVF II,
745
Di fatto lo sperma è il principio della generazione degli animali.
Questo, come cosa infima, sembra a vederlo nient’altro che un po’ di
spuma; ma quando, penetrando nell’utero, si consolida, acquistando
movimento si muta in natura. La natura è superiore per essenza al
seme, perché anche il movimento, negli esseri generati, è superiore
per essenza alla quiete. Essa, come un artigiano, o, per dir più
propriamente, come un’arte irreprensibile, plasma la sostanza umida
distribuendola in più parti o membra del corpo e la sostanza
pneumatica distribuendola in facoltà dell’anima, la vegetativa e la
sensitiva.
AEZIO, Plac., V, 11, 3-4, Dox. Gr., p. 422-423 = SVF II, 749
Gli Stoici dicono che lo sperma discende da tutto il corpo e
dall’anima, e che le impronte e i caratteri della somiglianza sono
foggiati in virtù dell’uguaglianza di stirpe come farebbe un pittore
che foggiasse l’immagine di una cosa vista in base a colori simili…
Anche la donna emette sperma; e se ha il sopravvento lo sperma della
madre, il generato è simile a questa; se ha il sopravvento quello
dell’uomo, è simile al padre322.
ORIGENE, In Ioann. Evang., XX, 5, p. 332, 33 segg. Preuschen = SVF
II, 747
Ciò che affermo è chiaro da quanto sto per dire: giacché chi emette
lo sperma ha in sé ragioni seminali di antenati e di parenti,
talvolta prevale la sua propria ragione, e allora il generato
risulta simile a chi lo ha seminato, ma a volte prevale la ragione
seminale del fratello di lui o del padre o dello zio o del nonno:
per cui i figli risultano simili ora a questi ora a quelli. In certi
casi può prevalere anche la ragione seminale della madre o del
fratello di questa, o anche del nonno della stessa, per via di quel
generale scuotimento e rimescolamento in virtù del quale alla fine
riesce a prevalere una qualunque delle ragioni seminali.
ORIGENE, In Ioann. evang., XX, 2, p. 327, 18 segg. Preuschen = SVF
II, 746
Ed è chiaro che lo sperma ha in sé alcune ragioni di colui da cui
proviene il seme, ragioni che sono fino a un certo punto tacite e
nascoste: quando lo sperma si muti e plasmi la materia a lui
soggetta, la creatura, formata dalla donna e da nutrimenti
apportatigli da questa, viene compiutamente alla nascita.
AEZIO, Plac., V, 10, 4, Dox. Gr., p. 422 = SVF II, 750
Gli Stoici ritengono che i concepimenti di un secondo feto, i parti
gemellari e trigemini dipendono dal sopravvenire di un secondo
sperma oltre al primo negli spazi uterini.
AEZIO, Plac., V, 9, 2, Dox. Gr., p. 421= SVF II, 751
(La sterilità) è dovuta secondo gli Stoici alla distorsione
dell’asta, che non è capace di gettar diritto il seme, oppure alla
asimmetria delle parti, per esempio nel caso di rilassamento
dell’utero.
AEZIO, Plac., V, 13, 3, Dox. Gr., p. 424 = SVF II, 752
(della sterilità maschile) gli Stoici dicono esser causa le capacità
e le proprietà incompatibili di coloro che si accoppiano; quando ad
essi accada di separarsi e di congiungersi con altri che invece sono
loro affini, ecco che avviene una mescolanza secondo natura, e si
forma il feto.
AEZIO, Plac., V, 12, 3, Dox. Gr., p. 423 = SVF II, 753
(Si può diventar simili ad altri e non ai propri genitori), secondo
gli Stoici, per un’affinità propria del pensiero323.
AEZIO, Plac., V, 16, 2, Dox. Gr., p. 426 = SVF II, 754
Gli Stoici (dicono che i feti si nutrono) tramite la placenta e
l’ombelico. Per questo le levatrici legano subito questo e aprono al
neonato la bocca, perché impari subito un altro esercizio di
nutrizione.
AEZIO, Plac., V, 17, 1, Dox. Gr., p. 427 = SVF II, 755
Gli Stoici ritengono che (il feto) nasca tutto insieme.
AEZIO, Plac., V, 15, 2, Dox. Gr., p. 425 = SVF II, 756
Dicono gli Stoici che il feto è parte del ventre, non è un essere
animato; così come le frutta sono parti delle piante che vengono da
queste espulse quando sono mature, allo stesso modo avviene anche
del feto.
PS. GALENO, Defin. med., 445, XIX, p. 452 Kühn = SVF II, 757
Quelli poi (gli Stoici) dicono che il feto non è un essere animato,
ma che si nutre e cresce come un vegetale; non ha impulsi né
reazioni simili a quelle degli animali.
PS. GALENO, An animal sit, 2, XIX, p. 165 Kühn = SVF II, 758
Essendo parte e derivato di quel grande essere vivente che è il
cosmo, finché rimane nascosto nelle profondità interne non è nella
sua essenza differenziato dall’amalgama di cui fa parte; ma una
volta che si separi da questo ed emerga da quelle profondità come
dal caos, dimostra il suo amore alla natura affine e simile con i
propri atti: comincia infatti a muoversi di movimenti suoi propri.
FILONE ALESSANDRINO, De fuga et inventione, 13, III, p. 112 Wendland
= SVF II, 760
L’essere vivente appena generato è esiguo nella sua quantità, e ne
fanno fede le crescite che avvengono ad ogni età; tuttavia è
perfetto nella qualità; rimane uguale infatti la sua qualità in
quanto impressa in lui dalla ragione divina che è stabile e mai
mutevole.
AEZIO, Plac., V, 23, 1, Dox. Gr., pp. 434-435 = SVF II, 764
Eraclito e gli Stoici affermano che gli esseri umani cominciano ad
acquistare perfezione a partire dalla seconda settimana, nella quale
il siero spermatico si muove; e anche gli alberi in quel periodo
cominciano ad assumere forma perfetta, quando i semi cominciano a
produrre, mentre sono imperfetti quando sono fuori stagione e senza
frutti. L’uomo è quindi perfetto in quel periodo: intorno alla
seconda settimana comincia a nascere l’intelligenza del bene e del
male e la capacità di comprenderne l’insegnamento324.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 158 = SVF II, 766
Sopravviene il sonno quando nella parte direttiva dell’anima si
allenta la tensione. Ammettono che cause delle passioni siano i
mutamenti che avvengono nel soffio vitale325.
AEZIO, Placita, V, 24, 4, Dox. Gr., p. 436 = SVF II, 767
Stratone326 e gli Stoici dicono che il sonno si verifica per un
rilassamento dello spirito sensitivo, non per un abbandono totale,
come nell’ebbrezza327, ma perché questo muove verso la parte
direttiva in mezzo alle sopracciglia; quando poi tale rilassamento
dello spirito sensitivo arriva al suo culmine, si ha la morte.
TERTULLIANO, De anima, 43, 2, p. 58 Waszink = SVF II, 768
Gli Stoici considerano il sonno un risolversi del vigore dei sensi.
AEZIO, Plac., V, 30, 5, Dox. Gr., p. 443 = SVF II, 769
D’accordo con questi (= Parmenide)328 gli Stoici dicono che la
vecchiaia sopravviene per difetto di calore. Arrivano a più tarda
vecchiaia quelli che hanno più calore in sé.
GALENO, De temperamentis, I, 3, I, p. 523 Kühn = SVF II, 770
Ma se tale, essi dicono, è la morte, è necessario che la vita,
essendo il suo opposto, sia calda e umida; e se la vita è cosa calda
e umida, ottima di necessità dev’essere la mescolanza che è più
simile ad essa, ed è chiaro quindi che questa è la mistione migliore
e più forte. Perciò una natura calda e umida equivale a una natura
ben temperata, e il buon temperamento non è altro che quello in cui
prevalgono l’umidità e il calore. Questi sono i discorsi della
scuola di Ateneo329; ma la stessa opinione sembra esser stata
sostenuta dal filosofo Aristotele, e dopo di lui da Teofrasto e
dagli Stoici330.
GALENO, Adv. Iulianum, 4, XVIII A, p. 258 Kühn = SVF II, 771
Non potresti trovare alcun libro di Aristotele o Teofrasto in cui
essi, trovandosi a dover parlare delle malattie, abbiano condotto il
discorso senza far menzione di caldo, freddo, secco e umido… Ma
nemmeno Crisippo si comporta altrimenti, giacché quando parla di
malattie parla sempre anche di umori331.
GALENO, Adv. Iulianum, 4, XVIII A, p. 258 Kühn = SVF II, 772
Dovrò fare trascrivere in fila le affermazioni di Aristotele,
Crisippo e tutti gli altri Peripatetici e Stoici, là dove vedono la
causa delle malattie nel flegma e nella bile e ritengono che vi
siano quattro malattie fondamentali, tante quanti sono gli elementi,
caldo e freddo e umido e secco…?
GALENO, De morborum causis, 1, VII, p. 1 Kühn = SVF II, 772
Da coloro che ritengono che la sostanza soggetta a nascita e morte
subisca processi di unificazione e trasformazione, tutte le malattie
sono state indicate o come un cattivo temperamento di corpi semplici
e omogenei, oppure come una divisione nella consistenza continua
delle parti.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 156-157 = SVF II, 74, 828
La natura sembra ad essi un fuoco dotato di capacità artigiana, che
procede con metodo nella produzione; ed essa è spirito in forma di
fuoco e con capacità di foggiare ad arte; l’anima poi è la
〈natura〉332 capace di sentire. Essa è quello spirito che è
connaturato in noi; perciò è di natura corporea e sussiste dopo la
nostra morte, tuttavia è mortale, perché è immortale solo quella del
tutto, di cui le anime che sono negli esseri viventi sono parti.
Zenone di Cizio e Antipatro nelle loro opere Sull’anima, e
Posidonio333, dicono che l’anima è soffio vitale infuocato, in virtù
di esso noi respiriamo e ci muoviamo. Cleante ritiene che tutte le
anime rimangano fino alla conflagrazione, ma Crisippo crede che
sussistano solo quelle dei sapienti. Dicono che le parti dell’anima
sono otto: i cinque sensi, più le ragioni seminali che sono in noi e
le facoltà della voce e del ragionamento.
NEMESIO, De nat. hom., 2, P.G. XL, col. 536 = SVF II, 773
Fra tutti gli antichi c’è grande dissenso nella trattazione
dell’anima. Democrito ed Epicuro e tutto il complesso dei filosofi
stoici dicono che l’anima è di natura corporea; ma anche quelli che
dicono così sono poi in disaccordo circa la sua essenza: gli Stoici
dicono che essa è spirito caldo e infuocato.
TERTULLIANO, De anima, 5, 2, p. 6 Waszink = SVF = 11, 773
Adduco anche l’esempio degli Stoici, i quali, affermando quasi alla
maniera nostra che l’anima è spirito, per l’affinità che c’è fra
spirito e respiro, riusciranno a convincere facilmente che l’anima è
di natura corporea334.
Commenta Lucani, IX, 7, p. 280 Usener = SVF II, 775
«quos ignea virtus»: indica la virtù dell’anima, non del corpo,
perché gli Stoici dicono che l’anima è di natura ignea.
GIROLAMO, Epist. 126, 2, p. 143 Hilberg = SVF II, 776
Ricordo le vostre domande circa lo stato dell’anima … se sia caduta
dal cielo, come vogliono il filosofo Pitagora335, e tutti i
platonici, e Origene, oppure se sia emanazione della stessa sostanza
di Dio, come dicono gli Stoici.
PS. GALENO, De simpl. medicam. temp., V, 9, XI, p. 731 Kühn = SVF
II, 777
Gli Stoici poi ritengono che lo spirito vitale si identifichi con la
sostanza stessa dell’anima.
Schol. in Hom. Iliad, XVI, v. 857, p. 310 Erbse in adnot. = SVF II,
778
In base a questo gli Stoici definiscono l’anima: l’anima è uno
spirito vitale connaturato ed un’esalazione sensitiva che parte dal
corpo, resa dagli umori di questo.
AEZIO, Plac., IV, 3, 3, Dox. Gr., p. 388 = SVF II, 779
Gli Stoici ritengono che l’anima sia un soffio intelligente caldo.
PS. GALENO, Defin. med., 29, XIX, p. 355 Kühn= SVF II, 780
L’anima … secondo gli Stoici è un corpo tenue che si muove di per sé
secondo ragioni seminali.
GALENO, In Hippocr. Epidem., V, XVII, p. 246 Kühn = SVF II, 782
Quanti credono che l’anima sia un soffio vitale, dicono che essa
perdura nella sua sussistenza in virtù dell’esalazione del sangue e
dell’aria che, nell’atto dell’inspirare, è tratta dentro il corpo
per mezzo dell’arteria trachea336.
GALENO, De usu respir., 5, IV, p. 502 Kühn = SVF II, 783
Questo spirito animato, di necessità, deve nutrirsi. Donde dunque,
essi dicono, può trarre il suo nutrimento, se non dall’aria che
nell’atto dell’inspirazione è tratta a sé dall’esterno? Non è
tuttavia improbabile che si nutra anche mediante l’esalazione dal
sangue, come sembrò a parecchi medici illustri e anche filosofi.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 115, 6 segg.
Bruns = SVF II, 785
Inoltre, se l’anima è una realtà corporea, o è fuoco, o è soffio
assai sottile che penetra per tutto quanto il corpo animato. Ma se è
questo, è chiaro che non potranno dire che esso è passivo oppure che
va a caso. Non ogni fuoco o ogni soffio, di qualsiasi tipo, ha la
stessa capacità; il soffio psichico sarà quindi dotato di una certa
essenza e proprietà sua specifica, e di una sua tensione.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. De anima, p. 26, 13 segg.
Bruns = SVF II, 786
E ancor più per quelli che fanno derivare l’anima da una certa
mistione e composizione si può dire che l’anima sia o un’armonia o
una composizione armonica di alcuni corpi. Tra questi sono gli
Stoici, i quali dicono che essa è un soffio composto in certo modo
di fuoco e aria; e i seguaci di Epicuro337.
GALENO, De moribus animae, 4, IV, p. 783 Kühn = SVF II, 787
Nello stesso genere di realtà è compresa anche l’opinione degli
Stoici: essi dicono che l’anima è un soffio, così come lo è anche la
natura, ma più umido e più freddo quello della natura, più caldo e
più secco quello dell’anima. Perciò si può dire che il soffio sia
materia adatta e propria dell’anima, e la forma di questa materia
sia la mescolanza della sostanza aerea e di quella ignea ridotta a
proporzione simmetrica338; non è infatti ragionevole affermare che
l’anima è aria o che è fuoco, poiché è chiaro che il corpo
dell’essere vivente non può risultare né estremamente freddo né
estremamente caldo, o dominato dall’uno o dall’altro con assoluta
prevalenza. Là dove esso, anche di poco, eccede la misura giusta, se
predomina in forma disarmonica l’elemento igneo l’individuo ha la
febbre, mentre quando nella mescolanza domina l’aria si raffredda,
si illividisce, la sensibilità scema o si perde del tutto; l’aria
infatti, che sarebbe fredda di per se stessa, diventa temperata per
il sopravvenire dell’elemento igneo. È chiaro che tutto questo
avviene perché la realtà dell’anima consta di una mistione di aria e
di fuoco, secondo gli Stoici: perfino un uomo dell’intelligenza di
Crisippo per essi è composto secondo una simile mescolanza armonica.
GALENO, De moribus animae, 5, IV, p. 786 Kühn = SVF II, 788
Com’è detto da Eraclito339, il quale così diceva: secco raggio è
l’anima più sapiente, ritenendo che l’aridità sia causa di
intelligenza: lo dimostra lo stesso nome di raggio, e si deve
ritenere che questa sia l’opinione migliore, se si rifletta che gli
astri, che insieme dardeggiano raggi e son privi di umidità, hanno
intelligenza acutissima (se uno non credesse questo, apparirebbe non
aver assolutamente coscienza della loro superiorità divina).
ANONIMO, Scholia in Hermogenem, Rhet Gr., VII, p. 884 Walz = SVF II,
789
Dicono gli Stoici che non è l’anima, ma la mescolanza fra gli
elementi a produrre la generazione: quando è in sovrabbondanza il
caldo, tale mescolanza genera il leone, ragion per cui, dice, esso è
pieno di ardore; quandola proporzione sia ragionevole ed
equilibrata, genera l’uomo. Sostenitore di questa opinione è stato
anche Galeno.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mantissa, p. 117 Burns =
SVF II, 792
Essa (l’anima) non è corpo per la ragione che di essa si predica ciò
che è simile… Ma è errato anche il discorso secondo il quale un
incorporeo non può subire un’affezione insieme con un corpo, ragion
per cui l’anima non può essere un incorporeo… Non è corretto il
discorso che dice che un incorporeo non può separarsi da un corpo, e
che quindi l’anima, che si separa dal corpo, non può essere un
incorporeo… Non è neanche vero il dire che possono separarsi
reciprocamente quelle cose che hanno contatto reciproco… Né è vero
che noi siamo spiranti in virtù di quell’organo con cui respiriamo
così come siamo animati in virtù dell’anima; né, per il fatto che
gli esseri viventi non possono esser tali senza il soffio
connaturato, questo deve senz’altro identificarsi con l’anima.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. De anima, p. 18, 10 segg.
Bruns = SVF II, 793
È errato il dire che, quanto alle parti del corpo, anche queste
devono essere corpi, così come della superficie, della linea, del
tempo le parti sono di necessità rispettivamente superfici, linee,
tempi; sbagliano nel dire che devono esser corpi le parti componenti
dell’essere vivente che è composto di materia e forma… Né dimostra
niente il discorso che dice: «ciò di cui è parte un corpo, è corpo
esso stesso; ma dell’anima è parte la sensazione, e questa è di
natura corporea; quindi anche l’anima lo è».
CALCIDIO, In Plat. Timaeum, 221, p. 234, 5, segg. Waszink = SVF II,
796
Perciò, con l’affermare che l’anima è soffio vitale, vengono a dire
che l’anima è un corpo al tutto e per tutto. E se è così, un corpo
si unisce con un altro corpo. L’unione si verifica per congiunzione,
o per mescolanza, o per unione organica. Se corpo e anima sono
semplicemente congiunti esteriormente, come può derivare da questo
contatto di due realtà un essere vivente nella sua interezza?
Secondo loro la vita è veramente solo nel soffio, il quale in questo
caso non può penetrare intimamente nel corpo, perché nulla penetra
se sia solo a contatto estrinseco. Se poi l’unione avviene per
mescolanza, l’anima non conserverà la sua individualità, ma diverrà
una mescolanza di più elementi. Tuttavia gli Stoici affermano che il
soffio, cioè che l’anima, è una unità, quindi non può trattarsi di
più elementi commisti. Ne risulta che bisogna credere che l’unione
di anima e corpo derivi da concrescita organica: dunque i due corpi
passano l’uno nell’altro e il luogo unico in cui è contenuto il
corpo offrirà un recipiente per entrambi; noi vediamo però che un
recipiente che è pieno di vino non può ricevere insieme anche acqua.
Ma allora si deve dire che il corpo e l’anima sono uniti da qualcosa
che non è né connessione estrinseca, né mescolanza, né concrescita
organica; dal che si deduce che l’anima non è corpo (essa è infatti
una virtù e una potenza incorporea)340.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 115, 32 Bruns
= SVF II, 797
Non si può nemmeno dire che l’anima stia nel corpo come in un
recipiente. In questo caso infatti il corpo non sarebbe del tutto
animato. Neanche per connessione strinseca: neanche in questo caso
il corpo sarebbe tutto animato… Se il corpo al contrario è tutto
pervaso di anima, bisogna dimostrare come un corpo possa penetrare
attraverso tutto un altro corpo. E anche, dal momento che per essi
le qualità dell’anima sono corpi e così pure quelle del corpo,
risulterà che vi saranno molti e differenti corpi raccolti nello
stesso luogo e che trapassano l’uno nell’altro… E inoltre, se corpi
sono anche le virtù o le arti, come potrà accadere che queste, al
loro sopravvenire, non causino un accrescimento o una diminuzione al
corpo di chi le esercita?
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 173, 14 segg.
Wallies = SVF II, 798
A chi dica che l’anima è corporea discende come conseguenza che essa
o è elemento oppure è composta di elementi341.
PLOTINO, Ennead., IV, 7, 82, 1 segg. = SVF II, 799
Inoltre, se l’anima, essendo corporea, scorre per tutto il suo
contenente e si mischia ad esso allo stesso modo che avviene la
mistione negli altri corpi; dal momento che tale mistione fra i
corpi non permette che le parti commiste siano in atto, anche
l’anima non dovrebbe essere 〈in atto〉 nei corpi, ma solo in
potenza, con ciò perdendo il suo stesso essere di anima: come, se
mischiamo il dolce e l’amaro, il dolce non sussiste più, così in
questo caso non sussiste più l’anima. Essendo un corpo, essa
dovrebbe compenetrarsi con un altro corpo in forma totale, sì che
dove è 〈l’uno〉 si trovi anche l’altro e tutti e due abbiano lo
stesso volume e occupino lo stesso luogo senza che avvenga alcun
accrescimento per il proiettarsi dell’uno sull’altro; in questo caso
non vi sarà alcun punto in cui essa non penetri; la mescolanza non è
una giustapposizione — secondo la definizione che essi danno di
quest’ultima — che ponga alternativamente grandi parti di un corpo
accanto ad altre, ma essa avviene quando un corpo si proietta entro
un altro compenetrandolo, anche se è più piccolo. Questo è però
impossibile: in tal caso il minore diverrebbe uguale al maggiore… Se
è impossibile che un corpo possa penetrare totalmente attraverso un
altro corpo, e l’anima ha veramente questa capacità, vuol dire che
essa è incorporea342.
GIAMBLICO, presso STOB., Eclog., I, 49, 36, p. 371 Wachsmuth = SVF
II, 801
Ma non sono d’accordo con tutto questo quelli che ritengono che
l’anima è una realtà corporea, come gli Stoici e altri numerosi …
tutti questi attribuiscono all’anima dei moti che sono anch’essi
corporei.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Genesim, 2, 4, p. 77
Aucher = SVF II, 802
Ma il nostro corpo, composto di molti elementi, è unito all’interno
e all’esterno e sta insieme per via della sua attitudine a ciò: o,
in altri termini, la disposizione superiore per cui stanno uniti
tutti questi elementi è l’anima, la quale, avendo sede nella zona
centrale, si diffonde dovunque fino alla superficie e poi dalla
superficie torna verso il centro, sì che un’unica natura fatta di
spirito si trovi congiunta da un duplice legamento e così adattata
ad una compattezza e ad una unione più stabili.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Exod., II, 120, p. 547
Aucher = SVF II, 803
… poiché da se stesso deriva il moto dell’anima, come si è d’accordo
nell’affermare soprattutto secondo i filosofi della Stoa.
PLOTINO, Ennead., IV, 7, 83, 1 SEGG. = SVF II, 804
Dicono che il soffio vitale è una natura prima, che diviene anima
quando è immessa e immersa nel freddo dell’aria, perché in tale
freddo diviene più sottile (cosa già assurda, questa, di per sé:
molti animali infatti nascono nel calore e hanno un’anima tutt’altro
che raffreddata); insomma dicono che c’è una natura prima che
diviene poi anima per il concorso di circostanze estrinseche.
Avviene insomma a loro di porre per primo ciò che è inferiore, e
prima ancora qualcosa di ancora più basso, che chiamano la semplice
disposizione, mentre è evidente che l’intelletto emerge per ultimo a
partire dall’anima,
TERTULLIANO, De anima, 25, 1-2, p. 34-35 Waszink = SVF II, 805
… questi, che pretendono sostenere che l’anima non è concepita
nell’utero né è formata e prodotta con il formarsi della carne, ma
che, nel prodursi del parto, dall’esterno viene immessa nel neonato
non ancor vivo! Essi credono che il seme, isolato, dopo il coito
negli organi muliebri, alimentandosi di moti naturali, cresca
formando semplicemente il corpo; e quando questa è proiettata fuori,
uscita dall’utero, fumante e molle come uscita da una fornace, come
un ferro infuocato che sia immerso subito in acqua fedda, così
percossa dal gelo dell’aria assume capacità di anima e rende suono
vocale. Così gli Stoici, e con loro Enesidemo343.
PLUTARCO, De primo frigido, 2, 946c = SVF II, 806
Gli Stoici dicono che anche lo pneuma nei corpi dei neonati viene
immesso per il raffreddamento che essi subiscono, e cambiando di
natura diviene anima.
PORFIRIO, presso EUSEBIO, Praep. evang., XV, 11, 4 = SVF II, 806
Come non sarebbe pieno di vergogna chi conceda che essa (l’anima) è
un certo qual soffio, o un fuoco intelligente, che viene acceso e
temprato nella sua immersione nell’aria fredda?
PLUTARCO, De comm. not., 46, 1084e = SVF II, 806
Essi fanno nascere ciò ch’è più caldo dal raffreddamento e dal
condensamento. L’anima infatti è ciò che vi è di più caldo e di più
sottile: ma essi la fanno nascere dal raffreddamento e dal
condensamento del corpo, in quanto il soffio vitale, in virtù di
questo temperamento, da puramente naturale diviene psichico. Dicono
che lo stesso sole diventa animato quando l’umido si trasforma in
fuoco intelligente.
IPPOLITO, Refutat., 21, Dox. Gr., p. 571 = SVF II, 807
Dicono che l’anima è immortale, ma che è corporea, e nasce dal
raffreddamento dell’aria che circonda, e per questo si chiama
anima344; concordano anche nel ritenere che vi sia la metensomatosi,
giacché il numero delle anime è finito345.
ARIO DIDIMO, Epit. phys., Dox. Gr., p. 471 = SVF II, 809
Dicono che l’anima è nata e morirà; ma che non verrà meno subito
alla sua separazione dal corpo, ma rimarrà a sé stante ancora per
qualche tempo: solo per qualche tempo in realtà quella degli stolti,
mentre quella dei saggi si manterrà fino a che non sopravvenga la
distruzione di tutto nel fuoco346. Così descrivono la sopravvivenza
dell’anima, dicendo che noi sopravviviamo allo stato di pura anima
separata dal corpo e cambiando la realtà dell’anima in uno stato
inferiore; ma le anime degli animali senza intelletto e ragione
muoiono all’atto stesso della morte del corpo.
AEZIO, Plac., IV, 7, 3, Dox. Gr., p. 73 = SVF II, 810
Gli Stoici dicono che, al suo uscire dal corpo, non ancora perisce;
le anime più deboli divengono un composto oscuro (sono quelle degli
ineducati); le anime più forti (cioè quelle dei saggi) durano fino
alla conflagrazione universale.
SESTO EMPRICO, Adv. Phys., II, 71 = SVF II, 812
Le congetture che si fanno intorno agli dèi non sono di questo tipo
né hanno suscitato discordia, ma sembrano in accordo coi fatti. E
infatti non è possibile supporre le anime tali da muoversi verso il
basso; esse infatti, essendo leggere, e fatte non meno di soffio che
di fuoco, si portano di preferenza verso i luoghi più alti. E
sussistono separate, e non si dissipano come fumo appena uscite dal
corpo, come vuole Epicuro347: non è infatti il corpo che è superiore
e ha dominio su di loro, ma sono esse causa di sussistenza al corpo,
e molto prima a se stesse. Divenute dunque disincarnate348, occupano
il luogo inferiore alla luna, ove, per la sottigliezza dell’aria,
hanno la possibilità di mantenersi in sussistenza molto tempo, e si
nutrono di cibo appropriato per le esalazioni della terra, come gli
altri astri; né in quelle regioni c’è nulla che possa dissolverle.
Ma se le anime mantengono la loro sussistenza in questa forma, in
realtà esse diventano démoni; e se démoni si può dire che diventano
dèi349.
TERTULLIANO, De anima, 54, 1, p. 72 Waszink = SVF II, 814
Tutti quei filosofi che nei modi diversi di loro preferenza pur
tuttavia attribuiscono all’anima l’immortalità, come Pitagora,
Empedocle, Platone, o le concedono sopravvivenza per un certo tempo,
come gli Stoici, fanno ascendere solo le anime dei sapienti (cioè le
loro proprie) nelle sedi superiori… Perciò per questi (Platone) le
anime dei sapienti si innalzano nell’etere; per Ario350 nell’aria;
per gli Stoici nella zona sotto la luna.
Commenta Lucani, IX, 1, p. 289 Usener = SVF II, 817
Altri ritengono che le anime, non appena separate dal corpo, si
dissolvano e risolvano nei loro propri elementi, e tra questi
Epicuro; altri che rimangano invece compatte dopo uscite dal corpo,
ma si dissolvano poi dopo un certo tratto di tempo; e questa è
l’opinione degli Stoici.
SENECA, Epist. ad Luc., 57, 7 = SVF II, 820
Pensi ora che io voglia parlare degli Stoici, i quali credono che
l’anima di un uomo che è stato schiacciato da un grande peso non
possa permanere e si dissolva subito, dal momento che la sua uscita
non è stata libera.
ARIO DIDIMO, Epit. phys., Dox. Gr., p. 471 = SVF II, 821
Dicono che l’anima è nel tutto, che chiamano anche etere e aria, che
circonda la terra e il mare e da questi è esalata; tutte le altre
anime, quelle che sono negli esseri viventi e quelle che sono
nell’elemento che circonda, sono naturalmente connesse a questa; e
là sopravvivono anche le anime di quelli che sono morti. Alcuni si
mischiano all’anima del tutto immortale, altre, le rimanenti, alla
fine si mischiano ad essa. Ogni anima ha in sé una parte direttiva,
che è vita, sensazione e impulso.
CICERONE, Tusc. disput., I, 31, 77 = SVF II, 822
Gli Stoici poi ci concedono un prestito, come se fossimo
cornacchie!351 dicono che le nostre anime rimarranno a lungo, ma
negano che possano sopravvivere per sempre.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philosophorum, VII, 157-157 = SVF II, 828,
837
Dicono che le parti dell’anima sono otto: i cinque sensi, le ragioni
seminali che sono in noi, la facoltà di emettere la voce, il
raziocinio. Il vedere è possibile per via della luce che si protende
nello spazio intermedio fra l’organo della vista e l’oggetto, in
forma conica, come dice Crisippo nella Fisica, libro II, e anche
Apollodoro352. Il vertice di questo cono formato di aria sta nella
vista, la base nell’oggetto della visione: sì che la cosa vista si
rende sensibile per mezzo di una sorta di verga d’aria protesa.
L’udito deriva dall’aria percossa che sta fra chi emette il suono e
chi ascolta, ed è di forma sferica: una volta percossa questa
produce delle onde in cerchio, così come le produce l’acqua che sta
in un recipiente quando vi si getta un sasso. Il sonno si verifica
quando la tensione sensitiva si allenta intorno alla parte
direttiva. Indicano le cause delle passioni nei mutamenti che si
verificano nel soffio vitale. Dicono che il seme è capace di
generare qualcosa di simile a quella realtà da cui si è separato: il
seme dell’uomo, che l’uomo emette con un liquido, è strettamente
mescolato alle parti dell’anima, e in questa commissione rientrano
caratteri ancestrali…
La parte direttiva è l’anima nel senso più proprio: in essa si
formano le sensazioni e gli impulsi; ed essa ha la sua sede nel
cuore.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 118 Bruns =
SVF II, 823
C’è ora da dimostrare che non è vero che «una è la potenza
dell’anima, sì che la stessa anima, a seconda della sua
disposizione, ora pensa, ora si adira, ora desidera contro il
dovuto»353.
TEMISTIO, Paraphr. in Arist. De anima, p. 3, 13 segg. Heinze = SVF
II, 824
Gli uni pensano che l’anima abbia più potenze, uno essendo il
sostrato di queste, mentre altri, come gli Stoici, ritengono che
abbia più parti, e dividono queste parti in luoghi.
GIAMBLICO, presso STOBEO, Ecl., I, 49, 33-34, pp. 368-369 Wachsmuth
= SVF II, 826, 830
Secondo coloro per i quali una è la vita dell’anima — quella cioè
del composto, in quanto l’anima è strettamente commista col corpo,
come dicono gli Stoici … secondo costoro, uno è il modo della sua
presenza, il suo far parte (del composto) e il suo esser commista
con tutto quanto l’essere animato. Quale è la loro divisione?
Secondo gli Stoici alcune parti si differenziano solo in virtù dei
corpi che fanno da sostrato (dicono infatti che dalla parte
direttiva, di volta in volta si protendono spiriti diversi, gli uni
verso gli occhi, gli altri verso le orecchie, altri verso altri
organi sensori); ma per altre facoltà di sentire la differenza è
data dalla qualità propria e specifica pur essendo uno il sostrato;
per esempio, così come una mela ha in sé, nel suo stesso corpo,
dolcezza e fragranza, così la parte direttiva accoglie in sé
rappresentazione, assenso, impulso, ragionamento354…
I seguaci di Zenone ritengono che l’anima consti di otto parti ma
che più siano le facoltà: nella parte direttiva ci sono la
rappresentazione, l’assenso, l’impulso, la ragione.
AEZIO, Plac., IV, 4, 4, Dox. Gr., p. 390 = SVF II, 827
Gli Stoici dicono che l’anima consta di otto parti, di cui cinque
sono i sensi veri e propri — la vista, l’udito, l’odorato, il gusto,
il tatto; il sesto è la capacità di emettere suoni, il settimo
quello di emettere il seme, l’ottavo è la stessa facoltà direttiva,
partendo dalla quale tutti gli altri si protendono attraverso gli
organi loro propri, in maniera simile ai tentacoli del polipo355.
PORFIRIO, presso STOBEO, Ecl., I, 49, 25a, p. 350 Wachsmuth =
SVF II, 830
Gli Stoici, i quali fanno l’anima consistente di otto parti e
attribuiscono cinque di queste parti ai sensi, per sesto pongono la
capacità di emettere la voce e per settimo quella di emettere il
seme, suppongono poi che ciò che avanza — la parte direttiva — abbia
la funzione del comando, mentre le altre hanno la funzione di
servire: così essa consta di una parte che dirige e di una che è
soggetta.
ORIGENE, Contra Celsum, V, 47, p. 51, 19 segg. Kötschau = SVF II,
829
… gli Stoici, i quali negano che l’anima sia tripartita.
TERTULLIANO, In Arist. De anima, 14, 1 segg., pp. 17-18 Waszink
(L’anima è divisa in parti): ora lo è in due da Platone, ora in tre
da Zenone, ora in cinque da Aristotele, e in sei da Panezio, in
sette da Sorano, anche in otto la troviamo divisa in Crisippo, e in
nove in Apollofane; ma perfino in dodici presso alcuni degli
Stoici356.
GIAMBLICO, De anima, presso STOBEO, Eclogae, I, 48, 8, p. 317
Wachsmuth = SVF II, 834
E inoltre intorno all’intelletto e a tutte le più alte facoltà
dell’anima gli Stoici dicono che il ragionamento non nasce
immediatamente, ma si concreta in base alle sensazioni e alle
rappresentazioni verso i quattordici anni di età.
FILONE ALESSANDRINO, De animalibus contra Alex., p. 170 Aucher = SVF
II, 833
Non vedi che un bambino piccolo non può essere mai da nessuno
accusato per nessuna azione compiuta, per la semplice ragione che
ancora non dispone di un’età che lo renda capace di ragionamento? Ma
il fanciullo, anche se ancora si trova ad essere imperfetto, poiché
l’uomo è una realtà razionale, avendo accolto in sé di recente i
semi della sapienza, anche se non può ancora attuare del tutto in sé
la ragione, farà sì che poco dopo essa possa sorgere: infatti, le
capacità seminali crescendo insieme con lui nella materia in tempi
adatti, devono prender vigore e giungere a compimento. Invece le
anime degli altri animali che non hanno la loro fonte
nell’intelligenza non possono neanche, col crescere, raggiungere la
capacità di deliberare.
AEZIO, Plac., IV, 21, Dox. Gr., pp. 410-411 =SVF II, 836
Gli Stoici dicono che la parte più alta dell’anima è quella
direttiva, che produce le rappresentazioni, gli atti di assenso, le
sensazioni, gli impulsi; e chiamano questo «ragionamento». Dalla
parte direttiva si generano sette parti dell’anima e si protendono
per il corpo come i tentacoli di un polipo: di queste sette parti
dell’anima cinque sono i sensi, vista, olfatto, udito, gusto, tatto.
Di essi la vista è pneuma che si protende dalla parte direttiva fino
agli occhi, l’udito fino alle orecchie, l’odorato fino alle narici,
il gusto fino alla lingua, il tatto fino alla superficie col corpo
per un contatto sensibile con altri corpi. Quanto alle altre parti,
una di esse dicono essere il seme, perché anche questo è pneuma che
si protende fino ai testicoli; quanto a quello che è detto da Zenone
il «vocale», ma che chiamano anche voce357, è pneuma che si protende
dalla parte direttiva fino alla gola e alla lingua e agli organi
appropriati. La parte direttiva poi di per se stessa, come
nell’universo 〈il sole〉358, abita nella nostra testa, che è sferica.
AEZIO, Plac., IV, 5, 6, Dox. Gr., p. 391 = SVF II, 838
Tutti gli Stoici sostengono che la parte direttiva sta o diffusa in
tutto i cuore, o nello pneuma che è intorno al cuore359.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. De anima, p. 97, 8 segg.
Bruns = SVF II, 839
E che anche l’anima sensitiva, come la vegetativa, ha a suo centro
il cuore, dovrebbe essere ben noto in base a questo. Ma là dove
finiscono le sensazioni, deve per forza trovarsi anche l’anima
capace di rappresentazioni … ma dove è la rappresentazione deve
esser anche l’assenso, e dove l’assenso anche gli impulsi e le
passioni … e potrebbe esser dimostrato in questo modo che la parte
raziocinante dell’anima, che più propriamente si chiama parte
direttiva, ha la sua sede nel cuore360.
FILONE ALESSANDRINO, De sacrificiis Abel et Cain, 137, Ι, pp.
256-257 Cohn = SVF II, 842
… La parte direttiva, in intervalli di tempo indivisibili, è
soggetta a diversi cambiamenti ora verso il bene ora verso il male,
e riceve impronte di genere diverso, ora di conio puro e valido, ora
di conio adulterato e corrotto.
FILONE ALESSANDRINO, Legum allegoriae, I, 59, I, p. 75 Cohn = SVF
II, 843
C’è chi dice che il cuore è come l’albero della vita, poiché è causa
della vita, e ha avuto in sorte la parte intermedia del corpo, sì
che per essi si identifica con la parte direttiva… Il nostro
«egemonico» è suscettibile di ogni impronta, come la cera, che ne
riceve ugualmente di buone e cattive.
FILONE ALESSANDRINO, Legum allegoriae, I, 30, I, p. 68 Cohn = SVF
II, 844
L’essere animato è superiore sotto due aspetti all’inanimato, per la
sua capacità di rappresentazione e di impulso: la prima consiste nel
contatto con l’oggetto esterno che imprime nella mente la
sensazione; il secondo consiste nella tensione dinamica della mente,
ed è come fratello della rappresentazione. Per mezzo di questa
tensione la mente nell’atto della sensazione viene a contatto con
l’oggetto e quasi passa in esso, nel suo desiderio di raggiungerlo e
afferrarlo361.
TERTULLIANO, De carne Christi, 12, 2 pp. 221-222 Kroymann = SVF II,
845
Ritengo che la natura dell’anima sia sensibile. Sì che nessun essere
vivente è privo di senso; ma nessun essere dotato di sensi è senza
anima… Quindi, dal momento che l’anima supera ogni altra cosa per
via della sua capacità di sentire, e poiché essa stessa avverte le
sensazioni relative a ogni tipo di realtà, cioè le qualità del
reale, come si potrebbe dire verosimilmente che essa non abbia avuto
in sorte originariamente la coscienza di sé? Donde proverrebbe ad
essa il sapere che cosa immediatamente sia ad essa necessario in
base alle esigenze della sua natura se non conoscesse la sua essenza
e ciò che a questa è necessario? Questo è da riconoscere in ogni
anima, la consapevolezza di sé, senza la quale nessuna anima
potrebbe governare se stessa. Ritengo quindi che si debba pensare
tanto più che l’uomo — il solo fra gli animali dotato di ragione —
abbia avuto in sorte un’anima che lo rende tale, giacché è razionale
essa stessa in primo luogo. E come potrebbe esser razionale, e tale
da render l’uomo animale razionale, se essa stessa non conoscesse la
sua razionalità, e ignorasse se stessa?
PLUTARCO, presso OLIMPIODORO, In Platonis Phaedonem, p. 155, 20
segg. Norvin = SVF II, 846
Né è vero che l’anima nutra se stessa in vista del saper comprendere
le cose o dell’ingannarsi intorno ad esse, come dicono gli Stoici:
come l’anima potrebbe essere causa di conoscenza e di ignoranza, non
ancora avendo queste come suo principio?
PLUTARCO, De comm. notitiis, 47, 1084f = SVF II, 847
(Per essi) la nozione è un certo tipo di rappresentazione, e la
rappresentazione è una impronta che si verifica nell’anima: natura
dell’anima è l’esalazione; ma è impossibile che questa sia
suscettibile di ricevere impronte, essendo una sostanza rarefatta,
che non può accogliere in sé una impronta durevole. Infatti, se il
suo nutrimento e la stessa sua genesi si verificano dall’umidità,
essa subisce continuamente aggiunta e detrazione: il mischiarsi del
respiro all’aria rende l’esalazione sempre nuova, e questa sussiste
e si trasforma in virtù del flusso che penetra dall’esterno ed è
nuovamente emesso… In tal modo essi contraddicono se stessi, giacché
hanno definito le nozioni pensieri stabili, e gli atti di memoria
impressioni durature e abituali, e le scienze impressioni
consolidate in modo tale da possedere carattere di resistenza e
fermezza e al tempo stesso hanno posto a base di tutto ciò una
sostanza sempre mobile e inconsistente.
PLUTARCO, De comm. notitiis, 45, 1084a = SVF II, 848
È assurdo che essi dicano che le virtù e i vizi, e oltre a queste
tutte le arti, e gli atti di memoria, e inoltre le rappresentazioni,
le passioni, gli impulsi, gli atti di assenso, cose tutte che essi
ritengono corporee, secondo loro non sembrino sussistere in alcun
luogo, ma concedano ad esse un solo passaggio piccolo come un
punto362 nel cuore, ove comprimono la parte direttiva dell’anima; e
questa poi comprende tanti corpi che a chi vada a distinguerli l’uno
dall’altro definendoli separatamente la loro moltitudine addirittura
sfugge! Quanto poi al fare di tutte queste cose non dico dei corpi,
ma addirittura degli animali ragionevoli … è un vero eccesso di
trasgressione del senso comune che essi compiono.
SESTO EMPRICO, Adversus logicos, I, 307 = SVF II, 849
Infatti essi dicono che pensiero e sensazione sono la stessa cosa,
ma che semplicemente non vertono intorno allo stesso oggetto, altro
infatti è l’oggetto del pensiero, altro quello della sensazione;
allo stesso modo che una cosa si può dire concava o convessa,
concava se considerata secondo un certo aspetto, cioè dall’interno,
convessa secondo un altro aspetto, cioè dal di fuori: come la stessa
strada è salita e discesa a un tempo363, salita per chi la sale,
discesa per chi la discende, così la stessa capacità sotto un certo
aspetto è intelletto, sotto un altro è sensazione; ma, una volta che
è la stessa, non può dirsi tutta racchiusa nell’ambito della
comprensione sensibile.
SESTO EMPRICO, Adv. logicos, I, 359 = SVF II, 849
Ma alcuni dei dogmatici ripetono la risposta già detta sopra, che
cioè queste differenti parti dell’anima — la parte razionale e la
irrazionale — non sono separate; ma, come il miele per tutta la sua
sostanza è insieme umido e dolce, così l’anima per tutta la sua
sostanza ha in sé queste due forze contrapposte, la capacità
razionale e quella irrazionale; la razionale si muove sotto
l’impulso degli intellegibili mentre la irrazionale afferra e
comprende i sensibili. Perciò è sciocco dire che il pensiero, o in
genere l’anima, non può afferrare l’una o l’altra di queste realtà
nella loro differenza: avendo una struttura differenziata, può
comprendere l’una e l’altra.
AEZIO, Plac., IV, 8, 1, Dox. Gr., pp. 393-394 = SVF II, 850
Gli Stoici definiscono così la sensazione: la sensazione è
apprendimento (ἀντίληψις) ο comprensione (κατάληψις) che avviene per
mezzo degli organi di senso. Essa si può definire in più modi:
disposizione, capacità, atto. Anche la rappresentazione comprensiva
si verifica per mezzo dell’organo di senso, nell’ambito della parte
direttiva; per cui poi si dice che gli organi del senso sono tratti
di soffio vitale intelligente che si protendono dalla parte
direttiva agli organi fisici.
AEZIO, Plac., IV, 8, 8, Dox. Gr., p. 395 = SVF II, 851
Secondo gli Stoici le sensazioni fanno parte delle realtà corporee.
AEZIO, Plac., IV, 8, 7, Dox. Gr., p. 395 = SVF II, 852
Gli Stoici ritengono che questo, che chiamano comune sensorio364,
sia come una sorta di tatto interiore, per mezzo del quale possiamo
afferrare noi stessi.
AEZIO, Plac., IV, 10, 1, Dox. Gr., p. 399 = SVF II, 853
Gli Stoici dicono che le sensazioni vere e proprie sono cinque,
vista, udito, olfatto, gusto, tatto.
AEZIO, Plac., IV, 23, 1, Dox. Gr., p. 414 = SVF II, 854
Gli Stoici dicono che le affezioni si trovano nei luoghi che le
subiscono365, ma le sensazioni nella parte direttiva.
PLOTINO, Ennead., IV, VII, 7, 2 segg. = SVF II, 858
Quando si dice che un uomo ha male a un dito, il dolore che riguarda
il dito sta lì nel dito stesso, ma la sensazione del dolore essi
concordano nel dire che sta nella parte direttiva; pur essendo
un’altra la parte dello pneuma che duole, è la parte direttiva che
avverte la sensazione e tutta l’anima risente della stessa
sofferenza. E come può avvenire tutto questo? Per trasmissione, essi
diranno: primo a soffrire è lo pneuma psichico che si trova nel
dito, poi esso si trasmette alle zone più vicine e da queste ad
altre, finché non arriva alla parte direttiva.
GALENO, De locis affectis, II, 5, VIII p. 127 Kühn = SVF II, 857366
Secondo il discorso verace si deve supporre che la parte direttiva
veda e oda, tuttavia veda per mezzo degli occhi e oda per mezzo
delle orecchie; mentre quanto al comprendere, al ricordare, al
ragionare, al deliberare, esso avviene senza doversi valere di
occhi, orecchie, lingua e altro.
GALENO, De instrum. odoratus, 3, II, p. 862 Kühn = SVF II, 859
La natura ha fatto di sostanza luminosa l’organo della vista, poiché
ha la funzione di afferrare solo ciò ch’è raggio e luce; di sostanza
aerea l’organo dell’udito, perché esso ha la funzione di sentire i
suoni che si verificano nell’aria. E così l’organo del gusto, la
lingua, fatto per distinguere gli umori, è stato formato dalla
natura di una sostanza corporea particolarmente umida. L’organo
dell’olfatto è di sostanza intermedia fra aria e umido367, non
essendo così leggero come l’aria, né così spesso come l’umido.
L’essenza delle sensazioni olfattive sta in ciò che si stacca come
flusso da ciascun corpo.
GALENO, De usu partium, VIII, 6, III, p. 639 Kühn = SVF II, 860
Quattro essendo nella testa gli organi sensori, occhi, orecchie,
naso, lingua … essi hanno una differenza specifica quanto a capacità
sensitiva e quanto ai corpi attraverso cui queste giungono. Tra le
capacità, una sa distinguere gli odori, un’altra i sapori, un’altra
le voci, un’altra ancora i colori… Perché possa verificarsi la
sensazione, ciascuna di queste realtà deve subire una trasformazione
totale; né certo il cambiamento avviene allo stesso modo sotto
qualunque oggetto sensibile, ma ciò che è per sua essenza radioso o
luminoso si trasforma sotto l’azione dei colori, ciò ch’è aereo
sotto l’azione delle voci, ciò ch’è simile a un vapore sotto
l’azione degli odori; in altre parole, il simile conosce il
simile368. Non è certo possibile che un organo sensorio di essenza
aerea possa modificarsi sotto l’azione dei colori: per esser
suscettibile di un mutamento di questo tipo in forma facile e
penetrante deve esser puro, luminoso, radioso nella sua essenza …
non certo di essenza simile a fumo o vapore, né a umido o acqua, né
ad aridità o terra… Ma non sarebbe possibile che tutte queste
trasformazioni avvenissero senza che la trasformazione fosse
avvertita dalla facoltà delle rappresentazioni e della memoria e del
ragionamento, cioè della parte direttiva.
GALENO, De usu partium, VIII, 6, III, p. 642 Kühn = SVF II, 860
Dunque … poiché la sensazione della vista dovrà essere luminosa e
radiosa, il soffio vitale è mandato dal suo principio all’organo
sensorio nella forma corrispondente.
FILONE ALESSANDRINO, De posteritate Caini, 126, II, p. 27 Wendland =
SVF II, 862
Nessuno che abbia senno dirà che gli occhi vedono — è la mente che
vede per mezzo degli occhi — né che le orecchie odono — è sempre la
mente che ode attraverso le orecchie — né che le narici sentono
l’odore; attraverso quelle lo sente la parte direttiva.
CALCIDIO, In Platonis Timaeum, 237, p. 249, 14 segg. Waszink = SVF
II, 863
Gli Stoici ripongono la causa del vedere nella tensione dello
spirito naturale, che affermano essere simile alla forma di un cono.
Dopo che questo si è insinuato nell’apertura dell’occhio, detto
pupilla, e, da un inizio tenue, quanto più penetra, si arricchisce
in solidità e la chiarezza della vista, opposta all’oggetto della
visione, si dispiega e si dilata in varie forme. Lo stesso cono
aumenta secondo la misura della tensione, e, a seconda che la sua
base sia diritta o curva, e venga a cadere in una forma visibile,
gli oggetti della visione si renderanno perspicui. Una nave
oneraria, vista da lontano, appare piccola, perché difetta il vigore
della vista e perché il soffio vitale non è capace di diffondersi in
tutte le parti della nave. Allo stesso modo una torre quadrata
simula la rotondità di un cilindro e ugualmente un portico osservato
di sbieco finisce in una linea sottile per la cattiva visione da
parte degli occhi. E anche il fuoco delle stelle appare esiguo; e lo
stesso sole, che è molte volte più grande della terra, appare
compreso nel diametro di due piedi. Inoltre ritengono che la mente
avverta le sensazioni quando la urti il soffio vitale, che trasmette
ai penetrali della mente ciò che esso stesso subisce per la
pressione delle cose visibili: così per esempio quando esso è
proteso e come aperto avverte la mente che le cose che vede sono
limpide, quando è confuso e alquanto sporco indica la visione di
cose cupe e tenebrose. Ciò che essa subisce è simile alla sensazione
di quelli che sono intorpiditi per il contatto col pesce marino, nel
caso che dalla rete o dalla canna da pesca il veleno si insinui
attraverso la mano e penetri nei più intimi sensi.
CALCIDIO, In Plat. Timaeum, 266, p. 271, 7 segg. Waszink = SVF II,
863
Ma gli Stoici addirittura chiamano «dio» la vista, perché ritengono
che sia la più importante fra le sensazioni; pensarono addirittura
che sia il caso di dare ad essa il bel nome di divinità.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mantissa, p. 130 Bruns =
SVF II, 864
Vi sono alcuni che dicono che il vedere si attua per via della
tensione attraverso l’aria. L’aria che ha contatto con la pupilla,
percossa dall’azione della vista, assume la forma di un cono: la
sensazione della vista si determina in quanto questo cono, che ha la
sua base negli oggetti della visione, è come impresso369; e lo
stesso succede per il tatto, ma in questo caso si tratta di una
verga… Ma se anche la vista proviene dalla parte direttiva, come
essi dicono, com’è che non si verificano alcune interruzioni nella
sensazione della vista, dal momento che la tensione non è continua
fino agli estremi, e per la stessa ragione non lo è nemmeno il
contatto? La stessa cosa la si potrebbe richiedere nel caso del
tatto, per cui tocchiamo gli altri corpi; anche in questo caso non è
previsto che si verifichino interruzioni dell’atto di comprensione;
eppure lo si dovrebbe prevedere; tale infatti è per loro il moto
della tensione. Ma se quel soffio vitale che essi chiamano vista può
muoversi solo di quel moto che abbiamo or ora nominato, cioè moto
della tensione (τονικὴ κίνησις), non ha senso dirlo solo a questo
proposito; e infatti essi se ne guardano bene.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., VII, 7, p. 642 Müller = SVF II,
865
… e non vengano a dirci gli Stoici che noi vediamo in virtù di un
colpo di verga dell’aria che ci sta intorno370.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mantissa, p. 131 Bruns =
SVF II, 868
E inoltre perché mai da una posizione di luce non vediamo ciò ch’è
posto nell’ombra, mentre dall’ombra vediamo ciò che è in luce? Com’è
credibile quello che essi affermano, che cioè l’aria illuminata ha
maggior forza di farsi distinguere e può col contatto produrre la
sensazione, mentre quella non illuminata per il fatto di aver minor
forza non può raggiungere una tensione tale da produrre la
sensazione della vista; e ciò pur essendo l’aria tenebrosa più
spessa?
AEZIO, Plac., IV, 15, 2, Dox. Gr., p. 405 = SVF II, 869
Gli Stoici dicono che le tenebre sono visibili. Dalla vista infatti
si volge verso di esse un raggio; e la vista non si sbaglia; essa
vede realmente che quelle sono tenebre.
GALENO, De symptom. causis, I, 2, VII, p. 98 Kühn = SVF II, 870
Così anche il soffio vitale psichico o è acutamente limpido, come lo
è l’aria371, oppure è umido e denso di nebbia, e maggiore o minore a
seconda della quantità di sostanza. Nel caso che sia al tempo stesso
aereo e abbondante, vede le cose che stanno più lontane e compie fra
di esse una distinzione più precisa. Se è in quantità minore, ma pur
sempre limpido, distingue bene le cose che sono vicine, mentre non
vede le cose che sono lontane. Nel caso che si trovi a essere al
tempo stesso alquanto umido e in grande quantità, vede la maggior
parte delle cose ma in maniera non chiara; se poi sia insieme umido
e in quantità scarsa, non vede né chiaramente né in larga misura.
GELLIO, Noctes Att., V, 16, 2 = SVF II, 871
Gli Stoici dicono che la causa del vedere sono l’emissione dei raggi
dagli occhi verso gli oggetti della visione e allo stesso tempo la
tensione.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 118 Bruns =
SVF II, 873
Se poi dicono che la parte generativa è di natura psichica, e questa
sta sotto il concetto di vegetativo, ogni realtà psichica dovrà
essere anche vegetativa372.
FILONE ALESSANDRINO, De aetern. mundi, 97, VI, p. 102 Cohn-Reiter =
SVF II, 874
Ma è sciocco dire che l’uomo vivente si vale dell’ottava parte
dell’anima, che si chiama parte generativa, per seminare un essere
simile a lui, e che in pari tempo egli muoia completamente373.
GALENO, De causis pulsuum, IV, 3, IX, p. 159 Kühn = SVF II, 875
A chi gode si diffonde il calore per tutto il corpo, e domina il
movimento fuori di lui; mentre a chi soffre avviene il contrario (è
il movimento interno che domina).
GALENO, De locis affectis, V, 1, VIII, p. 301 Kühn = SVF II, 876
Può avvenire in modo diverso che alcuni muoiano per eccessivi
dolori, per terribili paure, per grandissime gioie. Quelli che hanno
debole la tensione vitale e, per mancanza di educazione, sono
soggetti a forti affezioni psichiche, hanno la sostanza dell’anima
più facile a dissolversi. Gente simile muore talvolta per il dolore;
non però improvvisamente, come nei casi anzidetti. Tuttavia nessun
uomo magnanimo muore né per il dolore né per altre cose che, ancora
più forti del dolore, possono portare alla morte: in uomini simili
forte è la tensione vitale dell’anima, e le affezioni sono tenui.
GALENO, De locis affectis, IV, 3, VIII, p. 233 Kühn = SVF II, 877
Questa passione consegue ai dolori eccessivi, poiché in questi casi
viene a cadere la tensione nello pneuma psichico.
GALENO, De sanitate tuenda, II, 9, VI, p. 138 Kühn = SVF II, 878
L’ira non è semplicemente un accrescimento, ma un vero e proprio
bollire del calore che sta nel cuore; e questa infatti i più
illustri fra i filosofi dicono che è la sua sostanza. Cose come
l’impulso a vendicarsi sono un accidente, e non la sostanza
dell’ira.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., II, 8, p. 243 Müller = SVF II,
889
Passerò a qualcosa che resta da dire, ma che già quasi tutti
ricordano, di quelli che suppongono essere il cuore principio delle
capacità negli esseri animati. Dicono infatti che là dove è per gli
animali l’origine del loro accrescersi vegetativo è anche la
capacità raziocinante dell’anima; ma il principio vegetativo gli
esseri viventi lo hanno nel cuore, e quindi sempre nel cuore si
trova anche il principio del ragionamento e del pensiero… E tuttavia
non si può concedere loro che donde giunge il rifornimento di soffio
vitale ivi sia anche la parte direttiva, e aggiungono che questo
rifornimento si ha dal cuore374.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., II, 4, p. 196 Müller = SVF II,
893
Se la voce si producesse perché il soffio vitale che sta nel polmone
riceve una impronta da quello che sta nel cuore, e successivamente
esso stesso imprime quello che sta nella gola, non potrebbe venir
meno per il taglio di alcuni nervi… Nessuna ragione poi ci induce a
credere che tutte le energie che sono nell’uomo derivino da uno
stesso principio.
1. È una distinzione, questa fra filosofi che si occupano della
natura (oἱ φυσικοί) e scienziati, assai importante; essa indica il
minor radicalismo stoico rispetto ad Epicuro, il quale nell’Epistola
a Pitocle respinge come vana, in blocco, l’opera degli scienziati.
Ovviamente, c’è sempre da chiedersi a quali Stoici si riferisca il
passo di Diogene Laerzio, il quale cita spesso Posidonio e filosofi
della media Stoa. Cfr. Intr., p. 62.
2. Il passo, di terminologia aristotelica, è omesso da alcuni codici
e, a partire dallo Hülser, espunto da più editori; si tratta di
probabile glossa.
3. POSIDONIO, fr. 5 Edelstein-Kidd = 257 Theiler. Perla duplicità e
ambiguità delle nozioni di corporeo nella Stoa cfr. infra, note 213
e 235.
4. Fr. 16 E.K. = 311 Th. Citato poco più oltre con altro titolo; o è
un’opera diversa? Cfr. fr. 14 E.K. = 334 Th.
5. Fr. 21 E.K. = 345 Th. Da leggersi più probabilmente libro terzo
(γ’) che non, come in alcuni codici e ancora alcuni editori,
tredicesimo (ιγ’).
6. Per Antipatro di Tiro, o di Sidone, allievo di Stratocle (a sua
volta allievo di Panezio) cfr. supra, parte I, nota 48.
7. POSIDONIO fr. 23 E.K. = 347 Th.; la terminologia solare verrebbe
qui attribuita piuttosto a Cleante che a Posidonio.
8. POSIDONIO, fr. 8 E.K. = 260 Th.
9. Fr, 6 E.K. = 259 Th.
10. La lezione ἀσώματα è difficilmente accettabile se il ταῦτα si
riferisce a σύμπνοια e συντονία (poco sopra, VII, 140); il τόνος per
gli Stoici è realtà di ordine corporeo, e non tutto è limpido nel
discorso. Hicks correggeva in σώματα pensando a un riferimento ai
mondi, ma avvertendo che anche la lezione tradita è in certa maniera
sostenibile se si riferisca ai concetti di questi come λεκτά (cfr.
nota ad loc.).
11. Integrazione Arnim, 〈il mondo è dunque perituro〉; peraltro non
necessaria.
12. Fr. 13 E.K. = 304 Th.
13. PANEZIO, fr. 66 van Straaten; per l’aristotelismo di questa
posizione cfr. B. N. TATAKIS, Panétius de Rhodes, le fondateur du
moyen Stoicisme, Paris 1931, p. 102 segg. Ma è dubbio che Posidonio
fosse tornato alla dottrina della conflagrazione nel senso zenoniano
e crisippeo: cfr. in proposito THEILER, Fragmente, II, p. 180 segg.
14. Fr. 99a E.K. = 304 Th.
15. Fr. 4 E.K. = 256 Th.
16. Fr. 17 E.K. = 312 Th.
17. Fr. 10 E.K. = 262 Th.
18. Fr. 126 E.K. = 266 Th.
19. Polemica contro l’antropomorfismo epicureo espresso nello
ἀνθρωποειδεῖς (ο ἀνθρωποειδῶς, secondo la correzione di HICKS, ad
loc.) di Ratae Sent. I scolio, che si riflette ampiamente in
CICERONE, De nat. deor., I, 57 segg., in part. 94 segg. (ma non
tutte le argomentazioni usate da Cicerone debbono necessariamente
attribuirsi ad autori della Stoa antica).
20. Fr. 20 E.K. = 344 Th.
21. Non appartiene probabilmente alla Stoa antica, ma ad una fase
eclettizzante che accoglie in sé il collegamento (epicureo) del
συμφέρον e della ἡδονή.
22. Fr. 25 E.K. = 381 Th.
23. Fr. 7 E.K. = Fr. 258 Th.; 27 E.K. = 371a Th. (anche
qui preferibile leggere β anziché lo ιβ, «dodicesimo», di alcuni
codici). PANEZIO, fr. 73 v. Straaten.
24. Integrazione Arnim.
25. Integrazione Arnim.
26. Cfr. anche SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 25, 15 segg. Diels =
SVF II, 312.
27. Concetto che Teodoreto media attraverso il platonismo di età
imperiale, cfr. NUMENIO, frr. 3, 4b Des Places.
28. Analogamente SIRIANO, In Arist. metaph., p. 8, 4 segg. Kroll =
SVF II, 308.
29. Cfr. R. B. TODD, Alexander of Aphrodisias in Stoic Physics,
Leiden 1976, p. 13 (accetta l’integrazione εἰ di Apelt, ma considera
inutile l’integrazione ἀποδείξεων dell’Arnim; cfr. anche il
commento, p. 222; traduzione: «with appropriate support»).
30. Per la critica di Plotino al concetto stoico di πὼς ἔχον
applicato alla realtà fisica universale cfr. GRAESER, Plotinus and
the Stoics, Leiden 1972, p. 93.
31. Plotino coglie la duplicità della concezione stoica del
corporeo, che da un lato accetta la nozione di corpo tridimensionale
e spaziale, e in questo caso considera la ἀντιτυπία proprietà
fondamentale (SVF II, 381, 501), dall’altro apre la via ad una
nozione di corporeità del tutto diversa. Cfr. Intr., nota 131.
32. La distinzione che qui Galeno riporta fra τὸ ὄv e τὸ ὑφεστός non
sembra coincidere con quella altrove attribuita a Crisippo da
Plutarco (SVF II, 518, cfr., Intr., nota 107) di ὑφεστάναι da
ὑπάρχειν; cfr. in proposito GOLDSCHMIDT, Écrits, I p. 188 e segg.).
Qui Galeno sembra considerare ὄv sinonimo di ὑπάρχον; ma è
traduzione in linguaggio filosofico non stoico.
33. Cioè ricadono sotto la categoria generalissima del τί, cfr, nota
221: una prova di più è evincibile da questo passo in favore
dell’estensione di tale categoria agli incorporei. Il passo,
importante, è stato trascurato dall’Arnim.
34. 〈ἰδίαν〉 è corretto dall’Arnim contro lo ἴσην del testo tràdito.
Dell’Arnim anche le altre emendazioni.
35. Polemica contro la concezione del demiurgo nel Timeo, che risale
probabilmente allo stesso Zenone e agli inizi della scuola.
36. Questa volta è polemica antiaristotelica, e negazione che possa
esistere una «materia intellegibile» (Metaph. VII, 1036a 9, 1037a 4;
VIII, 1045a 34, ecc.).
37. Neoplatonico del V secolo, citato da Marino nella Vita di Proclo
e qui da Simplicio; cfr. BEUTLER, Real-Encycl., Suppl. VII, 1940,
col. 899.
38. Cioè i naturalisti le cui opinioni sono riassunte e criticate da
Aristotele nella Metafisica; il commentatore aggiunge qui gli Stoici
come loro seguaci; «physici» e non «mathematici» (termine riservato
agli scienziati) sono detti gli stoici da SERVIO, In Aen., X, 18 =
SVF II, 1061, infra.
39. Il concetto di τί, «che cosa», è il fondamento della dottrina
stoica delle categorie; per la quale cfr. più oltre, note 222 e
segg. Il riferimento che qui fa Alessandro della teoria del τί non
coincide peraltro con quello dato da SENECA, Epist., 58, 1 3 (cfr.
SVF II, 332): il τί è per Alessandro genere sommo comprendente
corporei e incorporei, mentre è per Seneca genere sommo comprendente
anche l’assoluto non esistente, il puramente immaginario, ciò che
Sesto invece chiama οὔτινα e non sussume sotto la categoria
di τί, ma contrappone ad essa. ZELLER, Philos. d. Gr., III, 15,
p. 94, nota 2, dava grande importanza alla testimonianza senechiana
per la ricostruzione della teoria crisippea, mentre si attiene
piuttosto a Sesto RIETH, Grundbegriffe st. Ethik, pp. 90-91. È però
dubbio che, come Rieth afferma, la divisione categoriale
quadripartita si riferisca alle realtà corporee, dal momento che gli
Stoici affermavano esser corporee le qualità dei corpi, incorporee
quelle delle realtà incorporee (SVF II, 389, cfr. infra); il che
indica che gli ἀσώματα possono avere una loro specificazione
qualitativa e quindi ricadere sotto la categoria del ποιόν (la
teoria peraltro ha probabilità di essere postcrisippea, cfr. nota
242, e Intr., nota 70). Se A. SCHMEKEL, Positive Philosophie, pp.
627-628, andava forse troppo oltre supponendo che la teoria del τί
come categoria suprema sia uno sviluppo ulteriore rispetto a quella
che pone come categoria suprema lo ὄv e appartenga ad una fase
ulteriore (postcrisippea) dello stoicismo, forse tale ipotesi può
valere per la posizione degli oὔτιvα, tendente a distinguere
l’incorporeo dall’irreale; ma anche questa rimane puramente una
ipotesi non comprovabile.
40. Per la continuazione della polemica cfr. ancora Pynh. Hypot.,
II, 223 segg. Sesto ritiene il «qualcosa» sottrarsi ad ogni
condizione di modalità logica in virtù della sua genericità, e
quindi costituire un assurdo.
41. Cfr. nota 221. Seneca lascia cadere la distinzione fra
incorporei che sono un τί, sempre un qualcosa anche se non un essere
concreto e reale, e i prodotti di pura immaginazione, gli οὔτινα; la
sua testimonianza appare più debole rispetto a quella di Alessandro,
sostenuta (cfr. nota 215) dalla testimonianza plutarchea.
42. Cfr. il singolare passo di FILONE, Leg. Alleg., III, 175, 1, p.
151 Wendland, ove si applica la definizione categoriale del
«qualcosa», genere supremo, alla manna mandata da Dio agli Ebrei nel
deserto (SVF II, 334).
43. Da espungersi alcune parole seguenti nel testo, cfr. ARNIM, ad
loc. La polemica contro l’assenza di causa è antiepicurea (il
clinamen epicureo era considerato dagli Stoici «moto senza causa»,
tale da rompere la continuità stessa dei fenomeni dell’universo;
cfr. nota 371).
44. Sembra polemica anticleantea; per la esegesi cleantea della
τύπωσις zenoniana cfr. parte II, p. 230 e Intr., nota 56.
45. «Gli altri» sono i Peripatetici, dei quali poco prima Clemente
ha espresso l’opinione. Alla tradizione platonico-peripatetica
sembra appartenere il termine παρεκτικόν (cfr. ALESSANDRO, In Arist.
Metaph., p. 58, 29 Hayduck; Theologoumena Arithmetices, 6; PROCLO,
Inst., 9).
46. La divisione di Clemente sembra dipendere da fonte antico-stoica
(non così la posizione attestata da Seneca, per il quale le
condizioni «senza di cui non» dovrebbero o potrebbero in qualche
modo dirsi cause ma non lo sono in senso stretto). Sulla sostanziale
identità (sinonimica: diversità di nome, identità di essenza) fra
cause coessenziali e cause perfette Clemente ritornerà anche poco
oltre, cfr. SVF II, 351.
47. Integrazioni Stählin; leggermente diverso il testo dell’Arnim.
48. Seguo anche qui Stählin, il quale abolisce una non necessaria
integrazione dell’Arnim, cfr. SVF ad loc. (è però preferibile
segnalare una lacuna).
49. Per altri esempi apportati da Clemente cfr. anche Strom. VIII,
9, 26, 1, p. 96 Stählin (SVF II, 349).
50. Cfr. anche il seguente passo, Strom, I, 20, p. 63 Stählin, ove
abbiamo un’altra e analoga distinzione fra causa coadiuvante e
concausa (SVF II, 352).
51. Il passo dello ps. Galeno è un rifacimento di dottrina stoica
che contiene elementi non stoici (cfr. subito l’inizio: certo la
«causa produttrice» per gli Stoici non può non essere di natura
corporea). Sospetto è il concetto di αἲτιον προηγούμενον, di
carattere peripatetico; la parola, pur non estranea alla Stoa, è
attestata soprattutto per Antipatro di Tarso; cfr. GRILLI,
ΠΡΟΗΓΟΥΜΕΝΟΣ, p. 480, e supra, parte V, nota 193). Lo αἴτιον
προηγούμενον potrebbe essere aggiunta ulteriore all’elenco crisippeo
delle cause, che sembra riportato più esattamente da Clemente
Alessandrino. Per l’opera dello pseudo-Galeno cui il passo
appartiene, le Definizioni mediche, dovuta a un medico pneumatico
non anteriore al III sec. d. C., il quale adatta divisioni e
definizioni stoiche alla scienza medica, cfr. M. WELLMANN, «Philol.
Unters., XIV, 1893, p. 65, e Η. MEWALDT, Real-Encycl. VII, 1, 1910,
col. 590.
52. È polemica di Galeno contro il medico metodico Giuliano, autore
di un commento agli Aforismi di Ippocrate (cfr. GOSSEN,
Real-Encycl., X, 1, 1917, coll. 11-12).
53. La definizione della corporeità in base al concetto di διάστασις
appartiene probabilmente ad una fase relativamente tardiva dello
stoicismo antico, preparatoria alla media Stoa; cfr. già parte V,
nota 198. GRAESER, Zeno v. Kition, p. 93, sembra aver esagerato
l’importanza di questo concetto nella Stoa zenoniana; cfr. di contro
MANSFELD, «Mnemos.», 1978, p. 158 segg.; e Intr., nota 131.
L’importanza della nozione di corporeità introdotta dalla Stoa è
quella di una corporeità che sfugge alle consuete definizioni
geometrico-dimensionali della filosofia anteriore, e anche in parte
alle definizioni fisiche (cfr. nota 213). Sono citabili a rincalzo
SESTO EMPRICO, Pyrrh. Hypot., III, 38-39 e PS. GALENO, Hist.
Philos., 23. Dox. Gr., pp. 612-613, ove due concezioni, stoiche
presumibilmente entrambe. della corporeità, vengono contrapposte.
54. La critica mossa ad Aristotele circa il numero eccessivo di
categorie da lui fissato ha precedenti non stoici; per Senocrate
cfr. SIMPLICIO, In Categ., p. 67 Kalbfl. = fr. 12 Heinze, 95 I. P.
Cfr. in proposita KRÄMER, Platonismus hell Philos., p. 94.
55. Cfr anche SVF II, 370, da DEXIPPO, In Arist. Categ., 15, 18
segg. Busse, che contiene una citazione generica degli Stoici
insieme con i Platonici.
56. Per la polemica antimaterialistica di Plotino contro la Stoa
cfr. C. RUTTEN, Les catégories du monde sensible dans les Ennéades
de Plotin, Liège-Paris 1961, pp. 37-38, e GRAESER, Plot. a. the
Stoics, p. 87 segg. Rutten ha notato peraltro come la concezione
plotiniana della categoria presupponga il concetto stoico di λεκτόν
(pp. 48, 52, 114).
57. Il 〈πρός τι〉 inserito dal RIETH, Grundbegriffe St. Eth., p. 80,
nota 1, sembra richiesto dal successivo «quarto genere». Henry e
Schwyzer seguono tuttavia la lezione di alcuni codici τρίτῳ
(«terzogenere»), non accettando l’integrazione.
58. Seguo la lettura ἐννόημα del Kalbfleisch; cfr. poi RIETH,
Grundhegr. st. Ethik, p.63 (testo tràdito ἕv νόημα).
59. Arnim inseriva a questo punto un non necessario οὐδ’ οὐσίαι, «né
essenze». Cfr. POHLENZ e CHERNISS, ad loc.
60. È difficile che questa teoria possa considerarsi genericamente
stoica: nella divisione categoriale quadripartita della Stoa
crisippea le qualità appaiono per lo più dotate di potere causante e
di corporeità (BRÉHIER, Théorie des incorporels, pp. 43 segg.);
anche se in realtà non si possa negare l’esistenza di λεκτά, cioè
incorporei, che siano qualificati e differenziati (cfr. DE
LACY, The Stoic Categories as methodological Principies,
«Trans. Amer. Philol. Ass.», 1945, pp. 246 segg., in part. 250; e si
vedano anche le sottili distinzioni di V. GOLDSCHMIDT, Système
Stoic.2, p. 26, nota 1). A. SCHMEKEL, Die positive Philosophie in
ihrer Entwicklung, ed. J. SCHMEKEL, Berlin 1938, I, p. 625 segg.,
tende ad attribuire la teoria ad Antipatro di Tarso, sulla base
della testimonianza dello stesso Simplicio secondo cui questi
avrebbe esteso il termine di ἑκτά a corporei e incorporei (cfr.
parte V, nota 183). Segue questa attribuzione la REESOR, St.
Conc. Quality, p. 50 segg.
61. La parola appartiene già al linguaggio filosofico accademico. Il
significato ne è esposto lungamente da SIMPLICIO, In Arist. Categ.,
p. 209, 15 segg. Kalbfl., il quale accenna anche a un indebito
allargamento e scivolamento dell’uso: in Aristotele il
corrispondente di tale concetto, nel suo senso proprio, sarebbe
quello di «essenza» o «causa» (ivi, pp. 210, 2-3; 211, 3-4).
62. Anche questo brano è ritenuto dallo SCHMEKEL, loc. cit.,
appartenente ad Antipatro di Tarso, in virtù soprattutto delle
espressioni ἀπαρτίζειν κατ’ἐκφοράν (cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 60,
per l’attribuzione della definizione come ἀπαρτιζόμενον κατ’ἐκφοράν
ad Antipatro). Il significato generale è che vi sono più modi di
definire il ποιόν o «ente qualificato», o «qualità in concreto», ma
uno di essi è sovrabbondante per la sua genericità, l’altro perché
aggiunge alla qualificazione anche il concetto dell’esercizio
attivo, mentre ἀπαρτίζειν significa «circoscrivere puntualmente
senza nulla di più o di meno» (cfr. ALESSANDRO, In Arist. Top., p.
42, 27 segg. Wallies). La premessa circa gli Accademici indica il
loro sconsiderare l’essenza delle cose come trascendente a noi; ma
abbastanza improprio è l’accostamento con la teoria stoica qui
riportata. Cfr. comunque per un tentativo di spiegazione GRAESER,
Plotinus a. the Stoics, p. 94.
63. Seguo l’emendazione ἐκτ〈ικ〉άς del Kalbfleisch (ἐκτάς nel testo
tràdito). Per un tentativo di spiegazione del difficile passo cfr.
RIETH, Grundbegriffe st. Ethik, p. 67, che pone il termine ἐκτικός
in rapporto con la συνεκτικὴ αἰτία: vi sono qualità che sono capaci
di «tenere insieme se stesse», p. es. il fuoco e l’aria che si
tengono insieme in virtù di εὐτονία, a differenza dell’acqua e della
terra. Nelle ποιότητες degli elementi vi sono quindi διαφοραί che,
in certo senso, possono dirsi «differenze delle differenze».
64. Per la distinzione originaria di ἓξις e διάθεσις in Aristotele,
cui Simplicio si rifà, cfr. Categ., 8b segg.; ma per gli Stoici le
virtù sono διαθέσεις, e διάθεσις indica, differentemente che non in
Aristotele, una disposizione più durevole che ἓξις. Cfr. REESOR,
Stoic Concept of Quatity, p. 56, nota 47.
65. Cfr. parte IV, nota 140. È probabile che il passo di Plutarco si
riferisca alla teoria che Filone, De aetern. mundi, 236, dà come
propria dell’opera crisippea Dell’accrescimento, e forse abbia come
oggetto polemico la stessa opera, anche se la tematica plutarchea è
poi molto diversa, e i due passi possono apparire addirittura in
contraddizione reciproca. Per la spiegazione cfr. ancora REESOR,
Stoic Concept of Quality, p. 46: Crisippo argomenterebbe nel senso
che il fuoco-etere viene qualificato contemporaneamente da Zeus e da
πρόνοια, e che quindi due qualificazioni specifiche possono trovarsi
nella stessa sostanza (mentre Filone argomenta capziosamente contro
la possibilità che ciò avvenga in base ai principi dela dottrina
crisippea). Per la continuazione e la ripresa di questi motivi in
Posidonio cfr. F. LASSERRE, Abrégé inédit du commentaire de
Posidonios au Timée de Platon (pap. gen. inv. 203) in Protagora,
Antifonte, Posidonio, Aristotele. Saggi su frammenti inediti e nuove
testimonianze da papiri, Firenze 1986, pp. 71-125, in part. 96. Da
vedersi anche gli sviluppi della teoria del κοινῶς e ἰδίως ποιόν in
SIMPLICIO, In Arist. categ., p. 48, 11 segg. Kalbfleisch = fr. 834
Hülser: la potenzialità si porrebbe a due livelli, quello generico
della ἄποιος ὕλη ο materia senza qualità, e quello secondario della
qualificazione generale o particolare. Simplicio interpreta mediante
questi schemi la stessa dottrina aristotelica.
66. Cfr. ancora in proposito CHERNISS, Plutarch’s Mor., XIII, 2, p.
800, nota c.
67. È polemica platonizzante in favore della superiorità
dell’universale, che resta estranea al rapporto istituito dagli
Stoici fra κοινῶς e ἰδίως ποιόν.
68. Per Boeto di Sidone (da non confondersi con lo stoico),
peripatetico del I sec. a. C, cfr. MORAUX, Aristotelismus bei den
Griechen, Ι, p. 143 segg. La critica di Boeto (assurdità accomunare
i generi più diversi sotto la categoria del πὼς ἔχον) si avvicina a
quella di Plotino, ma nell’intento, opposto a quello plotiniano, di
difendere la validità della divisione aristotelica. Lo stesso
SIMPLICIO, In Categ., p. 163, 6 Kalbfleisch, ci dice che Boeto
scrisse un’intera opera, probabilmente contro la Stoa, intitolata
Dei relativi e dei modi di essere relativi.
69. Plotino tende a risolvere i relativi nelle due entità che sono
in relazione reciproca e che sole hanno vera realtà; cfr. per il
problema RUTTEN, Les catégories du monde sensible, p. 101 segg, il
quale nota le somiglianze che intercorrono, nonostante la critica,
fra teoria stoica e teoria plotiniana. Cfr. in generale
PLOTINO, Enn. VI, 1, 8, 8-27; VI, 1, 9, 27-32.
70. Il brano di Simplicio ha posto molte difficoltà alla critica:
come si vede fin da questo inizio, la distinzione che qui Simplicio
pone non è quella di πὼς ἔχον e προς τί πως ἔχον, ma di πρός τι e
πρός τί πως ἔχον, cioè di «relativi in senso generale» e di
«correlativi»: egli chiarisce infatti subito dopo che «relativi»
sono, in senso proprio, le entità che si contrappongono κατὰ
διαφοράν, per differenza, mentre i correlativi sono quelli che si
implicano essenzialmente, sì che nessuno dei due può esistere se non
pensato e concepito in relazione all’altro. È una divisione che
ricorda quella che Ermodoro accademico pone fra πρὸς ἐναντία
(opposizioni) e semplici relativi (πρός τι): cfr. lo stesso
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 247, 30 segg. Diels (= ERMODORO fr. 7
Isnardi Parente). Il passo è stato variamente valutato: lo ha
ritenuto una rielaborazione di Simplicio in terminologia
accademizzante POHLENZ, Stoa, II, pp. 40-41; Pohlenz tende a mettere
in rilievo l’importanza della categoria del πὼς ἔχον nel pensiero
crisippeo (cfr. anche Zenon und Chrysipp, pp. 187 segg.) e la
mancanza di essa nell’enumerazione di Simplicio lo porta di
necessità a negar valore alla testimonianza. RIETH, Grundbegr. St.
Ethik, p. 70 segg., ha analizzato il passo mettendo in rilievo in
particolare la contrapposizione fra la differenziazione del πρός τι
(corrispondente, egli ritiene, al πὼς ἔχον delle altre
testimonianze) e l’indifferenziazione del πρός τί πως ἔχον; cfr. p.
73, ove si afferma esser questo il tratto più peculiare della
divisione categoriale stoica. Mentre la REESOR, The Stoic
Categories, p. 77, ritiene la testimonianza di Simplicio
inconciliabile con la quadripartizione categoriale altrove
attestata, torna a dare grande importanza ad essa H. J. KRÄMER,
Phtonismus hell. Philos., p. 85 segg.; il quale, sviluppando
ampiamente una nota del RIETH (Grundbegr., p. 91, nota 4), vede
nella divisione categoriale di Simplicio la prosecuzione nella Stoa
della fondamentale divisione senocratea (fr. 12 Heinze, 95 I. P.) e
in genere accademica in καθ’αὑτά e πρός τι. In realtà i problemi di
questo passo non vengono così risolti (cfr. RIST, in Problems in
Stoicism, pp. 52 segg.); e la conciliabilità delle due diverse
testimonianze circa la dottrina stoica delle categorie non ne riceve
luce. A. SCHMEKEL, Positive Philosophie, Ι, p. 625, attribuiva la
divisione di Simplicio ad Antipatro di Tarso. Non è esclusa la
possibilità che essa possa attribuirsi a stoici postcrisippei
platonizzanti. Più ampiamente su tutto questo rimando a M. ISNARDI
PARENTE, Simplicio, gli Stoici e le categorie, «Rivista Storia
Filos.», XLI, 1986, pp. 3-18.
71. Cfr. SESTO, Adv. phys., II, 267 (nel riferimento di dottrina
categoriale neo-pitagorica di ascendenza accademica) per la stessa
definizione e delucidazione dell’essenza dei relativi.
72. Sesto va naturalmente più in là di quanto non legga nelle sue
fonti, supponendo che in virtù di ciò i relativi abbiano la loro
sussistenza, per gli Stoici, solo nel pensiero. La frase ha la sua
rispondenza nelle Divisiones aristoteleae (DIOGENE LAERZIO,
ΙII, 109: «di per sé sono le realtà che possono esser definite senza
ricorrere ad altro … quelli che sono detti 'relativi' sono quelle
realtà che per la loro definizione richiedono il ricorso ad altro»).
Cfr. anche SVF II, 509 (Stobeo a proposito di Crisippo, parte IV, p.
519): gli Stoici (= Crisippo) ritengono che abbiano sussistenza
reale, di fatto (= ὑπάρχειν) solo quei predicati che costituiscono
una attualità, es. il camminare quando qualcuno realmente cammini
(quelli che nel brano di Stobeo sono detti, con linguaggio
aristotelico, i συμβεβηκότα, «gli accidenti»). Certo il tipo di
appartenenza all’essere proprio dei relativi è diverso; cfr. già
Intr., nota 93.
73. Per i possibili riferimenti ai testo di Aristotele cfr. Meteor.
IV, 378b 15; De gen. anim. IV, 722a 29; II, 740b 31; ecc.
74. È teoria stoica nel non stoico Plutarco; cfr. BABUT, Plut.
Stoic., p. 131.
75. Ateneo, I sec. d. C, è il fondatore della scuola medica
pneumatica, cosiddetta proprio perché di ispirazione stoicheggiante
e fondata sulla dottrina (peraltro non ignota ad Aristotele e al
Peripato) dello πνεῦμα. Cfr. WELLMANN, Real Encycl., II, 2, 1896,
coll. 2034-2036.
76. Il rapporto fra principio ed elemento, ancora oscillante in
Aristotele, è posto poi con chiarezza nonostante certe difficoltà
persistenti dalla Stoa; cfr. LAPIDGE, «Phronesis», 1973, p. 240
segg.
77. Da ricordarsi anche passi quali GALENO, De venae sect., 3, XI,
p. 256 K. e intr. med., 9, XIV, p. 698 Κ., nonché GIUSTINO, De
resurr. 6, che costituiscono i frr. 414-415 e 418 degli SVF, e
contengono teoria generica sulla mistione degli elementi. Per
Erasistrato cfr. parte IV, nota 166.
78. È teoria non aristotelica e interpretazione errata di
Aristotele, per il quale l’etere è il πρῶτον σῶμα, la prima e più
eccelsa delle realtà corporee.
79. Giustificazione per l’uso della parola ἰδέα, qui usata nel senso
di «elemento», forma elementare. L’uso è consacrato dalla
tradizione; per Empedocle ad es. cfr. 31 Β 35 DK; per Diogene di
Apollonia 64 Β 5 DK; per Democrito 68 A 102, Β 141 DK, e
l’espressione stessa di ἄτομοι ἰδέαι, 68 A 57 DK.
80. È polemica contro Democrito, il quale aveva concepito gli atomi
come strutturati in maniera da agganciarsi reciprocamente;
l’espressione ἄνοφμοι ὄγκοι risale a ERACLIDE PONTICO, frr. 118-120
Wehrli (in particolare cfr. SESTO EMPIRICO, Adv phys., II, 318).
81. Cfr. anche FILONE ALESSANDRINO, De visione angeli, p. 616 Aucher
(SVF II, 422): Filone usa espressioni stoiche per descrivere il
fuoco di cui ardono i cherubini.
82. Per la teoria, già zenoniana, del vuoto extra-cosmico cfr. parte
I, nota 147. L’espressione κατ’ἐπικράτειαν qui usata può esser stata
effettivamente usata da Zenone o da Crisippo per indicare che il
vuoto, nella realtà dell’universo, occupa uno spazio assai più
grande che non il pieno.
83. EPICURO, fr. 285 Us. L’accostamento di Asclepiade (medico della
Bitinia, I sec. a. C, attivo alla corte di Mitridate, sostenitore di
una forma di fisica atomistica) ad Epicuro si trova anche altrove in
Galeno (In Hippocr. epid. VI, comm. IV, 10, XVII, 2, p. 162 K.; De
usu partium, I, 21, III, p. 74 K.). Ma può essere illazione di
Galeno; altri autori sottolineano la vicinanza di Asclepiade
piuttosto a teorie accademico-peripatetiche quali quelle di Eraclide
Pontico (EUSEBIO, Praep. Evang., XIV, 23; SESTO EMP., Pyrrh. Hypot.,
III, 32, Adv. phys., II, 318; Ps. GALENO, Hist. philos., 18, p.
610 Diels). Per Asclepiade cfr. WELLMANN, s. v., Real-Encycl., II,
2, 1896, coll.. 1632-33.
84. Per la teoria dei pori o passaggi in Aristotele cfr. BONITZ,
Index, s. v.; essa verrà poi raccolta e sviluppata da Stratone di
Lampsaco nel Peripato (frr. 54-67 Wehrli).
85. La derivazione del tutto dall’acqua è teoria assai arcaica e non
tipicamente stoica; cfr. HAHM, Origins st. Cosmog., pp. 66-67. Lo
scolio sembra avere in ogni caso colorito stoicheggiante. Per i
problemi della cosmogonia cleantea e la funzione dell’elemento umido
in essa cfr. parte II, note 163-164).
86. Cfr. per l’elenco delle cause Intr., nota 99; e nota 245 per le
prime qualità e il carattere causante e armonizzante di due di esse,
aria e fuoco; anche nota 273 infra.
87. Il rapporto fra medici erofilei (ma anche erasistratei) e Stoici
ha la sua ragion d’essere oggettiva; presso le scuole dei
peripatetizzanti Erofilo ed Erasistrato aveva avuto sviluppo la
teoria dello πνεῦμα già presente nella fisiologia di Aristotele e
del Liceo; per questi rapporti, con particolare attenzione al papiro
che ci riporta la teoria del medico peripatetico Menone, cfr. W.
JAEGER, Das Pneuma im Lykeion, «Hermes», XL VIII, 1913, pp. 29-74 (=
Scripta Minora, Romae 1960, I, pp. 57-102).
88. La teoria, qui indicata genericamente come propria degli
«Stoici», è data come specificamente crisippea da PLUTARCO, Stoic.
rep. 43, 1053f-1054a (le ποιότητες come πνεύματα καὶ τόνοι; cfr. SVF
II, 449, esupra, parte IV).
89. Integr. Ideler, accettata dall’Arnim e poi dal Todd, ad loc. Per
il commento a questo passo cfr. TODD, Alex. Aphrod. de mixtione, pp.
218-219: Alessandro trascura la premessa stoica secondo la quale lo
πνεῦμα, come principio, è diverso da ciò di cui è principio.
90. Seguo il testo (e la punteggiatura) di Henry e Schwyzer (Arnim
ipotizza una lacuna prima di ὀνόματα).
91. Alcune qualità sono συνεκτικά, non tutte; cfr. REESOR, Stoic
Conc. of Quality, «Amer. Journ. Philol.», 1954, pp. 40-58, in part.
pp. 42 segg., 49. Cfr. anche la distinzione che NEMESIO (De
nat. hom., 5 = SVF II, 418) fa fra elementi δραστικά (attivi) e
παθητικά (passivi).
92. Il colorito stoico del passo, a parte la contaminazione col
concetto di ἔρως δαίμων, sta nell’accenno alla funzione «unificante»
del fuoco.
93. È un riferimento a ERACLITO, 22 Β 30 DK (da PLUTARCO, De proc.
an., 5, 1014a); importante per l’interpretazione stoica di Eraclito.
94. Il passo di Clemente segue ad una testimonianza su Cleante (SVF
II, 502) ma non necessariamente riporta ancora teoria cleantea; cita
Arato (Phaenomena, vv. 22-24), poi torna ad una citazione dalla Stoa
che potrebbe esser cleantea nella sua origine ma ha colorito
abbastanza generico, passa poi ad una citazione di Empedocle (31 Β
38 DK). Anche questa citazione potrebbe provenire dall’opera di
Cleante; per l’importanza di Empedocle nella Stoa zenoniana e
cleantea cfr. parte I, nota. Si potrebbe pensare quindi che
nell’insieme il passo provenga da Cleante, anche se l’accenno
all’«etere» potrebbe far pensare a una modifica crisippea.
95. Per la concezione stoica delle figure gometriche cfr. anche
intr., nota 96. Il passo di Cleomede contiene, come elemento
specificamente stoico, la relazione stretta fra figura sferica e
tono, per cui questa è detta «percorsa» e «tenuta insieme da
tensione», τετονωμένη, giacché la difesa della sfericità del cosmo e
dei corpi cosmici non è di per sé tipicamente né esclusivamente
stoica. Nonostante alcune testimonianze dossografiche, la Stoa ha
conosciuto con Cleante la possibilità di supporre corpi celesti di
figura non sferica (cfr. parte II, nota 70).
96. Cfr anche parte IV, nota 355. BRÉHIER, Théorie des incorporels,
p. 5, interpretava questo passo sulla scorta di Simplicio come una
sorta di riduzione della teoria geometrica a teoria fisica;
interpretazione oggi oppugnata dal Dumont, in Les Stoïciens et leur
logique, pp. 127 segg., per il quale le figure geometriche nella
Stoa crisippea sono da considerarsi degli incorporei. La teoria di
una tensione interna ad esse sembra però contro questa ipotesi; la
τάσις (concetto affine a quello di τόνος) è propria delle entità
corporee (pur trattandosi di un tipo di τόνος non energetico).
97. Riferimento a più posizioni di tipo atomistico o aparatomistico,
fra cui quella di Eraclide Pontico (cfr. nota 262).
98. Analogamente anche PLUTARCO, De virt. mor., 12, 451b = SVF II,
460.
99. Da notarsi la contaminazione che Filone compie fra formulazioni
stoiche, ricordo platonico del Timeo (il concetto di «arte» nella
sua traslazione al costruttore divino) e fedeltà al racconto della
Genesi.
100. La sensazione è considerata già da Platone una sorta di
movimento del pensiero (Tim 43c; cfr. la definizione della
sensazione nelle Definizioni pseudoplatoniche, 414c). La etimologia
di sensazione (αἴσθησις) da εἰσθέω, «correre in», e la somiglianza
della parola con quella di εἴσθεσις sono però attestate per la prima
volta in Filone, anche se probabilmente Filone attinge a fonte della
tradizione platonica (si veda come egli dia l’etimologia per nota e
scontata).
101. È la teoria cleantea della τύπωσις, che in Filone si combina
con il ricordo del Teeteto platonico (194c-d, le impressioni
sull’anima come sulla cera).
102. È riferimento di una polemica del peripatetico Critolao contro
la Stoa; ARNIM, in nota ad loc., ritiene che sia formulazione
crisippea. Cfr. la discussione circa la fonte di Filone (se
dossografica, o se egli possa aver attinto a Critolao direttamente)
in WEHRLI, Sch. d. Anst. X, p. 65. La teoria della ἐκπύρωσις contro
la quale Critolao polemizza era peraltro già in crisi nella Stoa del
II secolo (cfr. parte V, nota 139).
103. In proposito TODD, Alex. Aphr. de mixtione, p. 59: questo passo
dossografico e sincretistico (per cui fr. anche SESTO, Pyrrh.
Hypot., III, 57-62; PLOTINO, Enn., II, 7, 1, 8-12) fraintende in
realtà Aristotele, secondo il quale elementi della mistione sono i
corpi e non le qualità (De gen. et corr. I, 327b 15-22).
104. Testo leggermente diverso in Arnim, Pohlenz, Cherniss, senza
che il significato cambi sostanzialmente (ἀποφάσκοντες, οὐ
φάσκοντες).
105. ἐπιόντι Cherniss. La teoria ha un riscontro in Alessandro, In
Arist. de an., p. 20, 10 segg. Bruns; SIMPLICIO, In Arist. Phys., p.
530, 19 segg. Diels.
106. La miscela di quattro fluidi usata nell’arte medica; cfr. il
papiro di Mellone e GALENO, De const. artis med., 6, Ι, p. 242 Kühn.
È noto come Epicuro usasse la parola in forma simbolica per le prime
quattro Massime Capitali, cura fondamentale dei mali dell’anima.
107. Leggermente diverso il testo oggi in TODD, ad loc.; ma
l’integrazione 〈λόγος〉 dello Apelt è accettata sia dall’Arnim sia
dal Todd. Non accettata invece l’integrazione dell’Arnim 〈χρῆται〉
(Todd: οἷς ὕλῃ τῷ πυρί) più oltre.
108. Per altri passi polemici (ALESSANDRO, Quaest., II, 12, p. 57
Bruns) cfr. ancora SVF II, 476.
109. A parte l’integrazione 〈διά〉 dell’Arnim, che mi sembra
plausibile, seguo per lo più il testo di Henry e Schwyzer.
110. Integr. Arnim, accolta dal Cherniss.
111. Integrazione del Dübner.
112. BRÉHIER, Théorie des incorporels, pp. 39-40, parla dei limiti
dei corpi come realtà incorporee. Ma non si tratta tanto della
fissazione di nuovi incorporei oltre quelli da Crisippo stabiliti
quanto della negazione che esistano veri e propri limiti dei corpi,
dal momento che questi si interpenetrano di continuo; cfr. PLUTARCO,
Comm. not., 1080e = SVF II, 487 (parte IV). Cfr. Ps. GALENO, Philos.
Hist., 23, Dox. Gr., p. 613, 1-2; «alcuni poi ritengono che i limiti
siano corpi», con probabile riferimento a Posidonio; in proposito
MANSFELD, «Mnemos.», 1978, p. 166, con richiamo alle superfici,
triangolari del Timeo platonico come limiti ultimi della realtà.
Mansfeld è propenso ad attribuire a Posidonio anche la teoria del
corpo come τριχῇ διαστατόν, che si contrappone a quella «energetica»
più tipicamente zenoniana (Intr., nota 131, e supra, nota 235).
113. Si tratta, ovviamente, della tradizione neo-pitagorica
platonizzante; di sapore platonizzante anche la definizione
uno-molteplice, che non è quindi di facile riferimento nell’ambito
della tradizione stoica.
114. Definizione analoga già in ARISTOTELE, Metaph. XI, 1069b 12. e
altrove.
115. Simplicio commenta ARISTOTELE, Phys., 265b 17, passo in cui
movimento vero e proprio si dice essere la traslazione, φορά. Cita
poi Democrito secondo il quale ogni movimento si riduce a
traslazione o spostamento di parti. È singolare dopo questo il
richiamo alla Stoa con terminologia che sembra piuttosto epicurea
(sono propri di Epicuro i λόγῳ θεωρητά e la contrapposizione di
questi, non avvertibili se non con la mente, ai grandi intervalli
spaziali; cfr. Epist. ad Herod., 59, 62 e altrove, con estensione di
queste espressioni agli spazi e intervalli del tempo).
116. Per Plotino cfr. Enn., VI, 1, 20, 1 segg.; di difficile
identificazione gli altri autori.
117. Per il movimento come atto imperfetto cfr. ARISTOTELE, Metaph.,
XI, 1066a 20-21 e altrove; criticato da PLOTINO, Enn., VI, 1, 16.
118. Arnim integra in questo punto: 〈è infatti il corpo che occupa
il luogo〉 sulla base di AEZIO, I, 12, 1.
119. Theog., vv. 116-117.
120. Analogo passo in Pyrrh. Hypot, III, 124; cfr. l’esame che di
questo (da lui giudicato preferibile) fa GOLDSCHMIDT, Système
stoïcien, p. 26 segg.
121. È teoria crisippea: cfr. SVF II, 503, da Stobeo
(parte IV).
122. Si potrebbe pensare che Simplicio con ἄλλο παρὰ τὰ σώματα
alludesse alla dottrina della χώρα nel Timeo, se non vi fosse nel
testo un precedente τινές che ci dice come egli alluda a una
particolare corrente nell’ambito del platonismo. Questa, tuttavia, è
di difficile identificazione.
123. Sono concetti che possono appartenere anche alla tradizione
platonica e alla secolare disputa dei platonici intorno alla
cosmogonia nell’interpretazione del Timeo. Più ancora schiettamente
platonico appare il brano seguente, SVF II, 512 (Quod deus sit
immut., 31, II, p. 63 Wendland).
124. Phys., IV, 219b 1-2; 220a 24-25; 220b 32 segg., 22m b 7.
125. SPEUSIPPO, fr. 53 Lang, 93 Ι. P., 60 Tarán. Nell’Accademia si
oscillava fra la priorità da darsi al concetto di κίνησις ο a quello
di ἀριθμός nella concezione del tempo; cfr. per questoJ. CALLAHAN,
Four views of Time, Cambridge M. 1948.
126. La teoria data qui come di «alcuni fra gli Stoici», non è di
Zenone né di Crisippo, ma neanche di Posidonio, che sappiamo essere
stato fedele alla definizione del tempo per mezzo del concetto di
διάστημα (fr. 98 Edelstein-Kidd, 270 Theiler, dall’epitome di Ario
Didimo). Aristotele già polemizza contro una teoria secondo cui il
tempo viene identificato con lo stesso universo (Phys. IV, 218a 33
segg.; cfr. SIMPLICIO, In Arist. Phys., in questo stesso luogo, p.
700, 16 segg. Diels, secondo il quale il bersaglio polemico è il
Timeo platonico). Si dovrebbe forse pensare a Stoici platonizzanti
(o a quegli ἑτερόδοξοι che ritenevano che nulla fosse incorporeo,
cfr. parte V, Appendice).
127. Plutarco poco più oltre (1081e) eccettua il solo Archedemo fra
gli Stoici; per la teoria di Archedemo e il suo avvicinarsi alla
teoria accademica, e senocratea, del tempo, cfr. parte V, nota 214.
128. È inserito in un contesto in cui parla del rapporto parte-tutto
secondo più filosofi (Epicuro, Eraclito, Enesidemo). È
testimonianza interesante sulla presenza, nella dottrina stoica, di
un termine medio fra identico e altro.
129. Testo lacunoso, già integrato dal Pohlenz con 〈ἀλλὰ πολλ’αὐτῶν
εἷvαι〉; seguo qui Cherniss, che introduce nel testo il termine assai
significativo di τινά (〈τούτων δὲ πολλά τιν’εἴναι〉).
130. Per l’integrazione 〈κόσμον οὐ〉 seguo Diels e oggi Mras (contro
il 〈θεὸν οὐ〉 dell’Arnim. Nella seconda integrazione Mras omette la
parola σύστημα.
131. Il soggetto della frase sono in realtà i Caldei, cui qui Filone
attribuisce concetti tipicamente stoici.
132. Tim., 31b.
133. Ὃ Arnim, contro lo oἳ del testo già espunto dal Bruns.
L’argomentazione è deduzione di Alessandro, di tipo
controversistico.
134. Cleomede, astronomo vissuto probabilmente nel II secolo d. C.,
è forse dipendente da Posidonio; così REHM, Real-Encycl. Χ, 1, 1921,
coll. 679-68, sulla scorta del resto di K. REINHARDT, Poseidonios,
p. 183 segg. (cfr. oggi THEILER, Poseidonios, Fragmente, II, p. 156
segg., e R. GOULET, Cléomède: Theorie élémentaire, Paris 1980,
Intr., pp. 9-11). Le argomentazioni qui riportate contengono
peraltro un patrimonio comunemente stoico e non tipicamente
medio-stoico.
135. Paragone generico fra stoici ed epicurei anche in De moribus
animae, 5, IV, p. 785 Kühn=SVF II, 544.
136. Per l’accostamento Epicuro-Asclepiade cfr. nota 265. La pietra
pomice con le sue caratteristiche particolari è studiata nei
Problemata pseudo-aristotelici piuttosto che da Aristotele stesso;
cfr. Probl., 886b 10; 939a 12; 9640 38.
137. Nel testo, che noi possediamo solo nella tradizione armena, il
«divinum sermonem» dell’Aucher traduce l’espressione filoniana di
Λόγος, resa nella Vulgata con «Verbum».
138. Lacuna nel testo. Seguo l’interpunzione del Maass, che dà al
brano significato diverso rispetto al testo accettato dall’Arnim.
139. Considera glossa il finale l’ultimo editore, Di Gregorio. Cfr.
l’etimologia di Ade da ἀειδής (= cupo, ove non si vede) e la sua
applicazione all’aria in Senocrate, da una testimonianza
dossografica (AEZIO, I, 7, 30 = fr. 15 Heinze, 213 L P.).
140. Si tralasciano qui i frr. II, 566-68 (da FILONE, Quaest. et
solut. in Genesim IV, 5 e I, 64; De Providentia, II, 62; opere a noi
note attraverso la tradizione armena) relativi alla collocazione
reciproca degli elementi; come molto spesso Filone, più che una
testimonianza precisa sulla Stoa, offre un saggio delle vaste
risonanze delle teorie stoiche nella filosofia della prima età
imperiale.
141. La distinzione (cfr. già per Zenone parte I, nota 150) è
ereditata da PLATONE, Polit., 269d, Tim., 34a segg., Leges, X, 893b
segg., e da ARISTOTELE, De caelo, I, 268b-269a e altrove.
142. La teoria del nutrimento degli astri si è posta prima della
Stoa già con Eraclito, cfr. infra, nota 477. Una particolare forma
di teoria del nutrimento degli astri sarebbe stata accettata anche
dal primo Aristotele, se è veramente attribuibile a questi il
contenuto di CICERONE, De natura deor., II, 15, 43 (= ARISTOTELE, De
philosophia, fr. 21 Walzer-Ross, 32 Untersteiner. Riteneva non
aristotelico ma posidoniano il motivo del nutrimento degli astri K.
REINHARDT, Poseidonios, I, p. 85; cfr. la discussione di questo
punto in PEASE, Cic. Nat. deor. II, pp. 639-641 e UNTERSTEINER,
Aristotele: Della filosofia, Roma, 1963, p. 228). Tuttavia, il passo
dell’opera aristotelica parla in realtà non di nutrimento terrestre,
ma di nutrimento etereo, una teoria molto diversa da quella che qui
appare la teoria stoica. Di nutrimento dell’anima (nutrimento
«incorporeo», come si conviene ad una realtà incorporea) parla
Senocrate secondo NEMESIO, De nat. bom., 30 (= fr. 66 Heinze,
203 I. P.); ed è noto il legame fra astri ed anime che viene
attribuito ad Aristotele nell’opera giovanile, sulla base della
stessa appartenenza alla sfera eterea. Il ricorso a Posidonio appare
non essenziale.
143. ERACLITO, 22 Β 60 DK.
144. L’accenno a Platone è una sommaria interpretazione del Timeo;
il Times (per la stessa attribuzione al pitagorico Timeo di Locri
della teoria contenuta nel dialogo) era ritenuto dialogo di
provenienza pitagorica. «Pitagora» è espressione assai generica
nella dossografia, e nome sotto il quale va tutta una vasta
letteratura platonico-pitagorizzante. Cfr. in proposito W. BURKERT,
Weisheit und Wissenschaft Studien zu Pythagoras, Philolaos, Platon,
Nürnberg 1962.
145. Per Anassimene cfr. 13 A 11 Diels-Kranz (il passo non sembra
invece compreso nella raccolta sotto il nome di Diogene Apolloniate,
cui pure si riferisce).
146. «Creatio», ritraduce dall’armeno Aucher (il passo in questione
appartiene ad una delle opere filoniane a noi giunte attraverso
tradizione armena). L’espressione si addice a Filone, che introduce
nel contesto stoicheggiante l’idea biblica di creazione.
147. Queste testimonianze sembrano parlare di un movimento
propulsivo dal centro verso la periferia, che può ricordare la
genesi dell’universo ordinato secondo il criterio del pesante e del
leggero (il pesante che si raccoglie al centro, il leggero che va
verso la periferia dell’universo, come in un vaglio: PLATONE, Tim.,
52e-53a). Vi può essere anche un riferimento alla costruzione
empirica del cerchio, col compasso a partire dal centro; il che
darebbe all’espressione una più precisa valenza geometrica.
Nell’insieme esse appaiono relativamente isolate nell’ambito della
Stoa.
148. Solo la fine del brano ha qualche riferimento alla teoria
stoica, mentre nell’insieme si tratta di problematica giudaica.
149. Per l’importanza di Eraclito per Zenone e Cleante cfr. Intr.,
note 50-51. Il passo di Clemente è un saggio di tardiva
assimilazione della teoria stoica a quella eraclitea.
150. «Fluxus» è termine dell’eraclitismo più che di Eraclito stesso;
Cratilo e gli eraclitei hanno accentuato il motivo dello scorrere e
del fluire contro il più schietto motivo della lotta proprio di
Eraclito stesso.
151. Per l’attribuzione della conflagrazione a Eraclito cfr. la
discussione in R. MONDOLFO-L. TARÀN, Eraclito: testimonianze e
imitazioni, Firenze, 1972, pp. CXXIV segg., CLXXX segg. (Mondolfo,
per suo conto, propendeva ad ammettere la liceità dell’attribuzione
della teoria ad Eraclito stesso; di contro altri critici, cfr.
MARCOVICH, Herakleitos, in Real-Encycl., Suppl. X, 1965, coll.
246-320, in part. 297 sg.). Certamente l’attribuzione è stata fatta
dagli Stoici, che hanno visto anche in questo caso Eraclito come un
loro diretto precursore.
152. Seguo la parola ἀνάστασις del Diels (Zeller proponeva con
qualche dubbio κατάστασις, «ordinamento»). È parola che ben si
adatta all’autore cristiano. cfr. oggi MANSFELD, «Vigiliae
Christianae», XXXVII, 1983, pp. 218-233.
153. Contro il tradito αἰτίας, seguo lo οὐσίας di Diels e Arnim.
154. È una singolare combinazione della teoria dell’anima-etere e
della teoria dell’etere-fuoco, la prima di provenienza accademica e
forse del giovane Aristotele, nel Della filosofia (cfr.
UNTERSTEINER, Aristotele, Della filosofia, p. 228 segg.); la seconda
stoica, e non originaria, ma dovuta a tramite stoico, negli stessi
brani che si ritengono costituire testimonianza sul Della
filosofia aristotelico (UNTERSTEINER, ivi, p. 230 per la discussione
di questo punto; cfr. anche pp. 260-261, a proposito
dell’espressione ciceroniana «caeli ardorem»).
155. Il lungo passo, di cui si dà qui una parte (cfr. anche SVF II,
569), è stato analizzato da F. Cumont a più riprese, con la
propensionea vederlo in connessione con un inno mitraico; per le
citazioni e la discussione cfr. M. POHLENZ, Stoa, II, pp. 45-47. Gli
elementi stoici derivano dal sincretismo tardo-antico; né mancano,
in virtù dello stesso sincretismo, elementi platonizzanti, come la
metafora dei cavalli e dell’auriga.
156. Precedentemente, «i saggi»; Pohlenz a ragione ricorda PLATONE,
Meno, 81 a segg., per la citazione del παλαιὸς λόγος, avente
carattere sacro e misterico.
157. È probabile riferimento all’idea del fuoco che si accende e si
spegne «secondo misura» (ERACLITO, 22 Β 30 DK).
158. Questa testimonianza di Achille non coincide con le altre sulla
Stoa, che identificano il vuoto extra-cosmico con l’infinito; cfr.
già ARNIM, ad loc. e oggi dubitativamente HAHM, Stoic Cosmology, p.
131, nota 42.
159. Giustino, come altri apologisti, assimila la teoria
eracliteo-stoica della distruzione per mezzo del fuoco alla credenza
tardo-giudaica del giudizio finale, che avverrà per mezzo del fuoco.
160. ERACLITO, 22 Β 67 DK.
161. È parola del linguaggio politico, traslata, usata
dagli Stoici per la διακόσμησις; la stessa traslazione, per indicare
un diverso tipo di equilibrio cosmico, anche in EPICURO, fr. 352 Us.
(CICERONE, Nat. deor. I, 19, 50; 39, 109; con la traduzione di
Cicerone «aequilibritas»).
162. Riferisce con qualche variazione ERACLITO, 22 8 30DK.
163. Cfr. anche In Arist. De Caelo, p. 293, 18 segg. Heiberg, 31 A
52 DK; non figura invece nella raccolta Diels-Kranz il presente
passo.
164. Cfr. già parte I, p. 163, e IV, p. 505 segg.; e HAHM, Stoic
Cosmology, p. 57 segg., p. 83 per la varietà di espressioni usate
dagli Stoici a descrizione del fenomeno della espansione e della
contrazione.
165. Importanza della metafora cosmobiologica in questo riferimento
filoniano; cfr. ancora HAHM, Stoic Cosmology, p. 61 segg., e
l’intero capitolo Cosmobiology, p. 136 segg.
166. Il testo, così com’è, porta una lacuna, indicata dal Cohn e da
altri editori; ma cfr. il tentativo di emendazione del Cumont
(ἐκτελειοῦται μείςν invece di ἐκ τελείων τῶν μερῶν) che renderebbe
la lacuna inesistente. Propende all’accettazione F. H. COLSON, Philo
IX, «Loeb Cl. Libr.», pp. 256-257.
167. Versione in chiave astrologica della conflagrazione, diversa
dalle altre; cfr. GOLDSCHMIDT, Syst. stoïc., p. 188.
168. È un correttivo, forse post-crisippeo, alla teoria della
ἐκπύρωσις; ma potrebbe essere stato lo stesso Crisippo ad attenuare
la rigidità della dottrina.
169. 〈κόσμοις〉 è aggiunto dall’Arnim. Per altre varianti cfr.
l’ἰδίως dell’Arnim contro lo ἰδίοις ποιοῖς accettato dal
Koetschau, Leipzig 1899, p. 282. Nel brano abbiamo l’eco della
convinzione, rimasta poi alungo un caposaldo del pensiero
occidentale e cristiano, della priorità della cultura ebraica e
della sua indipendenza rispetto alle altre. Arnim (SVF 629, 631)
aggiunge passi che si segnalano puramente per altri aspetti di
polemica interna al mondo cristiano (cfr. soprattutto il primo, che
attesta una posizione polemica di Girolamo nei confronti
dell’interpretazione origeniana).
170. In quanto, ovviamente, divinità naturalistiche, destinate a
rinascere con la rinascita di tutti i corpi cosmici; per
l’assimilazione delle divinità a eventi e corpi naturali cfr. supra,
Intr., p. 29 segg.
171. Non essenziale il μή integrato dall’Arnim.
172. Le parole ἤ ἄτομον vengono espunte dall’Arnim perché in
disaccordo col quadro stoicheggiante qui descritto.
173. Per la polemica condotta dagli epicurei contro questi motivi
cfr. supra, parte IV, p. 372 (in relazione al frammento di FILODEMO,
De pietate, 14, e le altre molto mutile testimonianze papiracee
dall’Arnim riportate in SVF II, 639-640); nonché, su piano etico, le
nuove testimonianze di Diogene di Enoanda contro una certa visione
dell’ordine cosmico, infra, nota 750.
174. È probabilmente forzatura plutarchea in funzione
polemica piuttosto che riferimento di una esegesi stoica. Cfr.
MANILIO, Astron., V, 734-735 e FILONE, De spec. leg., I, 13-14,
citati da CHERNISS, Plut. Mor., XIII, 2, ad loc.
175. Arnim considera una «lectoris nota» la frase, che De Lacy oggi
accetta invece nel testo.
176. Un σύν sembra da integrarsi, col dativo θεῷ (Arnim), o in
composizione col verbo, συνυπάρχουσα (Schwartz, De Lacy).
177. Il testo di Nemesio, che collega l’aggettivo ἀπαράβατος,
invalicabile, con laparola εἱρμός, sembra più preciso di quello di
Aezio. Da notarsi il gioco εἱρμός, (= recinto) - εἱμαρμένη
(destino).
178. De fato, fr. 2.
179. Da notarsi come l’autore cristiano consideri la filosofia
stoica materialistica solo nelle sue premesse fisiche, mentre
l’etica può dirsi indipendente rispetto a tali premesse e anzi
contraddittoria rispetto ad esse.
180. Il gioco di parole Ecate-ἓκαστον (= ciascuno) è già in Esiodo.
Moira è usato qui in generale nel senso di «sorte divina» (cfr.
PLATONE, Meno, 99e-100a, e altrove). Per questo passo, come per
altri degli Scholia in Hesiodum, si segue la più antica edizione del
Flach, che include glossemi non accettati dall’editor più recente
(Di Gregorio), ma interessanti per gli echi di dottrine stoiche.
181. Per la prima delle due aporie cfr. il sorite del mietitore (fr.
1253 Hülser): «se tu mieterai, o mieterai o non mieterai; non è
possibile che tu mieta e non mieta. Quindi non esiste alcun
possibile intermedio». L’argomentazione tuttavia, così com’è qui
presentata, sembra avvicinarsi di più all’argomento di Diodoro Crono
che non alla Stoa; si è visto sopra come Cleante e Crisippo
tenessero di fronte alla radicale negazione della possibilità da
parte di Diodoro una posizione mediatoria.
182. Il passo contrappone la teoria stoica del fato a quella
astrologica; cfr. per questo più oltre, in relazione a Cicerone
(Agostino dipende probabilmente da fonti romane).
183. Cfr. supra, parte II, SVF I, 551; e Intr., nota 55.
184. Difesa, da parte di Alessandro, dello aristotelico ἐνδεχόμενον
ἄλλως ἔχειν (la nozione del contingente).
185. È una interessante testimonianza circa il rifiuto dello
«straordinario» da parte degli Stoici. Per la condanna pliniana
della magia cfr. Nat. Hist., XXX, 1 segg.
186. La parola usata è qui φαντασία, «rappresentazione», ma in un
senso illusorio, di rappresentazione non vera; non risponde né
all’uso stoico né aquello aristotelico del termine. Per i versi
citati cfr. EURIPIDE, Phoenissae, 19 segg. (cfr. anche nota 377).
187. Per il «fatalismo» dei peripatetici cfr. anche CICERONE, De
fato, 17, 39 (Aristotele è posto fra coloro «qui censerent omnia
fato fieri»).
188. Per l’uso para-astrologico e divinatorio dei σημεῖα nella Stoa
cfr. LONG, Astrology. Arguments pro and contra, in Science and
Speculation (1982), pp. 165-192, in part. (gli astri stessi visti
come σημεῖα, non mai comunque come cause dei fatti umani).
189. È polemica antiepicurea, sulla base dell’interpretazione del
«clinamen» come «motus sine causa»; cfr. le argomentazioni di
Carneade contro Epicuro, CICERONE, De fato, 11, 23 segg.:
«declinationem, cuius praesertim causam reperire non possunt». Ma è
ovvio che la stessa polemica, in ambito stoico, assume una valenza
del tutto diversa, in un contesto causalistico e
provvidenzialistico.
190. Sono i «filosofi posteriori», s’intende a Platone, di cui si
parla poco sopra, 1015b; certamente gli Stoici, anche se il
frammento non compare in SVF; cfr. CHERNISS, Plut. Mor., XIII, 1, ad
loc., con richiamo ad Alessandro d’Afrodisia.
191. ποιοῦσαν Arnim, contro lo οὖσαν dei codici. Gli editori di
Plotino, a cominciare dal Bréhier, preferiscono attenendosi al testo
tradito ('l’identificandosi con il tutto').
192. Sono i filosofi che prendono a principio realtà plurime, come
gli atomi o gli elementi, i pluralisti, di cui Plotino si ripromette
di parlare.
193. Testo incerto; 〈αἴτια〉 Arnim. Alessandro difende qui il
concetto aristotelic: di αὐτόματον.
194. Anche qui il testo è incerto; seguo la ricostruzione
dell’Arnim, che segue del resto alcune proposte del Bruns. È una
distinzione fra l’ordine della successione e l’ordine della
causalità.
195. EURIPIDE, Phoenissae, vv. 18-20. È l’esempio canonico, come fa
vedere l’insieme di questi passi.
196. Per il λόγος ἀργός cfr. parte IV, nota 402.
197. Le forme latine, in Servio, sono «fatum condicionale» e «fatum
denuntiativum»; la prima traduce certamente ἐξ ὑποθέσεως; la
seconda, stando ai passi seguenti di Alessandro d’Afrodisia,
sembrerebbe dover tradurre, anche se non letteralmente, un ἐξ
ἀνάγκης ο ἀναγκαῖον. Per il contenuto del passo cfr. anche infra,
SVF II, 972, ove esso viene esposto più compiutamente.
198. Riportato dall’Arnim solo in parte, per ciò che si riferisce
alla frase οὐδὲν μάτην; ma Alessandro qui espone una teoria che è
anche aristotelica, anzi lo è in primo luogo, cfr. De caelo, I, 271a
33; II, 291b 14; De part. anim., II, 658a 9 ecc.
199. Da confrontarsi con le voci stoicheggianti di SUIDA, Lex., s.
ν. ἀδύνατα εἶναι (Ι, p. 56 Adler) = fr. 986 Hülser.
200. Per la distinzione aristotelica fra necessità come propria
dell’ordine naturale e necessità come violenza estrinseca cfr.
Metaph., VI, 1026b 28; Phys. IV. 215a 1; e altrove.
201. Un inessenziale ἀναγκαίως τὸ è espunto dall’Arnim.
202. È commento a Rhet. II, 1357a 34 segg., ove lo ἐπὶ τὸ πολύ è
indicato come una forma del contingente e non del necessario. Nel
testo sembra da espungersi un ἤγουν non coordinato col resto della
frase né con l’altro verbo ἀνῄρουν, «soppressero, han soppresso».
203. Per la τύχη come divinità cfr. G. HERZOG-HAUSER, Tyche,
Real-Encycl. VII, 2, 1943, coll. 1643-1689.
204. Per Anassagora e Democrito cfr. rispettivamente 59 A 66 e 68 A
70 DK. La testimonianza su Anassagora, in particolare, quadra assai
poco con altre secondo cui il filosofo sarebbe stato negatore delle
εἱμαρμένη, cfr. ad es. Alessandro, De fato, p. 165, 22 segg. Bruns;
in proposito D. LANZA, Anassagora: testimonianze e frammenti,
Firenze 1966, p. 125.
205. Anche qui ricorre l’accostamento fato/sorte, per cui cfr. già
nota 362. Servio commenta con la dottrina stoica le parole
virgiliane «fortuna omnipotens et ineluctabile fatum». Il modo di
intendere la dottrina stoica, come una affermazione della
compresenza di fato e sorte, ha certamente dell’eterodosso. Va
tuttavia ricordato che per gli Stoici gran parte della vita umana
ricade sotto il concetto di «causa oscura», con il quale essi
tentano di razionalizzare il concetto di τύχη.
206. Testo incerto. Un καὶ dei codici è modificato dall’Arnim in
καθ’ὀρμήν e invece espunto dal Thillet (Paris 1984).
207. Testo incerto e lacunoso, non integrato né dal Bruns né
dall’Arnim; Thillet propone un κατά τιν ἄλλην φύσιν, ma non denunzia
la lacuna.
208. Alessandro contrappone anche qui l’atto della deliberazione a
quello dell’assenso stoico che gli appare necessitato; appesantisce
la dottrina stoica dell’assenso, inoltre, il richiamo alla ὀρμή,
impulso, proprio di tutti gli esseri animali anche irragionevoli.
Cfr. Intr., p. 18.
209. È cioè solo una αιτία προκαταρκτική, incoativa; cfr. Intr.,
nota 99, per la teoria delle cause. Cicerone usa qui una perifrasi
per tradurre l’espressione («ratio aperit causam»).
210. Il passo non figura né in SVF né nella raccolta dello Hülser,
che pur se incentrata su problemi logici dedica molta attenzione al
problema del possibile e del necessarie, investendo il problema del
fato. È invece importante, sia perché contiene la più
esatta traduzione ciceroniana di αἰτία προκαταρκτική (=
«praecursionem quandam adhibent ad efficiendum»), sia perché sembra
ribadire l’interpretazione ciceroniana di Crisippo secondo cui
particolarmente importante è la causa incoativa nello svolgersi
degli eventi (quella causa, cioè, che permette una certa
autonomiabdel volere e lascia spazio al libero arbitrio). Per i
problemi di questa, che è certamente una esegesi della dottrina
crisippea, ma potrebbe trovare in quest’ultima una motivazione
oggettiva, cfr. quanto già parte IV, note 403, 413.
211. In base alla lezione προκαλουμένας del Kötschau (ma cfr. già
Arnim, ad loc.). Per questa difesa cristiana del libero arbitrio
costruita sulle nozioni aristoteliche di βούλευσις e προαίρεσις cfr.
anche il seguente fr. 989, da De oratione, p. 311, 16 segg.
Kötschau.
212. Il termine qui usato è quello di αὐτεξούσιον; lo troviamo
attribuito a Crisippo (ma anche a Zenone) da IPPOLITO, Refut., 21 =
SVF II, 975; e Diogeniano, nella sua polemica antistoica, parlerà di
αὐτεξουσιαστική δύναμις (EUSEBIO, Praep. ev., VI, 8, 36-38). Ma
forse la prima coniazione del termine (poi ampiamente diffuso)
potrebbe esser riportata a Crisippo stesso.
213. Per i tentativi crisippei di salvare la libertà del volere pur
nell’ambito delle sue premesse cfr. parte IV, note 403 segg.
214. L’Arnim dà per esteso un brano del quale solo la parte iniziale
e più generica può essere riportata alla Stoa antica come comune
matrice. Per il resto, che ha toni platonizzanti, cfr. fr. 364
Theiler (fra i frammenti di Posidonio).
215. L’ispirazione di Filone per il mondo come grande città può
essere crisippea in ultima istanza; cfr. Intr., p. 67 e nota 121.
216. ESIODO, Opera, v. 252.
217. Mem., I, 4, 8: per l’importanza di Senofonte nella filosofia
ellenistica v. quanto già citato supra.
218. Per la teoria democritea del vortice cfr. 68 A 67, Β 174, Β 167
Diels-Kranz; largamente nota è la teoria aristotelica che vede nella
φύσις una finalità intelligente, ma impersonale e «inconscia».
219. Si tralasciano le parole seguenti, μόνον τῶν αἱρετῶν ὑπάρχουσα
(«che sola sussiste fra le cose da scegliersi?»; cfr. Arnim in nota
ad loc.; laproposta ἀρετῶν, «fra le virtù», non rende il testo molto
più perspicuo).
220. L’uso di προλήψεις in questo senso fa pensare a Crisippo; cfr.
per questo Intr., nota 72.
221. Sesto (126-130) intercala un abbastanza lungo riferimento a
Pitagora, Empedocle e ai filosofi «italici», i quali avrebbero
basato il divieto di uccidere gli animali sulla dottrina dello
πνεῦμα che pervade il cosmo; argomento di fronte al quale gli Stoici
farebbero notare che lo πνεῦμα pervade anche il cosmo non animato o
non apparentemente tale. Sesto riporta versi di Empedocle (cfr. 31b
136 e 137 Diels-Kranz), ma la dottrina dello πνεῦμα in questo senso
difficilmente può ricondursi ai Pitagorici o a Empedocle; si tratta
di riferimenti passati attraverso interpretazione stoicheggiante.
222. Emendamento del Fabricius, θυτική per il λογική dei codici.
223. Sesto ha parlato precedentemente di una forza capace di
automovimento (δύναμις αὐτοκίνητος) che percorre tutto l’universo, e
l’ha indicata come una sorta di ψυχή. La terminologia è dunque
piuttosto platonizzante che stoica. Ciò non toglie che stoico, e
crisippeo, sia l’argomento sillogistico conclusivo.
224. Al posto di ὡς ἔφην ci si aspetterebbe un ὡς ἔφασαν, soggetto
essendo gli Stoici. E fuori luogo è l’attribuzione delle
metensomatosi a questi. Ma si tratta di una interpretazione
dossografica tardiva dell’autore bizantino, carica di elementi
impropri: cfr. l’assurdo «i Pitagorici o Peripatetici» (De haeres.,
5) o la presentazione dei platonici come assertori della comunanza
delle donne in generale (De haeres., 6). Cfr. Die Schriften des Joh.
ν. Damaskos, IV, Liber de haeresibus, ed. Β. Kotter, Berlin-New
York, 1981, pp. 21-22.
225. «Sensualis» è traduzione impropria, giacché νοερόν non è tanto
capacità di sentire o avvertire coi sensi, quanto di pensare in
generale.
226. La parola οὐσία è data qui da Clemente in due sensi diversi, di
cui il primo si avvicina all’uso aristotelico (κατ’οὐσίαν, secondo
l’essenza), il secondo è più tipicamente stoico (οὐσία = realtà e
realtà corporea, materiale).
227. Analogamente TAZIANO, Oratio ad Graecos, 3, p. 4, 1 segg.
Schwartz (= 6, 29 segg. Whittaker, Oxford, 1982), che parla di dio
(il dio degli stoici) che discende fin nelle fogne (per un
emendamento dello Schwartz cfr. parte I, nota 166) e nei vermi e in
coloro che compiono oscenità.
228. Le parole ὑπὸ βρίθους ἤ πάκους sono isolate nel testo e mal si
giustificano per quanto il BERNARDAKIS (Plutarchi Moralia, V,
ad loc.) ritenga il passo non corrotto né mutilo; cfr. al contrario
diverse proposte di emendazione (〈τὸ οὐδαμῶς μετέχον〉. Arnim;
〈ἀήττητον〉, Hubert-Pohlenz) o di espunzione (Cherniss-Helmbold).
Altri, come P. RAINGEARD (Le Περὶ τοῦ προσώπου de Plutarque, Paris,
1935, p. 14), pur senza modificare il testo, danno una traduzione «a
senso» («soumise à la pesanteur et à la matière»).
229. La maggior parte dei codici dà qui χρῶμα, colore; corretto in
χρῆμα da più editori (Arnim; Cherniss; conserva invece χρῶμα
Pohlenz; cfr. la traduzione del Raingeard, «devenant toute
couleur»).
230. Testo incerto: ποιεῖν Ideler e εἶναι Arnim, contro il ποιεῖ dei
codici. Diversamente oggi TODD, Alex.de mixtione, p. 140 (ποιάν, una
certa materia).
231. Αἰθέριον può sembrare qui parola platonica, ma si ricordi che
Crisippo recuperava alla Stoa la dottrina dell’etere: cfr. parte IV,
nota 114.
232. Origene usa l’espressione filoniana e cristiana (si pensi al
prologo del IV Evangelo) Λόγος τοῦ θεοῦ.
233. Cfr. anche Contra Celsum, III, 75, p. 266 segg. Kötschau, in
termini analoghi.
234. Odyss., IV, vv. 456-458.
235. Testimonianza ambigua: in realtà l’antropomorfismo è epicureo
piuttosto che stoico, e rimproverato appunto agli epicurei (cfr.
CICERONE, De nat. deor., I, 72 segg., e supra, nota 201). Il
principio vivente e senziente degli stoici non ha forma umana e a
fortiori neanche organi sensori.
236. VARRONE, Saturae Menippeae, fr. 583 Bücheler. È forse una
Menippea in cui si faceva caricatura della divinità stoica; cfr. C.
F. Russo, in Seneca, Divi Claudii Apocolocynthosis, Firenze 1948,
1965, ad loc.
237. Di incerta attribuzione, il passo non è accolto nella raccolta
di A. Körte, Metrodorea, Leipzig 1890.
238. È un singolare misto di elementi stoici e aristotelici, perché
in realtà più aristotelico che stoico è il motivo del «pensare» come
caratterizzante l’essenza divina.
239. L’idea del carattere inferiore e passivo dell’elemento femmineo
è già nei pitagorici (cfr. la contrapposizione ἄρρην-θῆλυ,
«maschio-femmina», in ARISTOTELE, Metaph., I, 986a 24) e in Platone
(Tim. 91b-c); avrà la sua prosecuzione nella biologia e
fisiologia aristotelica. Per il carattere particolarmente
naturalistico, in collegamento con la teoria degli elementi fisici,
che assume negli Stoici, cfr. anche note segg.
240. Nel latino Iuno si perde la relazione terminologica fra Era, la
dèa sposa di Zeus che i latini fecero poi corrispondere a Giunone, e
ἀήρ, «aria».
241. È una conferma della presenza di caratteri maschili e femminili
fra gli elementi naturali, in concomitanza con la loro associazione
a divinità del pantheon tradizionale.
242. Testo più ristretto nell’edizione del Di Gregorio, cfr. supra,
p. 559. Analogamente Cornuto, Graecae Theol. Compendium, 6, il quale
accetta l’articolazione dello πνεῦμα cosmico in facoltà identificate
ciascuna con una forma del divino.
243. Odyss., IV, v. 458. Sembra trattarsi di una discussione su
simboli religioso-naturalistici interna alla scuola stoica. Si
segue, per le ultime righe, il testo del Maass.
244. Cioè nell’Ade, come risulta dal contesto precedente. Potrebbe
riferirsi a quell’aspetto della teoria stoica secondo cui le anime
continuano a sussistere «separate» fino alla conflagrazione, cfr.
DIOGENE LAERZIO, VII, 157, e supra, parte IV, nota 383, per le
differenziazioni reseci dalla tradizione circa le posizioni di
Cleante e Crisippo; anche infra, nota 529. Per Epicuro cfr. Epist.
ad Herod., 65.
245. A questo lungo brano del De natura deorum l’Arnim fa
semplicemente un riferimento generico, riportando per esteso solo
quanto è citato esplicitamente col nome di Cleante (cfr. parte II,
nota 68). In realtà il brano è, e continua a rimanere, sub indice,
per la difficoltà di stabilire la sua autentica provenienza, e
quanto di ciò che vi si riferisce sia dovuto a rielaborazione
posidoniana. Esso è interrotto una volta (9, 24) con una citazione
di Cleante, per la quale cfr. SVF I, 513, e supra, loc. cit.; ma una
seconda volta (12, 32) con un richiamo a Platone. La citazione di
Cleante potrebbe essere mutuata da Posidonio; dopo REINHARDT (Kosmos
und Sympathie, p. 107, p. 130, 1, anche per Nat, deor. II, 40),
torna oggi a insistere su questa ipotesi, d’altronde ragionevole,
THEILER, Poseidonios: Fragmente, II, p. 258. Anche la citazione da
Platone (ammesso che la fonte di Cicerone sia unitaria) ci porta non
alla Stoa antica ma più probabilmente alla media Stoa (per altre
ipotesi possibili cfr. nota 409). Tuttavia la dottrina che qui
Cicerone riporta, anche se mutuata da fonte più recente, è per larga
parte attribuibile anche alla Stoa più antica; né sembra di vedere
fra questo brano e Nat. deor., III, 35-37 un contrasto tale da far
pensare ad una forma tipicamente «preposidoniana» là presente della
dottrina del calore (cfr. THEILER, II, p. 258).
246. Abbiamo qui una interruzione del discorso con citazione di
Platone. Essa potrebbe essere posidoniana o anche paneziana,
seguendo l’ipotesi invalsa fino agli studi del
REINHARDT o al POHLENZ (Die Stoa, II, p. 107) secondo
cui cfr. meglio più oltre le stesse citazioni presenti nel De natura
deorum riferentisi al De philosophia aristotelico indicherebbero
mediazione stoica. Per tutta la questione cfr. ancora parte II, nota
68, e nota 433.
247. È polemica antiepicurea; per la scarsa conoscenza di cose
altrui e la scarsa attenzione per le diverse posizioni filosofiche
rimproverata più volte agli epicurei cfr. Cicerone anche altrove,
Tusc. disp. II, 8, ad es.; per altri passi cfr. PEASE, Cic. Nat.
deor., ad. loc.
248. Abbiamo una curiosa, e in realtà difficilmente spiegabile,
contrapposizione fra «imagines» come proprio di Democrito e
«simulacra» come proprio di Epicuro. Ma per le forme degli dèi come
«imagines» o «visiones» nella filosofia di Epicuro cfr. altri passi
famosi (Nat. deor. I, 39, 109); «imagines» sono detti gli dèi di
Democrito anche in Nat. deor., I, 43, 120-121, e là Democrito ed
Epicuro sono accomunati nell’accusa di empietà.
249. Il riferimento può esser fatto a più passi di Epicuro; per la
sola Epistola ad Erodoto cfr. I, 39, per «corpi e vuoto»; 40 e 68
per gli «accidenti».
250. Per Crisippo cfr. parte IV (SV II, 413); anche Intr., p. 54,
per i problemi che suscita questa teoria del ciclo, certo mutuata
della Stoa a teorie presocratiche, tuttavia non del tutto quadrante
con la dottrina stoica dell’etere-fuoco, che implica un sensibile
contrasto col carattere dell’aria come elemento freddo e opaco.
251. Del lungo discorso ciceroniano, il Theiler, oggi l’autore che
ancora si mantiene più vicino all’esegesi reinhardtiana, inserisce
fra i frammenti di Posidonio II, 81-88 (= F 361), 93-94 (F 362),
95-97 (F 363). Quest’ultimo è il passo relativo al De philosophia
aristotelico (fr. 13 Ross) che già il Reinhardt riteneva proveniente
dal περὶ θεῶν posidoniano; per la ipotesi della provenienza stoica,
ma con incertezza circa Panezio (sulla scorta del Pohlenz) o
Posidonio, cfr. anche M. UNTERSTEINER, Aristotele, Della filosofia,
pp. 175-76, 181. Ha guadagnato favore più di recente la tesi di una
mediazione di Antioco di Ascalona (per l’influenza di questi su
Cicerone cfr. già BOYANCÉ Étude sur le Songe de Scipion, Paris
1936; oggi in più scritti, cfr. in particolare Sur l’exégèse
hellénistique du Phèdre, in Miscellanea Studi Alessandrini in
memoria di A. Rostagni, Torino 1963, pp. 45-63; Le stoïcisme à Rome,
in Actes VII congrès Budé, Paris 1964, pp. 218-255; Théologie
cosmique et théologie chrétienne, «Rev. Et. Gr.» LXXVII, 1964, pp.
558-567). Il tema della bellezza dell’universo in virtù del suo
ordine perfetto è probabilmente ripresa da Posidonio con
accentuazione di motivi non solo cleantei, ma, in questo caso,
crisippei: l’accostamento Crisippo-Posidonio a proposito del
carattere razionale e perfetto del cosmo fatto da Diogene Laerzio
(VII, 138), non è probabilmente affatto casuale. Anche qui siamo di
fronte a sviluppi che implicano non tanto contrapposizioni, quanto
riprese.
252. «Ornatus» ciceroniano rende in questo caso διακόσμησις, parola
tipicamente crisippea (SVF II, 527, da Stobeo, cfr. parte IV).
253. La polemica sembra rivolgersi in maniera puntuale contro gli
argomenti epicurei circa la irrazionalità del cosmo, del tipo di
quelli riportati da LUCREZIO, De ter. nat., II, 177 segg.; V, 1195
segg. (la teoria della «culpa naturae»). Per la derivazione delle
informazioni sull’Indo dalla letteratura del «viaggio di Alessandro»
(Onesicrito, Megastene, Nearco) cfr. PEASE, Cic. Nat. deor., ad loc.
(II, p. 889).
254. Cfr. già prima (Nat. deor. II, 52, 130) le arti considerate
come vere e proprie «aggiunte alla natura» («accedit… sollertia et
diligentia»); un tipo di considerazione che giustifica questo
passaggio.
255. · Segue una parte relativa alla anatomia e fisiologia umana per
la quale si deve probabilmente dar ragione al REINHARDT
(Poseidonios, p. 259 segg.) quanto a derivazione da fonte più tarda
e verosimilmenteda Posidonio. Anche se il Pease, negli amplissimi
riscontri (Cic. nat. deor., II, p. 896 segg.), ha potuto citare più
volte Aristotele, sembra innegabile la presenza della medicina
ellenistica, erofilea ed erasistratea (cfr. ad es. 138, «sanguis per
venas … Spiritus per arterias», teoria peripatetica elaborata dalla
medicina ellenistica)
256. Sono argomenti finalistici pre-stoici, dagli Stoici inseriti
nell’ambito della loro teoria della provvidenza. Cfr. SENOFONTE,
Memor., IV, 3, 8; ARISTOTELE, Polit., I, 1256b 15-22; e per altre
fonti e testimonianze PEASE, Cic. Nat. deor., II, p. 949, ad loc.
257. Al maiale non è riconosciuto un vero e proprio stato di «essere
animato»; cfr. per Cleante e Crisippo già parte II e parte IV (SVF
I, 516; II, 722).
258. Sono echi di teoria antiaristotelica e polemica contro
l’indifferenza del divino all’universo professata da Aristotele e
dal Peripato. Per una risposta peripatetica a queste argomentazioni
cfr. ALESSANDRO, Quaestiones, p. 68 Bruns (SVF II, 1118; infra, p.
969).
259. È teoria di origine platonica in Filone (e basti pensare al
Timeo) ma che ha già certi suoi antecedenti nella tradizione
atomistica (opere forse di Leucippo, ma poi riprese certo da
Democrito, sono il Grande cosmo e il Piccolo cosmo, o «ordinamento
cosmico», come forse meglio si dovrebbe tradurre διάκοσμος; cfr. 67b
1, la Diels-Kranz; DIOGENE LAERZIO, IX, 59-41 esplicitamente per
Democrito.
260. Un τοῦ ἀνθρώπου che segue viene espunto per lo più dagli
editori; così Arnim, così poi Stählin.
261. Per questa funzione di modello proprio del divino, che investe
anche lo stesso epicureismo cfr. PH. MERLAN, Aristoteles und Epikurs
müssige Götter, «Zeitschr. Philos. Forschung» XXI, 1967, pp.485-498.
262. ESIODO, fr. 218 Marckscheffel.
263. Cfr. per quest’opera H. DIELS, Philodem über die Götter Buch
III, «Abhandlungen d. Preuss. Akad. Wiss.» 1916; e ARRIGHETTI,
Epicuro2, fr. 184. Il sapiente epicureo, afferma Filodemo in
polemica contro gli Stoici, desidera avvicinarsi agli dèi fin quasi
a toccarli, ma non chiama questo «amicizia», perché il termine non
si addice a un rapporto diseguale come quello fra uomini e dèi. E
ciò nonostante Epist. ad Men., 124, ove si parla degli dèi che,
«apparentati alle proprie virtù», accolgono chi è simile a loro; per
l’interpretazione, assai controversa, del passo, rimando a EPICURO,
Opere2, a cura di M. ISNARDI PARENTE, p. 197.
264. Seguo la lettura, integrata, del Diels.
265. Anche qui seguo Diels, τα δὲ ῥ[ήματα ἀχ]ρήστως ecc.
266. Seguo il tradito πραγμάτων, accettato oggi dal Cherniss, ad
loc., contro la correzione γράμματων («nessuno dei loro scritti»),
di Wyttenbach, Arnim, Pohlenz.
267. Qui non, come più comunemente, σπερματικοὶ λόγοι, ma
σπερματικαὶ δυνάμεις; espressione ritenuta dal REINHARDT
(Poseidonios, I, p. 244; cfr. anche Kosmos und Sympathie, München
1926, pp. 55 segg., 107 segg.) strettamente posidoniana, in base
alla sua ipotesi di attribuzione al solo Posidonio di una vera e
propria teoria della «vis vitalis». L’attribuzione a Posidonio non è
tuttavia coibente.
268. È polemica antiepicurea; gli epicurei, che hanno negato
un’arte propria della natura, cioè una intelligenza della natura nel
suo operare, sono detti «nemici della natura» nel corso della
trattazione. Cfr. anche i frammenti seguenti, ove insiste la
polemica contro chi accentua il tema della irrazionalità della
natura. Da notarsi che Galeno accomuna nella polemica seguaci di
Epicuro erappresentanti della medicina asclepiadea; cfr. per questo
supra, nota 265.
269. Il traduttore armeno (dal quale deriva la traduzione latina
dell’Aucher) ha qui letto erroneamente καινόν al posto di κενόν; il
testo latino ha infatti «novena». Cfr. ARNIM, ad loc., sulla base di
una emendazione del Wendland.
270. Ritorna qui la teoria dell’alimento cosmico diffuso,
tipicamente stoica, ma (cfr. supra, nota 324) attestata in una forma
particolare anche per il Περὶ φιλοσοφίας aristotelico (e cfr.
Senocrate, da NEMESIO, De nat. hom., 3c = fr, 66 Heinze, 203 Isnardi
Parente), con una presa di posizione che sembrerebbe polemica nei
confronti di una teoria che comportasse l’idea di un «nutrimento»
particolare delle sostanze eteree e psichiche; teoria che potrebbe
essere stata, con le prime posizioni del giovane Aristotele, già
presente in qualche modo nell Accademia antica).
271. Sono gli ὁρατοὶ θεοί, dèi visibili, della tradizione
platonico-accademica. Tuttavia il resto del discorso di Filone è
ripresa stoica di teorie presocratiche, senza più nulla a che vedere
con la tradizione platonica.
272. Cfr. PLUTARCO, Quaest. plat., 1000f, per Crisippo; parte IV, e
SVF II, 1158.
273. Fa parte della polemica antistoica questo scherno circa la
presenza, nella filosofia stoica, di μικροδημιουργοί, o di dèi
«myrmecides», delle formiche. Per l’intreccio di queste polemiche
cfr. lntr., p. 68.
274. Allusione ai libri ermetici, attribuiti a Ermete Trismegisto, e
precisamente a Pimander, 1. I riferimenti di Lattanzio a Cicerone,
qui e in De opificio Dei, 1, 12, sono fatti esplicitamente a De nat.
deorum, II, e a De legibus, 1.
275. MENANDRO, III, fr. 724 Kock.
276. Integrazione Reiske; per altre cfr. CHERNISS, Plut. Mor., XIII,
2, ad loc.
277. Fr. 70 Van Straaten.
278. Parole seguenti («in base alla divinità dell’anima ecc.») sono
espunte dal Diels quale presumibile glossa.
279. L’ultima parte dell’argomentazione ciceroniana è probabilmente
un indebito rimprovero, se indirizzato a Crisippo e alla Stoa
antica: la teoria secondo cui nel fato è lasciato quel tanto di
indeterminazione («quaedam suspensa») perché possano inserirvisi le
preghiere degli uomini e la loro accettazione da parte delle
divinità è modifica apportata alla teoria del fato dalla Stoa
ulteriore. PEASE, Cic. nat deor., ad loc., richiama a ragione in
proposito SENECA, Naturales Quaestiones, II, 37, 2.
280. Cfr. I, 3, 5: Dicearco peripatetico dà legittimità solo a
«somnia» e «furor», alle visioni durante i sogni e al divino
entusiasmo degli oracoli (fr. 14 Wehrli, Schule d. Arist., I; cfr.
comment a p. 46, ove il Wehrli si dimostra scettico circa
l’autenticità della notizia, di carattere dossografico, poco
coerente alla psicologia dicearchea e da Cicerone dichiaratamente
desunta al peripatetico suo contemporaneo Cratippo). Che per gli
Stoici, nonostante l’affermazione qui fatta da Cicerone, le forme
veramente genuine di divinazione si basassero analogamente sui sogni
e gli oracoli, lo dice la stessa divisione dell’opera crisippea
sulla divinazione (un libro sui sogni, uno sugli oracoli: cfr. parte
IV, p. 418 segg.).
281. Per le origini assai lontane di questa distinzione (Odissea,
XX, 100-101, distinzione fra una divinazione «dall’interno» e una
«dall’esterno») cfr. PEASE, Cic, De divin., note a I, 11; II, 26, e
qui ad loc. Ma Cicerone la pone in bocca all’interlocutore stoico
Quinto, e forse la sua completa formulazione risale alla Stoa: nella
quale la «divina» o «naturalis praesensio» ha certo un’importanza
assai maggiore della «artificiosa praesensio», come si evince dallo
sviluppo dello stesso discorso di Quinto (cfr. De divin. I, 18, 37,
ove questi passa chiaramente dal discorso più debole e attaccabile,
quello sulla divinazione artificiale, a quello più valido, su sogni
e oracoli; cfr. anche SVF II, 1210, Oc, De divin. I, 52, 118).
282. Seguo «contagione» (Davies, Christ, Arnim); Pease accetta
«cognatione», dato da alcuni codici (altri dànno «cognitione»),
lezioni entrambe più deboli.
283. Integr. Kötschau. L’argomento di Origene qui non è
probabilmente solo polemica antistoica, ma desunto, tutto o in
parte, alla stessa Stoa; i cui seguaci dovevano accettare solo
secondariamente le proprietà divinatorie di certi «segni» di cui
erano strumento gli uccelli, facendo in pari tempo rilevare come
quegli animali non siano che veicolo passivo. Ciò è coerente alla
antropologia stoica e alla teoria dell’assoluta subordinazione
dell’animale ἄλογον a quell’essere superiore che è l’uomo, in vista
del quale esso esiste.
284. È il tema destinato ad essere ripreso nel plutarcheo De defectu
oraculorum.
285. Integrazione del Casaubonus in base ad AEZIO (III, 7, 2, Box.
Gr., p. 374), accettata dagli editori più recenti (Arnim, Long) e da
Gigante.
286. Fr. 11 Edelstein-Kidd = 263 Theiler; per i Meteorologiká cfr.
fr. 14 E.K. = 334 Th.
287. Integrazione del Menagius, in base a SUIDA, s.v. σεισμός;
anche questa per lo più accettata dagli editori recenti.
288. Fr. 12 E.K. = 264 Th. Posidonio appare il più vicino alla
spiegazione epicurea dei fenomeni sismici (cfr. Epist. ad Pyth.,
105).
289. Per la ἰσορροπία, equilibrio statico, come causa
dell’immobilità della terra, cfr. già PLATONE, Phaedo, 109a (contro
la più antica, ed ingenua, tesi dell’«appoggio», su aria ad esempio,
che garantirebbe l’immobilità). Cfr. supra, parte II, nota 149.
290. Integrazioni del CHERNISS (Plutarco’S Moralia XII, ad loc.) e
già parzialmente dell’Arnim. REINHARDT, Kosmos und Sympathie, pp.
173-177, ritiene che gli argomenti risalgano a Posidonio;
diversamente R. M. JONES, «Class. Philol.», XXVII, 1932, p. 122
segg., ripreso da CHERNISS, cit., p. 69 nota d.
291. Testimonianza dubbia su Talete, non raccolta da Diels e Kranz;
per la teoria della sfericità, e in favore dell’origine parmenidea,
cfr. R. MONDOLFO, La prima affermazione della sfericità della terra,
«Rend. Accad, Scienze e Lettere Bologna» 1938, poi in Momenti del
pensiero greco e cristiano, Napoli 1964, pp. 101-113, con postilla
pp. 113-117; e per bibliografia ulteriore e discussione G. REALE, in
ZELLER-MONDOLFO, La filosofia dei Greci, I, 3 (1967), pp. 268-269.
292. ERACLITO, 22 A 12 Diels-Kranz; ove sono raccolte varie
testimonianze dalla dossografia. PEARSON, Fragments, p. 262, ha
visto qui la fonte della teoria del fuoco conico cleanteo; per la
questione cfr. parteII, nota 61.
293. Sempre escludendo Cleante; del quale infatti la testimonianza
dossografica sottolinea «solo fra gli Stoici».
294. Cfr. III, p, 345 Thilo, circa le varie opinioni dei filosofi,
alcuni dei quali (gli Stoici sono fra questi) ritengono che il sole,
partendosi da noi, vada ad illuminare gli antipodi, mentre altri
«volunt illic tenebras esse perpetuas».
295. Nella sua origine è, questa, una teoria assai primitiva e
modellata sull’esempio della transumanza; cfr. ARISTOTELE, Meteor.,
II, 355a, e R. MONDOLFO, Alle origini della filosofia della cultura,
Bologna, 1956, p. 92. La teoria del nutrimento che la terra
offrirebbe al cielo è anch’essa teoria presocratica, che si può far
risalire ad Eraclito, al cui nome è associato quello di Ecateo di
Mileto; cfr. 22 A 11 Diels-Kranz (AEZIO, Plac., II, 17, 4 e 20, 16,
Dox. Gr., pp. 346e 351). Cfr. supra, nota 324.
296. È data da Aristotele (De caelo, I, 270b 24 (= 59A 73
Diels-Kranz) come etimologia di Anassagora (il testo aristotelico è
reso più chiaro da SIMPLICIO, In Arist. de caelo, p. 119, 2-8
Heiberg). Diversa l’etimologia platonica nel Cratilo, da «correre
sempre» (Crat., 410b, ἀεὶ θεῖν).
297. Cfr. di contro CICERONE, Nat. Deor., II, 40, 103 (supra, p.
960).
298. POSIDONIO, fr. 122 E.K. = 301 Th.
299. Integrazione del Wyttenbach, accettata dall’Arnim; diversamente
altri.
300. Cfr. EMPEDOCLE, 31 A 60 Diels-Kranz.
301. Riportato da Diels e Kranz per ANASSAGORA (59 A 77), ma non per
Talete. Nei due testi paralleli dei Doxographi Graeci su cui il
Diels ha ricostruito i Placita il nome di Talete figura in STOBEO
(Dox. Gr., p. 360b) e non nell’Epitome dello PSEUDO-PLUTARCO
(Dox. Gr., p. 360a) che ha «Platone, Aristotele, gli Stoici».
302. Non trova riscontro nei dialoghi; cfr. le allusioni generiche
di Platone (e dei dialoghi platonici spurii) alle eclissi: Phaedo,
99d; Axiochos, 370b; Timaeus Locrus, 97b.
303. È una critica del platonico Plutarco agli Stoici: in base
adottrina accademico-peripatetica, Plutarco ritiene che le parti
superiori del cosmo abbiano in sé il loro nutrimento, da un elemento
superiore e privilegiato, e siano autonome rispetto al cosmo
inferiore.
304. Gli astri come piramidi, in virtù del fuoco di cui sono
composti, è teoria platonico-pitagorica, o neopitagorica, derivata
da Timeo, 56a segg.; la teoria della struttura piramidale del fuoco
veniva più tardi attribuita a Pitagora stesso, cfr. Aezio, II, 6, 5,
Dox. Gr., p. 334 = 44 A 15 Diels-Kranz.
305. Cfr. anche De nat. deor., IIΙ, 16, 40: «tu conti le singole
stelle nel numero degli dèi» ecc. Non riportato dall’Arnim, forse
perché considerato troppo generico e riferito ad una credenza che va
oltre l’ambito della Stoa, il passo è stato posto in evidenza dal
BOUCHÉ-LECLERCQ, L’Astronomie grecque, Paris 1899, p. 31, nota 1, il
quale sottolinea che qui «stellas» sta per costellazioni (il
contesto parla infatti dell’attribuzione ad esse di figure umane o
ferine) e che si tratta quindi di divinizzazione delle costellazioni
e non solo dei singoli astri, fatto nuovo rispetto alla cultura del
mondo greco pre-ellenistico. Non vi è comunque alcuna sicurezza che
la teoria possa esser fatta risalire alla Stoa antica.
306. Cfr. ARISTOTELE, De philos., fr. 21 Ross, 32 Untersteiner, in
base a CICERONE, Nat. deor., II, 15, 42.
307. ERACLITO, 22 A 11 Diels-Kranz; cfr. nota 455. Anche qui
divergenze fra le fonti: se lo pseudo-Plutarco cita gli Stoici,
Stobeo cita Parmenide; cfr. Dox, Gr., p. 346 a e b.
308. Da confrontare con la meteorologia epicurea, Epist. ad Pyth.,
100, 8-9 per lo sfregamento delle nubi, 101 per il lampo.
309. La testimonianza può essere fuorviante: in realtà gli Stoici
pongono cielo e terra in relazione assai più stretta e vitale che
non altri, ad es. i platonici.
310. Testimonianza diversa da quella di Diogene Laerzio (cfr,
supra), che è invece assai più vicina a quella epicurea di Epist. ad
Pyth., 105.
311. Αὐτομάτως, che qui si rende in forma approssimativa (la parola
indica spontaneità non volontaria) con «spontaneamente», non si
addice agli Stoici, i quali negavano semplicemente nelle piante la
presenza di una vera e propria anima singola dotata di funzioni
anche elementarmente conoscitive, non certo la presenza di un
elemento psichico universale. Per Epicuro cfr, fr. 309 Us.
312. È anche troppo noto come la funzione dell’elemento vegetativo,
sia fondata da Aristotele in De an., II, 413b, 415a-b. Per Platone
cfr. Tim. 90a, ove l’uomo è detto una «pianta celeste», una pianta
che ha le sue radici in alto, verso il cielo, nella testa, a
differenza delle altre piante; il che sembra unificare sotto uno
stesso genere vegetale ed essere umano. Per altre testimonianze
dossografiche su Platone cfr. AEZIO, V, 26, 1, Dox. Gr., p. 438.
313. ῞Εξις è usato qui come tendenza naturale nel senso più generico
(cfr. per un senso assai più specifico, la qualità come ἓξις, supra,
nota 246.
314. Terminologia greca adattata al dettato biblico, per cui si
rende qui la dottrina filoniana di λόγος con «verbo». Essa è
tuttavia di derivazione stoica.
315. Altrove è attestato per Cleante e per Crisippo in relazione al
maiale, cfr. supra; ma per l’opinione di Crisippo sui pesci cfr.
supra, parte IV, p. 434.
316. Integr. Arnim, che sembra richiesta dalla struttura
sillogistica; è il «quinto tipo di non dimostrativo» crisippeo (cfr.
ARNIM, ad loc.)
317. Stoica è la seconda parte dell’argomentazione, con la
definizione di arte. Ma nell’insieme sembra testimonianza diretta a
rivolgere la dottrina degli Stoici contro le loro stesse premesse
(l’arte degli animali, e quindi l’arte stessa che è nella natura,
non può essere «collectio concordantium perceptorum», come l’arte
esplicata razionalmente dall’uomo). A meno che gli Stoici stessi non
avessero già formulato chiaramente tale distinzione, per prevenire
eventuali attacchi. Filone si vale di tutti questi motivi nella sua
polemica contro il nipote Tiberio Giulio Alessandro, autore di un De
sollertia animalium.
318. La definizione differisce sensibilmente da quella data da altri
autori come zenoniana (parte I, p. 179 segg.) che definisce lo
sperma come composto della parte umida dell’anima.
319. Segue un riferimento esplicito alla propria polemica contro il
De anima crisippeo, dal quale devono esser tratti questi argomenti.
320. Galeno identifica il θρεπτικόν aristotelico con lo ἐπιθυμητικόν
platonico; del tutto impropriamente, riferendosi l’uno ad una
distinzione di natura biofisiologica, l’altro ad una distinzione che
rimane sempre anche nella stessa «fisiologia» del Timeo di carattere
fondamentalmente etico (ragione/passioni).
321. Non solo la testimonianza di Aezio, ma anche i passi di Origene
che qui si citano di seguito sembrano indicare una funzione attiva
della donna nella generazione, il frammento dossografico con chiara
attribuzione agli Stoici. Tuttavia ciò è in contrasto con la
testimonianza di DIOGENE LAERZIO, VII, 159. Cfr. già DIELS, ad loc.
Potrebbe trattarsi di confusione con Epicuro, da CENSORINO, De die
nat, 5, 4, e AEZIO, V, 5, 1, Dox. Gr., p. 418 (fr. 330 Us.).
322. È un caso della συμπάθεια, teoria per la quale, non
necessariamente posidoniana, cfr. parte IV, nota 434. La
testimonianza dossografica di Aezio continua con la spiegazione
empedoclea, secondo cui le somiglianze anomale deriverebbero da
impressioni avute dalla donna (p. es. l’osservazione di immagini,
statue ecc.) durante la gravidanza; il che implica comunque una
funzione attiva della donna. Se la συμπάθεια διανοίας dovesse
riferirsi a casi del genere, occorrerebbe ammettere che almeno per
una parte degli Stoici la donna ha veramente funzione attiva nella
generazione.
323. Passo che già DIELS, Dox.Gr., p. 455, considerava interpolato e
corrotto; in esso sarebbe da restituire un ’Αριστοτέλης caduto. Cfr.
ERACLITO, 22 A 18 Diels-Kranz, e oggi MARCOVICH, Eraclito, pp.
380-381, che propone due integrazioni e una emendazione
(〈’Αριστοτέλης〉 δὲ περὶ τὴν πρώτην ἐβδομάδα 〈περὶ ἣν〉 ἔννοια κτλ.)
in base a Ps. GALENO, Philos. Hist., 127.
324. La spiegazione relativa al τόνος risale forse a Cleante. Cfr.
il fr. seg.
325. Πλάτων nei codici. Seguo la plausibile congettura del Diels,
Στράτων (Dox. Gr., p. 436, in nota; cfr. poi WEHRLI, Sch. d. Arist.
V, fr. 128).
326. Teste corrotto. Si segue la proposta del DIELS, Dox.Gr., p.
436, ἐπί τῆς μέθης, al posto di ἐπὶ τῆς γῆς. Che lo ἡγεμονικόν
sia μεσόφρυον cioè interciliare, non corrisponde a dottrina stoica.
Insoddisfacenti le congetture dell’Arnim, ad loc.
327. PARMENIDE, 28 A 46a Diels-Kranz.
328. Per il medico Ateneo cfr. supra, nota 257.
329. Per Aristotele cfr. De part. anim., II, 651a 8 segg., Probl.,
871b 12 segg., e simili.
330. 〈῎Ανευ〉 è integrazione dell’Arnim. Galeno insiste qui sulla
imprescindibilità della dottrina ippocratea, della quale, com’è
noto, egli ha tentato la piena conciliazione con Platone ed
Aristotele.
331. Integr. Arnim, accettata da Hicks e Long.
332. Per Zenone e Antipatro, cfr. POSIDONIO, fr. 139 E.K. = 390
Theiler.
333. Tertulliano approva relativamente la dottrina stoica, giacché
il suo intento è quello di sostenere che l’anima è «respiro di Dio»
(«adflatus», che egli distingue da «spiritus»). La distinzione fra
πνοή e πνεῦμα è già in FILONE, Leg. alleg. I, 42.
334. Qui, in realtà, il Pitagora della tradizione neopitagorica e
postplatonica, che dipende dal Timeo; Girolamo attinge a ricca
tradizione dossografica e unifica non a caso Pitagora coi
«platonici».
335. Cfr. anche SVF II, 781, per un altro passo di Galeno (De usu
partium, VI, 17, III, p. 496 Kühn) il quale peraltro non contiene di
stoico che la conclusione accennante al rapporto fra sangue (=
cuore) ed esalazione psichica, tutto il contesto vertendo su temi di
dottrina medica peripatetica.
336. Cfr. Epist. ad Herod., 63-65, e le testimonianze dossografiche
in proposito, frr. 314-315 Us., 158-159 Arr.2
337. Chi sono gli «Stoici» qui citati da Galeno? La forte
utilizzazione di Platone ed Aristotele (per il concetto di simmetria
nel corpo umano cfr. Tim., 82a; Metaph., VII, 1032b, Phys., III,
246b, e altrove), fino alla distinzione dello πνεῦμα dell’anima in
«materia e forma», potrebbe far pensare alla Stoa posidoniana. La
mescolanza di aria e fuoco come propria dell’elemento psichico
vitale è anche un tratto epicureo (Epist. ad Herod., 63).
338. ERACLITO, 22 Β 118 Diels-Kranz; per le corruzioni subite da
questo e analoghi passi cfr. KRANZ, Vorsokratiker11, ad loc.;
MARCOVICH, Eraclito (fr. 68), pp. 260 segg.; DIANO-SERRA, Eraclito.
I frammenti e le testimonianze, Milano 1980, pp. 157-158. La lezione
originaria sembra essere αὔη ψυχή, «l’anima secca», ma αὔη, parola
inusitata, è poi divenuta αὐγή «raggio».
339. Conclusione platonizzante antistoica del platonico cristiano
Calcidio.
340. «Elemento» per gli Stoici, per cui l’anima è fuoco; «composta
di elementi», Epicuro e gli epicurei. Ma potrebbe anche trattarsi di
polemica antistoica in entrambi i casi, se Alessandro ha in mente un
qualche contesto dossografico analogo a quello da cui desume Galeno
(cfr. supra, nota 518), oppure una qualche fase ulteriore della
teoria stoica.
341. Seguo la lezione di Henry e Schwyzer, sia nell’editto maior che
nell’edizione oxoniense, ἔτι εἰ cfr. invece Bréhier, ἐπὶ
σμικρότερον. Il 〈θάτερον〉 di alcune righe sopra è integrazione del
Vitringa accettata dal Bréhier, oggi non più da Henry e Schwyzer, ma
non del tutto superflua in realtà.
342. Per Enesidemo cfr. WASZINK, Tert. De anima, pp. 321-322; il
quale mette a confronto questa citazione con altra (De an., 9, 5)
ove si parla di Anassimene ed Enesidemo; e suppone che il
riferimento a Platone ivi contenuto possa essere confusa
reminiscenza di Ρhaedo, 70a.
343. Gli Stoici appoggiavano quindi su ragioni etimologiche, per
essi coibenti, la singolare teoria della «concrezione» dello pneuma
cosmico in anima a causa del raffreddamento. Cfr. analogamente
ORIGENE, De principiis, II, 8, nella traduzione di Rufino), p. 158
Kötschau.
344. C’è evidentemente nell’ultima parte una confusione di Ippolito;
non solo la metensomatosi è teoria pitagorico-platonica, ma anche
quella, ad essa collegata, secondo cui le anime sono di numero
finito (cfr. PLATONE, Resp., X, 611a 5).
345. Per le due diverse teorie, di Cleante e di Crisippo, cfr. nota
426: Ario Didimo qui si fonda soprattutto su quella crisippea.
346. EPICURO, Epist. ad Herod., 65, è alla base di questa
testimonianza come pure di quella di Giamblico presso STOBEO, Ecl.,
I, 43, p. 384 Wachsmuth (= fr. 337 Us.).
347. Un ἠλίου («del sole») è espunto dall’Arnim. Esso è stato
salvato dal Bury (Sextus E., II, ad loc., in Loeb Class. Libr.,
Cambridge M.-London 1936) con la traduzione «have quitted the sphere
of the sun» e il riferimento a CICERONE, Nat. deor., II, 15, 40; ma
qui Cicerone non parla delle anime nella sfera del sole ma della
natura di essere animato propria del sole. Si tratta probabilmente
di glossa.
348. L’idea che le anime sopravvivendo alla separazione dal corpo
continuino a sussistere sotto la forma di démoni può rientrare nella
demonologia crisippea, cfr. parte IV, nota 427. Tuttavia
difficilmente si accorda con la teoria demonologica di Crisippo
quale ci è presentata da PLUTARCO, Stoic. rep., 37, 1051c, con
l’idea che la sopravvivenza sia da ammettersi solo per le anime dei
sapienti; giacché là Plutarco ci parla di δαιμόνια φαῦλα, cioè con
ogni probabilità anime separate di uomini malvagi. Una forma
limitata di sopravvivenza può tuttavia supporsi in base ad AEZIO,
Plac., IV, 7, 3 (cfr. supra).
349. Ario Didimo; cfr. WASZINK, Tert. De anima, pp. 38-39, 547
segg.; secondo il Waszink Tertulliano desume comunque la discussione
di natura escatologica dal De anima di Sorano, medico e filosofo del
II secolo (cfr. per quest’ultimo KIND, Real-Encycl. III A 1, 1927,
coll. 1113-1130; e H. KARPP, Sorans Vier Bücher περὶ ψυχῆς und
Tertullians Schrift De anima, «Zeitschrift Neutestamentl.
Wissenschaft» XXXIII, 1934, pp. 31-47); Sorano a sua volta si
sarebbe basato sull’Epitome di Ario Didimo.
350. Cioé animali longevi; cfr. ORAZIO, Carmina, III, 17, v. 13,
'annosa cornix'.
351. Cfr. parte IV, nota 385; parte V, nota 203.
352. È la teoria crisippea dello ἠγεμονικόν πως ἔχον: per cui cfr.
Intr., p. 60.
353. L’Arnim attribuisce a Crisippo il contenuto di questo brano. In
esso abbiamo una distinzione assai precisa fra facoltà vere e
proprie, distinte secondo ἰδιότης ποιότητος, e semplici sensazioni,
distinte secondo διαφορότης σωμάτων, cioè in relazione agli organi.
Se quest’ultima distinzione sembra introdurre nella divisione il
concetto di πρός τί πως ἔχον, la prima sembra invece introdurre in
essa il concetto di qualità, ποιότης. È concetto che Crisippo,
sappiamo dalla sua polemica contro Aristone di Chio, applicava alle
virtù, ma non, a quanto ci risulti, alle facoltà dell’anima, che
abbiamo visto essere invece classificate da lui secondo la categoria
dei πὼς ἔχοντα. Questa distinzione fa pensare piuttosto ad una
correzione della teoria crisippea.
354. Cfr. in forma analoga anche TEODORETO, Graec. aff. cur., V, 20.
La divisione non si differenzia sostanzialmente da quella riferita
da Diogene Laerzio, se non per il fatto che sostituisce il termine
λογιστικόν, «facoltà raziocinante» o «raziocinio», con quella di
ἠγεμονικόν, «parte direttiva». Cfr. più oltre AEZIO, IV 21, Dox. Gr.
410-411 (SVF II, 836) che dice chiaramente come gli Stoici con
«parte direttiva» intendano il raziocinio, conciliando le due
diverse versioni.
355. Per l’interpretazione di questo non facile passo dossografico
(non riportato dall’Arnim) cfr. WASZINK, Tert. Dean., p. 210 segg.,
e le opinioni e discussioni ivi riferite. Per Platone la fonte di
Tertulliano (non Sorano stavolta, giacché Sorano è annoverato
oggettivamente fra gli altri pensatori) segue la divisione bipartita
e non tripartita in λογικόν e ἄλογον, raccolta dall’Accademia per il
suo carattere pitagorizzante (cfr. SENOCRATE, fr. 70 Heinze = 206
Isnardi Parente). Le tre parti dell’anima attribuite a Zenone
potrebbero essere la facoltà direttiva, quella vocale, quella
seminale; e le otto attribuite agli Stoici sono certo le otto della
divisione crisippea. Più difficile pronunciarsi per Aristotele
(ricordo, forse, dell’enumerazione di De anima, 414a 31?) e per
Panezio; il passo di Nemesio citato dal Waszink (De nat. hom., 15 =
fr. 86 Van Straaten) non sembra corrispondere, né lo sembra il più
analitico De nat. hom., 26 = fr. 87 Van Straaten. Per Soranoe per
Apollofane (cfr. per quest’ultimo supra, parte III, nota 113), son
questi gli unici dati relativi alla loro psicologia.
356. Φονᾶεν sembra la forma zenoniana, più inusitata e peculiare;
per il più comune φωνή cfr. soprattutto Diogene di Babilonia, supra,
parte V, note 11 segg.
357. Integrazione del Diels, accettata dall’Arnim. Il parallelo
sole/egemonico, con collocazione di questo nella parte più alta, ha
fatto pensare ad una possibile deviazione dal cardiocentrismo di un
autore che non potrebbe essere se non Cleante. Cfr. HIRZEL, Unters.
Cicero’s Philos. Schr., II, p. 152, e POHLENZ, Stoa, II p. 52.
358. Non è del tutto coerente con le altre testimonianze; né con
quella di PLUTARCO (De comm. not., 1084a) che ci parla un minuscolo
passaggio sito nel cuore, della grandezza di un punto, ove
risiederebbe l’egemonico per gli Stoici, né con quella di Galeno che
attribuisce a Crisippo la locazione dell’egemonico nel ventricolo
sinistro del cuore (parte IV, nota 166).
359. Il contesto dell’argomentazione è stoicheggiante, ma Alessandro
adopera le espressioni aristoteliche (πρακτικόν e θεωρητικόν,
θρεπτικόν-αἰσθητικόν-λογιστικόν). Per il relativo cardiocentrismo di
Aristotele cfr. De part. anim., III, 566b 22 segg., 672b 16 segg.,
ove peraltro si parla del cuore come «principio dell’anima
sensitiva, αἰσθητική», e De anima, I, 403a 31, 408b 8, III, 432b 31,
ove il cuore è sempre chiamato in causa solo in relazione alle
passioni. Il discorso di Alessandro è qui dunque di tipo stoico con
terminologia peripatetica.
360. Sembra di vedere una dipendenza di Filone piuttosto da teoria
cleantea che crisippea, per la presenza di concetti come quello di
τύπωσις e di τονικὴ δύναμις.
361. cfr. per queste testimonianze discordi già supra, nota 538; per
osservazioni in proposito CHERNISS, Plutarchs’ Mor., ΧΙII, 2, p.
855.
362. ERACLITO, 22 Β 60 Diels-Kranz.
363. Il contesto di Aezio parla di Aristotele e della teoria del
senso comune («commune sensorium» nella tradizione scolastica) come
fondamento e legame reciproco di tutte le sensazioni. Ma quanto egli
dice della κοινὴ αἴσθησις stoica fa pensare piutiosto al concetto di
συναίσθησις come «coscienza primitiva di sé». Cfr. parte II, nota
104 e parte IV, nota 449.
364. È data qui come stoica la teoria della localizzazione delle
sensazioni; ma il dossografo subito dopo (IV, 23, 2) la attribuisce
anche a Epicuro. Peri problemi che ha sollevato fra gli studiosi
questo passo (fr. 317 Us.), cfr. M. ISNARDI PARENTE, Epicuro2, p.
350, nota 2.
365. Si tralasciano qui i due frr. 855-856 che l’Arnim ha introdotto
nella raccolta probabilmente per il paragone fra il fluire dallo
ἠγεμονικόν e la luce solare; i due passi di Galeno, tuttavia,
parlano di rapporto fra cervello e nervi, teoria che esula
assolutamente dalla Stoa e ci riporta piuttosto alla medicina di
tradizione peripatetica (cfr. GRILLI, «Giorn. Ital. Filol.», XXIII,
1971, pp. 305-306). Per il concetto del «fluire dalla parte
direttiva» cfr. anche FILONE, De fuga et invent., 182, III, p. 149
Wendland (SVF II, 861).
366. Un inutile καὶ πυρός è stato espunto dall’Arnim.
367. È il principio empedocleo accettato dagli Stoici; cfr. 31Β 109
Diels-Kranz (ARISTOTELE, De an., I. 404b 10 segg.; Metaph., III,
1000b 5 segg.).
368. La teoria del «cono visivo» è attestata come crisippea (supra,
parte IV, nota 385); tuttavia è da notare che qui essa sembra
accompagnarsi con concezioni più tipicamente cleantee, quali quella
della τύπωσις e della τονικὴ δύναμις ο κίνησις. E il raggio visivo è
fuoco; e non a caso il fuoco è, come sappiamo, per Cleante, conico.
369. Non concorda con la testimonianza immediamente precedente, di
Alessandro di Afrodisia, secondo il quale la teoria della βακτηρία
(sorta di verga protendentesi fra il sensorio e l’oggetto) vale nel
caso del tatto, mentre diversamente è spiegata la vista.
370. Αἰθήρ sta qui chiaramente per ἀήρ, secondo un uso arcaizzante.
371. È polemica contro la confusione del φυτόν con gli ἔμψυχα, del
φυτικόν con lo ψυχικόν; gli Stoici ammettono il passaggio dall’uno
all’altro ordine (all’atto della nascita il feto passa dallo stato
vegetale a quello animale; cfr. supra, p. 1019 segg., e parte IV, p.
529 (SVF II, 806).
372. L’Arnim, ad loc., suppone che possa essere argomento paneziano
o difesa dell’immortalità dell’anima; ma si noti che per Panezio lo
σπερματικόν non è parte dell’anima ma fatto puramente naturale
(NEMESIO, De nat. hom., 15 = fr. 86 Van Straaten); né Panezio
sosteneva la teoria dell’immortalità dell’anima (cfr. CICERONE,
Tusc. disp., I, 32, 79 segg. = fr. 83 Van Straaten).
373. Per quanto la polemica non sia espressa, fa probabilmente parte
della polemica di Galeno contro Crisippo per cui cfr. parte IV, p.
398 segg.
ETICA
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, VII, 84-101 = SVF III, 1; 4;
39-40; 59; 102; 117
Dividono la trattazione etica della filosofia in una parte relativa
all’impulso, una relativa a ciò che è bene e ciò che è male, una
relativa alle passioni e alla virtù; e ancora altre circa il fine,
il primo valore, le azioni, i doveri, le esortazioni e le
dissuasioni. Questa sottodivisione è stata fatta dalle scuole di
Crisippo, Archedemo, Zenone di Tarso, Apollodoro, Diogene,
Antipatro, Posidonio; invece Zenone di Cizio e Cleante, forse in
quanto solo iniziatori della dottrina, fecero una distinzione più
elementare di essa, contentandosi di dividere il tutto in fisica ed
etica.
Dicono che il primo impulso che ha l’uomo sia quello di conservare
se stesso, poiché la natura fin dall’inizio lo fa apparentato a sé1,
come dice Crisippo nel libro I del Dei fini, dicendo che prima
realtà apparentata all’essere vivente è la sua sussistenza e l’esser
consci di questa: non sarebbe possibile che l’uomo si alienasse da
se stesso, né che la natura che lo ha prodotto lo avesse estraneo
oppure non lo avesse apparentato a sé. Non resta che ammettere che
essa, dopo avergli dato la sua sussistenza, lo abbia anche
apparentato a se stesso: così possono esser respinte da lui le cose
che gli recherebbero danno e ricercate quelle che gli sono
congeneri. Affermano che è un errore quello che dicono alcuni, che
cioè il primo impulso degli esseri viventi è verso il piacere2. Essi
invece sostengono che il piacere è qualcosa di prodottosi
ulteriormente, se pur così si può dire, quando la natura è arrivata
al compimento della sua ricerca di elementi che si confacciano alla
sua sussistenza; è allora che gli animali si allietano e le
piante lussureggiano. Nessuna differenza, essi dicono, fa la natura
fra piante e animali, dal momento che governa anche quelle senza
bisogno ch’esse siano dotate di impulso e sensazione, e che anche in
noi si verificano eventi simili a quelli della vita vegetale.
Poiché però agli animali è stata data per sovrappiù quell’impulso
muniti del quale essi tendono verso le cose loro congeneri, in
questi l’elemento naturale è governato per mezzo della facoltà
dell’impulso; e quanto agli esseri razionali, essendo stato dato
loro la ragione in vista di una direzione più perfetta, il vivere
secondo ragione diviene per essi il vivere rettamente secondo
natura: così la ragione diviene la forza che plasma metodicamente
l’impulso.
… In tal modo il fine si identifica col vivere secondo natura, vale
a dire secondo la propria e secondo quella universale, senza
compiere nulla di quanto ci vieta ordinariamente la legge universale
a tutti comune, che si identifica poi con la retta ragione che
percorre tutto il reale, e questa poi con Zeus, signore di questo
nostro universo ordinato. La stessa cosa sono la virtù e il buono
scorrere della vita che avviene quando si compia ogni azione in
armonia con il démone di ciascune secondo la volontà del signore
dell’universo3.
… Dicono che la virtù è una disposizione coerente; e che la virtù
deve essere compiuta di per se stessa, non per timore, o per
speranza, o per qualsiasi altro motivo estrinseco; in essa sta la
felicità, essendo l’anima fatta per una vita che sia tutta coerente
a se stessa. Ma l’essere vivente razionale si distoglie talvolta da
essa, o per la fiducia prestata a cose4 esterne, o perché sedotto
dalleparole di quelli che lo circondano, mentre al contrario la
natura di per sé offre punti di partenza corretti5.
In generale si può dire che la virtù sia una forma di perfezione in
tutte le cose. Per esempio così è quella di una statua; o quella non
teoretica, come per esempio la salute; o quella teoretica, per
esempio la saggezza. Dice infatti Ecatone nel libro I del Delle
virtù6 che scientifiche e teoretiche sono, fra di esse, quelle che
constano nella loro stessa realtà di ragionamenti teorici, come la
saggezza e la giustizia, mentre non teoretiche sono quelle si
considerano virtù per una sorta di estensione rispetto a quelle che
constano di ragionamenti (per esempio la salute, la forza). Alla
temperanza, che è una virtù teoretica, consegue per una sorta di
estensione la salute allo stesso modo che la forza si aggiunge alla
buona costruzione architettonica di una volta. Chiamano non
teoretiche le virtù che non implicano assenso, ma si verificano
anche presso gli stolti, come la salute o il coraggio… Che essa,
dico la virtù, sia insegnabile, lo dicono Crisippo nel primo libro
del Del fine, e Cleante, e Posidonio nei Discorsi esortatori7 ed
Ecatone8; e che sia insegnabile lo dimostra il fatto che da cattivi
si diventa buoni.
… Delle virtù alcune sono prime nell’ordine ed altre sono ordinate a
queste. Prime sono la saggezza, il valore, la giustizia, la
temperanza; e loro specie sono poi la liberalità, la continenza, la
costanza, la perspicacia, il buon consiglio. La saggezza è scienza
del bene e del male e di ciò che non è né bene né male; il valore è
scienza di ciò che bisogna scegliere e di ciò da cui bisogna
guardarsi, e di ciò che non è né l’uno né l’altro; la giustizia…9;
la liberalità è la scienza 〈o〉 l’atteggiamento che pone sia stolti
che saggi al di sopra dei comuni accidenti della vita; la continenza
è disposizione invincibile relativa alle cose che sono secondo retta
ragione, o atteggiamento inflessibile rispetto ai piaceri; la
costanza è scienza o atteggiamento relativo a ciò in cui occorre
persistere oppure no, e anche a ciò in cui non vige né l’una cosa né
l’altra; la perspicacia è la scienza del saper trovare il
conveniente in base alle circostanze; il buon consiglio è la
capacità di comprendere quali cose si debbano fare, e come, per
agire utilmente.
Analogamente, si può dire che anche fra i vizi ce ne sono alcuni che
sono primari e altri subordinati a questi: fra i primi sono la
stoltezza, la viltà, l’ingiustizia, la sfrenatezza, fra quelli
subordinati l’intemperanza, la scarsa perspicuità, il cattivo
consiglio. I vizi sono forme di ignoranza, così come le virtù lo
sono di scienza.
In generale bene si può dire ciò da cui deriva un utile;
propriamente esso si identifica o non si differenzia dall’utilità.
Perciò la virtù in se stessa e il bene che ne partecipa si
definiscono in triplice maniera: il bene da cui deriva 〈l’utilità,
quello secondo cui si verifica〉10 — per esempio l’azione
secondo virtù — e quello da cui il bene è compiuto, come per esempio
il saggio che partecipa della virtù. Ma essi dànno anche un’altra
definizione del bene in termini più specifici: «la perfezione
secondo natura di ciò ch’è razionale in quanto razionale». Tale è la
virtù, sì che chi ne partecipa e compie azioni virtuose e si pone
fra i saggi. Dalla virtù nascono in sovrappiù la gioia, la serenità
e altri stati d’animo consimili. Allo stesso modo, se vizi sono la
stoltezza, la viltà, l’ingiustizia e simili, chi ne partecipa e
compie azioni viziose si pone fra gli stolti, e stati d’animo che ne
derivano in sovrappiù sono il malanimo, la tristezza e simili.
Dei beni gli uni riguardano l’anima, altri le cose esteriori, altri
ancora né l’anima né le cose esteriori. I beni che riguardano
l’anima sono le virtù e le azioni virtuose; beni esterni sono per
esempio l’avere una buona patria o un buon amico ed essere felici in
virtù di ciò. Ugualmente si può dire dei mali: essi riguardano
alcuni l’anima, altri le cose esterne, e i primi sono i vizi e le
azioni viziose, gli altri cose come avere una patria o un amico che
siano vili e da poco e l’infelicità che da ciò deriva. L’esser
stolto e infelice nei riguardi di se stesso però non è un male né
riguardante l’anima né riguardante le cose esterne.
Dei beni, alcuni riguardano il fine e gli altri sono efficienti, e
altri ancora non appartengono a nessuno di questi due tipi. Sono
beni efficienti, per esempio, avere un amico e trarre da ciò dei
vantaggi; mentre sono beni relativi al fine cose come il coraggio,
la saggezza, la libertà, il godimento, la serenità, e ogni azione
virtuosa. 〈Le virtù〉11 sono beni insieme relativi al fine ed
efficienti. In quanto producono la felicità sono beni efficienti; in
quanto la attuano nella sua pienezza, sì da diventarne addirittura
parti, sono beni relativi al fine. Anche dei mali analogamente si
può dire che sono alcuni relativi al fine, altri efficienti, altri
ancora né l’una cosa né l’altra. Sono mali efficienti l’avere un
nemico e i danni che da ciò derivano; sono mali relativi al fine lo
sbigottimento, la meschinità, il servilismo, la tristezza, il
malanimo, l’afflizione e tutte le azioni viziose. I vizi12 sono mali
efficienti e relativi al fine, giacché in quanto producono
infelicità sono efficienti, in quanto la attuano nella sua pienezza
fino a divenirne parti sono relativi al fine.
E inoltre dei beni che riguardano l’anima alcuni sono atteggiamenti
e altri disposizioni, altri né l’una né l’altra cosa. Disposizioni
sono le virtù, atteggiamenti sono le occupazioni (ἐπιτηδεύματα); le
azioni poi non sono né disposizione né atteggiamenti. In generale si
può dire che fra i beni sono di genere misto beni quali l’aver buoni
figli o l’aver una felice vecchiaia, mentre la scienza è un bene
semplice. E le virtù sono beni che sono sempre permanenti mentre vi
sono beni che non lo sono, come per esempio la gioia, oppure l’atto
del passeggiare.
Ogni bene è giovevole, doveroso, fruttuoso, utile, onesto, bello,
utile, da scegliersi, giusto. È giovevole perché si reca eventi
dai quali siamo beneficati; doveroso perché ci fa attenere a ciò che
è dovuto; fruttuoso perché ripaga ciò che spendiamo per esso, sì che
ciò che esso ci dà supera in vantaggio la spesa; utile perché ci
offre l’utilità del vantaggio; onesto perché attua un’utilità
lodevole; bello perché si comporta in maniera proporzionata rispetto
all’utilità che gli è propria13; utile perché è tale da recare
utilità; da scegliersi perché è tale che è ragionevole sceglierlo;
giusto perché è corrispondente alla legge a produttore di concordia.
Dicono che il bene perfetto è anche bello perché racchiude in sé
tutti i numeri che sono richiesti dalla natura14; o anche perché è
dotato di proporzione perfetta. Quattro sono le specie del bello:
giustizia, valore, buon ordine, scienza; in queste quattro specie
infatti sta raccolta tutta l’effettuazione delle azioni decorose.
Analogamente anche del brutto vi sono quattro specie: l’ingiustizia,
la viltà, il disordine, la stoltezza. Il bello si definisce
univocamente come quello che rende lodevoli coloro che lo
possiedono, oppure come bene degno di lode; ma in altra forma si può
anche definire come l’esser ben disposto da natura a compiere la
propria opera, o ancora in altro modo come ciò che adorna, nel senso
in cui diciamo che solo il sapiente è buono e bello.
Dicono che solo il bello è anche buono; così Ecatone nel terzo libro
del Sui beni15 e Crisippo nei libri Del bello; e questo è la virtù e
ciò che partecipa della virtù, il che equivale al dire che ogni bene
è anche bello e dare ugual forza al bello e al bene, in quanto
uguale ad esso. Infatti, se vi è il bene, vi è anche il bello: ma il
bello c’è, quindi deve esservi anche il bene. Sembra loro che tutti
i beni siano uguali, ed ogni bene sia da scegliersi al massimo
grado, e non sia suscettibile né di accrescimento né di diminuzione.
Le realtà si dividono poi in beni, mali, indifferenti.
STOBEO, Ecl., II, 7, 3b, II, p. 46 Wachsmuth = SVF III, 2
Si dà fra gli Stoici questa definizione: «il fine è ciò in vista di
cui vengono compiute tutte le azioni che si compiono doverosamente;
esso poi non si attua in vista di altro da sé». Oppure: «è ciò in
vista di cui ha il suo riferimento tutto ciò che nella vita si
compie doverosamente, mentre esso non fa riferimento ad altro».
STOBEO, Ecl., II, 7, 6b, p. 76, 16 segg. Wachsmuth = SVF III, 3
Il fine vien definito in tre modi diversi da parte dei seguaci di
questa setta: si dice «bene finale» nell’uso più appropriato
verbalmente, per esempio, quando essi dicono che fine (τέλος) è la
coerenza; ma chiamano τέλος anche quello che in verità è lo σκοπός,
come quando, per inferenza in base al predicato affine, dicono che
tale è la vita secondo coerenza; in un terzo significato, poi,
chiamano fine (τέλος) quello che è il limite estremo dei
desiderabili, al quale tutto il resto viene rapportato16.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, V, 14, 95, 1, p. 388 Stählin = SVF
III, 6
Da ciò gli Stoici sono stati indotti a dire che il fine della
filosofia è il vivere coerentemente a natura.
FILONE ALESSANDRINO, De plantat. Noe, 49, II, p. 143, 20 Wendland =
SVF III, 7
Il vivere da forti17 nella coerenza a natura è stato detto dai primi
fine della felicità.
FILONE ALESSANDRINO, De migrat. Abr., 128, II, p. 293, 4 Wendland =
SVF III, 8
Questo è quel fine celebrato dai migliori fra i filosofi, il vivere
coerentemente a natura.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 19, 101, 1, p. 168 Stählin =
SVF III, 9
Da ciò gli Stoici trassero il loro dogma che il fine è vivere
coerentemente.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 7, 23 = SVF III, 11
E così come si sono state date le membra in modo tale che è chiaro
che ciò è avvenuto in vista di un certo modo di vivere, così anche
quell’inclinazione dell’anima che i Greci chiamano ορμή ci è stata
data non in vista di un genere di vita qualsiasi, ma di uno
determinato, vale a dire la ragione e la perfezione di essa. Così
come all’attore si affida una certa parte da recitare, e non certo
una qualsiasi, e al danzatore non movimenti a caso, ma un preciso
modo di muoversi, anche la nostra vita va condotta secondo un certo
metodo e non in modo qualsiasi: in quel modo cioè ch’è doveroso e
conveniente. Non riteniamo infatti che la sapienza sia simile
all’arte del nocchiero o a quella del medico, ma piuttosto alla
recitazione o alla danza; essa infatti è fatta in modo da esaurirsi
in se stessa e di non tendere come risultato a qualcosa di
esterno18. Tuttavia c’è una divergenza fra queste arti e la
sapienza, poiché in queste vi sono procedimenti corretti, ma non
tali da contenere in sé la totalità dell’arte; mentre quelle azioni
che essi chiamano … azioni rette contengono in sé tutte le forme
della virtù. La sapienza è la sola ad essere tutta rivolta in se
stessa… La sapienza comprende in sé la magnanimità e la giustizia, e
quell’atteggiamento per cui l’uomo si considera al di sopra degli
eventi.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., V, 6, p. 450 Müller = SVF III,
12
Non trovando ciò sufficiente, Posidonio19 attacca in maniera assai
aperta e violenta Crisippo e la sua scuola accusandoli di non aver
rettamente postulato il fine. Il suo discorso è questo: «Trascurando
ciò, alcuni affermano che il fine è il vivere coerentemente, in
ordine a tutto ciò che è possibile fare in vista dei beni che sono
primi secondo natura; e facendo ciò è come se ponessero per fine il
piacere o l’assenza di dolore o qualcos’altro del genere. In questa
definizione vi è qualcosa che rivela contraddizione, ma nulla che
abbia rapporto con il bello o con la felicità. Vi è qualcosa che
consegue di necessità al fine, ma non che si identifica col fine.
Tuttavia, se questo sia compreso rettamente, è possibile valersi di
un discorso di questo tipo per troncare le aporie che avanzano
insidiosamente i sofisti; non tuttavia con definizioni come 'vivere
secondo l’esperienza delle cose che si verificano secondo natura',
il che equivale a dire 'vivere coerentemente'; in quanto ciò, non
giustamente, tenderebbe solo al conseguimento di qualcosa che
appartiene all’ordine degli indifferenti».
CICERONE, De fin. bon, et mal., IV, 6, 14 = SVF III, 13
Avendo già i filosofi precedenti, e fra questi nella maniera più
chiara Polemone20, affermato che il sommo bene consiste nel vivere
secondo natura, gli Stoici precisano che con questi tre termini si
possono intendere tre cose; «vivere valendosi della conoscenza di
quelle cose che avvengono secondo natura»; questo, dicono, è il fine
secondo Zenone, che spiega ciò che tu hai detto, «vivere
concordemente rispetto alla natura»; oppure in un secondo
significato che equivale a dire: «vivere osservando i doveri medii o
la maggior parte di essi» (questo secondo significato, così
enunciato, differisce dal precedente: infatti quel primo significato
si riferisce all’azione retta, che essi chiamano κατόρθωμα, e
compete al solo sapiente, mentre questo secondo è proprio di ogni
dovere anche semplicemente al suo stadio iniziale e non giunto alla
sua perfezione, cosa che può verificarsi anche in alcuni stolti); il
terzo significato infine è: «vivere godendo di tutte le cose, o
delle principali, che sono secondo natura»; e questo non è del tutto
dipendente dalla nostra azione, ma è il risultato di un incontro fra
quel genere di vita che si vale della virtù e di quelle cose che
sono secondo natura ma non si trovano in nostro potere. Ma questo
sommo bene, cui allude il terzo significato, e quella vita che si
conduce secondo il sommo bene, poiché è ad essa congiunta la virtù,
si trova nel solo sapiente; e questo fine ultimo dei beni, come è
stato scritto dagli stessi Stoici, è stato istituito da Aristotele e
da Senocrate21.
CICERONE, De fin. hon. et mal., II, 11, 34 = SVF III, 14
A tutte le cose che ho finora dette conseguono altrettante
concezioni del fine dei beni: per Aristippo il piacere puro e
semplice, per gli Stoici l’accordo con la natura, che intendono
consistere nel vivere secondo virtù, cioè decorosamente; e ne dànno
tale spiegazione: vivere con la scienza di quelle cose che avvengono
secondo natura, scegliendo cioè quelle che sono secondo natura e
rifiutando quelle che sono contro22.
STOBEO, Eclog., II, 7, 6e, p. 77, 16 segg. Wachsmuth = SVF III, 16
Dicono che esser felici è il fine in vista di cui si compie ogni
altra cosa, mentre esso non è in vista di altro: e ciò consiste nel
vivere secondo virtù, cioè nel vivere coerentemente o, il che è lo
stesso, coerentemente a natura23… Così Crisippo e tutti i suoi
seguaci, secondo i quali la felicità non è altra cosa dalla vita
felice, pur precisando poi che la felicità è lo scopo ma il fine è
raggiungere la felicità, ossia l’esser felici. È chiaro da
tutto questo che hanno per loro lo stesso valore formule come
«vivere secondo natura», «vivere decorosamente», o formule come «il
bello e buono», o «la virtù e ciò che partecipa di virtù»; e che
ogni bene è anche bello e decoroso, come ogni male è anche brutto e
turpe; ragion per cui si può dire in generale che il fine stoico
equivale al vivere secondo virtù.
MICHELE DI EFESO, In Arist. Eth. Nicom., p. 598, 20 segg 599, 6
segg. Heylbut = SVF III, 17
Che poi in base all’opinione degli altri filosofi, gli Epicurei e
ancora successivamente gli Stoici, si dovrebbe concedere la felicità
anche agli animali privi di ragione … lo si dovrebbe dedurre da
questi argomenti. Se il vivere secondo natura per gli Stoici è
vivere bene, e sia per essi sia per gli Epicurei questo si
identifica col godere della felicità, ne consegue che vivere secondo
natura equivale a godere della felicità. Ma il vivere secondo natura
è proprio anche degli animali privi di ragione, dall’inizio alla
fine della vita: è dunque ad essi possibile il godere della
felicità… Ecco che poi per gli Stoici godere della felicità è
definibile come il limite estremo del desiderio (ὄρεξις) secondo
natura, quello cioè in cui la natura ha il suo fine supremo, giunta
al quale nulla più oltre desidera, se non di possedere stabilmente
il fine che le è proprio e non perderlo. Ma questo è pertinente
anche agli animali privi della ragione, e dunque anche questi
sarebbero partecipi della felicità24.
CICERONE, De finibus bon. et mal., III, 6, 22 = SVF III, 18
Ma prima di tutto va eliminato un possibile errore, che cioè non si
pensi che da ciò consegua che il fine della vita sia duplice. Così
come, se uno si sia proposto di colpire un qualche bersaglio con
un’asta o con una freccia, è per lui il sommo bene il fare tutto
quanto sia in sua possibilità per colpire il segno: a similitudine
di questi, il fare tutto ciò che si può per raggiungere lo scopo e
per raggiungere quanto ci si è proposti vale per noi come quel
termine ultimo che noi diciamo il sommo bene nella vita: che lo si
raggiunga si può considerare desiderabile, non lo si può
pretendere25.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaestiones, II, 16, p. 61, 1 segg.
Bruns = SVF III, 19
Se si dicesse che il fine delle arti congetturali consiste nel fare
tutto ciò che sta in loro per raggiungere il fine ch’è loro proprio,
com’è che esse non raggiungono il fine allo stesso modo che le
altre, non congetturali? È infatti in questo che questi due tipi di
arti si differenziano, nel modo di conseguire il loro fine. Se si
ritiene che il fine di esse sia raggiungere ciò che ci si sia
proposti, si potrebbe dire che esse differiscono fra loro per questa
ragione; ma se si ritiene che il loro fine sia quello anzidetto,
anche se lo raggiungono in maniera simile, bisogna pur sempre dire
che non hanno lo stesso fine. Le arti che non sono congetturali,
poiché il loro risultato consegue all’applicazione delle regole
dell’arte e la loro non riuscita dipende da qualche errore di
procedimento, compiuto contro le regole dell’arte stessa, hanno per
fine il raggiungere ciò che ci si sia proposti; in esse infatti il
fare tutto il possibile per raggiungere il fine proposto coincide
col raggiungerlo e il risultato deriva dall’applicazione delle
regole loro proprie. Ma nelle congetturali, al contrario, il
risultato non dipende senz’altro dall’applicazione delle regole
dell’arte, per il fatto che esse, per raggiungere il loro fine,
abbisognano di molte altre cose che non stanno nell’arte stessa;
inoltre i procedimenti di simili arti non sono definiti né riescono
a produrre sempre gli stessi risultati, per il fatto che non
presentano omogeneità in tutti gli aspetti, dato che tutte le cose o
alcune di esse si possono verificare altrimenti rispetto a come ci
si aspetterebbe. Il loro fine quindi non può consistere nel
raggiungimento dello scopo prefisso, ma solamente nel compiere tutto
ciò che è possibile da parte dell’arte.
GALENO, De animi peccat., dignosc., 4, V, p. 77 Kühn = SVF III, 28
Principio di molti errori è la falsa opinione circa il fine di
ciascuna vita: gli errori particolari nascono da questa come da una
radice. Anche chi non si sbagli nell’opinione generale circa il fine
può errare in qualcuno degli aspetti particolari, se non comprende
bene ciò che ne consegua.
FILONE ALESSANDRINO, De poster. Caini, 133, II, p. 29, 7, Wendland =
SVF III, 31
… quella dottrina stoica, secondo cui solo il bello è bene.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaestiones, I, 14, p. 26, 21 segg.
Bruns = SVF III, 32
Che nessun bene derivi agli uomini dagli dèi secondo i filosofi
anzidetti, è chiaro da quanto segue. Il bello e decoroso sta in noi;
ma ciò che sta in noi, lo possediamo di per noi stessi; ciò che
possediamo di per noi stessi, non ci proviene da nessun altro;
quindi il bello non ci proviene da nessun altro; e perciò neanche
dagli dèi. Ma non è forse lo stesso per loro il bello e il bene?
essi stessi affermano che solo il bello è bene; conseguenza di
questo è che il bene non deriva dagli dèi.
FILONE ALESSANDRINO, Quod deterius potiori, 7, I, pp. 259-260
Cohn-Wendland = SVF III, 33
… uomini che ritengono bello e buono ciò che è proprio dell’anima in
quanto anima, e che sono convinti che i cosiddetti beni del corpo ed
esterni siano solo delle aggiunte, non beni in senso verace26.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 8, 28 = SVF III, 34
Chiedo poi chi possa gloriarsi di una vita misera o infelice; della
sola vita felice si può farlo. Dal che deriva che di vanto … sia
degna solo la vita felice; ma ciò non può di buon diritto toccare
altro che alla vita onesta. Perciò avviene che la vita onesta sia
anche felice. E poiché colui cui a buon diritto compete di esser
lodato possiede un decoro o una gloria abbastanza illustri da
potersi dire a buon diritto felice per cose sì grandi, lo stesso si
potrà dire a maggior ragione della vita di un tale uomo. Perciò, se
la vita felice ha per suo contrassegno l’onestà, noi dobbiamo
considerare bene solo ciò ch’è onesto.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 8, 29 = SVF III, 35-36
E che? si potrebbe negare in qualche modo che nessuno possa essere
di animo grande, stabile e fermo — ciò che noi diciamo «un uomo
forte» — se non fosse principio stabilito che il dolore non è un
male? Così come l’uomo che crede che la morte sia un male non può
non temerla, così in nessuna questione particolare nessuno può non
curare e disprezzare quello che ha stabilito essere un male. Ciò
posto … ne deriva che l’uomo di animo grande e forte deve
disprezzare e non tenere in alcun conto ciò che può avvenire
fortuitamente all’uomo. Se le cose stanno così, non produce nessun
male se non ciò ch’è turpe. Ma quest’uomo elevato ed egregio, di
grande animo, veramente forte, che si considera superiore ai comuni
eventi umani — quell’uomo, io dico, che vogliamo foggiare, quello
che andiamo cercando — deve aver fiducia in sé e nella sua vita
passata e futura, e giudicare bene di sé, sicuro che nulla di male
può accadere al sapiente. Dal che si comprende quello stesso detto,
che solo ciò ch’è onesto è bene, e che vivere felicemente non è
altro che vivere onestamente, ossia con virtù.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 8, 27 = SVF III, 37
Ciò che è buono, è sempre e tutto lodevole; ma ciò ch’è lodevole, è
sempre e tutto onesto; quindi ciò ch’è buono è onesto… La cosa più
assurda è il ritenere che qualcosa sia buono e che non sia da
desiderarsi, oppure sia da desiderarsi ma non tale da piacere:
oppure sia da desiderarsi ma non da scegliersi; quindi anche da
approvarsi. Così anche lodevole; e quindi onesto. Ne deriva insomma
che ciò che è buono, è anche onesto27.
CICERONE, Tusc. disp., V, 15, 43 = SVF III, 37
Ma ogni cosa che è buona è anche tale da portare gioia; ciò che
porta gioia è anche da sostenersi e da esaltarsi; ciò che è tale, è
tale da dar gloria, e se dà gloria è degno di lode; ma ciò ch’è
degno di lode, certo è anche onesto. Dunque ciò ch’è buono è onesto.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 99 = SVF III, 38
Sì, quelli che ritengono che solo il bello sia buono credono di
dimostrare che questo è da scegliersi per natura, anche da parte
degli animali privi di ragione. Vediamo, essi dicono, che animali
nobili, come il toro o i galli, combattono fino alla morte, senza
che sia loro offerta nessuna prospettiva di godimento o piacere. Fra
gli uomini poi, quelli che si offrono alla morte in difesa della
patria, dei genitori, dei figli, non lo farebbero certo — dal
momento che non si aspettano alcun piacere in seguito alla propria
morte — se il bello e il buono non attraessero naturalmente ogni
animale nobile alla appetizione di sé… (Però si può anche apprendere
da loro che solo una disposizione d’animo saggia è capace di
discernere ciò che sia bello e buono; ragion per cui non potrebbero
discernerlo il gallo e il toro, che non partecipano della
saggezza!).
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 11, 36 = SVF III, 41
Dicono che tutto ciò ch’è onesto è da ricercarsi di per sé … questa
opinione, per gli Stoici, deve essere tenuta salda più di ogni
altra. E allo stesso modo dicono che le cose turpi sono da fuggirsi…
Se diciamo che la stoltezza, la viltà, l’ingiustizia,
l’intemperanza, sono da fuggirsi solo per le conseguenze che possono
derivarne, non lo diciamo in modo da fare un discorso
contraddittorio rispetto al principio già posto, secondo il quale è
male solo ciò che sia indecoroso e turpe, giacché tali espressioni
non si riferiscono a danni di natura fisica, ma alle azioni turpi
che derivano da disposizioni viziose.
CICERONE, De legibus, I, 14, 40 = SVF III, 42
E se il pensiero della pena, e non la disposizione naturale di per
sé, dovesse far sì che gli uomini si astenessero dal commettere il
male, quale mai preoccupazione avrebbero i malvagi una volta che non
sussistesse il timore della pena?… Se non si è mossi da impulsi
etici, capaci di renderei uomini onesti, ma solo dalla
considerazione dell’utilità o del vantaggio, ecco che risultiamo
uomini astuti, non onesti. Che cosa mai non sarà capace di
commettere di nascosto quell’uomo che non ha paura di altro che non
sia il testimone e il giudice? Che farà se incontrerà in un luogo
deserto un altro uomo, solo e debole, che possa spogliare di molto
oro? L’uomo giusto e onesto per natura di cui abbiamo parlato sopra
gli parlerà, lo aiuterà, lo indirizzerà nel suo cammino; ma colui
che non fa nulla per il bene di altri e tutto commisura al metro dei
suoi vantaggi personali, già sapete che cosa farà. E se anche poi
negherà di avergli portato via la vita e l’oro, non lo farà perché
ritenga che ciò sia turpe per natura: ma per paura che il fatto sia
risaputo, e che gliene possa derivare danno.
CICERONE, De legibus, I, 18, 48 = SVF III, 43
Ne consegue che il diritto e tutto ciò ch’è onesto è da ricercarsi
di per se stesso. Infatti gli uomini onesti amano l’equità stessa in
sé e per sé, il diritto in sé e per sé; né è proprio dell’uomo
onesto errare, amando ciò che non è di per sé da amarsi. Quindi il
diritto è da desiderarsi e da coltivarsi di per sé. Ma se il
diritto, lo sono ugualmente anche la giustizia e con essa le altre
virtù. E che? la liberalità è di natura gratuita, oppure tende a una
qualche ricompensa? se si benefica senza attenderci alcuna
ricompensa, essa è gratuita; se ci si attende un premio, è venale;
ma non c’è dubbio che colui che si dice liberale e benefico persegue
il dovere, e non la ricompensa. Quindi la giustizia, analogamente,
non richiede premio o ricompensa, ma è da desiderarsi in sé o per
sé... E dove va a finire quella tanto decantata, santa amicizia, se
l’amico non è amato di per se stesso, come si suol dire, con tutto
il cuore?… Se però l’amicizia è da coltivarsi di per se stessa,
ugualmente di per se stesse vanno ricercate la società con gli altri
uomini, e l’uguaglianza, e la giustizia28.
SERVIO, In Verg. Aen., I, v. 604, I, p. 178 Thilo-Hagen = SVF III,
45
«e la mente, che è in se stessa consapevole del giusto», in ciò
seguendo gli Stoici, che dicono che la stessa virtù serve da premio,
anche se non vi sia altro premio.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 8, 69, 1, p. 279 Stählin = SVF
III, 46
Se delle cose indifferenti alcune sono tenute in tanto pregio che
sembrano essere di per sé desiderabili (ciò anche se alcuni lo
negano), tanto più bisogna credere che sia da ambirsi la virtù, e
agire non mirando ad altro se non a ciò che può esser compiuto
onestamente, sia che agli altri piaccia sia che non piaccia.
LATTANZIO, Div. Inst., III, 12, p. 209 Brandt = SVF III, 47
Ma gli Stoici … negano che senza virtù si possa essere felici.
Dunque il premio della virtù è la vita felice, se la virtù, come
giustamente si dice, rende beata la vita. Ma allora non è giusto ciò
che dicono, che cioè la virtù sia da desiderarsi di per se stessa29.
PORFIRIONE, Ad Horat. carm., III, 2, v. 17, p. 90 Holder = SVF III,
50
Queste son dottrine della setta stoica, secondo la quale la sola
virtù basta ad assicurare la vita felice.
CICERONE, De fin. hon. et mal., I, 18, 61 = SVF III, 51
Molto meglio e più veracemente diciamo noi che non gli Stoici30.
Quelli infatti non dànno il nome di bene altro che ad una loro
parvenza che chiamano l’onesto, con un nome assai più specioso che
fondato; e dicono che la virtù, basandosi su tale «onesto», non
abbisogna di piacere, ed è sufficiente di per sé a render la vita
felice.
PROCLO, In Plat. Tim., Ι, p. 197, 28 segg. Diehl = SVF III, 52
Platone non fa come gli Stoici, secondo i quali il saggio non ha
alcun bisogno della fortuna.
GELLIO, Νoctes Att., XVIII, 1, 4 = SVF III, 56
E a questo punto lo Stoico riteneva che la sola virtù possa rendere
felice la vita dell’uomo, così come la sola cattiveria può dare
un’infelicità somma, anche se egli sia fornito di tutti quegli altri
beni che si chiamano esterni e relativi al corpo, ma sia cattivo, o
ne sia sfornito, ma sia virtuoso… (Al Peripatetico) lo Stoico31
opponeva meravigliato che non bisogna argomentare come se si
trattasse di due cose diverse: poiché, essendo il vizio e la virtù
due cose contrarie, anche la vita infelice e la vita felice sono due
cose ugualmente contrarie, e chi argomenta come l’avversario non si
attiene alla natura dell’opposizione in maniera analoga nell’uno e
nell’altro caso; ritiene infatti che a rendere la vita infelice
basti il solo vizio, ma non considera sufficiente la sola virtù a
rendere la vita felice. E diceva che il massimo della contraddizione
sta nel fatto che, pur affermando che la vita non può dirsi in alcun
modo felice se ne sia assente la sola virtù, si nega d’altra parte
che la vita possa dirsi compiutamente felice se sia presente la sola
virtù; negando così alla virtù una volta presente, quell’onore che
concede alla stessa virtù se assente.
SENECA, Epist. ad Luc., 85, 2 = SVF III, 58
Chi è saggio è anche temperante; chi è temperante è costante, Ma chi
è costante è anche imperturbato, e chi è imperturbato è privo di
afflizione; ora, chi è privo di afflizione è felice. Quindi chi è
saggio è felice, e la saggezza è sufficiente a render la vita beata.
ALESSANDRO D'AFRODISIA, De anima libri mantissa, p. 166, 21 segg.
Bruns = SVF III, 57
E inoltre non è vero che, in virtù di ciò per cui vediamo, anche
vediamo bene, o, in virtù di ciò per cui udiamo, anche udiamo bene,
o, in virtù di ciò per cui viviamo, anche viviamo bene, sì da poter
dire che la felicità consiste nella virtù dell’anima (è in virtù
dell’anima, infatti che viviamo).
SENECA, Epist, al Luc., 85, 24 = SVF III, 58
Chi è forte, è senza timore; ma chi è senza timore, è senza
afflizione; e chi è privo di afflizione è felice.
CICERONE, Tusc. disp., V, 16, 48 = SVF III, 59
E in verità come può un uomo che sia buono non rapportare tutte le
sue azioni o i suoi pensieri a ciò che sia lodevole? Tutto egli
rapporta alla vita beata. Ora, la vita beata è degna di lode; ma
niente senza la virtù è degno di lode. E quindi la vita beata è
contrassegnata dalla virtù… In una vita infelice non c’è niente di
cui ci si possa vantare: e neanche in una vita che non sia né felice
né infelice. Ma c’è di sicuro un tipo di vita in coi vi sia qualcosa
che sia degno di essere esaltato, vantato, preferito… Stando così le
cose, è la vita felice quella che è da esaltarsi, vantarsi e
preferirsi; anzi, non vi è null’altro che lo sia… E certo, se non è
felice quella vita che sia anche onesta, bisognerebbe ammettere che
c’è qualcosa di superiore alla vita felice; e certo si dovrà
ammettere che sia superiore ciò che è onesto. E così dovrà finire
con l’ammettere che ci sia qualcosa di superiore alla vita felice;
ma che cosa si potrebbe dire di più errato?
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 13, 43 = SVF III, 60
Neppur questo è accettabile … che chi ha maggior copia di quei beni
che sono relativi al corpo e sono stimati grandissimi sia più
felice… Infatti, dal momento che ci si è accordati sul punto che la
vita non è resa più felice nemmeno dall’abbondanza di quei beni che
possiamo dire veramente tali32, né più desiderabile o più
apprezzabile, ancor meno si deve considerare di primaria importanza
per la felicità della vita la moltitudine dei beni che si
riferiscono al corpo. Se infatti sono da desiderarsi la sapienza e
la salute, e se possedere entrambe queste cose è ancor meglio che
possederne una sola, cioè la sapienza, bisogna anche dire che, pur
essendo degni di apprezzamento l’uno e l’altro, la sapienza
unita alla salute non è più apprezzabile che la sapienza pura e
semplice. Quanto a noi, che riteniamo la salute cosa apprezzabile e
tuttavia non la poniamo fra i beni, pensiamo che il suo valore non
sia tale da farla anteporre alla virtù… Come la luce di una lucerna
si opaca e si oscura di fronte alla luce del sole, e come una stilla
di miele si perde nell’immensità dell’Egeo, e così come è nulla un
teruncio in aggiunta alle ricchezze di Creso o un solo passo sulla
via che di qua porta all’India, così, se il bene supremo è quello
che dicono gli Stoici, ogni valore dei beni che riguardano il corpo
di necessità si oscura, si copre, vien meno di fronte allo splendore
e alla grandezza della virtù.
CICERONE, De fin. hon. et ma., IV, 12, 30 = SVF III, 61
E in questo gli stoici mi sembra che addirittura scherzino, col dire
che «se quella vita che sia condotta virtuosamente possa completarsi
con raggiunta di un’ampolla e di uno striglie, il sapiente accetterà
di preferenza una vita corredata anche di queste cose, senza
tuttavia che per questo risulti più felice per questa specifica
ragione».
PLUTARCO, De comm. not., 23, 1070a = SVF III, 123
Le stesse cose essi dichiarano esser da prendersi, ma non da
scegliersi; da considerarsi apparentate a sé ma non beni; dannose e
utili a un tempo, di nessun conto per noi ma al tempo stesso
principio delle azioni rette!33
ALESSANDRO D'AFRODISIA, In Arist. Top., p. 211, 9 segg. Wallies
= SVF III, 62
In questo modo si potrebbe dimostrare che tutte quelle cose che dai
filosofi più recenti sono dette indifferenti e preferibili sono in
realtà cose da scegliersi e buone, dal momento che ciascuna di esse,
se si aggiunga alla virtù, rende il tutto preferibile all’uomo
saggio. È maggiormente da scegliersi la vita secondo virtù se in
aggiunta vi sia anche la salute, o la ricchezza, o la buona fama:
infatti ciò ch’è da scegliersi e da fuggirsi si distingue in base al
fatto che il saggio lo sceglie o lo fugge.
ALESSANDRO D'AFRODISIA, De anima libri mant., p. 161, 26 segg.
Bruns = SVF III, 63
Anche alle sensazioni, se hanno la proprietà di esser necessarie
all’essere dell’uomo ma non per questo collaborano all’effettuazione
delle azioni virtuose, bisognerebbe attribuire la definizione del
«ciò senza di cui non può essere» una data cosa34, ma se poi, oltre
all’esser necessarie all’essere stesso dell’uomo, anche collaborano
alle sue azioni in quanto egli se ne vale, e se ne vale la stessa
virtù per le azioni che le sono proprie (la rappresentazione è la
base delle azioni secondo virtù), allora non si può dire che questo
loro carattere di imprenscindibilità (senza di cui non) in relazione
all’attuazione della virtù sia dello stesso tipo di quello del cielo
o della terra, del luogo o del tempo. Se, infatti, noi agissimo
virtuosamente sulla base di sensazioni qualsiasi, avverrebbe che o
daremmo il nostro assenso a rappresentazioni false derivanti da
simili sensazioni, venendo poi a compiere azioni dello stesso tipo
(e chi potrebbe chiamare questo un procedere da uomo saggio?) —
oppure, nel caso che sospendessimo il giudizio astenendoci
dall’assenso, non compiremmo nessuna delle operazioni relative ad
esse, né alcuna azione.
ALESSANDRO D'AFRODISIA, De anima libri mant., p. 160, 3 segg.
Bruns = SVF III, 64
Ma dunque la virtù non è autosufficiente in vista della felicità. O
essa verte intorno alla scelta delle cose piacevoli, come vuole
Epicuro35, oppure intorno alla scelta delle cose secondo natura,
come ritengono gli Stoici… Delle cose secondo natura non è
produttrice l’atto secondo virtù; e se il suo atto verte intorno a
qualche oggetto di cui essa stessa non è poi produttrice, bisogna
dire che la virtù non è autosufficiente riguardo agli atti che le
sono propri, dal momento che manca di quelle realtà intorno a cui il
suo atto verte e che le sono esterne. Infatti, come essi dicono,
queste non hanno la proprietà del «senza di cui non è possibile», ma
sono solo tali da dare un impulso allavirtù e causa del suo prodursi
e attuarsi. Essa mira a tali cose, come gli artigiani alla materia
loro propria. Dicono che le loro azioni verrebbero meno se queste
realtà esterne non traessero a sé e dessero impulso alle virtù con
le loro differenze.
ALESSANDRO D'AFRODISIA, De anima libri mant., p. 162, 23 segg.
Bruns = SVF III, 65
Inoltre anche le nozioni comuni relative alla felicità pongono
questa come autosufficienza nel vivere (essi concepiscono infatti il
sapiente come non bisognoso di nulla); intendono poi anche la
felicità come il termine ultimo delle cose desiderabili (ma chiamano
felicità anche il vivere secondo natura, e la vita secondo natura, e
inoltre il ben vivere, il ben condurre la vita, e la vita buona36).
Se tale è la prenozione della felicità, la virtù non è sufficiente
in vista di nessuna di queste cose; e non potrebbe esserlo neanche
in vista della felicità.
ALESSANDRO D'AFRODISIA, De anima libri mant., p. 159, 33 segg.
Bruns = SVF III, 66
Inoltre, se ogni arte produce qualcosa di altro da sé e non se
stessa, ma secondo essi la virtù è arte produttrice di felicità,
vuol dire che la virtù e la felicità sono due cose diverse.
ALESSANDRO D'AFRODISIA, In Arist. Top., p. 173, 11 segg. Walles
= SVF III, 67
Inoltre, dal momento che quelli che dicono che la virtù è
autosufficiente in vista della felicità trovano poi conseguenza non
ragionevole che non sia da scegliersi la salute o altre cose
analoghe che escono dai confini della pura virtù, se in tutto questo
ragionamento c’è qualcosa da sopprimere è proprio l’assunto che la
virtù è autosufficiente in vista della felicità37.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5a, p. 57, 19 segg. Wachsmuth = SVF III, 70
Delle cose alcune sono beni, altre mali, altre ancora indifferenti.
Beni sono cose come saggezza, temperanza, giustizia, valore, e tutto
ciò ch’è virtù e partecipa della virtù. Mali sono cose come
stoltezza, incontinenza, ingiustizia, viltà e tutto ciò ch’è vizio o
partecipa del vizio. Indifferenti sono cose come vita-morte,
fama-oscurità, piacere-dolore, ricchezza-povertà, salute-malattia, e
tutte le altre di questo tipo.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 3 = SVF III, 71
I filosofi dell’Accademia antica38, quelli del Peripato, inoltre
quelli della Stoa, sono soliti fare divisioni fra le realtà
classificandole in beni, mali, intermedie, che chiamano anche
indifferenti.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 10, 33 = SVF III, 72
E poiché le nozioni delle cose si formano nell’anima a seconda che
la cosa sia conosciuta per esperienza, o relazione, o somiglianza, o
analogia39, la nozione del bene si forma in questo modo che ho posto
in quarto luogo. Quando l’anima, da quelle cose che sono secondo
natura, risale ad altre per analogia, essa raggiunge la nozione del
bene. E questo bene non lo chiamiamo così per aggiunta di qualcosa
di estrinseco o per un processo di accrescimento o per confronto con
il resto, ma lo concepiamo e chiamiamo in questa forma per una virtù
sua propria. Così come il miele, anche se è dolcissimo, lo è per un
sapore di genere suo proprio, né lo si avverte dolce perché lo si
paragoni con altre cose, così quel bene di cui parliamo è il valore
più elevato che ci sia, ma il suo valore sta nella sua specie e non
nella sua ampiezza. Il valore infatti, che si dice ἀξία, non lo si
annovera fra i beni e neanche fra i mali; per quante cose tu vi
aggiunga, resterà sempre contrassegnato dall’appartenenza al suo
genere proprio. Altro è quindi il valore proprio della virtù: questa
vale per il suo genere proprio, non per un qualsiasi accrescimento.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 30 = SVF III, 73
Vi è stato chi ha detto che il bene è ciò che deve esser ricercato
di per sé. Alcuni lo definiscono più propriamente: «ciò che
contribuisce alla felicità»; altri: «ciò che conferisce la pienezza
della felicità»40.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5d, p. 69, 17 segg. Wachsmuth = SVF III, 74
Dicono che il bene si può definire in più modi. Nel primo egli sta
quasi in luogo di «fonte», e si esprime così: «ciò da cui o per via
di cui deriva giovamento» (per il fatto che esso è in primo luogo
causa); secondariamente si può definire «ciò in base a cui si ha
giovamento»; in un modo più generale, e che comprende i due
significati anzidetti; «ciò ch’è tale da giovare». Similmente il
male viene da loro descritto per analogia rispetto al bene: «ciò da
cui o per via di cui si riceve danno», «ciò in base a cui si riceve
danno», più in generale «ciò ch’è tale da danneggiare».
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 22 = SVF III, 75
Gli Stoici, attenendosi alle nozioni comuni, se così vogliamo
chiamarle, così definiscono il bene: «il bene è giovamento e
nient’altro che giovamento», indicando con giovamento la virtù
e l’azione meritevole, e non diverso da ciò considerando l’uomo
saggio o l’amico. Infatti la virtù, che viene posta in certo modo
come il principio direttivo, e l’azione retta, che è atto che
si compie secondo virtù, è in senso immediato cosa giovevole; e
l’uomo saggio e l’amico, che anch’essi si annoverano fra i beni, non
possono dirsi coincidenti in assoluto con il giovamento ma neanche
di altra specie rispetto ad esso. Le parti, dicono i seguaci degli
Stoici, non si identificano col tutto ma non sono neanche diverse
dal tuito: la mano per esempio non è identica all’uomo nella sua
interezza, perché certo non tutto l’uomo è mano, ma non è nemmeno
estranea rispetto all’uomo nella sua totalità, perché l’uomo non si
può pensare intero se sia privo delle mani. E dal momento che la
virtù fa parte dell’uomo saggio e dell’amico, si deve dire che
questi non sono cose estranee rispetto al giovamento. Così ogni bene
è compreso in questa definizione, sia esso identificabile
immediatamente con l’utilità sia in ogni caso non estraneo ad essa.
Dicono quindi che il bene si può enunciare in tre forme, e di volta
in volta descrivono ciascuno dei significati secondo un punto di
vista particolare. Nel primo caso, dicono, si dice bene ciò da cui o
per via di cui si riceve giovamento, e a capo di quest’ordine di
valori è la virtù: per natura da questa come da una fonte scaturisce
ogni giovamento. In un altro senso il bene si definisce come «ciò in
base a cui si può avere giovamento»: in tal modo non solo le virtù
si diranno beni, ma anche le azioni che sono compiute secondo
quelle, poiché anche in virtù di queste avviene di ricever
giovamento. Nel terzo ed ultimo senso, si dice bene ciò che è tale
da giovare, e con tale definizione vengono comprese insieme le
virtù, le azioni virtuose, gli uomini saggi, gli amici, gli dèi e i
démoni buoni.
… Gli Stoici ritengono che, delle tre definizioni del bene, la
seconda comprenda in sé la prima, e la terza le comprenda entrambe.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 40 = SVF III, 77
Il male è l’opposto del bene; ed esso è danno o qualcosa di non
estraneo al danno: danno è il vizio, e l’azione cattiva; non
estraneo al danno, realtà come l’uomo cattivo o il nemico.
ORIGENE, Contra Celsum, VIII, 8, II, p. 226, 24 segg. Kötschau = SVF
III, 78
Se essi dicono danno il moto o l’atteggiamento che è secondo vizio,
è chiaro che non c’è alcun danno che possa verificarsi riguardo ai
saggi.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 90 = SVF III, 79
… la stoltezza, che sola ritengono esser male gli Stoici.
SIMPLICIO, In Arist. Phys., p. 1167, 21 segg. Diels = SVF III, 80
È possibile chiedere che la prima premessa dimostri di per sé ciò
che di per sé non è chiaro: ciò avviene quando si valuti l’oggetto
direttamente e con chiarezza, come facciamo noi, che diciamo che
alcuni beni non rendono immediatamente buoni (per esempio le forze,
delle quali ci si può servire bene o male) … ma gli Stoici, non
ammettendo questo (= che simili cose siano beni), dicono, assumendo
la prima premessa in assoluto: «tutto ciò die è bene rende buoni»41.
SENECA, Epist. ad Luc., 45, 10 segg. = SVF III, 81
Ecco che allora tutta la vita mi appare mentitrice42; giacché
giudica necessarie cose la maggior parte delle quali sono superflue.
E anche quelle che non lo sono del tutto, non hanno peraltro alcun
rilievo al fine di rendere fortunato e felice. Non perché una cosa
sia necessaria ciò significa che è anche senz’altro buona: oppure
gettiamo via addirittura il bene se diamo questo nome al pane e alla
polenta e alle cose necessarie immediatamente per la vita. Ciò che è
buono, è di per sé anche necessario, ma non tutto ciò ch’è
necessario deve per forza essere anche buono, poiché alcune cose
sono necessarie, ma anche assai da poco.
ORIGENE, Contra Celsum, VIII, 62, p. 278, 15 Kötschau = SVF III, 82
Se Celso fosse più preciso nella nozione dell’utile, e si avvedesse
che ciò che giova in assoluto è la virtù e l’azione secondo
virtù…
SENECA, Epist. ad Luc., 106, 2 = SVF III, 84
Che cos’è che è utile apprendere ancor più di quanto non sia
opportuno, se non questo che mi chiedi, sei il bene sia di natura
corporea? Il bene agisce; infatti giova. Ma ciò che agisce è di
natura corporea. Il bene agisce sull’anima, e in qualche modo le dà
forma e la regge; e tutte queste attività sono proprie di un corpo.
Quelli che sono beni propri di un corpo, sono anch’essi di natura
corporea; quindi anche quelli propri dell’anima lo sono. Anche
questa infatti è di natura corporea. Il bene dell’uomo è quindi
necessariamente di natura corporea, dal momento che egli è un essere
corporeo. Sbaglio certo se dico che non sono corpi quelle cose che
nutrono l’uomo e gli conservano o rendono la salute; però allora ciò
vuol dire che anche il suo bene è di natura corporea. Penso che tu
non dubiti che siano altrettanti corpi gli affetti … come ad esempio
l’ira, l’amore, la tristezza: se ne dubiti, basta che tu osservi
come essi ci fanno mutare il volto, corrugare la fronte, distendere
i tratti, arrossire, impallidire. E che? potresti credere che note
così evidenti siano impresse in noi da qualcosa che non sia un
corpo? Se poi gli affetti sono di natura corporea, lo sono anche i
mali dell’anima, i vizi incalliti e non più curabili, la malvagità
quindi e tutte le sue specie, la malignità, l’invidia, la superbia.
Analogamente lo saranno i beni, in primo luogo perché opposti a
quelli, e poi perché ce ne offrono le stesse prove: non vedi quanto
vigore dia agli occhi la forza? quanta attenzione la prudenza?
quanta modestia e tranquillità la reverenza? quanta serenità la
gioia? quanto rigore la severità? quanta benignità la dolcezza?
Corporee sono tutte quelle cose che fanno mutare il colore e lo
stato dei corpi e che esercitano su quelli il loro dominio. Tutte le
virtù di cui ho parlato sono beni, e così tutto quello che ne
deriva. Ora, è forse da dubitare che ciò che può toccare un corpo
sia anch’esso un corpo?… Tutte le cose che ho detto non potrebbero
mutare un corpo se non lo toccassero; sono quindi corpi. Di natura
corporea deve essere ciò che ha tanta forza da spingere, trattenere,
frenare, comandare. E che? il timore non trattiene forse? l’audacia
non spinge? la fortezza non manda avanti e dà impeto? la moderazione
non raffrena e richiama? non solleva la gioia, non abbatte la
tristezza? Insomma, tutto ciò che facciamo lo facciamo sotto il
dominio o del vizio o della virtù: e ciò che comanda al corpo è
anch’esso un corpo, ciò che imprime un’azione su un corpo è
anch’esso un corpo. Il bene del corpo è cosa di natura corporea; ma
il bene dell’uomo è anche bene del corpo, quindi non può essere che
una realtà di natura corporea43.
TERTULLIANO, De anima, 6, 7, p. 8 Waszink = SVF III, 84
Giustamente gli Stoici dicono che le arti sono di natura corporea.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5d, p. 69, 11 segg. Wachsmuth = SVF III, 86
Dicono che tutti i beni sono giovevoli e utili e convenienti e
profittevoli e opportuni e belli e favorevoli; e di contro tutti i
mali sono dannosi, contrari all’utile, apportatori di svantaggio,
cattivi, disdicevoli, turpi ed estranei per natura.
STOBEO, Eclog., II, 7, 51, p. 72, 19 segg. Wachsmuth = SVF III, 88
E ogni bene è da scegliersi: è infatti piacevole, ricercato per
fama, degno di lode; e ogni male è da fuggirsi. Il bene in quanto
capace di suscitare un ragionevole atto di scelta, è da scegliersi;
in quanto per esso si giunge senza esitazione a un atto di scelta, è
piacevole; 〈…〉44; in quanto a suo riguardo si può ragionevolmente
supporre che appartenga alle cose che sono secondo virtù, 〈è degno
di lode〉.
STOBEO, Eclog., II, 7, 6f. p. 78, 7 segg. Wachsmuth = SVF III, 89
Dicono che è differente ciò che sia da scegliersi e ciò che si debba
scegliere. Da scegliersi è ogni tipo 〈di bene〉45; che deve
scegliersi è ogni cosa che dia giovamento, il che poi si giudica per
il fatto che comprende in sé un bene. Perciò scegliamo ciò che si
deve scegliere: per esempio scegliamo l’esser saggi, che si giudica
un bene per il fatto che comprende in sé la saggezza; quanto a ciò
ch’è da scegliersi non lo scegliamo direttamente, ma semmai
scegliamo di possederlo. Analogamente si può dire che tutti i beni
sono da mantenersi e conservarsi, e lo stesso vale per tutte le
virtù, anche se non nominate una per una; mentre le cose che portano
vantaggio devono essere mantenute e conservate. Lo stesso discorso è
da farsi a proposito dei vizi.
STOBEO, Eclog., II, 7, IIf, p. 98, 9 segg. Wachsmuth = SVF III, 90
Lo stesso sostengono a proposito di ciò che è da vigilarsi e da
sostenersi, o che si deve vigilare o sostenere.
STOBEO, Eclog., II, 7, IIf p. 97, 15 segg. Wachsmuth = SVF IIΙ, 91
Dicono che la stessa differenza fra ciò ch’è da scegliersi e ciò che
si deve scegliere c’è anche fra ciò ch’è da desiderarsi e ciò che si
deve desiderare, quello ch’è da volersi e quello che si deve volere,
quello ch’è da accettarsi e quello che si deve accettare. Da
scegliersi, desiderarsi, volersi, (accettarsi sono i beni; i
vantaggi che ne derivano sono quelli che si devono scegliere,
desiderare, volere) e accettare46, in quanto sono predicati in
connessione con i beni. Noi scegliamo ciò che deve essere scelto,
vogliamo ciò che deve essere voluto, desideriamo ciò che deve essere
desiderato. Gli atti di scelta, di desiderio, di volontà, vertono
intorno a predicati, e così pure gli impulsi: invece scegliamo e
vogliamo e desideriamo possedere le cose che sono beni, e perciò
queste sono da scegliersi, da volersi, da desiderarsi in generale.
Noi vogliamo in concreto possedere la saggezza e la temperanza, non
l’esser saggi e l’esser temperanti, che sono predicati incorporei47.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 21, 69 = SVF III, 93
Perché possa conservarsi la relazione di comunità sussistente fra
gli uomini, l’unione, l’amore reciproco, essi hanno voluto che siano
comuni anche quei vantaggi e quei danni che chiamano ὠφελήματα e
βλάμματα: gli uni giovano, gli altri nuocciono. E non hanno solo
sostenuto che siano comuni, ma anche che siano uguali. Però hanno
sostenuto che i vantaggi e gli svantaggi (traduco così i termini
εὐχρηστήματα e δυσχρηστήματα) sono comuni ma non uguali. Le cose che
giovano o che nuocciono sono beni o mali, e questi di necessità sono
uguali; gli svantaggi e I vantaggi però appartengono al genere che
diciamo dei preferibili o non preferibili, e questi possono anche
non essere della stessa portata. Le cose giovevoli sono comuni a
tutti; le azioni rette e i misfatti, però, non sono ritenuti comuni.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11d, p. 95, 3 segg. Wachsmuth = SVF III, 94
Anche in altro senso i beni sono comuni. Tutte le cose che giovano a
qualcuno in particolare essi ritengono che per ciò stesso
conferiscono uguale utilità, mentre nessuno che sia malvagio può né
ricevere giovamento né giovare ad altri. Il giovare è trovarsi in
uno stato secondo virtù; il ricevere giovamento è subire
un’affezione secondo virtù.
STOBEO, Echg., II, 7, 5b, p. 58, 5 segg. Wachsmuth = SVF III, 95
Dicono che dei beni alcuni sono virtù, altri no. La saggezza, la
temperanza, 〈la giustizia〉, il valore, 〈la magnanimità, la forza, il
vigore dell’anima〉48, sono virtù; mentre la gioia, la serenità,
l’alacrità e cose analoghe non lo sono. Delle virtù poi alcune sono
scienze ed arti, altre no. La saggezza, la temperanza, la giustizia,
il valore sono scienze ed arti vertenti intorno a certi oggetti; la
magnanimità, il vigore e la forza d’animo non sono né scienze né
arti. Similmente si può dire che dei mali alcuni sono vizi, altri
no. Sono vizi la stoltezza, l’ingiustizia, la viltà, la meschinità
d’animo, la debolezza; non sono vizi invece, lo spavento, il dolore
e altre cose analoghe. Così pure dei vizi alcuni sono forme di
ignoranza e di incapacità, altri no. Per esempio la stoltezza, la
incontinenza, l’ingiustizia, la viltà sono forme di ignoranza e di
incapacità; la meschinità d’animo, l’incapacità, 〈la debolezza〉49
non sono né ignoranza né incapacità vertenti intorno a certi
oggetti.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 46 = SVF III, 96
I seguaci della Stoa han detto anch’essi che si sono tre tipi di
beni, ma usando termini differenti. Ci sono i beni che riguardano
l’anima, quelli esterni e quelli che non appartengon a nessuno di
questi due tipi (eliminano i beni che riguardano il corpo per la
convinzione che questi non siano veri beni). Quelli che riguardano
l’anima sono cose come la virtù e le azioni buone; quelli esterni
cose come l’amico, l’uomo saggio, aver buoni figli o buoni genitori,
e cose analoghe; quanto poi ai beni che non sono né l’una né l’altra
cosa essi indicano lo stesso uomo saggio considerato nella sua
relazione con se stesso: esso non è infatti esterno a se stesso, ma
non può esser nemmeno relativo alla sola anima, in quanto consta di
anima e di corpo.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5e, p. 70, 8 segg. Wachsmuth = SVF III, 97
Dei beni alcuni sono relativi all’anima, altri esterni, altri né
relativi all’anima né esterni. Relativi all’anima sono le virtù, le
azioni buone, gli atti lodevoli in generale; esterni gli amici, i
seguaci e cose analoghe; né relativi all’anima né esterni gli uomini
saggi in generale e dotati di virtù. Analogamente, dei mali alcuni
sono relativi all’anima, altri esterni, altri ancora né l’una né
l’altra cosa. Relativi all’anima sono i vizi con le disposizione
malvage, e gli atti biasimevoli in generale; esterni i nemici con
tutti i loro tipi; né relativi all’anima né esterni gli uomini
malvagi e in generale esercitanti il vizio.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11c, p. 94, 21 segg. Wachsmuth = SVF III, 98
Dal momento che si possono distinguere tre forme di amicizia, e la
prima è quella secondo cui si dice esser amici in vista dell’utilità
comune, essi dicono che questa non appartiene all’ordine dei beni,
giacché per loro il bene non consiste in cose separate50; quanto
alla seconda forma, che è quella della disposizione amichevole da
parte di coloro che ci stanno intorno, dicono che appartiene ai beni
esterni; l’amicizia che uno ha di per sé, in quanto è amico di
quelli che gli stanno intorno, affermano che appartiene ai beni
relativi all’anima.
SENECA, Epist. ad Luc., 74, 22 = SVF III, 99
Voi dite che tra i beni ci sono cose come l’aver figli timorati, una
patria di buoni costumi, l’aver buoni genitori.
SENECA, Epist. ad Luc., 102, 3 = SVF III, 100
Tentavo di provare ciò che sostengono i nostri: che la fama che
tocca dopo la morte è un bene… La fama è come una seconda opinione
circa la bontà degli uomini.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5m, p. 74, 15 segg. = SVF ΙII, 101
Inoltre dei beni dicono che alcuni sono non misti, come la scienza,
altri misti, come ad esempio l’aver buoni figli, una buona
vecchiaia, una buona vita. L’aver buoni figli è il saggio possesso
di figli secondo natura; la buona vecchiaia è il saggio possesso di
una vecchiaia che sia secondo natura e così similmente la buona
vita.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5c, p. 68, 24 segg. Wachsmuth = SVF III, 103
Dicono inoltre dei beni che alcuni li possiedono sempre tutti i
saggi e altri no: per esempio la virtù, e una sensazione e un
impulso che siano saggi, li hanno sempre tutti gli uomini buoni e in
ogni occasione; invece la gioia, la serenità, un saggio
passeggiare51, non sono propri di tutti i saggi e sempre.
Analogamente, anche dei mali alcuni sono presenti costantemente e
sempre in tutti gli stolti, e altri no. Sono sempre in tutti gli
stolti ogni tipo di vizio, e sensazioni e impulsi stolti, e cose
analoghe. Ma non tutti gli stolti sempre e in ogni occasione hanno
dolore, o spavento, o dànno risposte stolte.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5f, p. 70, 21 segg. Wachsmuth = SVF III, 104
Dei beni relativi all’anima alcuni sono disposizioni, (ἓξεις) altri
abiti (διαθέσεις) altri ancora né disposizioni né abiti. Abiti sono
tutte le virtù; disposizioni soltanto e non abiti le occupazioni
come la divinazione e cose analoghe; né abiti né disposizioni sono i
singoli atti secondo virtù, come l’agire con prudenza52, il possesso
della temperanza e cose analoghe. Similmente anche dei mali relativi
all’ anima alcuni sono disposizioni, altri non disposizioni ma abiti
veri e propri, e altri ancora né disposizioni né abiti; abiti veri e
propri (διαθέσεις) sono tutti i vizi; disposizioni (ἓξεις) sono le
tendenze, come il senso di mancanza di qualcosa, la propensione ad
affliggersi e simili malesseri e stati cattivi dell’anima, come
l’amore per il denaro, la facilità ad ubriacarsi e altre cose del
genere. Né abiti né disposizioni sono le singole azioni compiute per
vizio, come l’agire con stoltezza, il commettere ingiustizia, e
altre analoghe.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5g, p. 71, 15 segg. Wachsmuth = SVF III, 106
Dei beni alcuni sono relativi al fine ed altri agiscono causalmente;
altri poi appartengono all’uno e all’altro tipo. L’uomo saggio e
l’amico sono beni che agiscono causalmente; la gioia, la serenità,
l’ardire, il saggio passeggiare sono beni solo in relazione al fine;
tutte le virtù sono al tempo stesso relative al fine e agenti
causalmente, infatti producono la felicità e la completano col loro
esserne parti vere e proprie. La stessa cosa si può dire per i mali:
alcuni sono produttivi di infelicità, altri relativi al fine, altri
l’una e l’altra cosa. L’uomo stolto e il nemico sono solo mali
produtivi; invece il dolore e la paura, il furto, l’interrogazione
stolta e cose analoghe sono solo mali relativi al fine; i vizi sono
produttivi e relativi al fine; infatti producono infelicità e la
completano con l’esserne essi stessi parte.
CICERONE, De fin. bon. et mal, III, 16, 55 = SVF III, 108
Segue quella divisione secondo cui i beni sono detti alcuni
pertinenti a ciò ch’è il fine — chiamo così quelli che essi dicono
τελικά — altri efficienti il che in greco si dice ποιητικά, e altri
ancora entrambe le cose53. Tra i primi nulla è in relazione al bene
se non le azioni oneste; dei secondi nulla se non l’amico; ma la
sapienza per esempio essi affermano che appartiene all’uno e
all’altro tipo. In quanto è azione retta, essa appartiene al genere
relativo al fine che ho già detto; ma in quanto l’onestà produce ed
effettua azioni oneste, si può dire anche un bene efficiente.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5h, p. 72, 14 segg. Wachsmuth = SVF III, 109
Dei beni alcuni sono da scegliersi di per sé, altri sono efficienti.
Tutti quelli che noi ragionevolmente scegliamo senza aver in vista
nient’altro che essi stessi, sono da scegliersi di per sé; tutti
quelli che scegliamo per il fatto che possono procurare qualcosa di
altro, si usa definirli efficienti.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VI, 12, 98, 2, p. 481 Stählin = SVF
III, 110
L’uomo malvagio, che commette errori per natura in base a vizio, si
stabilisce essere uno stolto, sia che abbia commesso il fatto
volontariamente sia involontariamente; in quanto suscettibile di
commettere errori, egli erra nelle sue azioni, mentre al contrario
l’uomo saggio compie azioni rette. Infatti noi chiamiamo beni non
solo le virtù, ma anche le oneste azioni; e sappiamo che dei beni
alcuni sono da scegliersi di per sé, come per esempio la conoscenza
(non cerchiamo di raggiungere questa per altre ragioni che siano il
suo stesso possesso, sì che sia presente in noi, o solo il fatto di
esser presente) … altri in vista di altro.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5k, p. 73, 1 segg. Wachsmuth = SVF III,
Inoltre dei beni alcuni sono in movimenti, altri in stato di
quiete54: in movimento cose come la gioia, la serenità, la
conservazione saggia, in stato di quiete cose come la tranquillità
ben disposta, l’attesa imperturbata, l’atteggiamento virile. Dei
beni che sono in stato di quiete alcuni sono anche abiti, come le
virtù, altre invece puri e semplici stati, come le cose anzidette.
Forme di abito sono non solo le virtù, ma anche le arti, che
nell’uomo saggio sotto l’azione della virtù subiscono una
trasformazione e divengono atteggiamenti costanti, sì che si
identificano con virtù vere e proprie. Dicono che tra i beni che
sono come un abito vanno annoverate anche le occupazioni, come
l’amore per la cultura, per la letteratura, per la geometria e
simili: esse sono un abito metodico che sceglie in queste arti gli
elementi apparentati con la virtù, rapportandoli a quello che è il
fine della vita.
STOBEO, Eclog., II, 7, 51, p. 73, 16 segg. Wachsmuth = SVF III, 112
Inoltre dei beni alcuni sono di per sé, altri sono in un certo modo
relativo55. Di per sé sono la scienza, l’agire giustamente e cose
analoghe, relativi l’onore, la benevolenza, l’amicizia, 〈la
concordia〉56. La scienza è comprensione certa e tale da non poter
esser rovesciata da argomentazioni; vi è poi un altro tipo di
scienza che è il complesso organico di scienze di questo tipo, per
esempio la logica particolare (λογικὴ κατὰ μέρος), che sussiste
nell’uomo saggio; e un’altra scienza è un complesso organico di
scienze metodiche che possiede di per sé la sua sicurezza, come ad
esempio le virtù; un’altra ancora è un abito proclive ad accogliere
rappresentazioni tale da non poter essere rovesciato da
argomentazioni, che secondo alcuni risiede nella tensione e nella
forza. L’amicizia è comunanza di vita57; la concordia è il pensare
le stesse cose intorno alla realtà della vita. Tipi dell’amicizia
sono la buona relazione fra conoscenti; l’esser compagni, ch’è
amicizia per scelta, quella per esempio che si verifica fra
coetanei; l’ospitalità, ch’è amicizia fra stranieri. Vi è anche
un’amicizia cognatizia, quella fra parenti, e amorosa, quella fra
amanti. L’assenza di dolore e la buona disposizione ordinata
dell’animo si identificano con la temperanza; l’avere intelletto e
buona mente con la saggezza; la generosità e la liberalità sono la
stessa cosa che essere buoni. E per questo tali cose si dicono modi
di essere relativi, il che conviene affermare anche in riferimento
alle altre virtù.
STOBEO, Eclog., II, 7, 6d, p. 77, 6 segg. Wachsmuth = SVF III, 113
E dei beni alcuni sono necessari in vista della felicità e altri non
lo sono. Necessarie sono tutte le virtù e tutti gli atti onesti che
ne derivano; non necessarie la gioia, la serenità, le occupazioni.
Similmente dei mali gli uni sono necessari per l’infelicità e altri
non necessari: necessari i vizi tutti e le azioni che da essi
derivano, non necessari tutte le passioni e gli stati di malessere e
altre cose del genere.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 6, 39, 3, p. 265 Stählin = SVF
III, 114
I beni dunque sono in sé e di per sé alcuni, e altri sono tali in
quanto partecipano del bene, come diciamo essere le azioni oneste;
senza però le realtà intermedie, che tengono il posto della materia,
non sussistono azioni buone né cattive; intendo cose come la vita e
la salute e gli stati vari di necessità o di pura situazione.
SENECA, Epist. ad Luc., 66, 5 = SVF III, 115
In questo primo giorno si pone la questione come i beni possano
dirsi uguali se appartengono a tre tipi distinti; alcuni, come
vogliono i nostri, sono beni primari, come la gioia, la pace, la
salvezza della patria; altri secondari, come la capacità di
sopportare la tortura e la costanza nel sopportare una grave
malattia; e questi beni li desideremo per noi di per sé, se sarà
necessario. Ma ce ne sono anche di terz’ordine, come un incesso
modesto e composto, un volto onesto, un gestire come si conviene a
un uomo saggio58.
DIOGENE LAERZIO, Vitae philos., VII, 102-107 = SVF III, 117, 119,
127
I beni dunque sono le virtù, la saggezza, la giustizia, il valore,
la temperanza e le altre simili; i vizi le cose opposte a queste, la
stoltezza, l’ingiustizia ecc. Né l’uno né l’altro59 sono quelle cose
che né giovano né danneggiano, come la vita, la salute, il piacere,
la bellezza, la forza, la ricchezza, la buona fama, la buona
nascita, e le opposte a queste, la morte, la malattia, la
sofferenza, la vergogna, la debolezza, la povertà, l’oscurità, la
umile nascita e tutte le cose simili … non beni sono questi, ma
indifferenti, preferibili secondo la specie. Come è proprio del
calore riscaldare e non raffreddare, così del bene lo è giovare e
non danneggiare; ma la ricchezza e la salute non portano giovamento
più di quanto non portino danno; la ricchezza e la salute non sono
quindi beni. Inoltre, dicono, ciò di cui ci si può valere anche per
cattivo uso, non può essere un bene; ma della ricchezza e della
salute si può fare cattivo uso, quindi esse non sono beni… Nemmeno
il piacere dicono essere un bene Ecatone60 … e Crisippo: vi sono
anche piaceri turpi, ma niente di ciò ch’è turpe può essere un bene.
Giovare significa agire o trovarsi in stato di virtù, danneggiare
agire o trovarsi in stato di vizio.
Gli indifferenti si dividono in due tipi: in un caso quelli che non
hanno nessun effetto in ordine alla felicità o all’infelicità, come
la ricchezza, la fama, la salute, la forza e altre cose analoghe; è
possibile infatti esser felici anche se non le si possieda, poiché
il possesso di esse può apportare felicità o infelicità. In altro
modo indifferenti si dicono quelle cose che non suscitano alcun moto
di attrazione o repulsione, come per esempio l’avere un numero pari
o dispari di capelli in testa, o lo stendere il dito o ritirarlo;
quelli che abbiamo chiamato poc’anzi indifferenti non sono di questo
tipo, essi suscitano attrazione o repulsione, sì che di essi alcuni
vengono scelti di preferenza e altri no, mentre questi altri sono
del tutto equivalenti rispetto al problema della scelta o della non
scelta. Degli indifferenti alcuni si dicono preferibili e altri da
non preferirsi: preferibili sono quelli che hanno in sé un certo
valore e da non preferirsi quelli che rappresentano un disvalore.
Dicono che valore è ciò che in qualche maniera contribuisce a una
vita coerente con se stessa, il che per essi è in ogni caso un bene:
ma valore può essere anche una capacità o utilità di tipo medio che
contribuisce in qualche modo alla vita secondo natura, il che vale a
dire che anche la ricchezza o la salute portano un certo contributo
alla vita secondo natura. Valore poi per loro può dirsi anche quello
scambio di un prodotto pregiato che il venditore esperto sa compiere
in base alle sue merci (per esempio scambiare frumento non solo con
orzo ma ricevendo in sovrappiù il mulo). È dunque preferibile tutto
ciò che possiede un certo valore: per esempio nelle realtà che
riguardano l’anima l’ingegno innato, l’arte, il far progressi e cose
analoghe; tra quelle che riguardano il corpo la vita, la salute, la
forza, il benessere, la attitudine, la bellezza e altre del genere.
Non preferibili al contrario sono, fra le realtà riguardanti
l’anima, la nascita umile, la mancanza di arte e cose analoghe, tra
le realtà riguardanti il corpo la morte, la malattia, la debolezza,
il malessere, la cecità, la vergogna e altre simili. Quelle che non
sono né l’una cosa né l’altra non sono soggette né a preferenza né a
non preferenza. Tra i preferibili, inoltre, alcuni lo sono di per
sé, altri in vista di altro, e altri ancora per tutti e due i
motivi. Di per sé sono preferibili cose come l’ingegno innato, il
far progressi e altre simili; in vista di altro la ricchezza, la
buona nascita, e altre analoghe; di per sé e in vista di altro la
forza, la capacità di avere buone sensazioni, l’attitudine. Di per
sé sono preferibili in quanto sono secondo natura; in vista di altro
perché possono procurare non poche utilità. Lo stesso si deve dire
dei non preferibili secondo il ragionamento opposto.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7, p. 79, 1 segg. Wachsmuth = SVF III, 118
Dicono cose indifferenti quelle che sono intermedie fra i beni e i
mali, e affermano che l’indifferente si distingue in due tipi: sotto
un certo aspetto esso è ciò che non è né bene né male, né da
scegliersi né da fuggirsi; sotto un altro è ciò che non muove né
appetizione né ripugnanza, e secondo questso modo alcune cose si
dicono indifferenti in assoluto (per esempio 〈l’avere in testa un
numero pari o dispari di capelli〉61 oppure il tendere un dito
in un modo o nell’altro, o raccogliere qualcosa che ci sta di
fronte, che sia paglia o fogliame). Nel primo senso, invece, gli
indifferenti sono ciò che è intermedio fra virtù e vizio … non sono
però del tutto indifferenti rispetto al problema della scelta o del
rifiuto: alcuni di essi hanno un certo valore che induce alla
scelta, e altri una certa capacità di esercitare repulsione,
tuttavia non in modo tale che possano conferire alla felicità della
vita.
SENECA, Epist, ad Luc., 82, 15 = SVF III, 120
Di quelle cose che chiamiamo intermedie, Lucilio, bisogna fare gran
distinzione. La morte non è certo altrettando indifferente quanto
l’avere in testa un numero pari di capelli.
STOBEO, Eclog. II, 7, 7c, 82, 5 segg. Wachsmuth = SVF III, 121
Inoltre degli indifferenti essi dicono che alcuni sono capaci di
suscitare attrazione e altri repulsione; e altri invece non
suscitano né attrazione né repulsione. Diciamo secondo natura quelli
che suscitano attrazione, e contro natura quelli che suscitano
repulsione; né attrazione né repulsione quelli che non appartengono
all’un genere né all’altro, come l’avere in testa capelli di numero
pari o dispari.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., 59 = SVF III, 122
Gli Stoici dicevano che la salute non è un bene, ma un indifferente.
E ritengono che l’indifferente si suddivida in tre tipi: sotto un
aspetto esso è ciò che non suscita attrazione né ripugnanza, come il
fatto che gli astri siano di numero pari o dispari o che lo siano i
capelli che abbiamo in testa; sotto un altro rispetto ciò che
suscita attrazione o ripugnanza, non tuttavia più l’una che l’altra
cosa, come per esempio se vi siano due dracme non differenti l’una
dall’altra per incisione o per nitore quale delle due si debba
scegliere (si tratta di cose che suscitano attrazione, ma non più
l’una che l’altra); infine in terzo luogo essi chiamano indifferente
ciò che non contribuisce alla felicità più di quanto non
contribuisca all’infelicità. Secondo quest’ultimo significato dicono
indifferenti cose come la salute, la malattia, tutte le cose
relative al corpo e le realtà esterne, per il fatto che esse non
conducono né alla felicità né all’infelicità. Ciò di cui è possibile
usare sia bene che male, è di per sé un indifferente; e mentre della
virtù non si può usare che bene e del vizio male, di cose come la
salute e altre relative al corpo è possibile usare sia bene che
male, ragion per cui esse van ritenute degli indifferenti. Inoltre
degli indifferenti alcuni sono preferibili, altri da respingersi,
altri ancora né l’una cosa né l’altra; preferibili sono quelli che
hanno in sé un sufficiente valore, da respingersi quelli che hanno
in sé un sufficiente disvalore, né l’una cosa né l’altra cose come
stendere o curvare un dito e ogni altra cosa di questo genere. Tra i
preferibili si possono annoverare la salute, la forza, la bellezza,
la ricchezza, la fama e altre simili cose; tra i non preferibili la
malattia, la povertà, il dolore e cose analoghe. Così affermano gli
Stoici62.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7f pp. 83-85 Wachsmuth = SVF III, 124-125,
128
Tutte le cose secondo natura hanno in sé un valore e tutte le cose
che sono contro natura hanno in sé un disvalore. Il valore si può
distinguere in tre tipi, (la stima (δόσις), il valore di per se
stesso, il ricambio di una cosa pregiata, e una terza forma che
Antipatro63 chiama «selettiva», cioè quella per cui, date certe
cose, noi scegliamo fra di esse quelle che sembrano offrirci di più
al confronto di altre, per esempio la salute anziché la malattia, la
vita anziché la morte, la ricchezza anziché la povertà.
Analogamente, in tre tipi si può suddividere il disvalore, nei
significati opposti a quelli enunciati per il valore. Diogene64 dice
che la stima equivale a un giudizio sulla misura in cui una cosa è
secondo natura o offre una utilità secondo natura. Quanto
all’espressione «pregiato» (δοκιμαστόν), non bisogna intenderlo nel
senso che si sottopongano le cose a esame circa il loro pregio65;
intendiamo che colui che valuta una determinata cosa ne sia in certo
modo esaminatore, in quanto un uomo siffatto sa valutare la portata
dello scambio. E questi sono i due tipi di valore per i quali
diciamo che certe cose eccellono per il loro pregio, mentre il terzo
tipo è quello per cui diciamo che alcune cose hanno pregio e valore,
il che non si verifica negli indifferenti, ma solo nelle cose buone.
Talvolta, dice, noi ci serviamo anche del termine di valore al posto
dell’espressione «ciò che spetta»: così per esempio quando si
applica alla giustizia la definizione «abito secondo cui si dà a
ciascuno secondo il suo valore», vale a dire secondo quanto spetta a
ciascuno.
Delle cose che hanno valore dicono che alcune ne hanno molto e altre
poco. E similmente le cose che presentano disvalore ne hanno alcune
molto e alcune altre poco. Quelle che hanno molto valore si dicono
preferibili, e quelle che hanno molto disvalore non preferibili; ed
è stato Zenone che per primo ha posto queste definizioni. Dicono che
è preferibile quello che, di per sé indifferente, tuttavia noi
scegliamo con un ragionamento preferenziale. Discorso analogo si fa
per ciò che non sia da preferirsi, e uguali sono per analogia gli
esempi. Nessuno dei beni è preferibile, per il fatto che essi hanno
il valore più alto; il preferibile, tenendo il secondo posto e
avendo in sé un valore secondario, in certa misura si avvicina alla
natura del bene; se pensiamo a una corte il re non si trova fra i
personaggi preminenti, ma vi si trovano i suoi più alti dignitari. E
si dicono preferibili non perché contribuiscano direttamente alla
felicità e cooperino con essa, ma per il fatto che di necessità
dobbiamo far scelta di essi piuttosto che dei loro opposti.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 15, 50-51 = SVF III, 129
Stando ben fermo il principio che è bene solo quello che è onesto e
male solo quello che è turpe, essi tuttavia ritennero che tra quelle
cose che non hanno alcun valore al fine di vivere in stato di
felicità o di infelicità vi sia pur sempre qualche differenza, si
che alcune di esse siano da tenersi in considerazione, altre no, e
altre né per l’una né l’altra cosa. Quanto a quelle che sono da
tenersi in considerazione, in esse vi sono sufficienti ragioni
perché noi le anteponiamo ad altre: così si può dire per la
salute, l’integrità degli organi sensori, l’assenza di
dolore, la fama, la ricchezza e cose del genere; altre invece non
sono di questo tipo, e quindi quelle che non sono da tenersi in
alcuna considerazione in parte hanno in sé ragioni sufficienti
perché noi le respingiamo — per esempio il dolore, la malattia, la
perdita di qualche organo sensorio, la povertà, la vergogna e altre
simili a queste — in parte poi non presentano nemmeno questa
caratteristica. Da ciò è derivato l’appellativo che Zenone dà
di προηγμένον e, di contro, ἀποπροηγμένον66.
CICERONE, De fin, bon. et mal., III, 16, 53-54 = SVF III, 130
Poiché tutto ciò che è bene diciamo che tiene il luogo più alto,
necessariamante ciò che chiamiamo anteposto o preferibile
(praepositum vel praecipuum) non è né bene né male. E quindi lo
definiamo: ciò che è indifferente ma dotato di un relativo valore.
Non poteva avvenire in altro modo che si lasciasse fra le cose
intermedie ciò che è secondo natura o contro natura né, facendo
questo, che non si ponesse fra tali cose alcunché dotato di un certo
valore, e, posto questo, che non si ritenesse anche qualcosa
preferibile ad altro… E da essi è fatta anche questa similitudine:
se ci immaginiamo che ci si ponga quasi come scopo e risultato il
gettare un dato in maniera tale che cada dalla parte retta, quello
che lo getta con l’intenzione di farlo cadere così, opta per un
determinato fine, e quello che tende a farlo cadere in maniera
diversa per un fine contrario, ma una simile scelta preferenziale
non ha poi in realtà nulla a che vedere col fine che ho detto; così
allo stesso modo le cose che vengono preferite hanno un riferimento
in certo modo al fine, ma non hanno nulla a che vedere con esso
intrinsecamente e secondo natura.
STOBEO, Eclog., II, 7, 50, p. 75, 1 segg. Wachsmuth = SVF IIΙ, 131
Dicono ch’è differente ciò ch’è da scegliersi e ciò ch’è da
accettarsi (ληπτόν). Da scegliersi è ciò che è capace di suscitare
attrazione perfetta; 〈da accettarsi ciò che scegliamo in base a
ragionamento〉67. Quanto differisce ciò ch’è da scegliersi da ciò
ch’è da accettarsi, altrettanto differisce ciò ch’è da scegliersi di
per sé da ciò ch’è da accettarsi di per sé, e in generale ciò ch’è
bene da ciò che ha semplicemente valore.
CICERONE, De fin, bon. et mal., IV, 14, 39 = SVF III, 132
L’impulso naturale, che chiamano ὁρμή, ugualmente il dovere, la
stessa virtù, essi dicono appartenere alle cose che sono secondo
natura. Ma quando vogliono poi giungere al termine ultimo passano
sopra a tutte queste distinzioni e ci indicano due operazioni da
compiere, lo scegliere e l’accettare, invece di porre a
conclusione un solo fine.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7h, p. 80, 14 segg. Wachsmuth = SVF III, 133
Inoltre delle cose indifferenti dicono che alcune hanno in sé
maggior valore e altre meno, e alcune sono di per sé, altre
efficienti e alcune preferibili, altre non preferibili, altre
né l’una cosa né l’altra. Preferibili sono quelle cose che, pur
essendo indifferenti, hanno in sé molto valore, come può esservi fra
gli indifferenti; non preferibili quelle che hanno in sé molto
disvalore, in forma analoga; né preferibili né il contrario quelle
che non hanno in sé né molto valore né molto disvalore.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 17, 56 = SVF III, 134
Quelle cose che diciamo preferibili, parte lo sono di per se stesse,
parte per gli effetti che producono, e altre ancora per l’una e per
l’altra ragione; per sé, cose come un certo atteggiamento della
faccia e del volto, un certo stato o movimento, tali che in essi vi
sia qualcosa da preferirsi o qualcosa da respingersi; altre perché
producono determinati effetti, per esempio il denaro; altri ancora
per entrambi i motivi, per esempio l’integrità degli organi sensori
o la buona salute.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7b, pp. 80, 81 Wachsmuth = SVF III, 136
Dei preferibili alcuni riguardano l’anima, altri il corpo, altri le
cose esterne. Riguardano l’anima cose come l’ingegno innato, il
progredire, l’acume della mente, l’abito per cui si rimane fermi nel
compiere il dovere, la capacità di attuare quelle arti che possono
conferire in alto grado al raggiungimento della vita secondo natura.
Preferibili concernenti il corpo sono la salute, l’integrità dei
sensi e cose analoghe a queste; preferibili esterni l’aver genitori,
figli, un possesso misurato, buona accoglienza presso gli uomini.
Quanto ai non preferibili, sono le cose opposte a quelle anzidette,
per ciò che concerne l’anima, e analogamente per ciò che concerne il
corpo e le cose esterne sono quelle antitetiche a quanto detto
sopra. Fra le cose né preferibili né da respingersi si possono
annoverare, per quel che riguarda l’anima, la rappresentazione,
l’assenso e cose analoghe; per quel che riguarda il corpo, l’esser
bianchi o neri o cerulei, e ogni piacere o dolore, o altre cose del
genere; le cose esterne né da preferirsi né da respingersi sono
quelle di poco conto e che, non capaci di fornire alcun vantaggio,
hanno da esse derivante una utilità ben misera.
In quanto l’anima è superiore al corpo anche riguardo alla vita
secondo natura, dicono che le realtà concernenti l’anima che sono
secondo natura e preferibili sono superiori in valore a quelle che
riguardano il corpo e le cose esterne: così per esempio la buona
disposizione naturale alla virtù è superiore all’innato vigore
fisico, e similmente si può dire per le altre cose.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7a, p. 79, 18 segg. Wachsmuth = SVF III, 140
Alcune cose sono secondo natura, altre contro natura, altre ancora
né secondo natura né contro natura. Secondo natura sono realtà come
la salute, la forza, l’aver sensi adatti allo scopo, e altre
analoghe; contro natura cose come la malattia, la debolezza, la
privazione di qualche organo sensorio, e altre analoghe; né secondo
natura né contro natura cose come una costituzione dell’anima e del
corpo tali che l’una possa accogliere in sé rappresentazioni false e
l’altro ferite e mutilazioni, e altre cose del genere. Dicono che la
trattazione di questo punto ha a suo fondamento68 lo studio di
quelle cose che sono prime secondo natura o contro natura. Ciò che è
differente e ciò che è indifferente appartiene alle realtà di tipo
relativo. Perciò quando, essi dicono, affermiamo che sono
indifferenti le cose relative al corpo o le cose esterne, diciamo
ciò in relazione al vivere decorosamente (che è anche vivere
felicemente), e non, per Zeus, in relazione al fatto che siano o no
secondo natura, o che suscitino attrazione o repulsione.
STOBEO, Eclog., II, 7, 7d-e, p. 82, 11 segg. Wachsmuth = SVF III,
141-142
Di quelle cose che sono indifferenti secondo natura, alcune sono
realtà prime secondo natura, altre lo sono per partecipazione.
Realtà prime secondo natura sono il movimento o lo stato che si
verifica in virtù delle ragioni seminali, come 〈l’attitudine〉69 e la
salute e la sensazione (dico quella propria della comprensione) e la
forza. Per partecipazione sono invece quelle che partecipano del
movimento o dello stato che si verifica in virtù delle ragioni
seminali: per esempio una mano atta a compiere certe operazioni, un
corpo sano, sensazioni integre. Similmente per analogia si può dire
di quelle realtà che sono contro natura.
Tutte le cose secondo natura sono da accettarsi e tutte quelle
contro natura da non accettarsi. E di quelle secondo natura alcune
sono da accettarsi di per sé, altre per altro. Di per sé lo sono
quelle che sono capaci di suscitare un’attrazione rivolta ad esse o
al possesso di sé, come la salute, l’integrità dei sensi, la
mancanza di dolore, la bellezza del corpo. Sono efficienti quelle
che sono capaci di suscitare una attrazione non rivolta a se stesse
ma per inferenza70 ad altre cose, come la ricchezza, la fama ed
altre analoghe. Similmente anche delle cose che sono contro natura
alcune sono tali di per sé, altre per il fatto che producono come
effetti cose che non sono accettabili di per sé.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 6, 20 = SVF III, 143
Dicono cosa avente valore … ciò che o è di per sé secondo natura o
ha come effetto qualcosa che è tale da esser degno che lo si scelga,
perché ha una certa portata degna di quel valore che essi chiamano
ἀξία; e di contro chiamano disvalore, ciò che sia l’opposto di
quanto si è detto.
ARRIANO, Epictet. Diss., I, 4, 27 = SVF III, 144
Se ci fosse bisogno di aver subito una delusione per accorgersi che
delle cose esterne, che non sono state oggetto di scelta, nessuna ha
importanza per noi, venga pure per me una delusione simile, che mi
permetterà poi di vivere piacevolmente e senza perturbazione… Che
cosa ci offre Crisippo? «per apprendere, dice, che non sono false
queste cose da cui deriva serenità e assenza di perturbazioni,
prendi tutti i miei libri, e apprenderai come siano le cose 〈vere〉71
e coerenti alla natura che mi rendono imperturbabile».
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 167, 13 segg. Bruns
= SVF III, 145.
Inoltre le cose che sono convenienti, preferibili, utili, a che
titolo hanno questi nomi se non contribuiscono in niente alla
felicità? Ogni cosa, infatti, che sia preferibile, è preferita in
vista di qualcosa, e per il fatto che può procurarla meglio e più
che un’altra realtà; e per questo si dice che la si preferisce in
vista del fine, ed è chiaro che la scelta preferenziale di cose
siffatte contribuisce al raggiungimento della felicità. Ma se invece
tale scelta non ha alcun valore in vista della felicità, e tuttavia
coopera al raggiungimento della vita secondo natura (…); allora c’è
da chiedersi che cosa sia esattamente la vita secondo natura, se sia
un bene, oppure non un bene ma pur sempre qualcosa di conveniente e
preferibile, oppure se non sia addirittura estraneo a noi, da non
preferirsi, totalmente indifferente. Se però è un bene … allora
bisogna ammettere che non solo l’onesto è bene, ma lo è anche la
vita secondo natura.
PLUTARCO, De comm. not., 4, 1060c = SVF III, 146
(Gli Stoici) sono coloro che ritengono indifferenti le cose secondo
natura, che pensano che cose quali la salute, il benessere, la
bellezza, la forza non siano da scegliersi, né utili, né
vantaggiose, né tali da compiere la perfezione secondo natura; e
analogamente che non siano da fuggirsi né che rechino danno le
opposte, come le menomazioni, i dolori, la vergogna, le malattie. Di
esse dicono che le une son tali che la natura ce le rende parenti e
proprie, mentre le altre ce le rende estranee e allotrie … e, ciò
ch’è ancora di più, ammettono che questo apparentamento e questa
estraneità hanno tanta forza da far sì che alcuni, non potendo
ottenere le une cose e incidendo per sorte nelle altre,
ragionevolmente compiono l’atto del distacco dalla vita e rifiutano
di continuare a vivere.
TEODORETO, Graec. affect. cur., XI, 15, pp. 595-397 Canivet = SVF
III, 149
Gli Stoici diedero la sentenza direttamente opposta a questi.
Definirono il fine «vivere coerentemente a natura», e dissero che
l’anima non può ricevere alcun vantaggio o alcun danno dal corpo:
infatti né la salute può spingerla contro la sua volontà alla virtù,
né la malattia può trascinarla contro la sua opinione al vizio;
queste cose, dicevano, sono indifferenti. Particolarmente impudente
è questa loro affermazione: dicevano che la virtù dell’uomo e quella
della divinità non si differenziano fra loro.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 5, 19, 1, p. 256 Stählin = SVF
III, 150
È degno di meraviglia anche ciò che dicono alcuni degli Stoici72,
che l’anima non subisce alcuna disposizione per opera del corpo, né
al vizio per via di malattia, né alla virtù per via di buona salute;
cose che, essi dicono, sono entrambe indifferenti.
SENECA, Epist. ad Luc., 87, 12 = SVF III, 151
Ciò che è bene, rende anche buoni: per esempio, ciò ch’è buono
nell’arte della musica fa il buon musico. Le cose accidentali non
rendono buoni: e dunque non sono beni esse stesse… Ciò che può
toccare in sorte anche a un qualsiasi uomo spregevole e sciagurato,
non può essere un bene; ma la ricchezza può toccare in sorte anche a
un lenone o a un assassino; dunque essa non è un bene… Il bene non
può derivare dal male; ma la ricchezza ne deriva; infatti può
derivare dall’avidità. Non è dunque un bene… Né è un bene ciò che,
mentre ci sforziamo di ottenerlo, ci fa incidere in molti mali. Ma
questo ci accade mentre ci sforziamo di ottenere la ricchezza;
questa, quindi, non è un bene.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 201, 21 segg.
Wallies = SVF III, 152
Se è così, sembra che a questo proposito abbiano detto bene gli
Stoici: «ciò che si verifica per mezzo di un male non è un bene; ma
la ricchezza può ottenersi anche col meretricio, che è un male; essa
non è dunque un bene».
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 5, 17 = SVF III, 154
La maggior parte degli Stoici ritiene che il piacere non sia da
porsi fra le cose che sono prime secondo natura … perché, se si
dovesse credere che la natura ha posto il piacere fra le realtà che
si ricercano per attrazione primaria, ne scaturirebbero molte
conseguenze disdicevoli.
SESTO EMPIRICO, Adv. eth., XI, 73 = SVF III, 155
Per esempio Epicuro dice che il piacere è un bene; mentre un male lo
considera quel tale73 che dice: «vorrei esser folle piuttosto che
godere»; gli Stoici lo considerano indifferente e non fra i
preferibili: tuttavia fra di essi Cleante dice che esso — così come
non è secondo natura un bell’ornamento — non è secondo natura né ha
alcun valore nella vita; Archedemo dice che è secondo natura ma non
ha valore, così come sono ad esempio i peli nelle ascelle; Panezio
ritiene che vi siano piaceri secondo natura e altri contro natura74.
SENECA, Epist. ad Luc., 102, 5 = SVF III, 160
Le obiezioni dei dialettici contro questa opinione (= che la fama
dopo la morte è un bene) dovevano esser trattate a parte, e le ho
quindi isolate. Poiché vuoi che le tratti ad una ad una, tratterò di
tutte le cose che essi dicono. Ma non si potrà capire la mia
confutazione se non premetterò qualcosa. Che cos’è che vorrei
premettere? I corpi sono alcuni continui, come un uomo, alcuni
composti, come una nave o una casa, le cui diverse parti sono
congiunte in una struttura d’insieme; altri ancora constano di
entità a sé stanti, perché fatti di parti separate, come l’esercito,
il popolo, il senato: le realtà che stanno insieme in corpi di
questo genere sono tenute insieme da una funzione o da un principio
giuridico, per natura sono scisse l’una dall’altra. Che cosa ancora
premettere? Non riteniamo essere un bene nessuna di quelle realtà
che constano di elementi a sé stanti: una realtà che è bene deve
esser tenuta insieme e diretta da un solo spirito, e uno solo deve
essere il bene che è la sua parte direttiva. Questo è un principio
che, se ne sentirai l’esigenza, potrà esser dimostrato a parte; ma
adesso si è dovuto porlo perché sono le stesse argomentazioni della
nostra scuola che noi dobbiamo controbattere.
«Voi affermate» dice il dialettico «che nessuna cosa che consti di
parti a sé stanti è un bene; ma la fama di cui si parla non è altro
che l’opinione a voi favorevole di più uomini buoni. Infatti, così
come la buona riputazione non è il discorso di uno solo, né la
cattiva è la disistima di uno solo, così la fama non può consistere
nel piacere a un solo uomo buono: in ciò devono consentire più
uomini insigni e ragguardevoli, perché ci possa essere la fama.
Quindi, se essa consta dei giudizi di molti, cioè di più persone a
sé stanti, essa non è un bene. E ancora: la fama è la lode resa dai
buoni a chi è buono. Ma la lode è un discorso; e il discorso è una
voce; e la voce, anche se sia di uomini buoni, non è un bene …
dunque la fama non è un bene… E infine diteci se si tratta di un
bene per chi loda o per chi è lodato: se dite che un bene per chi è
lodato, rendete la cosa ridicola come se affermaste che torna a mio
bene il fatto che un altro stia bene. Tuttavia lodare chi è degno è
un’azione onesta; si può dire perciò che sia un bene per chi loda,
cioè un bene per colui che fa l’azione e non per noi che ne
siamo l’oggetto; ma proprio questo si poneva in discussione»75.
Scholia ad Platonis Leges, I, 625a, p. 297 Greene = SVF III, 161
E gli Stoici, imitando Platone, dicono che la fama è giustizia che
si rende ad azioni buone, mentre la buona reputazione è opinione che
concerne azioni senza particolare valore.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., II, 22, 138, 5, p. 189 Stählin = SVF
III, 163
Inoltre secondo gli Stoici il matrimonio e l’allevare i figli sono
cose indifferenti.
TEODORETO, Graec. affect. cur., XII, 75, p. 440 Canivet = SVF III,
164
Quelli della Stoa Pecile tennero la via di mezzo: ricollegarono
infatti matrimonio e generazione di figli alle cose indifferenti.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaestiones, IV, 1, p. 119, 23 segg.
Bruns-SVF III, 165
Come non sarebbe assurdo il dire allo stesso tempo che la natura ci
ha apparentati con questo (il vivere) e ci spinge a compiere tutto
in vista della nostra conservazione, e negare poi che questo cui la
natura ci ha apparentati sia un bene?
SENECA, Epist ad Luc., 85, 30 = SVF III, 166
Ciò che è male nuoce, e ciò che nuoce rende peggiore; ma il dolore e
la povertà non rendono peggiori; non sono quindi mali.
GELLIO, Noctes Att., XII, 5, 4 = SVF III, 168
Se l’asprezza del dolore, dice, è tanta da … spingere l’uomo a
gemere contro la sua volontà … perché gli Stoici dicono che il
dolore è un indifferente, e non un male? perché, dunque, un uomo
stoico può esser costretto da qualcosa, o può il dolore costringere,
se gli Stoici stessi dicono che il dolore non può costringere a
nulla e che a nulla il sapiente può esser costretto?
STOBEO, Eclog., II, 7, 9, p. 86, 17 segg. Wachsmuth = SVF III, 169
Dicono che ciò che desta l’appetizione non è altro che una
rappresentazione appetitiva e immediata di ciò ch’è conveniente;
l’appetizione poi è un moto dell’anima verso qualcosa secondo il
genere. Riguardo alla specie poi si distinguono fra loro
l’appetizione che è propria degli esseri viventi dotati di ragione e
quella che è propria degli animali irragionevoli; però esse non
hanno nomi distinti; infatti l’impulso a desiderare non è
l’appetizione degli esseri ragionevoli, ma è solo una specie di
questa. Giustamente si potrebbe definire l’appetizione degli esseri
ragionevoli come un moto del pensiero verso qualcuna delle cose che
fanno parte dell’agire: e ad essa si contrappone la repulsione, che
è un moto (del pensiero di distacco da alcune delle cose che tanno
parte dell’agire)76. Propriamente essi definiscono come una forma di
appetizione anche lo slancio, che è una specie dell’appetizione
tipica dell’agire: lo slancio è moto del pensiero verso qualcosa che
deve verificarsi. Così ne deriva che l’appetizione abbia quattro
forme, e due la repulsione; se poi si aggiunga l’abito appetitivo,
che anche chiamano propriamente appetizione, in quanto l’appetire
deriva da esso, le specie della prima diventano cinque.
SENECA, Epist. ad Luc., 113, 8 = SVF III, 169
Ogni animale ragionevole agisce solo in quanto inizialmente è
stimolato dalla visione di qualcosa: di lì riceve un impulso, il
quale è poi confermato dall’assenso. Dirò che cos’è l’assenso: per
esempio, io devo camminare, ma cammino veramente quando ho detto ciò
a me stesso e ho approvato questa mia opinione.
ORIGENE, Comm. in Matth., Χ, p. 5 Klostermann = SVF III, 170
E ciò è avvenuto anche in altri casi, come è stato osservato dagli
esperti a proposito della posizione di più nomi: essi dicono che
appetito è il genere sommo di più specie, per esempio di appetito e
di repulsione; e dicono che il termine specifico è uguale a quello
generico perché il significato di appetito lo si coglie in
contrapposizione a quello di repulsione.
STOBEO, Eclog., II, 7, 9b, p. 8, 1 segg. Wachsmuth = SVF III, 171
Tutti gli appetiti sono anche assensi, e quelli relativi all’agire
contengono in sé anche un aspetto di impulso. Gli assensi puri e
semplici hanno determinati oggetti, le appetizioni sono rivolte a
determinati oggetti; gli assensi riguardano certi giudizi, e le
appetizioni i predicati che sono compresi in quei giudizi sui quali
verte l’assenso.
GALENO, De animi pecc. dignosc., 1, V, p. 58 Kühn = SVF III, 172
Comincerò da un principio ottimo … che cosa si dica esser
propriamente l’errore, mostrando nel mio ragionamento come di
questa espressione si servano tutti i Greci, ma talvolta
intendendolo come il non giungere a un retto giudizio, in senso cioè
puramente riferito alla parte razionale dell’anima, altre volte più
in generale, come tale da riguardare anche la parte irrazionale…77.
Che cosa sia un assenso dato a un errore, è cosa su cui tutti sono
d’accordo; ma non tutti sono d’accordo circa l’assenso debole. Ad
alcuni infatti sembra meglio porre l’assenso debole come posizione
intermedia fra virtù e vizio; e dicono che l’assenso debole si
verifica quando non siamo ancora convinti della verità di qualcosa
così come lo possiamo essere del fatto che si abbiano cinque dita
per ciascuna mano o che due per due fa quattro. Forse si potrebbe
dire che in un vecchio che ha atteso agli studi tutta la vita vero
errore è l’aver assentito debolmente a qualcosa che è suscettibile
di dimostrazione scientifica; la scienza di chi studia la geometria,
che verte sulle dimostrazioni degli Elementi di Euclide deve essere
tale quale è la convinzione del volgo che due più due fa quattro… Se
si è in certa misura in dubbio e non si ha quell’assenso che essi
chiamano comprensione, si potrebbe dire che ci troviamo in errore
così come quello studioso di geometria lo è nel suo campo. Rovinose
sono le opinioni e l’assenso debole, o falso o precipitoso, di colui
che sbaglia nel corso della sua vita in merito alla conoscenza, al
possesso, al rifiuto di ciò ch’è bene e ciò ch’è male: qui in questo
campo il pericolo è assai grande, grandissimo l’errore quando diamo
il nostro assenso in maniera errata a un’opinione circa il bene e il
male.
STOBEO, Eclog., II, 7, 9a, p. 87, 14 segg. Wachsmuth = SVF III, 173
Dell’appetizione pratica vi sono più specie fra cui le seguenti:
l’intenzione, il proposito, la disposizione, l’intraprendere, 〈la
scelta〉78, la libertà del volere, la decisione, la volontà vera e
propria. L’intenzione dicono che è la segnalazione del voler
compiere qualcosa; il proposito è un impulso anteriore all’impulso
stesso; la disposizione è un’azione prima dell’azione;
l’intraprendere una cosa è impulso verso qualcosa che già in certo
modo è nelle nostre mani; la scelta è un atto di volontà mediante
ragionamento; la libertà del volere è un atto di scelta prima della
scelta; la decisione è una appetizione ragionevole; la volontà vera
e propria è un atto di decisione volontaria.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VII, 7, 38, 2, p. 29 Stählin = SVF
III, 176
I voti hanno per oggetto quelle cose di cui si ha impulso e
desiderio, e per dire in generale appetizione; perciò nessuno
desidera la bevanda, ma desidera di bere una bevanda, e nessuno
desidera l’eredità, ma di ereditare qualcosa, e ugualmente non la
conoscenza ma il conoscere e non il buon governo ma l’essere ben
governati. Per tutte queste cose, che sono oggetto di domanda, si
fanno voti; e le cose che sono oggetto di domanda lo sono anche di
desiderio; il far voto di avere una cosa e il tendere affettivamente
verso di essa sono due forme scambievoli del tendere a possedere
certi beni e i vantaggi che da essi derivano.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 163, 14 segg. Bruns
= SVF III, 180
Infatti la natura che ci ha dato l’anima ci ha dato anche il corpo,
e ci ha forniti delle perfezioni e disposizioni relative all’una e
all’altro, sì che chi sia privato di una di queste perfezioni non
può vivere secondo natura (il vivere secondo natura s’intende
infatti come vivere secondo il volere della natura); ma se è così
non può neanche vivere felicemente.
GELLIO, Noctes Att., XII, 5, 7 = SVF III, 181
Egli79 dice: «la natura del tutto, che ci ha generati, ci ha fatti
nascere e crescere coerentemente in base a determinati
principi, l’amore e l’affezione per noi stessi, di modo che
nulla possa essere a noi più caro e importante di noi stessi; e ha
stabilito che questo fosse il fondamento su cui si basa la
perpetuità della stirpe umana, dal momento che ciascuno di noi, non
appena venuto alla luce, accoglie in sé originariamente la
percezione e l’attaccamento a quelle cose che dagli antichi
filosofi sono chiamate πρῶτα κατὰ φύσιν, godendo dei vantaggi che
riguardano il suo corpo e rifuggendo dai danni. Poi, col crescere
dell’età, dai suoi semi è nata anche la ragione, la capacità di
usare di riflessione, la conoscenza di quell’onesto in cui risiede
la vera utilità e una scelta più acuta e meditata di quelli che sono
gli autentici vantaggi e il loro opposto; in tal modo si è rivelato
superiore a tutto il resto lo splendore di ciò ch’è onesto e degno,
e si è appreso a disprezzare qualche svantaggio estrinseco pur di
possedere e tener fermo alla virtù: si è appreso a ritenere che
nessun bene è veramente tale se non l’onesto, e a non considerare
male nulla altro che non sia ciò ch’è vizioso. Si è anche ritenuto
che tutte le altre cose, che stanno in mezzo fra la virtù e il vizio
non sono né l’uno né l’altro, non sono in realtà né beni né mali.
Tuttavia, per ciò di cui esse possono esser causa e ciò cui sono
relative, queste realtà sono state distinte a seconda della loro
importanza in preferibili e non preferibili (essi le chiamano
προηγμένα e ἀποπροηγμένα). E perciò piacere e dolore, in relazione
al fine stesso, che è vivere bene e felicemente, sono stati
collocati fra le cose intermedie, e considerati né un bene né un
male.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 5, 16 = SVF III, 182
Essi ritengono che … non appena un essere vivente sia nato (giacché
bisogna prendere le mosse di qui) il suo primo istinto sia quello di
amare se stesso e di pensare alla propria conservazione, e di
prediligere la propria sussistenza e quello che serve ad affermarla;
e anche quello di aborrire dalla morte e da quelle cose che appaiono
causa di essa. Che sia così lo provano col fatto che i piccoli,
prima ancora di aver la nozione del piacere e del dolore, cercano le
cose che li mantengono in vita e fuggono quelle opposte, il che non
potrebbe avvenire se non amassero la propria sussistenza e temessero
la morte. Non potrebbe avvenire che essi avessero appetizione per
qualcosa se non avessero coscienza di sé80 e in virtù di ciò non
amassero se stessi. Da ciò si deve comprendere come il principio di
tutto derivi dall’amore per se stessi.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 150, 25 segg.
Bruns = SVF III, 183
Si è ricercato fra i filosofi quale sia il primo istinto
connaturato, e non tutti sono d’accordo riguardo ad esso; anzi la
differenziazione fra quelli che hanno trattato dell’argomento è
quasi altrettanto marcata a proposito della prima appetizione di
quanto non lo sia a proposito dell’ultima e suprema. Gli Stoici —
non tutti però81 — dicono che il primo istinto è quello che
l’animale ha verso se stesso (ogni essere vivente intatti, non
appena nato, è apparentato con se stesso, e così pure l’uomo); altri
ritenendo di esprimere ciò con maggior eleganza e di articolare
meglio il discorso dicono che riguardo a noi stessi noi siamo spinti
da affetto istintivo verso la nostra sussistenza e conservazione
appena nati.
SENECA, Epist. ad Luc., 121, 5 = SVF III, 184
Ci chiedevamo se tutti gli esseri viventi abbiano il senso della
propria sussistenza? Ciò appare chiaro soprattutto dal fatto che
essi muovono in maniera adeguata e spontanea le membra così come le
muoverebbero se ciò fosse stato loro insegnato… La prima
sussistenza, come voi dite, non è altro che il modo come la parte
direttiva dell’anima si comporta nei riguardi del corpo… Voi dite
che ogni essere vivente ha come istinto originario quello di amare
la propria sussistenza; ma la sussistenza nell’uomo si identifica
con la sua struttura razionale, e quindi l’uomo ama istintivamente
se stesso non tanto come essere vivente quanto come essere
razionale. L’uomo è caro a se stesso per quella parte di sé che lo
rende uomo82.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 162, 29 segg.
Bruns = SVF III, 185
Il dire che noi amiamo istintivamente più cose, e in pari tempo che
non ci importa quali esse siano in se stesse, è dire cose
contraddittorie.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 7, 23 = SVF III, 186
Dal momento che tutti i doveri hanno il loro punto di partenza nei
principi primi, lì deve anche di necessità avere il suo punto di
partenza la sapienza. Ma così come avviene talvolta che chi è stato
raccomandato da qualcuno a un altro tenga in maggior considerazione
quello cui lo è stato che non quello dal quale lo è stato, così non
è affatto da stupirsi che per prima cosa noi siamo raccomandati alla
sapienza dai primordi naturali, e poi la sapienza di per sé ci
diventi più cara che non quegli stessi primordi dai quali siamo
partiti per giungere a lei.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 5, 17 = SVF III, 187
Appare prova sufficiente di ciò — perché noi amiamo quelle realtà
che sono richieste primariamente dalla natura — il fatto che
nessuno, se la scelta fosse possibile, amerebbe avere le parti del
corpo menomate e inadatte anziché integre e atte all’uso.
CICERONE, De fin. bon. et mal, III, 6, 20 = SVF III, 188
Dal momento che il principio è stabilito in modo tale che le cose
che sono secondo natura sono da scegliersi di per sé e quelle
opposte allo stesso modo da respingersi, il primo dovere (così
chiamo quello che essi dicono καθῆκον) è di conservarsi nello
stato in cui ci ha posti la natura, poi di tener fermo alle cose che
sono secondo natura e respingere le contrarie; e una volta accertata
questa scelta e questo rifiuto ne consegue una scelta congiunta col
dovere, che si fa poi perenne e infine costante e coerente a natura,
nella quale si trova il principio primo e la prima comprensione di
ciò che veramente possa dirsi il bene. Primo di ogni altro istinto
nell’uomo è quello che lo apparenta alle cose che sono secondo
natura. Non appena poi egli raggiunga la comprensione, o piuttosto
quella nozione che essi chiamano ἔννοια, e veda in quale ordine si
devono compiere le azioni e quale sia la loro coerenza, egli farà
molto più conto di questa che di tutte quelle cose che aveva amato
in un primo tempo; e così con la conoscenza e con la ragione è
giunto a stabilire che qui è riposto quel sommo bene dell’uomo che è
da cercarsi e da lodarsi di per sé. Poiché questo è posto in quello
che gli Stoici chiamano ὁμολογία … Consistendo esso in quel bene al
quale sono da riferirsi tutte quante le cose, le azioni oneste e lo
stesso onesto, che solo si stima essere fra i beni, anche se viene
emergendo in un secondo tempo, tuttavia è da desiderarsi in virtù
del solo suo valore, della sola sua dignità; mentre delle cose che
sono prime secondo natura nessuna è da desiderarsi di per sé.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 5, 17-18 = SVF III, 189
La conoscenza delle cose, che può esser chiamata comprensione o
percezione (o, se queste parole non sembrano render bene la cosa o
non esser ben comprese, καταλήψεις), riteniamo debba esser cercata
di per se stessa, poiché ha in sé qualcosa che per così dire
abbraccia e contiene la verità. Ciò si può comprendere anche dal
comportamento dei bambini, i quali, vediamo, gioiscono — anche se
non ricavino un vantaggio immediato — se scoprono qualcosa da sé con
la ragione. Anche le arti crediamo che siano da desiderarsi di per
se stesse, sia perché in esse vi è qualcosa di degno che lo si
accetti, sia perché constano di conoscenze e contengono in sé
qualcosa di razionale e metodico. Essi ritengono poi che noi siamo
più alieni dall’assenso errato che non da tutte le altre cose che
sono contro natura.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 9, 31 = SVF III, 190
Che cosa c’è di più evidente del fatto che, se non vi fosse nessuna
possibilità di secernere ciò che è contro natura da ciò ch’è invece
secondo natura, si eliminerebbe tutta quella saggezza che si cerca e
si loda?83
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 163, 4 segg.
Bruns = SVF III, 192
Dicono che «alcune cose sono preferibili per il sapiente, e aventi
valore, e convenienti e attrattive», ma anche che «se fosse posta
separatamente da una parte la virtù più tutte queste cose,
dall’altra la sola virtù, mai il sapiente sceglierebbe la virtù
isolata, se gli fosse possibile averla insieme con tutto il resto»;
se è così, è chiaro che il sapiente necessita di quelle tali cose.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p, 164, 7 segg.
Bruns = SVF III, 193
Se fosse indifferente il possesso delle cose che si scelgono e non
contribuisse al fine in modo alcuno, tale scelta sarebbe inutile.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 163, 32 segg.
Bruns = SVF III, 194
Inoltre, se secondo loro queste cose cadono sotto scelta da parte
della virtù, e se la natura per compiere la scelta di quelle cose
che sono a noi convenienti e il rifiuto di quelle opposte consegue
la virtù, sarà possibile che si scelgano i beni esterni e relativi
al corpo ma poi non si tenga alcun conto di essi?
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 164, 32 segg,
Bruns = SVF III, 194
Quanto ai beni relativi al corpo ed esterni, anch’essi dicono che
sono in vista della virtù, in quanto questa ne fa scelta e se li
procura.
PLUTARCO, De comm. not., 26, 1071a = SVF III, 195
Se dunque le cose che sono prime secondo natura non sono beni, ma
tuttavia è ragionevole farne scelta e accettarle e fare tutto ciò
che sta in noi per averle in sorte, le nostre azioni devono avere
tutte questo scopo, di ottenere le cose prime secondo natura; non è
verosimile che noi raggiungiamo il fine senza tentare di averle né
senza averle conseguite, essendo il fine diverso da ciò cui quelle
devono riferirsi, essendo cioè non esse di per sé ma la scelta di
esse; esse di per sé, e il possederle, non è il fine, ma si pone
come un sostrato di questo, avente in sé un valore che lo fa
sceglibile; e credo che questo voglia dire l’espressione ch’essi
dicono e scrivono quando vogliono mettere in luce questa differenza.
MARCO FRONTONE, Epist. ad M. Antoninum, p. 143 Naber = SVF III, 196
Chi può dubitare che le cose che distinguono il saggio dallo stolto
siano soprattutto la saggezza, la scelta che compie fra le cose,
l’opinione? Per esempio, se vi è possibilità di scegliere fra la
ricchezza e la povertà, nonostante che l’una e l’altra non
abbiano niente a che vedere col vizio e con la virtù, tuttavia la
scelta potrà essere soggetta a lode e riprensione. È infatti dovere
precipuo del sapiente scegliere rettamente e non preferire o
posporre alcunché a casaccio. Se tu mi chieda se io desideri di
avere buona salute, ti dirò certamente di no, se sono un filosofo;
non è lecito infatti a un filosofo desiderare o tendere a qualcosa
che si può discutere se egli non desideri invano, né egli dovrà
desiderare niente di ciò che comprenda essere nelle mani della
sorte. Tuttavia, se di necessità si dovesse scegliere l’una
cosa ο l’altra, sarebbe da scegliersi piuttosto la velocità di
Achille che l’infermità di Filottete.
LA VIRTÙ, LA LEGGE MORALE, GLI AFFETTI
CICERONE, Tusc. Disp., IV, 15, 34 = SVF III, 198
La virtù è una disposizione dell’anima costante e conveniente, che
rende lodevoli coloro in cui risiede… La stessa virtù, con
definizione brevissima, può dirsi la retta ragione.
Commenta Lucani, p. 75 Usener = SVF III, 199
Non si fa alcuna menzione della saggezza, ma quando si dice «onesto»
si intende quella generale virtù la cui definizione è: «abito
di vita coerente». Ma si può intendere anche quella per analogia,
anche se espressamente ci si riferisce alle altre; infatti chi
nomina la virtù in generale comprende anche le specie di essa, e chi
nomina le specie anche la virtù come genere.
SENECA, Epist. ad Luc., 31, 8 = SVF III, 200
A ciò si deve aggiungere il fatto che la virtù perfetta sia coerenza
con se stessi e un abito di vita in tutto uniforme, il che non può
verificarsi se non si possieda quella scienza e arte in virtù della
quale si conoscono le realtà umane e divine84.
SENECA, Epist. ad Luc., 76, 9 = SVF III, 200a
Che cosa l’uomo ha di più proprio? la ragione: per questa è
superiore agli animali, mentre è inferiore agli dèi. La perfezione
della ragione è dunque il suo bene peculiare; le altre cose gli sono
in comune con gli animali e le piante.
ANONIMO, In Arist. Eth. Nicom., p. 128, 5 Heylbut = SVF III, 201
È da sapersi che anche prima degli Stoici c’era questa dottrina, che
pone le virtù nell’impassibilità.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. Alleg., I, 56, I, p. 75, 6 segg. Wendland
= SVF III, 202
Queste sono le virtù particolari e gli atti di per sé, e le azioni
rette, e quelli che dai filosofi sono chiamati i doveri. Alcune
delle arti sono di carattere teoretico e non pratico, come la
geometria o l’astronomia, altre di carattere pratico e non
teoretico, come quella del falegname o del fabbro, o tutte quelle
che si dicono banausiche. La virtù è insieme pratica e teoretica: ha
in sé la teoria, in quanto la via che porta ad essa è quella della
filosofia con le sue tre parti, logica, etica, fisica; ma comprende
anche l’azione, in quanto la virtù è l’arte di tutta quanta la
vita, comprendente in sé tutte le azioni. Avendo così in sé teoria e
pratica, eccelle in entrambe, perché le rappresenta nel modo
migliore: bellissima è infatti la sua parte teorica, insuperabili la
sua parte pratica e il suo uso pratico.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 224, 22 segg. Kalbfleisch = SVF III,
203
Se, come ammettono gli Stoici, vi è una capacità che determina
eventi specifici — per esempio la saggezza che determina il saggio
passeggiare e il saggio dialogare — in base alla stessa definizione
vi saranno anche delle incapacità, in corrispondenza di quelle
anzidette, che sono capacità: anche le inabilità producono più
effetti nei casi specifici. Se poi, secondo un’altra definizione
stoica, diremo che la capacità in questione è capacità di
determinare casi specifici e di dominare quelli che sono ad essa
subordinati, si è d’accordo con la definizione di Plotino85. Infatti
il vizio, che è una forma di incapacità, secondo gli Stoici domina
gli atti che gli sono propri; e le arti intermedie, pur se vengono
meno alla capacità di produrre sicuramente il loro effetto, tuttavia
è pur sempre in virtù di esse che ciò che le possiede può ciò che
può, sì che simili incapacità vengono ad essere comprese sotto il
concetto di capacità secondo qualità.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 167, 4 segg.
Bruns = SVF III, 204-205
Il dire «come l’arte del flauto può servirsi rettamente di ogni
melodia che renda, così la virtù di ogni azione» è un discorso
giusto, ma deve essere ulteriormente precisato… E così pure «poiché
si vale bene di tutte le cose» ecco che è «l’uso atto a compiere
felicemente ogni cosa»86.
PROCLO, In Plat. Tim., Ι, p. 57, 1 segg. Diehl = SVF III, 206
Maggiormente mostra la grandezza della virtù la guerra di quanto non
faccia la pace, così come la grandezza dell’arte del nocchiere è
rivelata dalle grosse ondate e dalla tempesta; e in generale questo
si può dire delle circostanze, sì che gli Stoici sono soliti dire:
«dammi la circostanza e abbiti l’uomo». Quello che non riesce ad
essere vinto dalle vicende che rendono schiavi gli altri mostra in
ogni caso il valore della vita87.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Genes., IV, 11, p. 254
Aucher = SVF III, 207
Io, intelletto, così rispondo alla domanda: «ecco che la virtù non è
soltanto in me, ma anche nel vuoto e sicuro scrigno del mio corpo, e
si estende ai sensi e agli altri strumenti parziali di essa. Secondo
virtù io vedo e odo, provo sensazioni di olfatto, gusto, tatto;
esercito poi gli altri moti secondo prudenza, continenza, fortezza,
giustizia88».
STOBEO, Eclog., II, 7, 11h, p. 100, 15 segg. Wachsmuth = SVF III,
208
Indicano la virtù con numerosi nomi. Dicono che essa è il bene,
perché ci spinge alla vita retta; ed è gradevole, perché senza fallo
la si approva; e degnissima, perché ha in sé immenso valore; e buona
(σπουδαῖον) perché degna di molta cura (σπουδή); lodevole, perché è
ragionevole che la si lodi; utile, perché tende a quelle cose che
contribuiscono al ben vivere; e giovevole, perché ci giova nella
necessità; e da scegliersi, accade infatti che sia ragionevole
sceglierla; e necessaria, perché con la sua presenza giova e con la
sua assenza danneggia; e vantaggiosa, i vantaggi infatti che essa
offre sono superiori alla stessa attività che tende verso di essi; e
autosufficiente, perché basta a chi la possiede; e di nulla
manchevole perché è aliena da qualsiasi mancanza; bastevole, perché
è sufficiente nel suo uso e si estende ad ogni utile necessità della
vita.
FILONE ALESSANDRINO, Quod. det. pot. insid. sol., 72, I, p. 274, 30
segg. Wendland = SVF III, 209
Ci torturano le orecchie dicendo che la giustizia è di carattere
sociale, la temperanza è utile, la continenza nobile, la pietà verso
gli dèi utilissima, e gli altri tipi di virtù in genere sani al
massimo grado e fonte di salvezza; e di contro l’ingiustizia
asociale, la intemperanza perniciosa, l’empietà fuori di ogni legge
e ogni vizio dannoso al massimo grado.
PLUTARCO, De comm. not., 7, 10, 61C = SVF III, 213
Per essi l’uomo sapiente e saggio, fra molti suoi atti di
comprensione e molti di memoria delle cose comprese, ritiene che
poche abbiano importanza per lui; quanto alle altre, non
curandosene, non ritiene di esser accresciuto o menomato in alcunché
se ricorda che l’anno precedente ha sentito Dione starnutire o ha
visto Teone giocare a palla. Eppure ogni atto di comprensione e ogni
forma di ricordo, dotate di sicurezza e immutabilità, nel sapiente
diventano immediatamente scienza, e un bene grande, anzi
grandissimo.
Anecdota Gr. Paris., I, p. 171 Cramer = SVF ΙII, 214
Aristotele ritiene (che si diventi buoni o cattivi) per natura, per
costume, per ragionamento; così pure gli Stoici. La virtù è infatti
un’arte; ma ogni arte è un complesso organico di conoscenze
coesercitate; ora, il ragionamento riguarda queste conoscenze, il
coesercizio il costume, mentre per natura tutti quanti nasciamo
disposti alla virtù, in quanto abbiamo anche determinati impulsi
verso di essa.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 31, 1048d = SVF III, 215
Se dunque la divinità non dà agli uomini la virtù, ma tuttavia
l’onesto è da scegliersi di per sé, gli dèi dànno pur sempre
ricchezza e salute, e le dànno senza virtù, cioè a quelli che ne
faranno cattivo uso; non perciò bene, ma in maniera dannosa e
riprovevole e rovinosa. E quindi se gli dèi possono darci la virtù,
non sono buoni se non ce la dànno; ma se non possono renderci buoni,
non possono nemmeno darci giovamento, non essendo nessuna altra cosa
buona o giovevole. Non significa nulla il fatto che essi giudichino
in base alla loro virtù e alla loro forza gli uomini, se questi sono
divenuti virtuosi altrimenti che col loro aiuto; e del resto anche i
buoni giudicano gli dèi secondo il criterio della loro virtù e della
loro forza, sì che si dovrebbe dire che gli dèi non dànno maggior
giovamento agli uomini di quanto ne ricevano da questi89.
LATTANZIO, Div. Inst., VI, 9, p. 513 Brandt = SVF III, 216
Bisogna scegliere la virtù — come del tutto giustamente si dice da
parte di quelli perché in vista di essa l’uomo è costituito per
natura.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 242, 12 segg. Kalbfleisch = SVF IIΙ,
217
E infatti per le arti gli Stoici hanno posto solo un’attitudine così
semplicemente considerata, ma hanno affermato che per le virtù deve
esistere una forma considerevole di progresso fondato sulla natura;
quella che i Peripatetici chiamano «virtù naturale»90.
ORIGENE, Contra Celsum, VIII, 52, p. 267, 15 segg. Kötschau = SVF
III, 218
Né infatti si potrebbe trovare qualcuno in cui siano del tutto
distrutte le nozioni comuni intorno a ciò che è decoroso e turpe e
giusto 〈e ingiusto〉91.
SENECA, Epist. ad Luc., 49, 11 = SVF III, 219
La natura ci ha fatti suscettibili di apprendimento, e ci ha dato
una ragione imperfetta, capace però di perfezionarsi.
CICERONE, De legibus, I, 9, 27 = SVF III, 220
La natura può far da sola progressi; essa, anche senza che nessuno
le insegni, partendo da quei concetti che ha conosciuti a partire
dal primo formarsi dell’intelligenza, di per sé conferma la ragione
e la porta a compimento.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 6, 28, 1, p. 260 Stählin = SVF
III, 221
Gli Stoici dicono che la conversione al divino avviene in base a un
cambiamento, quando cioè l’anima si trasforma nel senso della
sapienza.
FILONE ALESSANDRINO, Quis rer. div. heres, 299, III, p. 68, 7 segg.
Wendland = SVF III, 222
Il primo numero è quello stadio in cui ancora non è possibile aver
nozione del bene e del male, in quanto l’anima è del tutto priva di
impressioni; il secondo è quello in cui subiamo moti che ci
conducono a errori; il terzo quello in cui ci curiamo da questi,
respingendo da noi i malanni dell’anima e superando la fase
culminante delle passioni; il quarto è quello in cui ci rendiamo
partecipi in tutto e per tutto di salute e forza, ed è quando,
rendendoci alieni da ciò ch’è cattivo, poniamo mano a ciò ch’è
buono; né è possibile che ciò avvenga prima.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VII, 3, 19, 3-4 p. 14 Stählin = SVF
III, 224
Non siamo generati avendo per natura la virtù, né questa ci
sopravviene per natura ulteriormente, come altre parti del corpo. Se
così fosse non ci sarebbe nulla di volontario in noi, e quindi
suscettibile di lode: ma la virtù non giunge a compimento nemmeno
per l’abitudine sopravveniente con l’atto del far le cose, come la
lingua che parliamo; e nemmeno si può dire che la conoscenza si
abbia in virtù di un’arte di quelle che riguardano il guadagno o
curano il corpo, né che l’educazione dipenda dall’istruzione
generale.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, I, 6, 34, 1 segg., pp. 22-23
Stählin = SVF III, 225
Non per natura, ma per insegnamento gli uomini diventano buoni, così
come medici o nocchieri… Che alcuni rispetto ad altri siano per
natura meglio disposti alla virtù, lo dimostrano alcune attitudini
degli uni aventi tale natura rispetto agli altri; tuttavia quanto
alla perfezione nella virtù essa non caratterizza nessuno di quelli
che sono nati con migliori disposizioni, perché anche uomini nati
con disposizione cattiva nei riguardi della virtù sono poi riusciti
per mezzo di un’educazione adatta a raggiungere il culmine della
perfezione etica. Per contro, poi, quelli che hanno una natura
adatta possono divenire cattivi perché trascurati nell’educazione.
La divinità ci ha fatti per natura tendenzialmente giusti e
socievoli, sì che non si deve dire che la giustizia è posta nella
pura convenzione; bisogna invece pensare il bene costituito da
questa nostra formazione originaria si accende quando l’anima sia
poi educata dall’insegnamento a voler scegliere ciò ch’è l’ottimo.
FILONE ALESSANDRINO, De Moyse, II, 181, IV, p. 242, 12 segg. Cohn =
SVF III, 227
Così stanno le cose anche per ciò che riguarda la virtù: a ciascuna
di esse accade di essere principio e fine, principio perché non
nasce da altra forza, ma da se stessa, fine perché ad essa tende la
vita secondo natura.
CALCIDIO, In Plat. Tim., 165-168, pp. 196-198 Waszink = SVF III, 229
Dicono inoltre che le cattive azioni non avvengono spontaneamente,
proprio perché ogni anima, in quanto partecipe del divino, per
appetizione naturale tende sempre a un qualche bene, anche se poi
talvolta sbaglia nel giudizio circa ciò ch’è bene e ciò ch’è male.
Infatti alcuni ritengono che per noi il sommo bene sia il piacere,
altri la ricchezza, altri ancora la gloria, tutto insomma più che
ciò ch’è solo vero bene. Molteplici sono le cause dell’errore. La
prima causa è quella che gli Stoici chiamano duplice perversione:
essa deriva infatti sia dalla realtà stessa sia dal gran discorrere
che se ne fa. In verità al nostro primo nascere, non appena usciti
dalle viscere materne, la stessa nascita ci causa un certo dolore,
con l’evadere da una sede calda e umida al freddo e alla siccità
dell’aria che ci circonda. Contro questo dolore dato dal freddo ai
bambini, a mo’ di medicina, si adopera la cura ingegnosa delle
levatrici, per cui il neonato viene riscaldato in acqua tepida e si
ricrei una somiglianza col grembo materno per mezzo del calore del
bagno, nel quale il tenero corpicino distendendosi si diletta e si
calma. Ecco che da queste due sensazioni contrapposte, di dolore e
di piacere, nasce un’opinione quasi naturale che tutto ciò ch’è
dolce e dilettevole sia bene, tutto ciò che porta dolore sia male e
sia da fuggirsi. Quando i bambini siano diventati più grandi, si
formano la stessa opinione circa la fame e la sazietà, circa le
carezze e i rabbuffi. E perciò, avanzando negli anni, si confermano
nell’opinione inizialmente concepita: e continuano a giudicare ogni
blandizie un bene, e tutto ciò che comporta fatica un male anche se
rechi un reale vantaggio. Di conseguenza amano la ricchezza, perché
in essa è un importantissimo aiuto al piacere; e tendono alla fama
credendola vero onore. In effetti ogni essere umano è per natura
desideroso di virtù e di lode: l’onore è infatti il testimone della
virtù. Ma gli uomini saggi e versati nella ricerca della sapienza,
sanno quale virtù debbano coltivare e in che modo. Al contrario il
volgo stolto, ignorando la realtà delle cose, invece dell’onore
coltiva la fama e la stima popolare; invece della virtù cerca una
vita farcita di piaceri, considerando il potere di far ciò che ci
piace una sorta di eccellenza regale: dal momento che l’uomo è il re
degli esseri viventi, e il regnare è sempre accompagnato dal potere,
ritiene che al potere segua il regnare, essendo invece il vero
regnare null’altro che una giusta tutela simile a quella che
esercitano i genitori. Al tempo stesso, poiché chi è felice deve
necessariamente vivere anche piacevolmente, il volgo ritiene che chi
viva nel piacere per ciò stesso sia anche felice. Tale, credo, è
l’errore che, nato da concrete esperienze, possiede l’anima degli
uomini.
Quanto ai discorsi, ciò consiste nel fatto che all’errore anzidetto
si aggiunge tutto quel cicalio delle madri e delle nutrici, con voti
di ricchezza, gloria e altre cose che a torto sono credute beni, e
le perturbazioni dovute a quegli spaventi dai quali gli animi dei
bambini sono fortemente scossi, e alle conseguenti consolazioni e
altre cose consimili. E che? quella poesia che addolcisce le anime
già temprate alla prova, e tutte quelle magnifiche opere di autori e
scrittori, non introducono forse nelle anime inesperte, insieme con
piacere e dolore, pericolose inclinazioni? i pittori e tutti i
produttori di immagini non trascinano forse le anime, con la loro
ingegnosità, alla mollezza? Ma il maggiore eccitamento al vizio
deriva dalla strettissima unione dell’anima e del corpo, per cui, in
base all’abbondanza o all’indigenza, siamo più propensi alla
libidine o all’ira. A tutto questo si aggiungono le diverse
situazioni della vita e quelle derivanti dalla sorte, la malattia,
la schiavitù, la mancanza del necessario, cose tutte dalle quali
oppressi siamo trascinati dai nobili studi alle miserie quotidiane
della vita e distratti dalla contemplazione del vero bene. È
necessario che coloro che vogliano essere sapienti fruiscano non
solo di un’educazione liberale e di insegnamenti che li conducano
all’onestà, ma anche di una educazione del tutto diversa da quella
che si dà in genere ai più: per loro bisogna ben ponderare ed
esaminare tutti quegli elementi che possono condurre alla virtù92.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., V, 5, p. 437 Müller = SVF III,
229a
E per prima cosa … accingiamoci a trattare dell’educazione dei
fanciulli. Non è possibile dire che i loro impulsi siano governati
dalla ragione, perché in realtà ancora non hanno la ragione, né che
non subiscano innumerevoli impulsi; essi infatti si adirano, si
addolorano, provano piacere, ridono, piangono e altre simili cose;
anzi le passioni sono più numerose e più violente nei fanciulli che
negli adulti. Non consegue questo ai ragionamenti di Crisippo, né si
accorda con l’affermazione che non abbiamo per natura alcuna
attrazione istintiva verso il piacere o istintiva repulsione al
dolore… Poiché noi abbiamo in realtà tre diversi tipi di impulso e
attrazione a seconda delle tre diverse parti dell’anima93 — al
piacere tende la parte appetitiva, alla vittoria la parte impulsiva,
al bene la parte razionale — si può dire che Epicuro non vide che la
attrazione della parte dell’anima inferiore a tutte le altre, e
Crisippo quella della parte superiore, in quanto dice che noi
abbiamo una naturale attrazione per quel bello e decoroso che è in
realtà nient’altro che il bene. Ma solo i filosofi più antichi hanno
rettamente contemplato tutte le attrazioni proprie distintamente
delle tre parti. Certo Crisippo, dopo aver trascurato due delle
parti dell’anima, dovrà poi dire che non può risolvere il problema
dell’origine del vizio e non potrà indicarne la causa, né i modi in
cui sussiste, né potrà scoprire per quale ragione commettano il male
anche i bambini; tutte cose che giustamente Posidonio gli rimprovera
confutandolo94… Ma vediamo che si può cadere in errore anche se si è
allevati in buoni costumi ed educati convenientemente; e questo
Crisippo stesso è costretto ad ammetterlo. In realtà a lui, avvezzo
a trascurare l’evidenza delle cose, non sarebbe stato difficile
affermare, in coerenza ai suoi principi, che se un fanciullo sia
educato bene in ogni caso col passare del tempo diverrà un uomo
sapiente; non osò però dire questo, che è in palese contraddizione
con tutto ciò che appare, ma disse che, anche se sia educato solo da
un filosofo e mai veda né ascolti alcun esempio di azione viziosa,
non per questo di necessità seguirà la filosofia. Doppia è infatti
la causa per cui si può essere distolti dal bene, l’una deriva
dall’insegnamento volgare dei più, ma l’altra dalla stessa natura
delle cose… Se quindi Crisippo è d’accordo con noi non nella forma,
ma nella sostanza, ciò significa che non c’è in noi attrazione né
repulsione naturale verso ciascuna delle cose anzidette (piacere e
dolore, onore e vergogna). Se infatti egli dirà che i cattivi sono
dissolti dal bene in virtù della credibilità delle rappresentazioni
e dell’insegnamento, bisognerà chiedergli la causa per la quale il
piacere presenta l’apparenza del bene e il dolore quella del male; e
così pure per quale ragione noi lodiamo e stimiamo felice chi ha
ottenuto una vittoria nelle Olimpiadi o gli è stata elevata una
statua, cose considerate dai più un bene, e ci affligiamo di una
sconfitta e della vergogna come se fossero un vero e proprio male…
Per il momento il mio discorso si è rivolto contro Crisippo e la sua
scuola per dimostrare che essi non hanno nessuna chiara visione di
quello che sono le passioni né comprendono in che modo le mescolanze
che avvengono nel corpo producano moti passionali loro propri e
peculiari.
CICERONE, De legibus, I, 17, 47 = SVF III, 229b
Ma ci turba la varietà delle opinioni e la discordia che regna fra
gli uomini: e proprio perché nelle sensazioni non vige la stessa
discordia noi siamo portati a ritenere i sensi più sicuri per
natura, e riteniamo essere finzioni quelle cose che ad alcuni
sembrano in un modo, ad altri in un altro, e non sempre ai medesimi
sembrano essere le stesse. Le cose però stanno altrimenti. I nostri
sensi, infatti, non li deprava l’insegnamento del padre o della
madre, della nutrice, del maestro, del poeta, dello spettacolo, né
li distoglie dal vero il consenso del volgo: agli animi sono tese
tutte le insidie, o da parte di quelli che ho or ora enumerato, che,
avendoci accolti malleabili e inesperti, ci foggiano e ci piegano
come vogliono, oppure da parte di quel simulatore del bene che sta
insito profondamente in tutti i nostri sensi, il piacere, in realtà
padre di tutti i mali; così essi non comprendono bene quali siano i
veri beni secondo natura perché difettano di questo pernicioso
allettamento.
CICERONE, De legibus, I, 11, 31 = SVF III, 230
Non solo per quel che si riferisce alle azioni rette, ma anche per
quel che si riferisce alle malvage è notevole quanto si somigli il
genere umano. Infatti tutti sono presi al laccio dal piacere, che,
anche se è allettamento alla turpitudine, ha tuttavia in sé qualcosa
che la rende simile al bene per natura: poiché esso diletta per la
sua dolcezza e soavità è ricercato dalla mente, che erra, come un
bene naturale; e per un analogo atto di insipienza la morte fa
orrore, come un dissolversi della nostra compagine naturale, e si
tende alla vita, perché ci mantiene nello stato in cui siamo nati;
si considera il dolore un male supremo, sia per la sua asprezza, sia
perché sembra che ad esso consegua la distruzione della nostra
natura. Per un’analoga somiglianza dell’onestà con la fama, appaiono
felici coloro hanno ricevuto onori, e infelici quelli che sono
oscuri. Sofferenze, gioie, desideri, timori occupano ugualmente gli
animi di tutti; e, se le opinioni si differenziano tanto l’una dalle
altre, si può dire che quelli che adorano come dèi il cane o il
gatto95 non sono agitati da superstizioni peggiori di quelle degli
altri popoli.
SENECA, Epist. ad Luc., 115, 11 = SVF III, 231
I genitori ci hanno infuso l’ammirazione per l’oro e per
l’argento e questo desiderio istillato nelle nostre tenere anime è
andato in esse a fondo ed è cresciuto con noi. E poi tutto il volgo,
che a proposito di altre cose è discorde, è invece d’accordo in
questo, guarda a questo, lo desidera per i suoi… Si aggiungono i
canti dei poeti … dai quali la ricchezza viene lodata come se fosse
la sola cosa che rende bella la vita96.
SENECA, Epist. ad Luc., 94, 53 = SVF III, 232
Nessuna parola arriva alle nostre orecchie senza lasciarvi traccia:
ci fanno del male quelli che esprimono un desiderio come ci fanno
del male quelli che maledicono qualcosa: l’imprecazione di questi
insinua in noi falsi timori, l’amore degli altri ci dà un cattivo
insegnamento col desiderare quella cosa per noi. Ci indirizza
infatti verso beni lontani, incerti, instabili, mentre potremmo
senza andar lontano raggiungere la felicità.
ORIGENE, Contra Celsum, III, 69, p. 261, 12 segg. Kötschau = SVF
III, 233
Noi, conoscendo che una è la natura dell’anima razionale, e sapendo
anche che da colui che ha foggiato il tutto non è stato fatto nulla
di cattivo, sappiamo anche che molti diventano cattivi per via di
educazione, distoglimento dal bene, insegnamenti, sì che il vizio
comincia ad allignare in loro.
GALENO, De moribus anim., 11, IV, p. 816, Kühn = SVF III, 234
Questo mi meraviglia degli Stoici, che essi credano che tutti gli
uomini sono sufficientemente dotati in vista del conseguimento della
virtù, ma che possono esserne distolti da quelli che non vivono
onestamente.
GALENO, De mor. an., 11, IV, p. 818-819 Kühn = SVF III, 234
Pienamente stolti sono quelli che dicono che noi siamo distolti dal
bene a causa del piacere, perché questo ha in sé 〈attrattiva〉 mentre
〈la sofferenza〉97 respinge da sé in virtù della sua durezza.
GALENO, De mor, an., 11, IV, p. 820 Kühn=SVF III, 235
Non è vero infatti, come dicono gli Stoici, che la cattiveria venga
alle nostre anime dall’esterno; quelli fra gli uomini che sono
malvagi hanno la maggior parte della malvagità in se stessi, e molto
meno è quello che di essa proviene dall’esterno.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, I, 17, 83, 5 segg., p. 54 Stählin =
SVF III, 236
Né le lodi né i biasimi, né gli onori né le punizioni sarebbero
giusti se l’anima non avesse in sé la capacità dell’attrazione e
della repulsione, e se la cattiveria fosse involontaria… Poiché la
libera volontà e la scelta determinano gli errori, talvolta ci
domina una supposizione sbagliata, una ignoranza o una incuria dalla
quale non ci diamo pensiero di liberarci, e per questo Dio ci ha
puniti. L’aver la febbre è una cosa involontaria; ma quando si abbia
la febbre per azioni proprie, per dissolutezza, allora ne abbiamo
colpa. E così si può dire del vizio, che è in qualche modo
involontario; infatti non si sceglie un male in quanto male; lo si
ritiene da accettarsi in quanto si è trascinati dalla dolcezza che è
in esso e si suppone che sia un bene.
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 40, 34 segg. Kalbfleisch = SVF III,
238
Gli Stoici però non ammettono il contrario: dicono che la virtù non
può perdersi. Contro questo è facile dire come sia agevole
comprendere che la virtù si può perdere. Teofrasto ha dato
dimostrazioni abbondanti circa le sue vicende, e Aristotele ritiene
che ciò che non si può perdere non sia in realtà umano; e inoltre
gli Stoici stessi finiscono con l’ammettere che possa avvenire, per
via di stati melanconici o di torpore o di letargo, la perdita di
tutta la facoltà raziocinante, e della virtù insieme con questa; non
che subentri con questo il vizio, ma la fermezza dell’anima si
allenta e questa cade in un atteggiamento di quelli che gli antichi
chiamano intermedi.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 161, 16 segg.
Bruns = SVF III, 239
Inoltre, se è verosimile pensare che colui che possiede la virtù
possa trovarsi anche in stato di pazzia malinconica o di letargo o
di obnubilamento mentale o di follia, stati nei quali l’esercizio
delle virtù è impossibile, ciò vuol dire che la ragione non è
autosefficiente riguardo agli atti che le sono propri. Come è
verosimile dire che chi è in stato di follia e ha bisogno di esser
legato possa, in virtù di questo e dell’aiuto degli amici, anche
allora agire in maniera saggia, se non proprio per volere ad ogni
costo sostenere la propria tesi? Se poi secondo loro la virtù
respinge e rifiuta alcune delle cose che sono indifferenti, mentre
sceglie e ricerca alcune altre, non si può dire che essa sia
autosufficiente in vista della felicità: come potrebbe esser felice
uno che si trovi in quelle circostanze che la virtù respinge?
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 139, 2-3, 22, pp. 309-310
Stählin = SVF III, 240
Un uomo siffatto non avrà mai una virtù che si possa mai perdere, né
da sveglio né in sogno, né per una qualsiasi rappresentazione. Un
abito, in realtà, non viene mai meno a se stesso in modo tale da
cessare di essere un abito, si dica la conoscenza un abito o si dica
pure una disposizione. E, per il fatto che le nozioni non si
alterano, la parte direttiva dell’anima, rimanendo uguale a se
stessa, non accoglie in sé trasformazione delle sue
rappresentazioni, anche quando, nel sogno, ha delle immagini che si
formano in base alle affezioni subite durante il giorno98.
TEOGNETO COMICO, fr. 1, III, p.364 Kock = SVF III, 241
Uomo, tu mi rovinerai: pieno come sei di ciance della Stoa, deliri:
«estranea è all’uomo è la ricchezza» — gelo! «gli è invece propria
la sapienza» — ghiaccio! «nessuno mai, dopo averla ottenuta, la
perdette» — ahimé, a quale filosofo la mia sorte mi ha messo
vicino!99
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, p. 199, 27 segg. Bruns = SVF
III, 242
Non è più in potere di chi è sapiente non possedere più quell’abito
(= la virtù) così come non è più possibile arrestarsi quando ci si è
gettati dall’alto; ma anche delle azioni di cui si ha l’abito, è ben
possibile non compierne alcune. In effetti, se è quanto mai
ragionevole dire che l’uomo saggio compie atti conformi a ragione e
prudenza, in primo luogo tali atti si compiono fino a un certo punto
o no, e non in forma assolutamente determinata: tutti quegli atti,
anche compiuti in questo modo, hanno in sé variazioni lievi, e
questo leggero variare non modifica il proposito100.
CICERONE, De legibus, I, 8, 25 = SVF III, 245
In realtà la stessa è la virtù dell’uomo e della divinità, né può
essere in alcun altro tipo di essere. La virtù, infatti, non è altro
che la natura portata al suo supremo compimento.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 37, p. 211, 13 segg. Bruns =
SVF III, 247
Non è possibile dire che sono le stesse le virtù degli uomini e
degli dèi; in altri termini, non è un discorso verace quello che
rende uguali le perfezioni e le virtù di esseri talmente divisi gli
uni dagli altri secondo natura, né le argomentazioni fatte da quelli
hanno in sé nulla di ragionevole.
ORIGENE, Contra Celsum, VI, 48, p. 119, 16 segg. Kötschau = SVF III,
248
Poi, se i filosofi della Stoa, dopo aver detto che la stessa è la
virtù degli uomini e quella degli dèi, non affermassero anche che la
divinità è sempre in tutto più felice di quello che per loro tra gli
uomini è il sapiente, Celso non avrebbe occasione di irriderli101.
PROCLO, In Plat. Tim., Ι, p. 351, 11-12 Diehl = SVF III, 252
Gli Stoici dicono che la stessa è la virtù degli dèi e quella degli
uomini, tenendosi con ciò ben lontani dalla pietà di Platone e dalla
misura di Socrate.
LATTANZIO, Div. inst., III, 25, p. 257 Brandt = SVF III, 253
Che se per natura l’uomo può raggiungere la sapienza, sarebbe
opportuno dare a tutti quelli che hanno forma umana, artigiani,
contadini, donne, una educazione che li renda sapienti; la grande
moltitudine dei sapienti si compone di gente di ogni lingua, sesso,
età, condizione… Lo compresero adeguatamente gli Stoici, che
dicevano che anche gli schiavi e le donne dovevano praticare la
filosofia; ed Epicuro, che invita alla filosofia gente del tutto
inesperta di lettere102.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 8, 58, 4, p. 275 Stählin = SVF
III, 254
Siamo d’accordo nel dire che la natura che è la stessa secondo il
genere possiede anche le stesse capacità; riguardo dunque alla loro
appartenenza al genere umano, la donna non ha una natura diversa da
quella dell’uomo, ma la stessa, quindi ha anche la stessa virtù… È
giusto che esercitino la filosofia anche le donne, allo stesso modo
degli uomini.
PSEUDO-GALENO, In Hippocr. de humor., II, 28, XVI, p. 303 Kühn = SVF
III, 260
Ma tuttavia alcuni sostengono che l’essenza dell’anima è una sola, e
intendono la virtù come la perfezione della natura di ciascuno. Se
dunque la virtù è una cosa siffatta, essa sarà una, dal momento che
una è la perfezione; e così necessariamente la virtù sarà anche una
scienza che riguarda la parte raziocinante dell’anima; e poiché
nelle nostre anime una è la parte raziocinante, non dovremo cercare
più virtù.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5b, 1, p. 59, 4 segg. Wachsmuth = SVF III,
262-264
Dicono che la saggezza è la scienza di ciò che bisogna fare e non
fare, e di ciò ch’è indifferente fare o non fare, o la scienza di
ciò ch’è bene e ciò ch’è male o è indifferente per natura all’essere
vivente capace di esercitare la ragione103 (anche circa le altre
virtù affermano di intendere allo.stesso modo). La temperanza è la
scienza delle cose da scegliersi o da fuggirsi, o che è indifferente
scegliere o fuggire; la giustizia è la scienza del distribuire a
ciascuno ciò che gli spetta; il valore la scienza delle cose
temibili e non temibili, o che non sono né l’una né l’altra cosa; la
stoltezza è 〈l’ignoranza〉 circa il bene, il male, e ciò che non è né
bene né male, oppure l’ignoranza di ciò che si deve fare o non fare
o che è indifferente fare o non fare; l’incontinenza ignoranza di
ciò ch’è da scegliersi o da fuggirsi o né da scegliersi né da
fuggirsi; 〈l’ingiustizia è il non saper distribuire a ciascuno di
ciò che gli spetta〉104; la viltà è ignoranza delle cose temibili o
non temibili o che non sono né l’uno né l’altro. In forma analoga
definiscono anche le altre virtù e gli altri vizi, attenendosi alle
cose anzidette. In generale dicono che la virtù è una disposizione
dell’anima in coerenza con sé stessa in relazione a tutta la vita.
… Delle virtù dicono che alcune sono le prime e fondamentali, altre
sono subordinate a queste; e le prime sono quattro, saggezza,
temperanza, valore, giustizia105. La saggezza verte intorno ai
doveri; la temperanza intorno agli impulsi affettivi dell’uomo; il
valore intorno alla capacità di sopportare; la giustizia intorno
alla distribuzione. Delle altre virtù che sono subordinate a queste,
le une lo sono alla saggezza, le altre rispettivamente alla
temperanza, al valore, alla giustizia. Alla saggezza sono
subordinate il buon consiglio, il buon raziocinio, la perspicacia,
l’assennatezza, il cogliere bene nel segno, l’abilità; alla
temperanza sono subordinate il buon ordine, la compostezza, il
pudore, la continenza; al valore lo sono la costanza, l’ardire, la
magnanimità, l’alacrità, la laboriosità; alla giustizia lo sono la
pietà, l’onestà, la socievolezza, l’affabilità. Dicono che il buon
consiglio è la scienza di quali cose facendo e come facendole si
possa operare utilmente; il buon raziocinio la scienza
dell’esaminare e valutare complessivamente le cose avvenute e
compiute; la perspicacia è la scienza di saper individuare
immediatamente quale sia il dovere; l’assennatezza è la scienza 〈di
ciò ch’è migliore e peggiore; il coglier bene il segno〉106 è la
scienza che sa cogliere lo scopo preciso di ciascuna azione;
l’abilità è la scienza che sa trovare la via d’uscita in ogni cosa;
il buon ordine è la scienza di che cosa sia da farsi, e quale sia la
successione delle azioni e in generale il loro ordine; la
compostezza è 〈la scienza〉 dei moti convenienti o sconvenienti; il
pudore è la scienza di guardarsi da un retto biasimo; la continenza
è la scienza che ci trattiene dall’oltrepassare ciò che appare
secondo retta ragione; la costanza è la scienza di rimaner saldi a
ciò che si è giudicato essere giusto; l’ardire è la scienza per cui
sappiamo che non incorreremo mai in niente che sia temibile; la
magnanimità è la scienza che ci pone al di sopra di quelle cose che
usano accadere ai saggi come agli stolti; l’alacrità è la scienza
per cui l’anima presenta se stessa imbattibile; la laboriosità è la
scienza che viene a capo di ciò che si è prefisso senza alcun
impedimento per via della fatica; la pietà è la scienza del saper
venerare gli dèi; l’onestà è scienza di ben operare; la socievolezza
è la scienza dell’uguaglianza nel vivere in comune; l’affabilità è
la scienza dell’avere scambi esenti da biasimo con il prossimo.
Di tutte queste virtù il fine è vivere in accordo con la natura; e
ciascuna di esse contribuisce con ciò che gli è proprio a che l’uomo
lo raggiunga. L’uomo ha infatti da natura impulsi a individuare il
dovere, all’equilibrio degli appetiti, alla sopportazione, alla
distribuzione. Ciascuna delle virtù operando secondo ciò che è ad
essa proprio fa sì che l’uomo sappia vivere secondo natura.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. Aleg., I, 63 segg., I, p. 77, 12 segg.
Wendland = SVF III, 263
Perciò vuole descrivere le virtù particolari; ed esse sono quattro,
saggezza, temperanza, valore, giustizia… La saggezza verte intorno
alle cose da farsi e pone per esse definizioni; il valore intorno
alle cose da sopportarsi; la temperanza intorno a quelle da
scegliersi; la giustizia intorno a quelle da distribuirsi.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. alleg., I, 87, p. 84, 2 segg. Wendland =
SVF III, 263
Poiché la giustizia è la facoltà che distribuisce a ciascuno ciò che
gli spetta, non si adatta né alla figura dell’accusatore né a quella
dell’accusato che deve difendersi, ma a quella del giudice. Così
come il giudice non si propone di vincere qualcuno né di lottare
contro altri o contrapporsi ad altri, ma con l’esporre la sua
sentenza conferma il giusto, così la giustizia, senza contrapporsi
da nemica ad alcuno, distribuisce ad ogni cosa quello che ad essa
spetta.
Ps. ANDRONICO, De passion., II, 1, p. 139 Glibert-Thirry = SVF III,
266-267
La saggezza dunque è la scienza di ciò che è bene, di ciò che è
male, di ciò che non è né l’uno né l’altro. La temperanza la scienza
di ciò che è da scegliersi, di ciò che non è da scegliersi, di ciò
che non è né l’uno né l’altro. La giustizia è la scienza del saper
distribuire a ciascuno ciò che gli spetta. Il valore la scienza
delle cose da temersi, da non temersi, e che non sono né l’uno né
l’altro… Consiglio è la scienza di ciò ch’è giovevole. Perspicacia è
l’abito di scoprire subito che cosa deve farsi. Previdenza è l’abito
di procedere con metodo in vista del futuro, in modo da saper agire
come si deve. L’arte regia è esperienza del regnare sul popolo senza
doverne render conto. L’arte dello stratega è un abito teorico e
pratico circa ciò che è utile all’esercito. L’arte politica è un
abito teorico 〈e pratico〉 circa le cose che giovano alla città.
L’arte economica è un abito teorico 〈e pratico〉 circa le cose che
sono utili alla casa107. La dialettica è la scienza del ben
dialogare. La retorica è la scienza del ben parlare. La fisica è la
scienza delle cose della natura.
Ps. ANDRONICO, De passion., II, 3, pp. 241-242 Glibert-Thirry = SVF
III, 268
La saggezza è scienza di che cosa si debba fare e che cosa no. La
stoltezza è l’ignoranza di queste stesse cose, e stolti sono quelli
che le ignorano e che errano in proposito; la stoltezza è infatti
ignoranza circa ciò che si debba fare o non fare. Alla saggezza sono
subordinati il buon consiglio, il buon raziocinio, la perspicacia,
l’assennatezza, la capacità di cogliere nel segno, l’abilità. Il
buon raziocinio è la scienza del saper ricapitolare le cose avvenute
e compiute; la perspicacia è la scienza del saper individuare il
dovere nell’immediato presente; l’assennatezza è il sapere ciò ch’è
meglio e ciò ch’è peggio; il saper ben cogliere nel segno è il saper
rapidamente raggiungere lo scopo in ciascuna cosa; l’abilità è la
scienza di saper trovare in tutte le cose una soluzione.
Ps. ANDRONICO, De passion., II, 5, p. 247 Glibert-Thirry = SVF III,
270
Il valore è la virtù della parte impulsiva, e per esso siamo
insensibili ai colpi della paura e della morte. Specie sue proprie
sono l’alacrità, la baldanza, la magnanimità, l’animo virile, la
fermezza, la liberalità. Alacrità è la buona tensione (εὐτονία)
dell’anima verso il compimento delle opere che le sono proprie.
Baldanza è un abito che ci rende alacri a por mano a ciò che
bisogna, e a restar fermi a ciò che la ragione abbia scelto.
Magnanimità è la disposizione d’animo che ci rende superiori a ciò
che avviene comunemente sia ai buoni che ai cattivi. Animo virile è
la disposizione che ci rende autosufficienti nelle fatiche che
sopportiamo in vista della virtù. Fermezza è la scienza di ciò cui
si deve tener fermo e no, oppure né l’una né l’altra cosa.
Liberalità è l’abito che eleva chi lo possiede e riempie questi di
un nobile sentire.
Ps. ANDRONICO, De passion., II, 10, p. 261 Glibert-Thirry = SVF III,
269
Al valore sono subordinate la fermezza, l’ardire, la magnanimità,
l’alacrità, la laboriosità. Fermezza è la scienza di saper restare
saldi ai retti giudizi. Ardire è la scienza in virtù di cui sappiamo
che non cadremo. Magnanimità è la scienza che ci eleva al di sopra
delle cose che avvengono così ai buoni come ai cattivi. Alacrità è
la scienza di poter presentar sempre la propria anima come
invincibile. Laboriosità è la scienza di saper portare a termine ciò
che ci si è prefisso e di non lasciarsi sopraffare dalla fatica.
FILONE ALESSANDRINO, Quaestiones et solut. in Genes., IV, 136, p.
348 Aucher = SVF III, 271
I nomi delle ancelle della perseveranza sono: imparziale, privo di
inclinazioni, senza inclinazione verso una parte, per nulla propenso
al contrario, non passibile di pentimento, non soggetto a mutazione,
indifferente, costante, saldo sulla sua base? invincibile, diritto e
tutte le qualità apparentate a queste, proprie di coloro che
aspirano a una stabile perseveranza.
Ps. ANDRONICO, De passion., II, pp. 251-252 Glibert-Thirry = SVF
III, 272
L’austerità dunque è l’abito secondo il quale né si offre ad altri
intrattenimento nel piacere né lo si accetta da altri… La continenza
è abito a non cedere ai piaceri. La frugalità è abito a non eccedere
in spese e apparati. La semplicità è l’abito ad accontentarsi
dei beni presenti. La compostezza è la scienza circa ciò che
conviene in moto e in quiete. Buon ordine è esperienza della
disposizione delle cose, o che possiede fermezza circa le azioni o
la disposizione delle azioni. Autosufficienza è l’abito a
contentarsi di ciò che si deve e la capacità di fornire da sé le
cose convenienti per la vita.
Ps. ANDRONICO, De passion., II, 8, p. 255 Glibert-Thirry = SVF III,
273
La liberalità è l’abito che rende costanti nel proprio
comportarsi circa il dare e l’avere. L’onestà è l’abito ad agir
bene spontaneamente. La capacità di esercitare la giustizia nei
tribunali (δικαστική) è la scienza dei giudizi, delle punizioni,
delle colpe. L’equità è una giustizia spontanea. La pietà è la
scienza del servizio divino. La riconoscenza è la scienza che sa a
chi si debba esser grati e come e da chi si debba accettare. La
santità è la scienza che ci rende fedeli e osservanti del giusto
verso gli dèi. La mutuabilità è l’abito a osservare la
giustizia negli scambi. La capacità di legiferare è la scienza delle
disposizioni politiche che si riferiscono alla vita comune.
SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I, 153 = SVF III, 274
La continenza è disposizione a non oltrepassare ciò che avviene
secondo retta ragione, oppure una virtù che ci pone al di sopra di
quelle cose alle quali sembra difficile resistere. È continente
infatti, dicono, non chi si astiene dal contatto con una vecchia
vicina alla morte, ma con Laide o con Frine o altra donna del
genere108, pur potendo goderne. La fermezza è la scienza di ciò cui
si deve restar saldi o no, oppure la virtù che ci rende superiori
alle cose alle quali sembra di non poter restar saldi… Se uno ha
coraggio, ha la scienza delle cose temibili e non temibili e di
quelle intermedie… Se ha magnanimità, ha la scienza che lo pone al
di sopra di ciò che accade… Se ha la saggezza, ha anche la scienza
dei beni, dei mali e degli indifferenti…
Se la divinità ha in sé tutte le virtù e possiede la saggezza, certo
possiede anche il buon consiglio, in quanto questo è saggezza circa
le deliberazioni… La temperanza poi è l’abito che salva le decisioni
della saggezza in relazione a ciò ch’è da scegliersi e da fuggirsi.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 18, 79, 5 segg., p. 154 Stählin
= SVF III, 275
Poiché dunque definiscono il valore scienza delle cose temibili e
non temibili e di quelle intermedie, e la temperanza dicono ch’è
l’abito che nelle scelte e nel rifiuto salva le decisioni della
saggezza, al valore è posta accanto la costanza che essi chiamano
fermezza, scienza di ciò cui si deve o no tener fermo; e la
magnanimità, scienza che ci pone al di sopra delle cose che
accadono; ma alla temperanza sta accanto la cautela, che è
l’astenersi dal male con ragione… Così chi ha una sola virtù … le ha
tutte, in virtù del legame reciproco fra di esse. Così la continenza
è una disposizione a non oltrepassare ciò che sembra essere secondo
retta ragione; è continente infatti chi si attiene a quegli impulsi
che sono secondo retta ragione, e chi sa tener se stesso lungi dal
seguire impulsi contro la retta ragione.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., II, 12, 129, 2 segg., p. 233 Stählin
= SVF III, 276
Capacità è l’abito di procedere verso il fine proprio astenendosi da
eccesso e difetto… Autosufficienza è abito a farsi bastare ciò che
si deve, e a procurarsi da sé le cose che contribuiscono a
raggiungere una vita felice.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., III, 11, 55, 2, p. 268 Stählin = SVF
III, 276
La purezza è l’abito a procurarsi una forma di vita pura, scevra da
turpitudini; la frugalità è l’abito a far a meno delle cose
superflue… La modestia è abito alieno dal superfluo, e che sa
accogliere quanto necessita a una vita sana e felice secondo
ragione.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., III, 12, 87, 1, p. 283 Stählin = SVF
III, 276
Il buon ordine … è una capacità ordinata di distribuire nell’opera
le cose in una serie ben disposta, ed è insuperabile come virtù109.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Exod., II, 112, p. 541
Aucher = SVF III, 277
Delle quattro virtù, ciascuna ha avuto in sorte uno di questi tre
elementi, l’abito, ciò ch’è da aversi, l’avere vero e proprio. Per
esempio nei sensi possiamo distinguere la vista, il visibile, il
vedere; l’udito, l’udibile, l’udire; e così analogamente possiamo
distinguere la scienza, lo scibile, e il sapere, come anche la
continenza, ciò che è oggetto di continenza e il contenersi; e
ancora la fortezza, ciò ch’è oggetto della fortezza e l’aver
fortezza, che si dice più comunemente esser forti, la giustizia o il
giusto e l’aver giustizia, o in altri termini l’esser giusti110.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5b, 4, p. 62, 15 segg. Wachsmuth = SVF III,
278
Dicono dunque che queste sono le virtù perfette che riguardano la
vita, e che constano di principi teorici; altre poi nascono in
aggiunta a queste che non sono vere e proprie arti, ma semplicemente
capacità, che derivano dall’esercizio: per esempio la sanità
dell’anima, e l’attitudine e la forza den’anima, e la bellezza. Così
come la salute del corpo è una buona mescolanza degli elementi
caldi, freddi, secchi ed umidi, così la salute dell’anima è una
buona mescolanza dei princìpi che sono nell’anima stessa. E
analogamente come la forza del corpo è una tensione che si verifica
in misura sufficiente nei nervi, così la forza dell’anima è una
tensione che si verifica in misura sufficiente nel giudicare e
nell’agire, o nel contrario; e come la bellezza del corpo consiste
in una proposizione simmetrica delle membra che lo compongono,
reciprocamente e in relazione all’insieme, così anche la bellezza
dell’anima è simmetria della ragione e delle sue parti in relazione
al tutto e in relazione reciproca.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 13, 30 = SVF III, 279
E come per ciò ch’è male si può stabilire una analogia fra l’anima e
il corpo, così per ciò ch’è bene. Se vi sono nel corpo
principalmente la salute, la bellezza, la forza, la solidità, la
velocità, tutte queste qualità sono analogamente nell’anima. Come la
buona temperanza degli elementi del corpo di cui siamo composti,
quando essi sono in buon accordo reciproco, è la salute, così si può
dire dell’anima, quando in essa concordano opinione e giudizi… E
come quando nel corpo vi è una disposizione armoniosa delle membra
con una certa dolcezza di colore, che noi diciamo bellezza, così
pure nell’anima l’armonia e la congruenza delle opinioni e dei
giudizi, con una sua solidità e stabilità … si chiama bellezza. Allo
stesso modo si parla della forza dell’anima non diversamente dalla
forza del corpo e con parole simili, anche in quel caso parlandosi
di nerbo e di efficacia. La velocità del corpo è chiamata celerità,
e la stessa lode si fa dell’intelligenza per la rapidità con cui il
pensiero percorre insieme molte cose.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5b, 5, p. 63, 6 segg. Wachsmuth = SVF III,
280
Dicono che tutte le virtù che sono anche scienze e arti hanno comuni
i principi teorici e il fine, e perciò sono anche inseparatali:
quello che ne ha una possiede anche tutte le altre, quello che
agisce secondo una agisce secondo tutte. Differiscono le une dalle
altre per singoli punti. I punti essenziali della saggezza sono il
riflettere e il fare ciò che si deve fare in primo luogo, e in
secondo luogo il riflettere e il distribuire ciò che si deve 〈e lo
scegliere e il sopportare ciò che si deve?〉111 allo scopo di
compiere ciò che si deve senza fallo. Punto essenziale della
temperanza è il rendere gli appetiti equilibrati e il riflettere su
di essi, in secondo luogo il riflettere sull’oggetto delle altre
virtù, per potersi orientare infallibilmente fra gli appetiti; e
punto essenziale della giustizia è mirare a che a ciascuno sia dato
quanto gli spetta, in secondo luogo tutte le altre cose. Tutte le
virtù infatti guardano a ciò ch’è oggetto di tutte, e a ciò che è
subordinato a tutte112.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 22, 72-73 = SVF III, 281-282
Alle virtù di cui si è parlato aggiungono la dialettica e la fisica
e chiamano entrambe col nome di virtù. Alla prima dànno questo nome
perché essa ha in sé la norma in base alla quale non possiamo
assentire a ciò che è falso né lasciarci ingannare da argomentazioni
capziose, e perché possiamo tener saldo in noi e osservare ciò che
abbiamo appreso circa il bene e il male. Senza quest’arte, infatti,
pensano che chiunque possa essere distratto dal vero e indotto in
errore; e dunque a ragione è stata chiamata virtù quell’arte che
elimina la temerità e l’ignoranza, se è vero che queste sono in ogni
cosa un vizio. Ma alla fisica non senza motivo è stato attribuito lo
stesso onore; giacché chi si propone di vivere secondo natura deve
prendere le mosse dal mondo tutto quanto e dal suo governo. Né in
realtà alcuno potrà giudicare veracemente circa il bene e il male se
non conosca totalmente la legge della natura e della vita degli
stessi dèi, se non sappia se la natura dell’uomo sia o no in accordo
con la natura del tutto. Quelli che sono gli antichi precetti dei
sapienti (che comandano: «obbedisci al tempo», «segui il dio»,
«conosci te stesso», «nulla di troppo»113) senza la scienza fisica
nessuno può comprendere quanto valore abbiano; e ne hanno uno
grandissimo. Questa sola conoscenza può farci comprendere come la
natura ci spinga a onorare la giustizia, a conservare le amicizie e
gli altri affetti. Nemmeno la pietà verso gli dèi, e quanta
riconoscenza si debba ad essi, si può comprendere senza la
comprensione di che cosa sia la natura.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 36, p, 211, 17 Bruns = SVF
III, 283
La saggezza dell’uomo è virtù; essa è, dicono, scienza di ciò che si
deve o non si deve fare.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 158 = SVF III, 284
La felicità sopravviene quando vi è la saggezza; campo di azione
della saggezza sono le azioni rette; l’azione retta è ciò che
ha la sua giustificazione in quanto compiuto razionalmente114.
FILONE ALESSANDRINO, De spec. legibus, IV, 145, V, p. 241, 19 segg.
Cohn = SVF III, 286
Che il valore è la virtù che ha a che fare con le cose temibili lo
sanno tutti quelli che non sono del tutto privi di cultura e
istruzione; anche se sono solo un po’ imbevuti di cultura, sanno che
essa è la scienza delle cose da sopportarsi.
Scholia in Homer. Iliad., V, 2, p. 196 Dindorf = SVF III, 287
L’ardire, secondo i filosofi stoici, è l’aver salda fiducia in se
stesso, fiducia di non poter incidere in niente di terribile.
SENECA, De clementia, II, 3 = SVF III, 290
La clemenza è la temperanza dell’anima quando vi sia possibilità di
vendicarsi, o la mitezza nello stabilire le pene di chi ha il potere
nei riguardi di chi è soggetto. È cosa più sicura proporre più
definizioni, per timore che una definizione sola non sia
insufficiente a esprimere la cosa e, per così dire, la formulazione
venga meno: perciò si può dire anche «inclinazione del’animo alla
mitezza nell’esigere la pena». C’è una definizione che può suscitare
obiezioni, anche se si avvicini moltissimo al vero: se diremo che la
clemenza è la mitezza che perdona qualcosa di una pena meritata e
dovuta, si obietterà che nessuna virtù può mai venir meno al dovuto.
GIROLAMO, Comment. in Epist. ad Galatas, III, 5, P.L. XXVI, col. 448
= SVF III, 291
Infine essi definiscono così questa virtù: la benignità è la virtù
di esser spontaneamente ben disposti a fare il bene. La bontà non è
molto diversa dalla benignità … e anche questa i seguaci di Zenone
la definiscono così: la bontà è la virtù che giova; o la virtù dalla
quale nasce l’utilità; o la virtù che è per se stessa; o quella
disposizione affettiva che è fonte di utilità115.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 8, 41, 2 segg., pp. 134-135
Stählin = SVF III, 292
La carità116 sembra sia concordia nelle cose che riguardano la
ragione, la vita e il costume; o per chi voglia dirla più breve
sembra essere comunanza di vita; o l’estendersi dell’amicizia e
dell’amore, secondo retta ragione, nella relazione con gli amici… Si
pone accanto alla carità l’ospitalità, che è il buon saper trattare
nelle relazioni con gli ospiti … la filantropia, che è relazione di
amicizia verso gli uomini … l’olfatto, che è il buon saper trattare
nei rapporti amorevoli verso amici e parenti; la tenerezza,
mantenimento di benevolenza o affezione; l’affezione, accettazione
totale … la concordia, scienza dei beni comuni.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., I, 13, 101, 2 segg., pp. 150-151
Stählin = SVF III, 293
La virtù … è disposizione dell’anima resa concorde dalla ragione in
relazione a tutta la vita. E definiscono la filosofia come esercizio
della ragione nel suo retto uso… L’azione 〈buona〉117 è un atto
dell’anima razionale secondo un giudizio retto ed un tendere alla
verità, compiuta per mezzo del corpo che è ad essa connaturato e
collabora con essa... Il dovere è azione conseguente nella vita. La
vita 〈buona〉 è un insieme organico di azioni razionali; è
l’irreprensibile portare all’atto ciò che ci è stato insegnato dalla
ragione.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5b, 11, p. 67, 5 segg. Wachsmuth = SVF III,
294
Cose come l’amore per la musica, le lettere, i cavalli, i cani e in
generale tutte le forme di cultura comune le considerano occupazioni
e non scienze: ma ammettono che si tratti pur sempre di attività che
rientrano negli abiti virtuosi, e conseguentemente affermano che
solo il sapiente può esser veramente amante della musica e delle
lettere e similmente delle altre cose anzidette. Definiscono
l’occupazione in questo modo: via che, per mezzo dell’arte o di
parte di essa, conduce alle azioni secondo virtù.
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 125-127 = SVF III, 295
Dicono che le virtù sono tutte connesse reciprocamente e chi ne ha
una le possiede tutte quante; comuni sono infatti i loro principi,
come dice Crisippo nel suo Delle virtù, Apollodoro nella Fisica alla
maniera antica, Ecatone nel libro III del suo Delle virtù118. Chi ha
la virtù, infatti, è capace di riflettere e di agire nel modo
dovuto. Le cose da farsi sono quelle da scegliersi, quelle da
sopportarsi, quelle in cui perseverare, quelle da distribuire;
cosicché se qualcuno fa le cose con buon criterio di scelta, o di
sopportazione, o di distribuzione, o di perseveranza, è di volta in
volta saggio, forte, giusto, perseverante119. Ognuna delle virtù si
caratterizza per un proprio aspetto essenziale: il valore in
relazione alle cose da sopportarsi, la saggezza in relazione a
quelle da farsi o non farsi o né l’uno né l’altro, e similmente
anche le altre virtù vertono su oggetti loro propri. Alla saggezza
sono conseguenti il buon consiglio e l’intelligenza, alla temperanza
il buon ordine e la compostezza, alla giustizia l’uguaglianza e
l’equità, al valore la costanza e la baldanza. Ritengono che non ci
sia nulla di intermedio fra la virtù e il vizio … così come, dicono,
un legno non può essere altro che diritto o curvo, così pure
un’azione non può essere che giusta o ingiusta, non più giusta né
più ingiusta; e così per ciò che riguarda le altre virtù.
GALENO, Optimum med. esse philos., 3, p. 7, 12 segg. Marquardt = SVF
III, 296
Così egli necessariamente deve avere anche le altre virtù. Tutte
sono conseguenti le une alle altre, e non è possibile che· chi ne ha
una qualsiasi non possieda anche tutte le altre che conseguono ad
essa come se fossero tutte legate insieme da una cordicella.
LATTANZIO, Div. Inst., V, 17, p. 456 Brandt = SVF III, 298
Infine, per concludere la disputa, la stessa ragione ci insegna che
non è possibile che la stessa persona sia giusta e stolta, sapiente
e ingiusta; infatti chi è stolto non sa che cosa sia giusto e bene,
e quindi erra sempre. È trascinato dai vizi come un prigioniero, né
può in alcun modo resistere, poiché manca della virtù, in quanto non
la conosce. Ma il giusto si astiene da ogni peccato, né potrebbe
fare diversamente se non avesse la nozione di ciò ch’è onesto e
disonesto. E questa nozione chi può averla se non chi è saggio? Ne
deriva che nessuno, che sia stolto, può essere giusto, né alcuno che
sia sapiente ingiusto… La stoltezza è un errare nell’agire e nel
parlare a causa dell’ignoranza di ciò ch’è onesto e buono.
GIROLAMO, Epist. 66 ad Pammachium, 3, p. 649 Hilberg = SVF III, 300
Quattro virtù delineano gli Stoici, così vicendevolmente connesse e
così reciprocamente coerenti che chi non ne ha una manca di tutte:
la prudenza, la giustizia, la fortezza, la temperanza.
FILONE ALESSANDRINO, De ebrietate, 88, II, p. 186, 21 segg. Wendland
= SVF III, 301
Non bisogna ignorare neanche questo, che la sapienza, ch’è arte
delle arti, appare mutevole a seconda delle differenti materie cui
si applica, pur mostrando il suo vero aspetto a quelli che sanno
guardare con acume e non lasciarsi attrarre dal rivestimento
esteriore della sostanza, ma che discernono il carattere impresso
dall’arte stessa. Dicono che allo stesso modo il famoso scultore
Fidia, prendendo bronzo, avorio, oro e altre materie differenti,
costruiva le sue statue manifestando in tutte una sola e identica
arte, cosicché non solo gli esperti ma anche i molto inesperti erano
capaci di riconoscere l’artista dai prodotti dell’arte… Così come la
natura, quando produce dei gemelli, spesso valendosi dello stesso
carattere imprime in loro delle somiglianze che è quasi impossibile
discernere, così allo stesso modo la vera arte, ch’è imitazione e
immagine della natura, foggia e imprime la stessa forma in tutte le
materie, sì che i prodotti dell’arte derivano apparentati al massimo
a questa, fratelli, gemelli… E dunque nel sapiente la virtù creativa
rivela lo stesso processo: se si occupa dell’essere, si chiama pietà
e santità120, se del cielo o di cose simili, conoscenza della
natura; scienza meteorologica se dell’aria e delle sue variazioni e
trasformazioni quali si verificano per natura durante tutto il corso
delle stagioni dell’anno o parzialmente in periodi di mesi e giorni;
l’etica se riguarda del miglioramento dei costumi degli uomini, e
specie di essa sono la politica, che riguarda la città, l’economia,
che si occupa dell’amministrazione della casa, la simposíaca, che
verte su simposii e banchetti, l’arte regia, che ha per oggetto il
saper dominare sugli altri uomini, e la scienza della legislazione,
che ha per oggetto ordini e divieti. Il sapiente che sia veramente
tale, ricco di molte lodi e di molte denominazioni, possiede
distintamente tutte queste attribuzioni … e si rivela dotato in
tutte queste di una stessa e identica forma.
OLIMPIODORO, In Plat. Alcib., 214, p. 134 Westerink = SVF III, 302
Anche se le virtù sono conseguentemente connesse le une alle altre,
differiscono pur sempre tra di loro per le loro proprietà
specifiche. Non sono infatti una sola, ma sono tutte in ciascuna,
per esempio nel valore vi sono tutte sotto la specie del valore, o
altrove sotto la specie della temperanza; così come tutti gli dèi
sono in Zeus sotto la specie di Zeus o in Era sotto la specie di Era
(non vi è infatti alcuna divinità che sia da poco). Così come
Anassagora diceva che tutto è in tutto, ma che una sola cosa è da
più delle altre121, così noi diremo per la divinità. Tutta la virtù
è saggezza, in quanto sa le cose che sono da farsi; tutta è valore,
in quanto tutta quanta lotta; tutta è temperanza, in quanto induce a
ciò ch’è migliore; tutta è giustizia, in quanto distribuisce il
conveniente alle cose che si compiono.
FILONE ALESSANDRINO, De Moyse, II, 8, p. 202, 4, segg. Cohn-Wendland
= SVF III, 303
… ciò che si usa dire delle virtù, che chi ne ha una le ha tutte.
FILONE ALESSANDRINO, De sacrif. Abel et Cain., 82, I, p. 236, 3
segg. Wendland
Bisogna dunque dividere il discorso in punti essenziali preminenti,
quelli che si usa chiamare «occorrenti a proposito», e a ciascun
discorso bisogna adattare le argomentazioni che gli sono proprie,
imitando i bravi arcieri che, mirando a un dato bersaglio, tentano
in ogni modo di far giungere ad esso i loro dardi. Al bersaglio è
simile il punto essenziale da cogliere, e ai dardi
l’argomentazione122. In questo modo il discorso si intesse
armoniosamente come del più bello dei manti… La virtù è infatti
qualcosa di unitario e di complessivo che si divide poi nelle specie
convenienti, saggezza e temperanza, giustizia e valore, sì che,
conoscendo le sue differenze specifiche, teniamo fermo al culto di
essa, sia dell’insieme sia nelle sue parti.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5b, 7, pp. 64-65 Wachsmuth = SVF III, 305-306
Dicono che le virtù sono più d’una e inseparabili le une dalle
altre, e che le virtù nella loro sostanza sono identiche alla parte
direttiva dell’anima, poiché ogni virtù è e si dice essere una
realtà corporea, e corporee sono l’anima e il pensiero; ritengono
infatti che anima sia il soffio caldo in noi connaturato.
Affermano che l’anima che è in noi è un essere vivente; infatti è
capace di vita e di sensazione; soprattutto poi la parte direttiva
di essa, che chiamiamo pensiero. Perciò anche ogni virtù è un essere
vivente, giacché nella sua essenza essa si identifica col pensiero.
Per questo dicono che la saggezza è saggia: questo consegue al loro
ragionamento.
SENECA, Epist. ad Luc., 113, 1 = SVF III, 307
Mi chiedi che cosa pensi della questione dibattuta dai nostri, se la
giustizia, la fortezza, la prudenza e le altre virtù siano esseri
viventi. Con sottigliezze del genere, mio Lucilio, noi otteniamo
solo di aver l’aria di esercitare la nostra intelligenza in cose
inutili e di perdere il nostro tempo in discussioni che non servono
a nulla. Ma tuttavia farò quello che mi chiedi, e ti esporrò che
cosa ne pensino i nostri… Dirò insomma quali siano le ragioni che
sono parse coibenti agli antichi. Si sa che l’anima è un essere
vivente, dal momento che è in virtù di essa che noi siamo tali e che
gli stessi animali hanno tratto il loro nome da essa; ma la virtù
non è altro che l’anima nell’atto di una sua disposizione; quindi è
un essere vivente. Inoltre la virtù esercita un’azione, e non si può
agire se non in base a un impulso; ma se essa ha un impulso, e
nessuno può averlo se non sia un essere vivente, vuol dire che essa
è un essere vivente. Ma si dirà: «allora, se la virtù è un essere
vivente, possiederà anche la virtù». E perché non dovrebbe avere se
stessa? E come dire che, se il saggio fa tutto per mezzo della
virtù, la virtù fa tutto per mezzo di se stessa. «Dunque» si dirà
ancora «anche tutte le arti sono esseri viventi, e così tutti i
nostri pensieri e tutto ciò che abbracciamo con la mente». Ne
consegue, che nello spazio ristretto del nostro petto abitino molte
migliaia di esseri viventi, e che ciascuno di noi o sia insieme
molti esseri viventi o ne comprenda in sé molti. Chiedi, che cosa
possiamo rispondere a tutto questo? Ciascuna di queste cose sarà un
essere vivente, e tuttavia non vi saranno molti esseri viventi tutti
insieme. E come? Te lo spiegherò se starai ben attento con tutto il
tuo acume. Singoli esseri viventi devono avere singole sostanze:
quindi di ciascuno di loro non ha che un’anima. Possono perciò esser
singoli, ma non molti insieme. Io sono un essere vivente e sono
anche un uomo: non potrai dire che in tal modo sono due. Perché?
perché per esser due dovrebbe trattarsi di due entità separate (così
dico proprio, che uno dovrebbe essere disgiunto dall’altro); ma
tutto ciò che è molteplice nell’unità, ricade sotto la natura
dell’unità, quindi è uno. La mia anima è un essere vivente ed io
pure lo sono: tuttavia non siamo due; e perché? perché l’anima è
parte di me stesso. Una realtà potrà esser contata separatamente
quando sussiste di per sé; ma quando è parte di qualcos’altro, non
può apparire altro da questo. Perché? lo dirò: perché ciò ch’è altro
deve però appartenere a se stesso, ed essere proprio, e totale, e in
sé del tutto completo.
… Non sono dunque, dice, molti esseri viventi le virtù; tuttavia
sono esseri viventi. Così come uno stesso individuo è insieme poeta
e oratore, e tuttavia è uno, così le virtù sono esseri viventi ma
non sono molti esseri viventi insieme123.
I DOVERI
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philosophorum, VII, 107-110 = SVF III, 493;
495, 496
Dicono che dovere è l’azione che, una volta compiuta, ha in sé
una giustificazione razionale: così per esempio ciò ch’è coerente
nella vita; questo si estende anche alle piante e agli animali;
anche fra di essi si possono riconoscere dei doveri. Per primo da
Zenone il dovere fu così denominato, prendendo questa denominazione
in base al suo «convenire a qualcuno». Esso è un atto proprio della
costituzione secondo natura. Gli atti che si compiono in base a
impulso sono alcuni doveri, altri contro il dovere, 〈altri ancora né
doveri né contro il dovere〉124. Doveri sono quegli atti che la
ragione sceglie di fare: per esempio venerare i genitori, i
fratelli, la patria, venire in aiuto agli amici; contro il dovere
ciò che non sceglie la ragione, cioè cose come non aver cura dei
genitori, non preoccuparsi dei fratelli, non soccorrere gli amici,
disprezzare la patria e altre simili. Né doveri né contro il dovere
sono tutte quelle cose che la ragione né sceglie né respinge:
raccogliere sterpi, tenere uno stilo o un striglie e altre simili a
queste. E vi sono poi doveri indipendenti dalle circostanze e altri
soggetti a queste. Indipendenti da ogni circostanza sono cose come
aver cura della salute, dell’integrità dei propri sensi e simili;
soggetti a particolari circostanze cose come mutilarsi o gettar via
il proprio patrimonio. Analogamente si può dire delle cose che sono
contro il dovere. Inoltre di ciò ch’é secondo il dovere parte lo è
sempre e parte non sempre. Sempre doveroso è il vivere secondo
virtù; non sempre interrogare e rispondere, o passeggiare, e simili;
e lo stesso discorso si deve fare circa le cose che sono contro il
dovere. Anche nelle cose intermedie sussiste un dovere, come è per
esempio per i fanciulli l’obbedire al pedagogo.
Commenta Lucani, p. 74 Usener = SYF III, 492
Circa i doveri dà questa definizione: quelle cose che sono desunte
dal primo atto di parentela con noi stessi, alla nostra nascita. Da
ciò deduce125 che l’uomo è il solo animale socievole, apparentato
così con se stesso per natura come con tutti gli altri uomini.
STOBEO, Eclog., II, 7, 8, p. 85, 13 segg. Wachsmuth = SVF III, 494
Alla trattazione sui preferibili è strettamente conseguente quella
sul dovere. Il dovere si definisce: «ciò che è coerente nella vita;
ciò che, compiuto razionalmente, ha in sé la sua giustificazione»; e
ciò che è contro il dovere alla maniera opposta. Questa definizione
si estende anche agli animali privi di ragione; anche quelli infatti
compiono atti che sono conseguenti alla loro natura; ma per gli
esseri razionali vale la formula: «ciò ch’è coerente nella vita».
Dei doveri ritengono che alcuni siano perfetti, e questi li chiamano
azioni rette (κατορθώματα). Le azioni rette sono gli atti compiuti
secondo virtù, come l’esser saggi, l’agire giustamente; non sono
azioni rette quelle che non sono di questo tipo, ed essi dicono
perciò che vi sono anche doveri non perfetti ma medii: per esempio
il prender moglie, il prender parte ad una ambasceria, il dialogare
ed altri simili.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 6, 22 = SVF III, 497
Dal momento che quelli che noi diciamo esser doveri hanno il loro
punto di partenza dalle cose che sono prime per natura, bisogna
sempre far riferimento a queste; cosicché si può dire rettamente che
tutti i doveri hanno come loro punto di riferimento il conseguimento
dei principi naturali; e non tuttavia perché questi siano il sommo
bene, perché nelle prime forme di attrazione naturale non c’è
l’agire onestamente (questo è posteriore ε si forma ulteriormente,
come ho già detto). Tuttavia esso è secondo natura e ci esorta al
suo compimento molto più che non tutte le cose che prima ho detto.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 17, 58 = SVF III, 498
Ma anche se diciamo solo bene ciò ch’è onesto, è pur sempre coerente
a natura seguire il dovere, pur ponendo noi questo come intermedio
fra bene e male. In cose di questo genere c’è infatti qualcosa da
approvarsi e tale che se ne possa dare giustificazione; quindi anche
tale che in certi casi se ne possa dare una giustificazione
lodevole.
Il dovere è ciò che si compie in modo tale che se ne possa dare una
giustificazione lodevole. Da ciò si comprende che il dovere è una
realtà di tipo intermedio, da non riporsi né fra ciò che è bene né
fra le cose contrarie. E poiché in quelle cose che non sono né virtù
né vizi c’è tuttavia qualcosa che può essere di utilità, non è certo
da rifiutarsi. Vi è anche un certo tipo di agire tale che la ragione
richiede ed esige di compiere azioni di quel genere; ma ciò che è
compiuto secondo ragione, noi lo chiamiamo dovere; il dovere è
dunque di quel genere che noi crediamo non appartenga né all’ordine
dei beni né di ciò ch’è contrario al bene. È poi evidente che il
sapiente compirà anche alcune azioni di quest’ordine intermedio.
Quando agisce così, egli giudica che quello sia per lui un dovere; e
poiché egli non erra mai nel giudicare, ne consegue che il dovere
sta fra le realtà intermedie. Si arriva a questo anche per mezzo di
questa argomentazione razionale: ciò che chiamiamo azione retta, è
un devere perfetto, mentre vi è anche un dovere imperfetto (per
esempio se noi diciamo «rendere il deposito secondo giustizia» si
avrà un’azione retta, mentre «rendere il deposito» è semplicemente
da porsi fra i doveri; diviene un’azione retta solo se aggiungiamo
«secondo giustizia»; di per sé il semplice rendere non è che un
dovere). Poiché non vi è dubbio che fra le realtà che diciamo
intermedie ve ne sono alcune da scegliere ed altre da rifiutare,
tutto ciò che si fa o dice in tal modo è compreso nel concetto di
dovere. Da ciò si comprende che, dal momento che tutti per natura
amano se stessi126, sia il saggio che lo stolto accettano ciò ch’è
secondo natura e rifiutano il contrario; vi sarà quindi un dovere
comune al saggio e allo stolto; e per questo diciamo che il dovere
appartiene all’ordine di quelle realtà che chiamiamo medie.

Moneta di Soli con presunta immagine di Crisippo
(da Bellori,
Veterum philosophorum imagines, 1685).
STOBEO, Eclog., II, 7, 8a, p. 86, 10 segg. Wachsmuth = SVF III, 499
Tutto ciò che in un essere ragionevole viene compiuto contro il
dovere, è un errore; e il dovere giunto alla sua perfezione si
chiama azione retta. Il dovere intermedio si commisura alla stregua
di certi indifferenti, che sono definiti secondo natura e contro
natura, ma che presentano una costituzione naturale talmente
positiva che se non li accettassimo o li rifiutassimo in assoluto
non potremmo conseguire la felicità.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11a, p. 93, 14 segg. Wachsmuth = SVF IIΙ, 500
Dicono che azione retta è il dovere quando esso possiede tutti i
numeri o … è un dovere perfetto; errore è ciò che viene compiuto
contro la retta ragione e in cui da parte di un essere vivente
ragionevole viene trascurato un dovere.
STOBEO, Eclog., II, 7, ne, pp. 96-97 Wachsmuth = SVF III, 501-502
Inoltre dicono che dei nostri atti parte sono azioni rette, parte
sono errori, e altri ancora né l’una cosa né l’altra; azioni rette
sono cose di questo tipo: esser saggio, esser temperante, agire
giustamente, aver gioia, fare benefici, avere animo sereno,
passeggiare saggiamente, cose tutte che si compiono in base a retta
ragione; errori sono invece cose come: essere stolto, essere
intemperante, compiere azioni ingiuste, affliggersi, aver paura,
rubare, e in genere tutte le cose che si compiono contro la retta
ragione; né azioni rette né errori sono poi cose come il parlare,
l’interrogare, il rispondere, il passeggiare, il partire e tutte le
altre cose simili a queste.
Tutte le azioni rette sono anche azioni giuste e azioni conformi
alle leggi e al buon ordine, buone occupazioni, felici eventi,
espressioni di vita felice, atti opportuni (εὐκαιρήματα), atti
decorosi (εὐσχημονήματα); non però anche atti saggi, perché tali
sono solo gli atti compiuti in base a saggezza, e similmente si deve
dire per tutte le altre virtù; a seconda dei loro nomi anche se
questi non vengono detti (per esempio gli atti giusti in base alla
giustizia, gli atti temperanti in base a temperanza ecc.). Per le
ragioni contrapposte, errori sono le azioni ingiuste, le azioni
contro la legge, le azioni contro il buon ordine.
STOBEO, Eclog., II, 7, 8a, p. 86, 5 segg. Wachsmuth = SVF III, 503
Delle azioni rette alcune sono tali che si devono fare, altre non
necessariamente tali; quelle che sono classificate come utilità
appartengono al primo tipo, così l’esser saggi, l’esser temperanti;
al secondo tipo appartengono quelle che non sono tali. Similmente
anche delle azioni che sono contro il dovere si fa la stessa
trattazione specifica articolata.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 9, 32 = SVF III, 504
Ma nelle altre arti, quando si parla di artificio, si intende
qualcosa che in certo modo viene ulteriormente e consegue (essi
chiamano ciò ἐπιγεννηματικόν): mentre quando diciamo «sapientemente»
intendiamo qualcosa che deriva direttamente dal principio. Ciò che
ha il suo punto di partenza nella condizione di sapiente, deve
essere subito completo in tutte le sue parti: in esso è infatti
riposto ciò che noi diciamo sia da ricercarsi. Infatti, così come è
colpa tradire la patria, far violenza contro i genitori,
saccheggiare i templi, cose che hanno una precisa esecuzione, è
anche colpa aver paura, intristirsi, essere in stato di libidine,
anche se queste cose non portano a esecuzione di misfatti. E così
come tali cose sono colpa non per ciò che sopravviene e consegue, ma
subito fin dall’inizio, così quelle azioni che hanno il loro punto
di partenza nella virtù si devono giudicare rette in base al primo
modo di accettazione, non in base al loro compimento.
FILONE ALESSANDRINO, De sacrif. Abel et Caini, 115, p. 249, 4 segg.
Wendland = SVF III, 505
Dico queste cose non riferendomi alle virtù, ma alle arti
intermedie127 e a tutte quelle altre cose che sono necessarie per la
cura del corpo e che trattano di questa e delle realtà estrinseche.
Infatti quando si tratta di cose belle, buone, perfette, la fatica
spesa anche senza raggiungere in un secondo tempo il fine è di per
sé sufficiente a portar vantaggio in chi l’abbia compiuta; tutte
quelle cose che sono al di fuori della virtù, invece, sono inutili
se non si raggiunga lo scopo finale.
SENECA, De beneficiis, I, 6 = SVF III, 506
Che fra queste cose vi sia grande differenza lo puoi comprendere
soprattutto da questo, che il beneficio è sempre un bene, mentre ciò
che si fa o che si dà per sé non è né un bene né un male… Non è
beneficio in sé quello che si paga o che si consegna: così come
l’onore reso agli dèi non sta nelle vittime, siano esse opime o
adornate di splendido oro, ma nella pia e retta volontà di coloro
che compiono l’atto di venerazione. Così i buoni adempiono ai doveri
della pietà anche con ferro e con vasi di terra, mentre i cattivi
non sfuggono all’empietà anche se abbiano cosparso gli altari di
molto sangue.
SENECA, De beneficiis, II, 31 = SVF III, 507
A mia opinione fra i paradossi degli Stoici questo è il meno
paradossale, e il meno incredibile, che cioè colui che ha volentieri
accettato un beneficio lo ha anche reso volentieri. Se riferiamo
tutto all’animo con cui le cose si fanno, è chiaro che ciascuno ha
fatto nella misura stessa in cui ha avuto intenzione di fare. Dal
momento poi che la pietà, la lealtà, la giustizia, ogni virtù in una
parola è perfetta di per sé stessa, l’uomo può esser grato con la
sola sua intenzione, anche se non ha potuto stendere in effetti la
mano.
SENECA, De beneficiis, III, 18 = SVF III, 508
Ciò che importa è di quale animo sia colui che benefica, non di
quale condizione: a nessuno è preclusa la virtù, è aperta a tutti,
ammette tutti, tutti invita, liberi, liberti, schiavi, re, esuli.
Non sceglie chi ha casato o censo; si contenta dell’uomo così com’è.
SENECA, De beneficiìs, IV, 21 = SVF III, 509
Così come chi è eloquente lo è anche quando tace, quando si è forti
lo si è anche con le mani legate o incatenate, quando si è buon
nocchiero anche quando si è in secco — giacché alla scienza nulla
manca per essere perfetta anche se qualcosa è di ostacolo al suo
esercizio — così riconoscente è anche chi è tale nel suo animo e non
ha di questa sua disposizione altro testimone che se stesso.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VII, 10, 59, 2 segg., p. 43 Stählin
= SVF III, 510
Tuttavia alcune di queste azioni sono compiute anche da quelli che
non hanno retta conoscenza, e in questo caso non lo sono secondo
ragione: per esempio, per ciò che si riferisce al valore, vediamo
che certuni che per loro natura sono impetuosi, anche se alimentino
il loro valore indipendentemente da disposizione razionale,
intraprendono irrazionalmente molte cose e le compiono in maniera
simile a quelli che sono valorosi in senso proprio, cosicché a volte
riescono ad agire bene allo stesso modo, come quando per esempio
sopportano agevolmente la tortura; non però per lo stesso motivo per
cui agisce chi sa, né proponendosi lo stesso scopo, anche nel caso
che sacrifichino tutto il loro corpo… Ogni azione che è compiuta da
chi sa è un’azione buona, e quella che è compiuta da chi ignora è
un’azione cattiva, anche se conservi un certo suo assetto
originario; chi agisce in tal modo non si comporta valorosamente in
base a ragione né indirizza la sua azione verso alcuna di quelle
cose che hanno la loro utilità in ordine alla virtù e in quanto
vertono nel campo delle azioni virtuose. E lo stesso discorso si può
fare a proposito di tutte le altre virtù.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. alleg., III, 120, I, p. 160, 2 segg.
Wendland = SVF III, 512
Infatti anche lo stolto compie alcuni doveri, non in base comunque a
disposizione doverosa: e l’ubriaco e il pazzo talvolta parlano e
agiscono in modo savio, non però in base a disposizione d’animo
savia; e i bambini ancora piccoli spesso fanno e dicono cose
analoghe a quelle di chi è fornito di ragione, non però in base a
disposizione razionale, perché la natura non li ha ancora educati
alla ragione.
FILONE ALESSANDRINO, De Cherubim, 14, Ι, p. 173, 12 segg. Wendland =
SVF III, 513
Spesso si fa una cosa che si deve in maniera però non debita, e si
compie un dovere non doverosamente. Per esempio, quando si fa la
restituzione di un deposito non con retta intenzione, ma con
l’intento di nuocere a chi riceve, o col proposito di negarlo in
caso di un credito maggiore, non si compie l’azione secondo il
dovere anche se questa è doverosa. D’altra parte, quando il medico,
nell’intenzione di raschiare o tagliare o bruciare per il vantaggio
dell’ammalato, non dica a questo la verità, perché egli, preso da
paura della sofferenza, non rifiuti la cura, ecco che si compie
doverosamente qualcosa che non sarebbe dovere, così come quando
analogamente il saggio inganni i nemici in vista della salvezza
della patria, temendo che, col conoscere essi la verità, le forze
dell’avversario possano avvantaggiarsi.
MARCO FRONTONE, Epist. ad M. Antoninum, p. 140 Naber = SVF III, 514
Due sono i generi dei doveri e tre le specie: la prima specie è
quella della sostanza, cioè che il dovere esista; la seconda della
qualità, che sia quel determinato dovere; la terza riguarda
l’oggetto stesso, che cioè si compia quella cosa stessa per cui si
sono iniziati precedentemente gli atti doverosi… Cioè in sostanza si
tratta di apprendere e di esercitare la sapienza: e affermo che
questa terza specie, determinata dall’oggetto e dalle opere, è come
perfetta in se stessa. Di questa articolazione dei doveri (se quello
diceva il vero128 o se io lo conservo bene nella mia memoria 〈gli
Stoici si valgono〉, vedendo in essi i primi fondamenti, per un uomo
che tenda alla sapienza, atti a 〈tutelare〉 la vita e ad assicurarne
la salvezza129. E in tal modo si può dire che siano doveri del
sapiente anche atti come il lavarsi o lo spalmarsi di unguento o
altre cose del genere… Non sarà un atto di sapienza il cibarsi, ma
senza la vita, che ha bisogno di cibo, non vi possono essere neanche
attività intellettuali.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VI, 14, 111, 3, p. 487 Stählin =
SVF III, 515
Il puro conservare appartiene alle azioni intermedie, mentre il
conservare rettamente e secondo il dovuto è un’azione retta; così
ogni azione compiuta da chi sa è un’azione retta mentre quella
compiuta da chi è semplicemente un fedele130 deve considerarsi
inedia, in quanto ancora non è perfetta secondo ragione né
correttamente condotta con ogni cura; di contro, ogni azione del
pagano è errata: non è dovere, mostrano le Scritture, il semplice
agir bene, ma l’indirizzare le azioni a un determinato scopo e
l’agire secondo ragione.
SESTO EMPIRICO, Adv. ethicos, 200 = SVF III, 516
Ma contro questo (= che la saggezza non può identificarsi con l’arte
del vivere) essi obiettano che tutte le azioni sono comuni e sono di
tutti, differenziandosi fra di loro solo per l’essere compiute in
base a una disposizione metodica oppure no131. Il prendersi cura dei
genitori e l’onorare i genitori non è azione propria del sapiente;
proprio del sapiente è compiere queste cose con saggezza. E così
come il risanare può essere atto così del medico come dell’inesperto
di medicina, ma il risanare che fa il medico è un atto compiuto in
base a conoscenza dell’arte, così anche l’onorare i genitori è atto
comune al saggio e al non saggio, ma l’onorarli con saggezza è
proprio del sapiente, sì che egli possiede l’arte del vivere,
proprio della quale è il compiere ciascuna delle opere che compie in
base alla disposizione migliore.
SESTO EMPIRICO, Adv. ethicos, 207 = SVF ΠΙ, 516
Ci sono altri che credono di dover distinguere queste cose in base
alla loro costanza e al loro ordine. Come nelle arti intermedie il
compiere le cose con ordine metodico e l’esser costante nei
risultati è proprio di chi possiede l’arte (anche l’inesperto a
volte può compiere la stessa opera, tuttavia raramente e non in ogni
caso, e non con continuità né allo stesso modo), così dicono che
anche nel compiere azioni rette la costanza è propria del saggio, e
il contrario lo è dello stolto.
SENECA, Epist. ad Luc., 95, 57 = SVF III, 517
Un’azione non può essere retta se non sia retta l’intenzione: da
questa infatti l’azione deriva. E nuovamente l’intenzione non può
essere retta se non sia retto lo stato d’animo: da questo deriva
l’intenzione. Ma lo stato d’animo non può essere volto a ciò ch’è
ottimo se non si sia compreso quali siano le leggi che reggono tutta
la vita e che cosa si debba giudicare di volta in volta.
FILONE ALESSANDRINO, Quod deus sit imput., 100, II, p. 78, 4
Wendland = SVF III, 518
Né compiono un’azione retta quelli che con opinione priva di assenso
fanno qualcos’altro di quelle cose che sono dovute, 〈non〉132
volontariamente, ma forzati nella loro volontà.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. Alleg., I, 93, I, p. 85, 17 segg. Wendland
= SVF III, 519
Sono differenti queste tre cose, il comandamento, il divieto, il
precetto con l’esortazione. Il divieto verte intorno agli errori ed
è indirizzato allo stolto; il comandamento verte intorno alle azioni
rette; il precetto riguarda quello che è intermedio, né cattivo né
buono. In questo caso non si sbaglia in maniera tale da doversi
usare di divieti, ma si ha bisogno di una esortazione che insegni ad
astenersi dal male e a tendere al bene. Non c’è bisogno … di dar
comandamenti o divieti o precetti al sapiente; questi infatti non ha
bisogno di simili cose; mentre al cattivo bisogna dare comandamenti
e divieti, e a chi è semplicemente inesperto bisogna dare
esortazioni e insegnamento. Così come al grammatico o al musico
arrivati alla perfezione delle loro arti non è necessario dare
ammaestramenti relativi a quelle arti stesse, è necessario dare a
chi si inganna circa i principi teorici certe norme che contengono
in sé comando e divieto, e a chi si trova ancora nell’errore un
insegnamento.
FILONE ALESSANDRINO, De sacrif. Abel et Cain, 43, Ι, p. 219, 14
Wendland = SVF III, 522
Le virtù perfette sono possesso solamente dell’uomo perfetto e
genuino; mentre quelli fra i doveri che sono intermedi si adattano
anche agli imperfetti, che sono giunti solo fino alla cultura di
carattere generale.
ORIGENE, Comm. in Matth., 12, p. 53 Klostermann = SVF III, 523
Conviene alla natura della divinità il far divieto di compiere il
male e il comandare ciò ch’è secondo virtù; e le cose che secondo la
loro propria definizione sono indifferenti lasciarle stare al loro
posto, giacché esse possono, in virtù della nostra facoltà di scelta
e della nostra ragione, costituire azioni cattive se intese
malamente e risultare un bene se intese rettamente.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 14, 45-46 = SVF III, 524
E così come l’opportunità (chiamiamo in questo modo la εὐκαιρία) non
diventa maggiore per l’allungarsi del tempo — le cose che si dicono
opportune hanno ciascuna la sua regola — così l’azione retta
(chiamo così la κατόρθωσις, dal momento che intendo κατόρθωμα come
«ciò che è compiuto rettamente») e così pure le cose che conviene
fare, e infine lo stesso bene, dal momento che esso risiede nelle
cose coerenti a natura, non hanno alcuna possibilità di
accrescimento. Così come l’opportunità, dunque, così le realtà che
ho enumerato non diventano più grandi per l’allungarsi del tempo: e
per questa ragione agli Stoici la vita felice non sembra più
desiderabile se sia lunga di quanto non lo sia se breve, e si
valgono di questo paragone: se il pregio di un coturno sta
nell’adattarsi al piede, né pochi coturni perdono pregio di fronte a
molti o coturni piccoli a coturni grandi, così tutte quelle cose il
cui valore positivo si definisce in base all’opportunità e alla
congruenza non varieranno di valore a seconda che siano più o meno,
maggiori o minori.
PORFIRIO, In Arist. Categ., p. 137, 29 segg. Busse = SVF III, 525
Essi ritennero che alcuni abiti e quelli che ne sono qualificati non
ammettano il più e il meno, per esempio 〈le virtù e〉 quelli che ne
sono 〈qualificati, mentre alcuni abiti〉 e alcune qualità ammettono
accrescimento e diminuzione, per esempio ammettono ciò e le arti
〈intermedie〉 e le qualità intermedie e coloro che sono qualificati
secondo queste. Di questa opinione furono gli Stoici133.
STOBEO, Eclog., II, 7, p. 106, 21 segg. Wachsmuth = SVF III, 528
Dicono che tutte le colpe sono uguali, non però anche simili. Così
come per natura esse muovono tutti dalla stessa fonte del vizio,
poiché il giudizio è uguale in tutti i tipi di colpa, d’altro canto,
differenziandosi fra loro per la causa esterna le cose intermedie su
cui i giudizi vertono, esse risultano anche differenti per qualità.
Potresti avere un chiaro paragone di ciò ponendo mente a questo:
ogni falso è falso in modo uguale, non c’è falso che sia più falso
di un altro: è falso dire che sia sempre notte, come è falso dire
che l’ippocentauro esiste, dire l’una cosa non è più falso che dire
l’altra; non però perché un falso non è più falso di un altro quelli
che dicono il falso sono da giudicarsi tutti allo stesso modo. Così
anche il commettere colpe non ammette il più e il meno (tutte le
colpe infatti si commettono in base a un giudizio falso). E se non
può essere che un’azione retta lo sia più o meno, così non può
esserlo nemmeno una colpa: tutte le colpe sono perfette, sì che non
possono avere eccesso o difetto nei riguardi reciproci.
STOBEO, Eclog., II, 7, 110, p. 113, 18 segg. Wachsmuth = SVF III,
529
Poiché sono uguali tutte le colpe e tutte le azioni rette, tutti gli
stolti sono stolti allo stesso modo, giacché hanno tutti la stessa
disposizione. Ma pur essendo tutte le colpe uguali, sussistono fra
di esse alcune differenze: per esempio alcune colpe derivano da una
disposizione così indurita da essere insanabile, altre no. E anche
dei buoni alcuni sono più capaci di persuadere e di esortare, mentre
altri sono più perspicaci nel caso che occorra tendersi verso la
comprensione delle cose intermedie.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 14, 48 = SVF III, 530
Così come quelli che sono immersi nell’acqua ugualmente non possono
respirare sia che non siano molto al di sotto della superficie — sì
da poter facilmente riemergere — sia che si trovino più nel
profondo; né il cagnolino che si approssima all’uso della vista non
vede di più di quanto non vedesse appena nato; allo stesso modo chi
ha fatto qualche progresso verso l’abito della virtù non è meno
nell’infelicità di quello che non ha fatto alcun progresso verso di
essa… Tuttavia, anche se essi negano che i vizi o le virtù possano
accrescersi, ritengono che gli uni e le altre possano quasi
espandersi e dilatarsi.
CICERONE, De fin. bon. et mal., IV, 27, 75-76 = SVF III, 531
Sono uguali le colpe… In che modo?… Così come, dice, fra più lire
che si diano, se nessuna ha le corde talmente tese da poter produrre
un dato accordo, tutte si può dire manchino di tensione; così le
colpe, se sono una discordanza, lo sono allo stesso modo, e quindi
sono uguali. Così come un nocchiero sbaglia allo stesso modo se fa
andare a fondo una nave carica di paglia o una nave carica d’oro,
allo stesso modo pecca ugualmente chi batte a torto un genitore o
uno schiavo… Poiché, dicono, ogni colpa deriva da debolezza e
incostanza, e questi vizi in tutti gli stolti sono ugualmente
grandi, necessariamente uguali sono le colpe.
CICERONE, De fin. bon. et mal., IV, 9, 21 = SVF III, 532
La stoltezza, l’ingiustizia, gli altri vizi sono simili in tutti gli
uomini, e tutte le colpe sono uguali; e quelli che per natura e
insegnamento sono arrivati a compiere grandi progressi verso la
virtù ma non l’hanno ancora conseguita sono sommamente infelici, né
vi è alcuna differenza fra la loro vita e quella degli uomini
scellerati.
PORFIRIONE, In Horat. Sat., I, 2, v. 62, p. 235 Holder = SVF III,
533
Egli nega ci sia alcuna differenza nei misfatti compiuti contro una
matrona, o un’ancella, o anche un’adultera, seguendo in ciò
l’opinione degli Stoici, che dicono che tutte le colpe sono uguali,
né guardano all’entità dell’atto commesso, ma alla intenzione di chi
lo commette.
Ps. ACRONE, In Horat. epist., I, 1, v. 17, p. 207 Keller = SVF ΠΙ,
534
Seguace degli Stoici … che non concedono la virtù se non a chi
esercita la filosofia nella sua perfezione; mentre i Peripatetici ed
altri concedono tale onore anche ai non perfetti.
PLUTARCO, De profectis in virt., 2, 75f = SVF III, 535
Quelli che non adattano i princìpi alla realtà, ma forzano la realtà
ad adattarsi contro la sua natura ai loro presupposti, hanno
riempito la filosofia di molte aporie, massima delle quali è la
dottrina secondo cui tutti gli uomini si trovano nello stesso stato
di vizio tranne uno solo, colui che è perfetto; ragion per cui non
si capisce più che cosa possa essere quello che si chiama il
progresso, non differenziandosi esso dalla suprema stoltezza, e
quelli che ancora non si sono liberati del tutto di passioni e
turbamenti dell’anima vengono considerati sciagurati alla stessa
stregua di quelli che sono invischiati nei vizi peggiori. Quei
filosofi si confutano da sé quando nelle loro diatribe considerano
uguale l’ingiustìzia di Aristide a quella di Falaride, e la viltà di
Brasida a quella di Dolone, e, per Zeus, l’insensatezza di Platone
non differente in nulla da quella di Meleto, mentre poi nella vita e
nelle azioni evitano e fuggono la gente del primo tipo come
indesiderabile, dànno amicizia e confidenza circa cose importanti
alle persone del secondo tipo come degne di molto riguardo134.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, Quaestiones, IV, 3, segg., p. 121, 14
segg. Bruns = SVF III, 537
Noi diciamo che c’è un abito intermedio fra la giustizia e
l’ingiustizia, o più in generale fra la virtù e il vizio. Ma se per
quelli la giustizia e l’ingiustizia sono abiti, e gli abiti sono
tali che non possono più venir meno, non potrebbe esserci alcun
passaggio dall’abito di ingiusto a quello di giusto e viceversa… E
se dicessero che i vizi non sono abiti né sono tali da non poter
essere abbandonati, sì che nulla impedisce che alcuni passino dalla
ingiustizia alla giustizia o in generale dal vizio alla virtù, si
chiede: ma al vizio donde si passa?… E se poi dicessero che i
fanciulli non hanno ancora l’uso della ragione e quindi non sono
ancora né giusti né ingiusti (questi abiti sono propri, dell’essere
razionale...) ma che, quando acquistano l’uso della ragione, per
l’immediato si trovano in stato di vizio, anche se non si può dire
che diventino viziosi perché passano al vizio da uno stato di virtù,
ecco che si trovano a dover ammettere con ciò che all’essere
razionale cattiveria e vizio ineriscono per natura.
ORIGENE, De princ., III, 1, p. 230, 7 segg. Kötschau = SVF III, 538
E per terza cosa diranno che appartiene alle cose intermedie il
volere ciò ch’è bello e il correre verso ciò ch’è bello, e che non è
né buono né cattivo; ma allora bisognerebbe dire loro che se il
volere il bello e il correre verso di esso è un atto medio, è medio
anche il suo contrario.
PLUTARCO, De profectis in virt., 1, 75c = SVF III, 539
Così nel filosofare non bisogna supporre che avvenga nessun
progresso né alcuna sensazione del progresso se l’anima non si
liberi e si purghi della stoltezza vana; finché essa non è giunta al
bene puro e perfetto, si trova in condizioni di puro male. E infatti
il sapiente che in un breve lasso di tempo passa dalla massima
stoltezza a uno stato di virtù perfetta si libera tutto d’un colpo
da quel vizio dal quale per lungo tempo non era stato capace di
distaccarsi. Ma tu sai bene che quelli che così dicono si procurano
molte difficoltà e cadono in grandi aporie quando affermano che non
si ha coscienza di questo: giacché dicono che chi compie questo
passaggio non si accorge subito di esser divenuto sapiente, ma per
un certo tempo continua ad ignorarlo e resta nell’ambiguità; solo a
poco a poco, in un lungo periodo, col liberarsi che egli fa di
alcune cose e il conquistarne altre, inconsciamente si verifica in
lui quel processo che è quasi un viaggio che approdi dolcemente alla
virtù. Ma in effetti, se veramente tale fosse la rapidità e l’entità
della trasformazione da far si che, alzatici la mattina malvagi, ci
si trovasse la sera ottimi o il mutamento avvenisse in modo tale
che, addormentiatici la sera stolti, ci si potesse poi svegliare
sapienti (sì da poter dire dal fondo dell’anima, liberati dalla
stoltezza e dagli inganni del giorno prima: «sogni menzogneri,
addio: non eravate nulla»135) chi potrebbe non accorgersi che in lui
si è verificato un simile cambiamento e che tutto d’un colpo, per
illuminazione, è arrivata la sapienza?
STOBEO, Eclog., II, 7, 11n, p. 113 Wachsmuth = SVF III, 540
Essi ritengono che si possa diventare sapienti anche senza che
all’inizio se ne abbia la coscienza, non tendendo verso nulla né
trovandosi in quegli stati che, per la loro specie, appartengono
agli atti volontari: per il fatto che al proprio giudizio non
presente ciò che dovrebbe esserlo. Questo avviene non solo per la
sapienza, ma anche per tutte le altre arti.
FILONE ALESSANDRINO, De agri cultura, 160, II, p. 127, 23 segg.
Wendland = SVF III, 541
Chi raggiunge questo stadio, secondo i filosofi, è sapiente senza
averne coscienza. Dicono infatti che quelli che sono giunti al
confine della sapienza e ne hanno appena sfiorato il limite è
impossibile che ancora si rendano conto della sua perfezione. Non
sussistono infatti nello stesso tempo queste due cose, il
raggiungere il limite e la consapevolezza di averlo raggiunto: in
mezzo, proprio al confine, vi è una forma d’ignoranza che non è
molto lontana dalla scienza e anzi è prossima ad essa, antistante
quasi sulla soglia136.
PLUTARCO, De comm. not., 8, 1061f = SVF III, 542
È poi contro la comune opinione il dire che il massimo dei beni è la
fermezza e stabilità nei giudizi, ma che di ciò non ha bisogno colui
che è progredito fino all’estremo, e tuttavia non si rende confo di
esservi giunto; spesso così costui non tende nemmeno un dito per
ottenere quella sicurezza e quella fermezza che secondo loro è il
bene sommo e perfetto.
SENECA, Epist. ad Luc., 75, 8 segg.137
Infatti colui che compie progresso rimane pur sempre nel novero
degli stolti; e tuttavia grande è l’intervallo che da questi lo
separa. E anche fra coloro che hanno compiuto progresso vi sono
grandi differenze. Secondo alcuni, si dividono in tre classi. Al
primo posto stanno coloro che ancora non possiedono la sapienza, ma
stanno già saldamente attestati nelle sue immediate vicinanze (e
tuttavia chi è vicino è pur sempre fuori!138) Mi chiedi chi siano?
Sono coloro che hanno già deposto tutte le passioni e tutti i vizi,
che hanno già appreso tutto ciò che era da apprendersi, ma ancora la
loro convinzione non ha compiuto il debito esercizio. Non sono
ancora assuefatti a quel bene che è il loro; tuttavia non possono
ormai più ricadere in quelle azioni dalle quali sono rifuggiti. Sono
già in quel luogo dal quale non si ricade indietro; tuttavia essi
stessi non ne sono ancora consapevoli… Già hanno in sorte di poter
fruire del bene; non ancora di credere in esso.
PROCLO, In Plat. Alcib. I, 288, p. 133 Westerink = SVF III, 543
A ragione gli Stoici erano soliti dire che l’uomo privo di
educazione accusa gli altri e non se stesso della propria
infelicità; l’uomo che ha compiuto progresso riconduce a sé la causa
di tutto che dice o fa di male; quell’uomo che è completamente
educato non accusa né sé né gli altri delle proprie azioni errate.
Infatti esso non erra nel fare ciò deve, ma è egli stesso in tutto e
per tutto signore e sovrano nell’individuazione del suo dovere.
LE PASSIONI
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 110-116 = SVF III, 396, 400,
407, 412
I generi sommi delle passioni, a quanto dice Ecatone nel libro II
dell’opera Sulle passioni e Zenone nella sua opera omonima, sono
quattro: dolore, paura, desiderio, piacere139… Il dolore è una
contrazione irrazionale, e sue specie sono la misericordia,
l’invidia, la rivalità, la gelosia, l’angustia, l’afflizione, il
tormento, la pena, lo smarrimento. La misericordia è dolore per chi
soffre ingiustamente; l’invidia dolore perché altri possiedono certi
beni; la rivalità dolore che un altro abbia ciò si desidera; la
gelosia dolore perché anche un altro ha quello che noi abbiamo;
l’angustia è un dolore che ci opprime; l’afflizione è un dolore che
ci stringe l’anima e ci dà sofferenza; il tormento è dolore
constante o in estensione, che deriva da ragionamenti; la pena è un
dolore che ci travaglia; lo smarrimento è un dolore irrazionale, che
ci soffoca e ci impedisce di vedere ciò che ci sta intorno. La paura
è attesa di un male. Alla paura si rapportano le seguenti specie:
spavento, esitazione, vergogna, sbigottimento, terrore, sgomento.
Spavento è una paura che provoca terrore, esitazione è paura di un
atto da compiersi, vergogna è la paura dell’infamia, sbigottimento è
paura che deriva dalla rappresentazione di una realtà insolita,
terrore è paura che tronca la voce, sgomento è 〈paura di qualcosa di
oscuro〉140. Il desiderio è una tendenza irrazionale cui sono
subordinate le seguenti specie; bisogno, odio, rivalità, ira, amore,
mania, impeto. Il bisogno è desiderio in mancanza della cosa cui
tendiamo e quando siamo separati da essa, aspirazione che tende
vanamente ad essa e ne è attratta; l’odio è desiderio che a qualcuno
capiti un male, ed è passibile di accrescimento ed estensione nel
tempo; la rivalità è desiderio di prendere qualcosa ad altri; l’ira
è desiderio di vendetta contro chi ci è sembrato farci un male
ingiustamente; amore è un desiderio che non tocca i saggi; è infatti
lo slancio verso un affetto determinato dall’apparenza della
bellezza. La mania è una forma di ira inveterata e inesorabile che
rimugina a lungo, come è chiaro da questi versi141.
se per un giorno egli ha tenuto dentro di sé la sua bile / continua
dopo ad avere rancore finché non lo sfoghi.
L’impeto è ira al suo inizio.
Il piacere è una esaltazione irrazionale rivolta a ciò che appare
desiderabile; ad esso sono subordinate delizia, compiacimento
cattivo, gioia, effusione. La delizia è un piacere che blandisce
attraverso l’udito; il cattivo compiacimento è il piacere che si
prova per il male altrui; la gioia è come un volgersi (προτροπή) e
un dirigersi dell’anima verso il rilassamento; l’effusione è
dissoluzione della virtù.
Così come si parla di malattie del corpo, quali la podagra o le
artriti, così per l’anima possono dirsi malattie l’amore della
gloria, l’amore dei piaceri e altre passioni consimili. La malattia
è un malanno che nasce da debolezza; il malanno è la credenza in
qualcosa che appare troppo desiderabile. E come riguardo al corpo si
parla anche di indisposizioni, come il catarro o la diarrea, così vi
sono anche cattive inclinazioni del genere nell’anima, per esempio
l’invidia, la compassione, le rivalità e simili. Vi sono anche,
dicono, tre forme di passione buona: la gioia, la cautela, la
volontà. La gioia, dicono, è l’opposto del piacere, perché è
esaltazione, ma secondo ragione: la cautela è l’opposto della paura,
in quanto è un’inclinazione ragionevole. Il sapiente non prova mai
paura, ma ha cautela. Quanto alla volontà, dicono che è il contrario
del desiderio, in quanto tendenza secondo ragione. Così come alcune
specie cadono sotto le passioni originarie, così avviene anche per
le buone passioni: sono ordinate alla volontà la benevolenza, la
bontà, l’affabilità, l’amorevolezza; alla cautela il pudore, la
purezza; alla gioia il godimento, la serenità, la tranquillità
d’animo.
ANONIMO LONDINESE, (MENONE?), Pap. De medicina, col. II, 26-30,
Suppl. Arist. III, p. 3 Diels
La passione è un impulso sovrabbondante, e da essi l’impulso in
questione è inteso non come tensione eccessiva, ma come un impulso
tale che disobbedisce alla ragione nel suo atto di scelta142.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 13, 59, 6, p. 145 Stählin = SVF
III, 377
L’impulso è un moto della mente da qualcosa verso qualcosa; la
passione è l’impulso sovrabbondante o teso al di sopra della misura
ragionevole secondo ragione; oppure è un impulso impetuoso e non
obbediente alla ragione. Sono dunque impulsi dell’anima le passioni,
proprio per la loro disubbidienza alla ragione.
STOBEO, Eclog., II, 7, 10 p. 88, 6 segg. Wachsmuth = SVF III,
378
Poiché secondo la sua specie la passione appartiene agli impulsi,
bisogna trattare con ordine delle passioni. Dicono che la passione è
un impulso sovrabbondante, e disubbidiente alla ragione che sceglie;
oppure un moto dell’anima 〈irrazionale〉 contro natura (tutte le
passioni appartengono alla parte direttiva dell’anima); perciò ogni
perturbazione è passione, e 〈ogni〉143 passione è anche
perturbazione. Tale essendo la passione, bisogna supporre che delle
passioni alcune siano primarie e direttive, altre abbiano il loro
riferimento a queste144. Primarie per genere sono queste quattro:
desiderio, paura, dolore, piacere. Il desiderio e la paura vengono
prima, l’uno teso verso ciò che appare essere bene, l’altra verso
ciò che appare essere male. Seguono a queste il piacere e il dolore:
il piacere quando otteniamo ciò che desideravamo o sfuggiamo a ciò
che temevamo; il dolore, quando non otteniamo ciò che desideravamo o
veniamo a incidere in quello che temevamo. In tutte le passioni
dell’anima, dal momento che essi dicono che sono opinioni,
l’opinione si intende nel senso di una supposizione debole, il
«recente»145 nel senso di una contrazione o dilatazione irrazionale
emotiva.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 9, 22 = SVF III, 379
Dicono che la fonte di tutte le perturbazioni è l’intemperanza, che
è la defezione dell’intera mente dalla retta ragione, con tale
distrazione da quanto la ragione prescrive che non è più possibile
in alcun modo reggere e frenare le appetizioni dell’anima. Così come
dunque la temperanza calma gli appetiti, e fa sì che essi
obbediscano alla retta ragione, e tiene fermi i ponderati giudizi
della mente, così la intemperanza ad essa nemica suscita un ardore
diffuso nell’anima, le dà una disposizione turbata ed eccitata, e
quindi le afflizioni e i timori e le altre perturbazioni nascono
tutte da essa.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 6, 14-15 = SVF III, 380
Ma pensano che tutte le perturbazioni avvengano in virtù di giudizio
e di opinione. E perciò le definiscono più precisamente per far
comprendere non solo come esse siano dovute a errore, ma come
dipendano dalla nostra volontà… Ma quanto a quei giudizi e a quelle
opinioni che ho già detto esser per loro alla radice delle
perturbazioni, ritengono che da essi dipendano non solo queste, ma
anche i loro effetti: come il dolore provoca quasi un morso
nell’anima, la paura un suo ritrarsi e fuggire, il piacere una
esultanza smodata, il desiderio una sfrenata appetizione. Affermano
che quell’atto di opinione che abbiamo incluso in tutte le
precedenti definizioni non sia altro che un assenso debole.
ANONIMO LONDINESE (MENONE?), Pap. De medicina, col. II, 39 segg.,
Suppl. Arist. III, pp. 3-4
Secondo gli Stoici, quattro sono le 〈pas〉sioni più generali
dell’anima: il piacere e il desiderio, la paura e il dolore. E
piacere e desiderio si verificano quando vi sia la rappresentazione
di alcunché di buono, per esempio il piacere si verifica in presenza
di un b〈ene〉 di cui ci si possa ral〈legrare〉 … il dolore e la paura
si verificano quando vi sia rappresentazione di qualcosa di male, e
precisamente la paura quando 〈vi sia〉 l’attesa di un male — temiamo
propriamente quando ci aspettiamo che il male si verifichi — il
dolore quando ci sia presenza di un male: ci affliggiamo per mali
che esistono attualmente146.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 10, 35 = SVF III, 381
Le perturbazioni dell’anima — che i Greci chiamano πάθη — sono
in tutto quattro per genere, ma si suddividono in diverse parti:
dolore, paura, desiderio e quella che gli Stoici chiamano, usando un
nome comune per ciò che riguarda il corpo e ciò che riguarda
l’anima, ἡδονή: quasi una effusione voluttuosa dell’anima priva
di freno. Le perturbazioni non sono suscitate dalla forza della
natura: esse sono tutte opinioni e giudizi dovuti a debolezza.
Perciò il sapiente dovrà sempre astenersene.
TEMISTIO, Paraphr. in Arist. De anima, p. 107, 17 segg. Heinze = SVF
III, 382
E ciò non male: i seguaci di Zenone ritengono che le passioni siano
deviazioni dell’anima umana dalla ragione e giudizi errati di
questa.
PROCLO, In Platonis Alcib., I, 288, p. 133 Westerink = SVF III, 383
Non solo infatti dalle opinioni hanno origine negli uomini tali
passioni, come affermano gli Stoici, ma al contrario sono anche
passioni e impulsi che fanno cambiare le opinioni.
CICERONE, Tusc. disp., III, 11, 24 = SVF III, 385
Tutta la loro causa sta dunque nell’opinione; non solo del dolore,
ma anche di tutte le altre perturbazioni, che sono quattro per
genere e in maggior numero per le parti di questo. Poiché ogni
perturbazione è un moto dell’anima o privo di ragione o che
disprezza la ragione o non obbedisce alla ragione, e tale moto è
suscitato in doppio senso dall’opinione o di un bene o di un male,
le quattro perturbazioni fondamentali sono distribuite in maniera
uguale. Due infatti nascono dall’opinione di un bene: delle due
l’una, il piacere sfrenato o la gioia che si effonde oltre misura, è
la smodata appetizione di un grande bene presente; l’altra, che è
smodata appetizione di qualcosa che si crede essere un gran bene,
disubbidiente alla ragione, può rettamente chiamarsi desiderio o
libidine. Dunque questi due generi, il piacere sfrenato e la
libidine, sono perturbazioni che derivano dall’opinione relativa a
un bene; mentre le altre due, paura e afflizione, dall’opinione
relativa a un male. Infatti la paura è l’opinione relativa a un
grande male imminente e il dolore è opinione relativa a un grande
male presente, e propriamente è l’opinione attuale di un male tale
che sembra giusto affliggersene; è tale che colui che soffre ritiene
di doverne realmente soffrire.
PLUTARCO, De virt. mor., 10, 449d = SVF III, 468
Avendo essi stabilito che tutti gli errori e tutti i difetti sono
uguali, pur non essendo ora il momento di confutarli in tutto ciò in
cui vanno contro il vero, si può dire peraltro che sembrano per la
maggior parte dei loro discorsi comportarsi contro ogni evidenza.
Per loro infatti ogni passione è un errore, e chiunque tema, o
soffra, o desideri, è in errore. Grandi differenze si possono vedere
fra le passioni quanto a eccesso e difetto… Sostenendo queste e
siffatte cose, essi dicono di fatto che le tensioni e le veemenze
delle passioni non si verificano secondo quel giudizio nel quale
risiede l’elemento erroneo; ma i morsi, le contrazioni, le effusioni
sono quelle che secondo ragione sono suscettibili di aumento e
diminuzione… Ci si può accorgere come anch’essi di fatto ammettano
che l’irrazionale è altra cosa rispetto al giudizio, in quanto
dicono che la passione può divenire più veemente o subire
accrescimento; essi in realtà polemizzano su questioni di
denominazioni e parole, ma quanto ai fatti ammettono implicitamente
che ha ragione chi dice che la parte passionale e irrazionale
dell’anima è diversa da quella che ragiona e giudica.
ASPASIO, In Arist. Eth. Nicom., p. 44, 12 segg. Heylbut = SVF III,
386
Gli Stoici credettero che la passione fosse un impulso eccessivo o
un impulso irrazionale, ritenendola opposta alla retta ragione…
Passioni di carattere generale gli Stoici ritennero che siano il
piacere, il dolore, la paura, il desiderio; e dissero che le
passioni nascono da supposizione circa un bene o un male, e che
quando l’anima si muove ritenendo presenti certi beni abbiamo il
piacere, quando presenti certi mali il dolore; analogamente quando
si tratta di beni non presenti, ma che ci si aspetta, abbiamo il
desiderio, che è tendere a quello che appare essere un bene, mentre
se ci si aspetta qualche male dissero che la passione che allora si
verifica è la paura.
ANONIMO, In Arist. Eth. Nicom., p. 180, 14 Heylbut = SVF III, 386
Tale è il dolore, che gli Stoici al posto di «dolore» chiamano
«contrazione».
SERVIO, In Aen., VI, v. 733, II, p. 103 Thilo-Hagen = SVF III, 387
Varrone e tutti i filosofi dicono che due sono le passioni, una
derivante dall’opinione di un bene e l’altra dall’opinione di un
male: il dolore e la paura sono infatti due opinioni aventi ad
oggetto un male, l’una presente, l’altra futuro; il piacere e il
desiderio sono due opinioni aventi ad oggetto un bene, l’una
presente, l’altra futuro.
FILONE ALESSANDRINO, De praemiis et poenis, 71, V, p. 352, 2 segg.
Cohn = SVF III, 388
Poiché quattro sono le passioni dell’anima, due relative a bene
presente o futuro, il piacere e il desiderio, due relative al male,
presente o che ci si aspetta, il dolore e la paura.
STOBEO, Eclog., II, 7, 10a, p. 89, 4 segg. Wachsmuth = SVF III, 389
Quando dicono «irrazionale» o «contro natura» non lo dicono nel
senso più comune, ma in questo caso significa «non obbediente alla
ragione». Ogni passione ha natura coattiva: sì che spesso chi si
trova in stato passionale, pur vedendo che far e una certa cosa non
gli giova, è tratto tuttavia a farlo trascinato dall’impeto come da
un cavallo bizzarro, ragion per cui spesso alcuni, richiamandosi a
un notissimo verso, ammettono che «anche se ho retta opinione, la
natura mi costringe a far ciò»147. In questo caso retta opinione
significa conoscenza e comprensione di ciò ch’è retto. Così pure
«contro natura», nella definizione delle passioni, si intende nel
senso che accade qualcosa che va contro la ragione retta e secondo
natura. Tutti quelli che si trovano in stato passionale deviano
dalla ragione, non in maniera simile a quelli che si ingannano su
qualcosa, ma in una maniera propria e specifica: infatti per esempio
quelli che sbagliano dicendo che principi delle cose sono gli atomi,
se si insegni loro che non è così, abbandonano questo giudizio; ma
quelli che si trovano in stato passionale, o se apprendano, anche se
si insegni loro che non bisogna addolorarsi o spaventarsi o in
generale abbandonarsi alle passioni dell’anima, non per questo si
staccano da esse, ma sono trascinati dalle passioni a farsi dominare
dalla loro tirannide.
FILONE ALESSANDRINO, De Moyse, II, 139, p. 232, 18 segg. Cohn = SVF
III, 392
… per una passione irrazionale, quando il piacere esalta e dilata
contro natura, o al contrario il dolore contrae e abbatte, o la
paura distoglie e fa deviare dal retto impulso, o il desiderio
trascina e trasporta verso beni non presenti.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 7, 14 = SVF III, 393
Il dolore è dunque l’opinione attuale di un male presente, per il
quale sembra giusto che l’anima debba contrarsi e abbattersi; il
piacere è l’opinione attuale di un bene presente, per il quale
sembra giusto esaltarsi; la paura è l’opinione che ci incomba un
male che appare essere intollerabile; il desiderio è l’opinione
circa un bene futuro che si vorrebbe fosse già pronto e presente.
STOBEO, Eclog., II, 7, 10b, p. 90, 7 segg. Wachsmuth = SVF IIΙ. 394
Dicono che il desiderio è un tendere ribelle alla ragione: causa di
essa è l’opinare che sopravvenga un bene per la cui presenza
cambierà in bene la nostra sorte; e questa opinione ha in sé un
eccitamento disordinato 〈di tipo attuale circa l’essere tal bene
effettivamente da desiderarsi〉148. La paura è inclinazione ribelle
alla ragione, sua causa è l’opinare che ci sovrasti un male, e
questa opinione ha in sé un eccitamento disordinato di tipo attuale
circa l’essere questo male effettivamente da fuggirsi. Il dolore è
una contrazione dell’anima ribelle alla ragione, sua causa è
l’opinare che sussista un male attuale per il quale si ha ragione di
〈contrarsi. Il piacere è esaltazione dell’anima ribelle alla
ragione, e sua causa è l’opinare che sussista un bene presente per
il quale si ha ragione di〉 esaltarsi.
Sotto il concetto di desiderio si riportano queste cose: l’ira
e le sue specie (l’impeto, la bile, la mania, la collera, le
asprezze e simili); gli amori violenti, i desideri, le brame,
l’amore del piacere, l’amore della ricchezza, della fama e
simili; sotto il piacere il gusto per il male altrui, le esultanze,
i malefici e simili; sotto la paura le esitazioni, le trepidazioni,
lo sbigottimento, la vergogna, lo sgomento, le superstizioni, il
terrore, i timori; sotto il dolore l’invidia, la rivalità, la
gelosia, la compassione, il lutto, la pena, l’angoscia, il
travaglio, la sofferenza, il disgusto… Di queste passioni alcune
rivelano ciò per cui si determinano, come la compasisone, l’invidia,
il godere dell’altrui male, la vergogna; altre la proprietà
dell’eccitamento, come la sofferenza o il timore.
STOBEO, Eclog., II, 7, 10c, pp. 91-92 Wachsmuth = SVF III, 395, 402,
408, 413
Ira dunque è il desiderio di vendicarsi su chi ci sembra averci
fatto ingiustamente torto; impeto è ira al suo inizio; bile è ira
che ribolle; mania è ira lasciata sedimentare e inveterare; rancore
l’ira che attende il momento opportuno per vendicarsi; collera è ira
che scoppia all’improvviso; amore è desiderio di intrecciare
rapporti affettuosi in virtù della bellezza che si rivela; bramosia
è desiderio dell’oggetto di amore non presente; brama è desiderio di
star insieme con l’amico assente; amor del piacere è desiderio dei
piaceri; cupidigia è desiderio di ricchezza; ambizione desiderio di
gloria.
Godere dei mali altrui è piacere per ciò che capita di male ad un
altro; esultanza è piacere per cose inaspettate; maleficio è piacere
che si ottiene per mezzo della vista con inganno.
Esitazione è paura di una azione che stiamo per compiere;
trepidazione paura di insuccesso, oppure paura di sconfitta;
sbigottimento paura derivante da una rappresentazione insolita;
vergogna paura di infamia; sgomento paura che ferma la voce;
superstizione paura degli dèi o dei démoni; terrore paura di
qualcosa di terribile; timore paura che deriva da ragionamento.
Invidia è dolore per i beni altrui; rivalità dolore che qualcuno
ottenga ciò che desideriamo e noi no; ma c’è anche un altro tipo di
rivalità, quella per cui si loda ciò di cui si è privi, e anche
un’altra, imitazione di ciò che si ritiene migliore di quanto
abbiamo. Gelosia è dolore che 〈anche〉149 un altro ottenga ciò ch’è
oggetto del nostro desiderio; compassione dolore verso chi ci sembri
soffrire ingiustamente il male; lutto è dolore per una morte
prematura; angoscia dolore opprimente; pena dolore che rende muti;
tormento dolore che deriva da ragionamento; sofferenza dolore
penetrante e acuto; disgusto dolore con senso di fastidio.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 7-8, 16-21 = SVF III, 398, 403, 410, 415
A ciascuna delle perturbazioni generiche se ne aggiungono altre
numerose che ne costituiscono le parti: al dolore invidia…,
emulazione, gelosia, compassione, angoscia, lutto, tristezza,
affanno, tormento, pianto, preoccupazione, fastidio, afflizione,
disperazione e tutte quelle che appartengono allo stesso genere.
Subordinate alla paura sono la pigrizia, la vergogna, il terrore, il
timore, lo spavento, lo sbigottimento, il turbamento, l’apprensione;
al piacere si rapportano la malevola gioia del male altrui, la
delizia, l’esultanza e simili; al desiderio l’ira, il furore,
l’odio, l’inimicizia, la discordia, il bisogno, la bramosia ed altre
simili. Queste poi le definiscono al modo seguente: dicono che
l’invidia è dolore che riceviamo dalla prosperità altrui anche se
questa non porta alcun danno a chi invidia… L’emulazione la
definiscono in due modi, una è lodevole e l’altra viziosa … in
questo senso l’emulazione è il dolore se qualcuno ottenga ciò che
desideriamo, mentre noi no. La gelosia (traduco con questo
ζηλοτυπία) è il dolore nel caso che anche altri ottengano ciò che
desideriamo per noi. La compassione è dolore che deriva
dall’infelicità di qualcun altro che soffre a torto; … l’angoscia è
dolore opprimente; il lutto dolore per la morte acerba di chi ci è
stato caro; la tristezza è dolore che fa piangere, l’affanno dolore
che ci spossa, il tormento dolore che ci travaglia, il pianto dolore
con grida, la preoccupazione dolore per via di pensieri, il fastidio
un dolore continuato, l’afflizione un dolore con travaglio del
corpo, la disperazione dolore senza speranza di eventi migliori.
Quanto alle specie soggette alla paura, così le definiscono: la
pigrizia è la paura della fatica che sta per conseguire…150, il
terrore è paura che ci scuote, dal che deriva che al pudore segue il
rossore e al terrore il pallore, il tremore, il battere i denti; il
timore è paura di un male che si avvicina; lo spavento una paura che
fa andar via l’intelletto…151; lo sbigottimento è quella paura che
consegue e quasi accompagna lo spavento; il turbamento è una paura
che ci fa perder di vista i nostri pensieri, l’apprensione una paura
continua.
Le specie del piacere poi le definiscono così: la malevolenza è
piacere del male altrui gratuito e senza proprio vantaggio, la
delizia è piacere per cui l’udito è blandito da soavità (ma come per
l’udito vi sono stati di delizia anche per la vista e gli altri
sensi, l’odorato, il gusto, il tatto, piaceri tutti dello stesso
genere e che inondano l’anima come il flusso di un liquido).
L’esultanza è un piacere smodato e che si effonde senza misura. Le
specie subordinate al desiderio, infine, sono così definite: l’ira è
il desiderio di punire qualcuno che si ritiene ci abbia fatto
ingiustamente del male, l’impeto di furore è ira al suo nascere e in
qualche modo al suo sorgere, ciò che in greco si chiama θὑμωσες,
l’odio un’ira inveterata, l’inimicizia un’ira che attende il momento
di vendicarsi, la discordia un’ira esacerbata concepita nell’intimo
dell’animo e del cuore, il bisogno un desiderio insaziabile, la
brama il desiderio di vedere qualcuno che è assente. Fanno anche
un’altra distinzione, dicendo che il desiderio verte intorno a cose
che si dicono di qualcuno o di certuni (quelle che i dialettici
chiamano κατηγορήματα152) — per esempio possedere ricchezza,
ottenere cariche; il bisogno riguarda le cose in sé stesse, come le
cariche o il denaro.
CICERONE, Tusc. disp., III, 24, 83 = SVF III, 419
Una sola è la definizione razionale del dolore, diversi i nomi.
Appartiene sempre al dolore l’invidiare, il rivaleggiare, l’esser
geloso, il compiangere, l’addolorarsi, il piangere, il rattristarsi,
l’esser pieno di affanno, il lamentarsi, il preoccuparsi, il
dolersi, l’aver fastidio, il soffrire, il disperarsi. Tutte queste
definizioni danno gli Stoici, e tutte le espressioni che ho
enumerate son pertinenti a singole cose; non significano la stessa
cosa, come sembrerebbe, ma cose che hanno una certa differenza fra
loro.
CICERONE, De fin. bon. et mal., II, 4, 13 = SVF III, 404
Ma ciò che importa è che il piacere viene definito cosa viziosa
anche quando riguarda semplicemente l’animo: così ritengono gli
Stoici, che lo definiscono esaltazione dell’anima senza ragione, per
l’opinione di godere di un gran bene.
Ps. ANDRONICO, De passion., I,. 1-4, pp. 223-224 Glibert-Thirry=SVF
III, 391, 397, 401, 409, 414
Passione è moto irrazionale dell’anima, contro natura, oppure
impulso sovrabbondante… Quattro sono i generi sommi delle passioni:
dolore, paura, desiderio, piacere. Dolore è contrazione irrazionale;
o opinione attuale della presenza di un male, per cui si crede ci si
debba contrarre. La paura è inclinazione irrazionale, o fuga da un
male che ci si aspetta. Desiderio è un tendere irrazionale, o
inseguimento di un bene che ci si aspetta. Il piacere è esaltazione
irrazionale, o opinione attuale della presenza di un bene in vista
del quale si crede ci si debba esaltare.
Specie del dolore sono 25: compassione (dolore per i mali altrui
quando si creda che l’altro soffre ingiustamente); invidia (dolore
per l’altrui bene)153; gelosia (dolore perché qualcuno ottiene ciò
che noi desideriamo154; o dolore perché gli altri hanno qualcosa che
noi non abbiamo)155; rivalità (dolore perché gli altri hanno
qualcosa che abbiamo anche noi); desolazione (dolore per qualcosa di
inesorabile o immutabile); sventura (dolore per i mali che ci si
addensano intorno); angoscia (dolore che ci opprime); pena (dolore
che ci toglie la parola); spasimo (dolore violento); lutto (dolore
per una morte prematura); stizza (dolore per ragionamenti contrari);
afflizione (dolore che ci angustia e che non concede sollievo);
sofferenza (dolore che penetra a fondo acutamente); tormento (dolore
che proviene da riflessioni); pentimento (dolore per gli errori che
abbiamo commessi o che si sono verificati per colpa nostra);
confusione (dolore che ci impedisce di veder chiaramente il futuro);
sconforto (dolore di chi dispera di ottenere ciò che desidera);
fastidio (dolore con disgusto); indignazione (dolore per chi si
esalta contro il doveroso); smarrimento (dolore per il non saper
come comportarsi di fronte a fatti presenti); lamento (pianto di chi
si trova in stato di dolore); depressione (dolore che opprime e non
concede ristoro); pianto (lacrimare di chi prova dolore perché le
cose volgono al peggio); preoccupazione (riflessione di chi è
addolorato); pietà (dolore per i mali altrui).
Le specie della paura sono 13: esitazione (paura per un atto da
compiersi); vergogna (paura dell’infamia); timore (paura di qualcosa
che si prevede); terrore (paura che incatena); sbigottimento (paura
per la rappresentazione inconsueta di una cosa terribile); stupore
(paura che deriva da una rappresentazione maggiore); viltà
(allontanamento da un dolore evidente per rappresentazione di
qualcosa di terribile)156; titubanza (paura vana); trepidazione
(paura dell’insuccesso; o paura della sconfitta; o paura che suscita
aspettative contrarie a quelle cose verso le quali tendiamo);
indugio (esitazione nel fare ciò che si è deciso); turbamento (paura
di ciò che si è pensato); sgomento (paura che ci ferma la voce);
superstizione (paura del divino)157.
Specie del desiderio sono 26:
Ira (desiderio di vendicarsi su chi sembra averci offesi); impeto
(ira al suo inizio); bile (ira che ribolle); collera (ira che subito
esplode); mania (ira inveterata e lasciata depositare); rancore (ira
che aspetta il momento opportuno per la vendetta); amore (desiderio
di commercio carnale); altro tipo di amore (desidero di amicizia);
altro tipo di amore il servire gli dèi nell’educare i giovani158
bennati e belli; (quello che essi chiamano impulso a stringere
relazioni affettuose, determinato dall’apparenza della bellezza);
brama (desiderio di star insieme a un amico assente); bramosia
(desiderio amoroso di qualcuno che è assente); malanimo (avversione
che attende l’occasione malefica); volubilità (desiderio che si
sazia subito); bramosia visiva (rapidità nel vedere ciò che si
desidera); bisogno (desiderio vile); acredine (desiderio
irregolare); contesa (desiderio di contrapposizione sì da provocare
danno); passionalità (desiderio asservito); brama di piaceri
(desiderio di godimenti senza misura); cupidigia (desiderio159
smodato di ricchezza); ambizione (desiderio smodato di onori);
attaccamento alla vita (desiderio irrazionale di vivere); amore per
il corpo (desiderio oltre il lecito di prosperità fisica);
ghiottoneria (desiderio smodato di cibi); ubriachezza (desiderio
insaziabile di vino); lascivia (desiderio smodato di rapporti
sessuali).
Le specie del piacere sono cinque:
Esultanza (piacere per beni inattesi); godimento (piacere per via
della vista o dell’udito); incanto (piacere che blandisce mediante
l’udito; o piacere che deriva da parole e musica, o da inganno);
malevolenza (piacere per le disgrazie del prossimo); maleficio
(piacere per via di inganno o magia).
NEMESIO, De nat. hom., 19-21, P. G. XL, col. 688-692 = SVF III, 416
Del dolore quattro sono le specie: pena, angoscia, invidia,
compassione.
La pena è dolore che ci toglie la voce; l’angoscia è dolore che ci
opprime; l’invidia è dolore per il bene altrui; la compassione è
dolore per il male altrui. Ogni dolore è per sua natura un male:
anche se il saggio qualche volta si addolorasse perché vengono a
morire uomini onesti, o i suoi stessi figli o la sua città viene
distrutta, ciò non dovrà mai avvenire in senso preminente, e non
deliberatamente, ma solo in virtù di circostanze. Anche in
situazioni del genere l’uomo che sa veramente contemplare il vero si
mantiene impassibile, estraniandosi in ogni caso da simili eventi e
congiungendosi alla divinità; il saggio poi in simili circostanze è
misurato negli, affetti160, non li subisce in maniera eccessiva, non
se ne rende schiavo ma sa dominarli.
La paura si divide in sei parti, che sono esitazione, pudore,
vergogna, stupore, trepidazione, sbigottimento. Esitazione è paura
di un atto da compiersi; stupore paura che viene da una grande
rappresentazione; sbigottimento161 paura da una rappresentazione
inusitata; trepidazione paura dell’insuccesso162, trepidiamo infatti
temendo di non riuscire in una certa cosa; pudore è paura per
aspettativa di un biasimo (questa è una forma di passione assai
nobile); vergogna è paura in relazione a una. turpidudine commessa;
e il pudore differisce dalla vergogna proprio in questo, che ci si
vergogna per qualcosa che si è commesso, mentre chi ha pudore teme
di cadere in cattiva fama (ma spesso gli antichi confondono tra loro
pudore e vergogna, usando impropriamente dei termini163). La paura
si verifica per raffreddamento di tutto il calore che corre al cuore
come alla parte direttiva, così come il popolo quando ha paura
corre, per aver salvezza, ai suoi capi; organo della paura è la
bocca dello stomaco; è questa parte che avverte il morso in
occasione di dolori…
L’ira (θυμός)164 è un ribollire di quel sangue che sto intorno al
cuore, che si verifica per una esalazione della bile o un suo
travaso; ragion per cui si dice anche bile e rabbia.
Talvolta l’ira è tendere alla vendetta (ci adiriamo infatti
quando subiamo un torto o crediamo di averlo subito); e talvolta
questa passione si verifica anche in forma commista di ira e
desiderio. Tre sono le specie dell’ira, e sono l’ira vera e
propria, che si chiama anche bile o rabbia, la mania, il rancore.
L’ira (μένις), al momento in cui ha il suo inizio, è chiamata
collera, bile, rabbia; la mania è una bile coltivata da lungo tempo;
prende il nome dal suo «rimanere» (μένειν) e si affida alla memoria.
Il rancore (πότος) è un’ira che attende il momento opportuno per la
vendetta; anche questo prende il nome dal suo «giacere»
(κεῖσθαι)165. L’ira è come la scorta armata del ragionamento: quando
questo giudichi ciò che avvenuto degno di adirarsi per esso, allora
— se si rispetti l’ordine naturale — sopravviene l’ira.
PLUTARCO, De comm. not., 28, 1072-1073b = SVF III, 719
Quanto a ciò che i filosofi della Stoa scrivono sull’amore, tutti
quanti sono contagiati da palese assurdità, andando contro le
opinioni comuni. Dicono che «sono brutti i giovani, se sono stolti e
da poco, e belli i sapienti; di quelli che si considerano in genere
belli nessuno deve essere amato né è degno di esserlo». Né è questa
la sola stranezza: dicono che quando i brutti siano diventati belli
coloro che ne sono amati devono por fine al rapporto… Né in primo
luogo è credibile che, come essi dicono, quella che chiamano la
manifestazione del bello sia incitamento all’amore; giacché in chi è
brutto e cattivo al massimo grado non vi è alcuna manifestazione del
bello, dal momento che, come essi stessi affermano, «la malvagità
del costume si rivela in abbondanza sul volto». E in secondo luogo è
assolutamente contro le nozioni comuni che sia degno di amore il
brutto perché ci si aspetta che acquisti in futuro bellezza, ma che
una volta divenuto bello e buono non sia più amato da alcuno. — Ma
sì, perché essi dicono che l’amore è una specie di caccia del
giovinetto di poco conto, ma che mostra buona disposizione verso la
virtù.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 239 = SVF III, 399
Chi dice che l’amore è «slancio verso il rapporto affettuoso»
aggiunge anche «con i giovani belli», anche se non lo dica
espressamente; infatti nessuno ama i vecchi che hanno passato il
fiore dell’età.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 20, 118, 7 segg. p. 177 Stählin
= SVF III, 405
In generale si deve dire che il piacere, che è una passione, non è
necessario: esso è una conseguenza di alcune necessità fisiche, come
la fame, la sete, il freddo, l’istinto sessuale. Se fosse possibile
senza di esso bere o nutrirsi o generare, si dimostrerebbe che non
vi è alcun altro bisogno di esso. Il piacere non è un nostro atto,
né una nostra disposizione, né una nostra parte; sopravviene nella
nostra vita con una funzione subordinata, così come dicono che il
sale serve alla conservazione del cibo. Se però impazzisce e prende
possesso, genera quel desiderio primario che consiste in slancio e
tendenza irrazionale verso l’oggetto del suo gradimento.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. Alleg., III, 246, I, p. 167, 23 Wendland =
SVF III, 406
Il piacere è esaltazione irrazionale dell’anima; in se stesso è
esecrabile, e si verifica solo nello stolto, certo mai nel saggio.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 7, 344, p. 130 Stählin = SVF
III, 411
Sì, dicono, la paura è una inclinazione irrazionale e una passione…
Ma poi facendo giochi verbali quegli stessi filosofi chiamano
cautela la paura delle leggi, che è un’inclinazione ragionevole. Per
questo non a sproposito Critolao di Facelo li chiama «lottatori nei
nomi»166.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 8, 37, 4, p. 132 Stählin = SVF
III, 411
La stupefazione è paura che deriva da una rappresentazione insolita
o da una rappresentazione inattesa … e anche da un annuncio; paura
per ciò che è avvenuto o avviene, o meraviglia oltre misura.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 8, 40, 1, p. 134 Stählin = SVF
III, 411
La superstizione è anch’essa una passione: è paura dei démoni.
Ps. GALENO, In Hippocr. de humor., 1, XVI, p. 174 Kühn = SVF III,
420
Anche l’ardore e l’abbattimento dell’animo sono passioni. L’ardore e
l’ira differiscono dall’abbattimento e dal dolore per i loro atti:
infatti nell’ira e nell’ardore si tende il calore connaturato
all’anima; e talvolta sopravviene e si accresce la bile. Nel dolore
e nell’abbattimento si raccoglie insieme il freddo, e di lì
nasce l’umore flemmatico.
STOBEO, Eclog., II, 7, 10e, p. 93, 11 segg. Wachsmuth = SVF III, 421
Dicono che l’inclinazione è una predisposizione alla passione o a
qualcuno degli atti contro natura, e che ci possono essere
inclinazioni al dolore, all’ira, all’invidia, all’irascibilità e
simili. Ci sono poi anche inclinazioni ad altri atti, contro natura
questi, coire il rubare, le illecebre, la violenza, per cui si
diviene ladri, o adulteri, o violenti. Infermità è un’opinione
seguita da un desiderio che trapassa in abito e diviene inveterata,
tale che secondo essa riteniamo da scegliersi cose che invece sono
da rifiutarsi, come l’amore per le donne, il vino, il denaro; ma vi
sono anche infermità opposte, che derivano da un senso di
repulsione, come l’odio per le donne o il vino, o la misantropia. Le
infermità che si verificano per debolezza sono dette indisposizioni.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 11-14, 26-32 = SVF III, 423, 425, 426,
427, 430
Definiscono infermità dell’anima un atto di opinione che considera
da ricercarsi una cosa che invece è da rifiutarsi, violenta e
inserita a fondo e ben radicata nell’anima; è un tipo di opinione
che consiste nel ritenere di sapere ciò che invece non si sa.
All’infermità sono subordinate le seguenti specie: l’avidità,
l’ambizione, l’amore per le donne, la pertinacia, la ghiottoneria,
l’ebrietà, la raffinatezza e altre simili. L’avidità è infatti una
convinzione ardente che il denaro sia da ricercarsi in ogni caso, e
in modo simile si definiscono le altre pertinenti allo stesso
genere. Simili sono le definizioni delle avversioni: per esempio
l’inospitalità è una convinzione ardente che l’ospite sia in ogni
caso da fuggirsi, inserita a fondo e ben radicata nell’anima; e
similmente si può definire l’odio per le donne, come quello di
Ippolito, o per il genere umano, come quello di Timone167… Come ci
sono alcuni inclini ad alcune indisposizioni ed altri ad altre
(diciamo di alcuni che sono catarrosi e altri che sono affetti da
dissenteria, e ciò anche se non lo sono attualmente, ma perché vanno
soggetti a questi malanni), così c’è chi è proclive alla paura ed
altri ad altre perturbazioni: per cui chi è proclive all’ansia lo
diciamo ansioso, chi all’iracondia, ed è diverso dall’essere irato,
e lo diciamo irascibile (l’irascibilità differisce dall’ira come
l’ansietà dall’angoscia; non tutti quelli che qualche volta sono
presi da angoscia sono ansiosi, né quelli che sono ansiosi si
trovano sempre in stato d’angoscia; e la stessa differenza corre fra
l’ebrietà e l’ubriachezza, e altro è essere amante delle donne o
essere innamorato). È molto vasto il campo delle inclinazioni a
questa o a quest’altra malattia, ed è tale la varietà da adattarsi
ad ogni tipo di perturbazione…
Così come nel corpo c’è malattia, infermità, vizio, così c’è anche
nell’anima. Essi chiamano malattia un’alterazione di tutto il corpo,
infermità una malattia accompagnata da debolezza168; il vizio c’è
quando c’è una discordanza fra le parti del corpo, dal che viene la
deformità delle membra, la distorsione, la bruttezza. Quindi questi
due stati, di malattia e di infermità, nascono da uno sconquasso e
da una perturbazione della salute fisica, mentre il vizio si può
riscontrare come sussistente di per sé anche in stato di buona
salute. Nell’anima possiamo fino a un certo punto distinguere
nettamente col ragionamento la malattia dall’infermità; quanto alla
visiozità, si tratta di una disposizione o di uno stato che si attua
come incostanza e dissidio con se stesso in tutta la vita. Così
avviene che nell’un caso l’alterazione dell’opinione produca la
malattia e l’infermità, in un altro caso l’incoerenza e il dissidio.
Non ogni vizio provoca discordanze allo stesso grado: per esempio
quelli che non sono molto lontani dalla saggezza si trovano in una
disposizione certo incoerente (si tratta pur sempre di stoltezza) ma
non distorta. né malvagia169. Le malattie poi e le infermità sono
parti della viziosità; ma bisogna vedere se le perturbazioni siano
parti anch’esse di quest’ultima: giacché i vizi sono stati
perduranti mentre le perturbazioni sono stati transeunti, e quindi
non possono essere parti degli stati stabili.
Così come il paragone col corpo si adatta bene alla natura
dell’anima in ciò che concerne i mali, così avviene per i beni. Come
nel corpo ci può essere un alto grado di bellezza, forza, salute,
saldezza, velocità, le stesse qualità si trovano anche nell’anima. E
se la buona temperanza del corpo si ha quando van d’accordo fra loro
le parti di cui siamo composti, e in ciò consiste la salute, allo
stesso modo si può dire anche dell’anima, quando in essa concordano
giudizi e opinioni; è questa la disposizione dell’anima che alcuni
identificano con la temperanza, altri con la conformità ai precetti
della temperanza, che le obbedisce senza avere una definizione
specifica sua propria; sia questo sia quello, comunque, si trova
solo nel sapiente, né va confusa con quella sanità di mente che si
trova anche nell’insipiente quando è liberato dalle turbe mentali
per la cura di un medico. E così come nel corpo esiste la
configurazione armoniosa delle membra con una certa dolcezza di
colore, e questa si chiama bellezza, così si chiama bellezza anche
l’equilibrio e la coerenza, congiunti con fermezza e stabilità,
delle opinioni e dei giudizi nell’anima, che segue la virtù o che ha
essa stessa efficacia di virtù170. Ugualmente alle forze del corpo,
alla sua tensione nervosa, alla sua efficacia rispondono per
somiglianza i termini che si dànno alle forze dell’anima; e la
velocità del corpo si chiama prontezza, lode che si tributa
analogamente all’anima per il suo rapido percorrere molte cose in
breve spazio di tempo.
Questa differenza intercorre fra anima e corpo, che le anime in
buona salute non possono essere affette da morbi, mentre il corpo lo
può; ma il corpo può cadere malato senza che ci sia colpa da parte
nostra; non così l’anima, perché tutte le malattie o le infermità di
questa derivano da disprezzo della ragione; e perciò esistono solo
nell’uomo; le bestie, pur compiendo atti simili, non cadono mai in
perturbazioni. Tuttavia c’è differenza fra i pronti e i deboli: gli
uomini di buona indole, così come il bronzo corinzio difficilmente
prende la ruggine, difficilmente cadono in stato di malattia e
presto se ne riprendono; non così quelli che sono da poco. Né
l’anima dell’uomo di buona indole può cadere in ogni tipo di
malattia e di perturbazione … Molte passioni non sono efferate e
selvagge, ci sono anche molte passioni che hanno tutta l’apparenza
dell’umanità, come la compassione, l’afflizione, la paura. E si
pensa che le infermità e le malattie possono essere estirpate
dall’anima più difficilmente che quei vizi che sono opposti alle
virtù: perciò, pur rimanendo le malattie, i vizi171 possono esser
eliminati: giacché non tanto celermente si riesce a sanare quelle
quanto si riesce a eliminare questi.
SENECA, Epist. ad Luc., 75, 11 = SVF III, 428
Per dare una definizione in conciso: «una malattia è un giudizio che
resta pertinacemente nel male, consistente nel credere altamente
desiderabile ciò ch’è invece da rifiutarsi». O se preferisci
possiamo anche definire così: «uno stare attaccato con troppo
slancio a cose poco desiderabili o in tutto e per tutto da
respingersi; o fare grande stima di cose che sono da stimarsi poco o
assolutamente niente».
GALENO, De locis affectis, I, 3, VIII, p. 32 Kühn = SVF III, 429
Essendo il movimento duplice secondo il genere, trasformazione o
traslazione, quando il cambiamento diviene una disposizione
costante, si chiama malattia, in quanto è una disposizione contro
natura; talvolta, usando i termini in maniera impropria, chiamiamo
questa disposizione passione.
CICERONE, Tusc. Disp., IV, 6, 12-14 = SVF III, 438
La natura infatti corre dietro a tutto ciò che sembra essere un bene
e fugge l’opposto. Perciò, non appena ci si pone di contro
l’apparenza di qualcosa che si presenta come un bene, la natura
stessa ci spinge a volerlo ottenere. Ciò, se l’appetizione è
costante e si accompagna a saggezza, è chiamato dagli Stoici
βούλησις, e noi la chiamiamo volontà. Ritengono quelli che una
simile disposizione si trovi solo nel sapiente, e la definiscono
così: si ha la volontà, quando si desidera qualcosa ragionevolmente.
Quella disposizione invece che è incitata con più violenza da ciò
ch’è opposto alla ragione, è libidine o desiderio sfrenato, e si
trova in tutti gli stolti. Perciò, quando siamo spinti alla ricerca
di un qualche bene, ciò può avvenire in due modi diversi. Quando
l’animo è mosso in maniera calma e costante dalla ragione, abbiamo
la gioia; quando l’anima esulta invece in maniera vana e con
effusione, si può parlare di gioia sovrabbondante e smodata, ed essi
la definiscono così. esaltazione dell’anima priva di ragione. E
poiché, mentre per natura cerchiamo il bene, allo stesso modo per
natura rifuggiamo dal male, quel rifuggirne che avviene
ragionevolmente si chiama cautela, e si deve intendere che questa
esista solo nel sapiente; quello invece che avviene in maniera
irragionevole e con uno scoramento depresso e avvilito si chiama
paura; la paura è quindi una cautela opposta alla ragione. Nel
sapiente non vi è alcuna passione dovuta alla presenza di un male,
mentre negli stolti si verifica in tal caso un’afflizione; da questa
sono affetti per la convinzione di un male, e si abbattono d’animo e
subiscono nell’animo una contrazione, disubbidendo alla ragione.
Perciò la prima definizione dell’afflizione è: una contrazione
dell’anima compiuta contro la ragione. In tal modo abbiamo quattro
tipi di passione e tre di ragionevolezza; all’afflizione, infatti,
non si contrappone nessun tipo di ragionevolezza172.
Ps. ANDRONICO, De passion., I, 6, pp. 235-236 Glibert-Thirry = SVF
III, 432
Ci sono tre tipi di ragionevolezza: volontà (tendenza ragionevole);
gioia (esaltazione ragionevole); cautela (un rifuggire ragionevole).
Quattro specie di volontà:
benevolenza (volontà di bene per un 〈altro〉173 da se stesso,
disinteressata); bontà (benevolenza costante); affettuosità
(〈benevolenza〉 senza discordia); amorevolezza…
Tre specie di gioia:
contentezza (gioia conveniente per i propri vantaggi); letizia
(gioia del saggio per le proprie azioni); serenità (gioia per la
vita che si conduce e per l’assenza di desideri).
Due specie di cautela:
pudore (cautela per timore di un giusto biasimo); santità (cautela
di non compiere colpe contro gli dèi).
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 16, 72, 1, p. 151 Stählin = SVF
ΙII, 433
Definiscono la gioia una esaltazione ragionevole, e l’aver gioia un
rallegrarsi per cose oneste; la compassione dolore per qualcuno che
soffre ingiustamente; cose siffatte sono moti dell’anima e
passioni174.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., II, p. 181, 1 segg.
Wallies = SVF III, 434
Secondo l’oggetto e il significato sono la stessa cosa piacere e
gioia e letizia e godimento; Prodico cercò di porre sotto ciascuno
di questi termini il significato ad esso proprio, come hanno fatto
anche gli Stoici, che chiamano la gioia una esaltazione ragionevole,
il piacere una esaltazione irragionevole, il godimento piacere
attraverso l’udito, la letizia attraverso le parole. Con ciò essi
hanno posto leggi al linguaggio, tuttavia non hanno detto cose
giuste.
SENECA, Epist. ad Luc., 59, 2 = SVF III, 435
Noi crediamo che il piacere sia un vizio… Lo so, ti dico, che il
piacere — se usiamo le parole nel senso della nostra trattatistica —
è cosa disdicevole, mentre la gioia non può essere altro che nel
sapiente. Essa infatti è una esaltazione dell’anima che confida nei
suoi veri beni … e alla gioia è strettamente unita la caratteristica
di non poter mai cessare per mutarsi nel suo contrario.
FILONE ALESSANDRINO, De migrat, Abr., 156, II, p. 299, 3 segg.
Wendland = SVF III, 436
Ma anche i coereuti della virtù hanno l’abitudine di lamentarsi e
piangere, o piangendo sulle disgrazie degli stolti, in virtù della
comunanza di natura e dell’amore che c’è fra gli uomini, oppure
anche per la stessa sovrabbondanza di gioia. Questa si verifica
quando beni non attesi tutti insieme piovano improvvisamente su
qualcuno; e da questo penso derivi quel verso che suona «ridendo con
lacrime»175. La gioia, il maggiore degli stati d’animo ragionevoli,
cadendo d’improvviso e insperatamente nell’anima, la fa più grande
di quanto non fosse prima, sì che la massa del corpo non riesce più
a contenerla: è allora che il corpo, compresso e tormentato, fa
scaturire goccie che noi chiamiamo lacrime.
LATTANZIO, Div. inst., VI, 15, p. 538 Brandt = SVF III, 437
Vediamo ora che cosa facciano quelli che estirpano da sé totalmente
i vizi. Avendo essi compreso che quelle quattro passioni
fondamentali che ritengono nascere dall’opinione circa il bene e il
male, e da cui intendono sia sanato l’animo del sapiente, sono
tuttavia pur sempre insite in natura, in maniera tale che nulla si
produce né si fa senza di esse, sostituiscono ad esse altre realtà
analoghe. Al posto del desiderio pongono la volontà (come se non
fosse molto preferibile desiderare un bene anziché volerlo); al
posto del piacere la gioia, al posto della paura la cautela.
Tuttavia non hanno saputo in base a questo procedimento trovare un
altro nome per la quarta delle passioni. Hanno perciò considerato
del tutto condannabile il dolore, e cioè anche la tristezza e la
sofferenza dell’anima… Accettiamo pure, come essi vogliono, che si
tratti di cose diverse dalle passioni: dovranno pur dire che il
desiderio è una volontà continua e perpetua, che il piacere è una
gioia che si esalta oltre misura, che la paura è una cautela
smodata… Ecco che senza rendersene conto ritornano là dove i
Peripatetici erano giunti per via di ragionamento: a dire cioè che i
vizi, poiché non possono essere estirpati, sono da moderarsi
ragionevolmente.
PLUTARCO, De virt. mor., 9, 449a = SVF III, 439
E anch’essi, cedendo in qualche maniera a ciò per l’evidenza, devono
dire che «l’aver pudore» è poi un «vergognarsi», e l’aver piacere un
gioire, e le paure sono forme di cautela; né alcuno potrebbe
biasimare questi eufemismi, perché essi chiamano le stesse passioni
con certi nomi quando sono accompagnate da ragionamento e con altri
quando vanno contro il ragionamento e gli fanno violenza. Ma quando,
di fronte all’evidenza delle lacrime, dei tremiti, dei mutamenti di
colore, invece di dolore o paura parlano di morsi e di spasimi,
oppure definiscono «propensioni» i desideri, cercano giustificazioni
e vie d’uscita non degne di filosofi ma di sofisti, e giocano con le
parole a scapito delle cose. E tuttavia essi stessi chiamano quelle
gioie, quelle cautele, quelle volizioni «stati di passionalità
buona» e non «stati esenti da passionalità»; e questa volta usano
correttamente le espressioni.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., V, 7, pp. 468-469 Müller = SVF
III, 441
Non fa nessuna differenza che si parli di accettare o fuggire oppure
di rincorrere e desiderare, né di volere, o tendere a qualcosa, o
sforzarsi di avere, o amare e bramare: una simile suddivisione dei
termini non serve a nulla per la presente ricerca; al contrario, è
inopportuna, e ci storna dalla ricerca delle cose reali a un ambiguo
giuoco sulle parole. Alcuni di loro fanno cavilli artificiosi a
bella posta, dicendo che certi termini non sono adatti in certi
casi, e che per esempio quando si dice che un assetato «tende» al
bere non si usa un termine esatto, la tendenza essendo cosa nobile e
propria del solo sapiente, essendo quindi una appetizione razionale
di chi si compiace di ciò di cui si deve compiacersi; tuttavia se
uno dice in questo caso «desidera» non ammettono neanche questo:
l’aver sete non è infatti proprio solo degli stolti, ma anche dei
saggi, il desiderio però è in sé cosa stolta e si verifica solo in
chi è stolto (è infatti tendenza che tutto d’un colpo mira a
ottenere qualcosa). Se si volesse dare una definizione un po’ più
lunga dicendo che si tratta di tendenza irrazionale, si obietterebbe
che chi parla così è un uomo che non erra solo nella conoscenza vera
delle cose, ma anche nell’uso di moltissimi termini. Tali senza
dubbio erano non pochi degli antichi, come dice lo stesso Platone,
in quanto usavano dei nomi con significati nuovi e inusitati176.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 18, 117, 5, p. 300 Stählin =
SVF III, 442
Quelli che sono esperti in simili questioni distinguono il desiderio
dalla tendenza: il primo lo pongono nei piaceri e nell’incontinenza,
e dicono che è irrazionale; mentre la tendenza (ὄρεζις) verte
intorno a cose necessarie per natura, ed è moto razionale.
SENECA, Epist. ad Luc., 116, 1 = SVF III, 443
Ci si è chiesti spesso se sia preferibile avere affetti moderati
oppure sopprimerli del tutto: di questo parere sono i nostri, mentre
i Peripatetici li ammettono temperati.
LATTANZIO, Div. inst., VI, 14, pp. 535-536 Brandt = SVF III, 444
Tutte le passioni sotto il cui impulso l’animo si eccita gli Stoici
vogliono eliminare dall’uomo, la cupidità, l’esultanza, il timore,
l’afflizione; due delle quali riguardano beni futuri o presenti, le
altre due mali.
Allo stesso modo chiamano queste quattro passioni malattie,
ritenendole non tendenze insite in natura ma sopravvenute in noi per
malvagia opinione; e questa è la ragione per cui pensano che si
possano estirpare dalla radice, una volta che sia eliminata ogni
opinione errata circa ciò che è bene e ciò che è male. Se il
sapiente, infatti, non opina che qualcosa sia bene e qualcosa sia
male, non gli succederà né di esultare, né di ardere di desiderio,
né di atterrirsi, né di contrarsi per il dolore.
LATTANZIO, De ira Dei, 17-18, p. 114 Brandt = SVF III, 444
Ma gli Stoici non compresero il vero confine fra retto e malvagio;
non compresero che c’è un’ira che è giusta; e poiché non riuscivano
a trovare un rimedio per la cosa, intesero senz’altro sopprimerla…
Che bisogno c’è dell’ira, dicono, dal momento che si possono
correggere le colpe anche senza questo mezzo?
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., I, 13, 101, 1, p. 150 Stählin = SVF
III, 445
Tutto ciò che va contro la retta ragione è una colpa. E perciò i
filosofi credettero di poter senz’altro definire quelli che sono i
generi sommi delle passioni in questo modo: il desiderio una
tendenza ribelle alla ragione, la paura una deviazione dalla
ragione, il piacere una esaltazione dell’anima ribelle alla
ragione177.
FILONE ALESSANDRINO, De spec. legibus, IV, 79, V, p. 227, 5 segg.
Cohn = SVF III, 446
Ogni passione è qualcosa di sopraggiunto dal di fuori, dal momento
che la passione è un impulso senza misura e sovrabbondante, e un
moto dell’anima irrazionale, e come tale è colpevole178.
GIROLAMO, Epist. 133 (ad Ctesiphontem), 1, p. 242 Hilberg = SVF III,
447
… quei veleni … che sono discesi dalla fonte dei filosofi,
soprattutto dei seguaci di Pitagora e di Zenone. Quelle che i Greci
chiamano πάθη, noi possiamo dirle perturbazioni: così l’afflizione e
la gioia, la speranza e il timore179; e di esse due riguardano il
presente e due il futuro; ed essi affermano che le si può estirpare
dall’anima, sì che nessuna fibra o radice dei vizi resti più insita
intimamente nell’uomo, in virtù della riflessione e dell’assiduo
esercizio della virtù.
PORFIRIONE, In Horat. Sat., II, 4, p. 308 Holder = SVF III, 449
Fu un certo Cazio Epicureo che scrisse quattro libri sulla natura e
sul sommo bene; valendosi del suo nome egli intende irridere, come
nella prossima satira gli Stoici, in questa gli Epicurei, che dicono
essere il sommo bene la ἡδονή delle cose oneste; per cui poi gli
Stoici condannano questo piacere della gola e del corpo dicendo che
la ἀταραξία τῆς ψυκῆς, il non temere né desiderare nulla, è il sommo
bene. Per tutte queste ragioni Varrone dice che fra di essi c’è una
«logomachia»180.
LATTANZIO, Div. Inst., VI, 10, p. 515 segg. Brandt = SVF III, 450
Relativamente a questa parte, non c’è alcun precetto dei filosofi;
giacché quelli, sedotti da una falsa apparenza di virtù, hanno
eliminato dall’essere umano la misericordia; e volendo abolire tutti
i vizi li hanno invece accresciuti. E mentre affermano che bisogna
tener fermo alla comunione della società umana, col rigore della
loro inumana virtù non fanno altro che dissociarsi del tutto da
essa. Ora, io chiedo loro, essi che non credono proprio del sapiente
piegarsi e aver pietà, nel caso che un uomo, afferrato da una belva,
chieda l’aiuto di un uomo armato, pensano che occorra aiutarlo o no?
Non possono essere così impudenti da dire che non bisogna fare ciò
che quelo chiede e che esige la stessa umanità. E similmente, se
qualcuno sia circondato dal fuoco, sia oppresso da macerie, sia
sommerso nel mare, sia trascinato dalla corrente di un fiume,
potrebbero pensare che fosse degno di un essere umano il negare
aiuto? Nessuno di noi può infatti dirsi immune da simili pericoli.
Di necessità dovranno ammettere che è non solo proprio dell’uomo, ma
dell’uomo forte, il salvare chi stia per perire. Ma se in questi
casi, in cui la vita umana è in pericolo, ammettono che si debba per
umanità portar soccorso: per quale ragione dovrebbero poi pensare
che non sia il caso di portar soccorso se vi sia un uomo che ha
sete, ha fame, ha freddo? Pur essendo queste situazioni di pari
valore rispetto a quei casi fortuiti, ed esigendo uno stesso e
identico atteggiamento di umanità, essi fanno una netta distinzione
fra gli uni e gli altri; e ciò perché non misurano la realtà secondo
la verità delle cose, ma secondo l’utilità immediata.
ORIGENE, Selecta in Ezechielem, 8, P. G. XIII, col. 800 = SVF III,
451
… la compassione … che gli esperti di simili definizioni dicono
essere dolore per la disgrazia del prossimo; e dicono che il medico
o il giudice non devono aver sentimenti di compassione, sì che,
turbandosi per il dolore che è causato dal compatire, trovino un
ostacolo in ciò a compiere la loro opera, medica o giudiziaria, in
maniera che sia utile all’uomo soggetto alle cure o alla giustizia.
SENECA, De clementia, II, 4 = SVF III, 452
Torna opportuno in questo luogo chiedere che cosa sia la
compassione. Infatti molti la lodano come una virtù e ritengono
buono chi è compassionevole; ma anch’essa è un vizio dell’anima… So
che presso i male informati la setta stoica ha una cattiva fama,
come troppo dura e tale da non saper dare un buon consiglio a re e
principi: le si rimprovera infatti di non concedere al sapiente di
esser misericorde e di saper perdonare… La compassione è una
afflizione dell’anima per la vista delle miserie altrui, o una
tristezza che si contrae per l’altrui male quando si crede che
questo avvenga loro senza che lo meritino. Ma l’afflizione non può
trovarsi nell’uomo sapiente181.
SENECA, De clementia, II, 7 = SVF III, 453
Vediamo dunque di stabilire cosa sia il perdono, e comprenderemo
come questo non debba venir dato dal sapiente. Perdono è la
remissione della pena dovuta. Perché il sapiente non debba darla, ne
rendono ragione copiosamente coloro cui la questione è posta; io lo
esporrò brevemente, come se si trattasse di un giudizio dato da
altri. Si perdona a chi dovrebbe essere punito; ma il sapiente non
fa nulla che non debba, non trascura nulla di ciò che deve; perciò
non può nemmeno condonare la pena che deve esigere. Tuttavia, ciò
che tu vorresti ottenere mediante il perdono, te lo dà in modo
migliore: infatti il sapiente risparmia, provvede, corregge.
ORIGENE, Comm. in Matth., X, p. 395 Klostermann = SVF III, 454
Chi ha tutte le virtù è perfetto e non compie nulla in base a vizio…
Come potrebbe tutto d’un colpo divenire esente dall’ira se si
trovasse ad essere proclive all’ira stessa? come privo di dolore, e
superiore a qualunque cosa possa accadere, se questo è tale da
provocare in lui dolore? E come potrà essere all’infuori di ogni
paura, sia essa di dolori o di morte, o di tutto ciò che possa esser
temuto da un’anima ancora imperfetta? E in che modo potrà esser …
esente da desiderio? … Se anche quello che si chiama il piacere, e
che è una esaltazione irrazionale dell’anima, è una passione, come …
ci si potrà astenere del tutto dall’esaltarsi irrazionalmente?
PLUTARCO, De virt. mor., 7, 446f = SVF III, 459182
Alcuni dicono che la passione non è cosa diversa dalla ragione, né
fra le due c’è differenza e contrasto, ma che si tratta di un
volgersi della ragione, ch’è una, verso l’una o verso l’altra, in
maniera tale che noi non ne abbiamo coscienza per l’alacrità e
velocità del cambiamento; noi infatti non ci accorgiamo che è la
stessa parte dell’anima quella in cui è connaturato il desiderare o
il pentirsi, l’adirarsi e il temere, l’essere spinti verso la
turpitudine sotto l’impulso del piacere e il riprendersi mentre vi è
spinta; infatti per loro il desiderio, l’ira, la paura e altre cose
consimili sono opinioni e giudizi cattivi, che non si verificano in
una sola parte dell’anima, ma sono come inclinazioni, cedimenti,
assensi, impulsi, atti, in una parola, della parte direttiva
dell’anima, che sono soggetti a un cambiamento rapido, così come le
corse dei bambini che per la debolezza di questi hanno impetuosità,
instabilità, insicurezza.
GALENO, De Hippocr. et Plat. plac., V, 1, p. 407 Müller = SVF III,
476
Degli altri Stoici alcuni giunsero a tale punto di polemicità da
negare — dopo aver affermato che le passioni sono proprie della
facoltà razionale — che ne partecipino gli animali irragionevoli; e
i più le negano anche ai bambini, in quanto ancora non hanno l’uso
della ragione.
ORIGENE, Comm. in Matth., X, pp. 220-221 Klostermann = SVF III, 477
Ciò che si dice dei bambini a proposito dei piaceri amorosi, lo si
può dire in generale per le passioni e malattie e infermità
dell’anima: per natura i bambini non incorrono in esse, poiché la
loro ragione ancora non è perfetta.
… Anche da altri è stato dunque dimostrato a sufficienza che nessuna
delle passioni può trovarsi nei fanciulli, che non hanno ancora una
ragione perfetta: e se nessuna passione, certo neanche la paura. Ma
se si può trovare in loro qualcosa di simile alle passioni, si
tratta di forme deboli, dalle quali ci si può facilmente riprendere
o che possono facilmente essere curate… La paura di cui soffrono i
bambini non è la stessa che quella degli stolti, ma qualcosa di
diverso, come dicono quelli che hanno fatto accurato esame delle
passioni e delle loro denominazioni. Per esempio vediamo che i
bambini dimenticano facilmente i mali, e nello stesso momento in cui
piangono possono cambiare rapidamente e ridere e scherzare con ciò
che credevano poco prima causa di paura o dolore, ma che in realtà
non era tale.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 29, 62 = SVF III, 488
Tutti i filosofi perciò, come ho già detto prima, parlano di
un’unica arte del portar rimedio: non si deve parlare di ciò che
perturba l’anima, ma della perturbazione in sé. Per esempio se si
tratta del desiderio, quando si tratta semplicemente di vedere come
si può eliminarlo, non ci si deve chiedere se sia o no un bene
quello che ne è causa; è il desiderio in sé che bisogna eliminare,
di modo che — sia il sommo bene ciò ch’è onesto, sia il piacere, sia
l’unione di queste due cose, sia l’insieme dei tre tipi di beni183 —
anche se il desiderio si volga con gran forza alla virtù stessa,
tuttavia si deve fare a tutti lo stesso discorso volto a distogliere
da esso.
OLIMPIODORO, In Plat. Alcib. I, 54, p. 37 Westerink = SVF III, 489
Si deve sapere che … vi sono tre tipi di purificazione, quello
pitagorico, quello socratico, quello peripatetico oppure stoico: e
quello stoico cura col rimedio opposto al male, per esempio
introduce nell’ira il desiderio e in questo modo la addolcisce,
oppure il desiderio nell’ira e così lo rafforza e lo fa diventare
più virile, come si fa con le verghe piegate, che si piegano appunto
nel senso inverso a quello in cui si vuole raddrizzarle, sì che la
configurazione conveniente derivi da quello stesso volgerle in senso
contrario. Allo stesso modo quelli si studiavano di ingenerare
armonia nell’anima.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VII, 16, 98, 5, p. 69 Stählin = SVF
III, 490
Triplice è la cura della falsa opinione, come di ogni passione:
insegnare a capire ciò che ne è la causa e il modo di eliminarla, e
in terzo luogo promuovere l’esercizio dell’anima e l’assuefazione ad
esser capaci di seguire ciò che si è giudicato esser retto… Quando
si trasgredisce la ragione, … se ci si abbatte per l’improvviso
sopravvenire di una rappresentazione, bisogna ricorrere a
rappresentazioni razionali; tuttavia, se qualcuno vinto dal costume
abituale diventasse, come dice la Scrittura184, rilassato, bisogna
far cessare del tutto quel costume e far esercitare la ragione in
contrapposizione ad esso; e se si vede che qualcuno trascina con sé
opinioni in reciproco contrasto, darsi da fare per sopprimerle.
IL DIRITTO E LA LEGGE; LA SOCIETÀ
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 21, 21 = SVF III, 309
Il diritto che può veramente chiamarsi tale è per natura, ed è cosa
estranea al sapiente non solo il far torto ad alcuno, ma anche
semplicemente il far danno.
Né in verità può essere azione retta associarsi con amici o con chi
ci deve gratitudine allo scopo di agire contro la giustizia. E molto
autorevolmente … si afferma che mai l’equità può sussistere separata
dall’utilità, e che tutto ciò che è giusto ed equo è anche onesto, e
a sua volta tutto ciò che è onesto sarà anche giusto ed equo.
CICERONE, De legibus, I, 16, 44-45 = SVF III, 311-312
Né solo il giusto e l’ingiusto hanno la loro differenziazione nella
natura stessa, ma in generale tutto ciò ch’è onesto e tutto ciò ch’è
turpe. La comune nostra capacità di comprendere, infatti, ci rende
note tali cose e ha posto nella nostra anima i principi mediante i
quali giudichiamo che la virtù sta nell’onesto e il vizio nel turpe.
Ritenere che questo criterio di giudizio abbia le sue radici
nell’opinione e non nella natura, è da folle185. Neanche la virtù —
per usare un nome impropriamente — del cavallo o dell’albero risiede
nell’opinione, ma nella natura. E se è cosi, sono naturali anche le
differenze fondamentali fra l’onesto e il turpe. Se tutta la virtù
fosse cosa soggetta ad opinione, lo sarebbero anche le sue parti. Ma
chi mai potrebbe giudicare una persona saggia e prudente, per così
dire, non in base al suo comportamento di per sé, ma rispetto a una
cosa esterna? La virtù è la ragione nel suo stato perfetto; e questo
è un fatto di ordine naturale senza alcun dubbio. Lo è dunque allo
stesso modo l’onestà sotto ogni aspetto… Infatti, così come il vero
e il falso si giudicano per ragioni intrinseche e non allotrie, così
quel metodo di vita costante e perpetuo che è la virtù e
l’incoerenza, che è vizio, 〈si giudicano〉 sulla base della loro
natura. Come fatti di natura giudichiamo l’indole dei giovani186; e
non analogamente si dovranno giudicare le virtù e i vizi, che
derivano dall’indole?
O si può dire anche differentemente: non si devono necessariamente
riportare alla natura l’onesto e il turpe? Ciò ch’è lodevole è bene,
e necessariamente ha in sé le ragioni per cui viene lodato: il bene
in sé non riposa su opinioni, ma sulla natura. Se non fosse così,
chi è felice sarebbe tale per opinione: che cosa si può dire di più
stolto? Dunque, poiché il bene e il male si giudicano in riferimento
alla natura, e sono principi naturali, allo stesso modo e con simile
ragionamento si devono giudicare l’onesto e il turpe e rapportarli
alla natura stessa.
CICERONE, De legibus, I, 6, 18-19 = SVF III, 315
Perciò a quegli uomini dottissimi sembrò giusto prendere il punto di
partenza dalla legge: e direi rettamente, dal momento che la legge,
secondo la loro stessa definizione, è ragione suprema, insita nella
natura, che comanda le cose da farsi e proibisce le contrarie.
Questa stessa ragione, quando sia confermata e perfezionata dalla
mente umana, si fa legge. Pensano perciò che la legge si identifichi
con la stessa saggezza, dal momento che la sua forza sta nel
comandare di agire rettamente e di vietare le cattive azioni; e
ritengono che il nome greco che definisce la legge (νόμος) derivi
dal fatto che essa rende a ciascuno (νέμει) ciò ch’è suo… Dunque è
dalla legge che si deve prendere l’inizio della trattazione del
diritto: essa è forza insita in natura, è intelligenza e ragione
dell’uomo saggio187, è regola che divide il diritto dal torto… Essa
è nata prima del tempo, prima che fosse stata scritta una qualsiasi
legge o fondata una qualsiasi città.
CICERONE, De legibus, II, 4, 8-10 = SVF IIΙ, 316
Dicono che la legge non è una invenzione di intelligenze umane, né
una decisione del popolo188, ma è qualcosa di eterno, che governa il
mondo mediante la consapevolezza di ciò ch’è da comandare e ciò ch’è
da proibire.
Dicevano quindi che la legge è l’intelligenza prima ed ultima di
quel dio che comanda e vieta tutto in base a ragione; ragion per cui
giustamente si loda quella legge che gli dèi hanno dato al genere
umano; essa è infatti la ragione e la mente del sapiente, atta a
comandare e a distogliere. E dicono che i comandi e i divieti in
vigore presso i vari popoli hanno una forza di imposizione del
giusto e di allontanamento dalle colpe che non potrebbero avere se
non fosse più antica dell’età dei popoli e delle città, e coetanea a
quel dio che protegge e governa il cielo e la terra. Né infatti la
mente divina può essere priva di ragione, e la ragione divina
possiede certo una simile forza nel sancire ciò ch’è retto e ciò
ch’è malvagio… Per tale ragione la legge vera e prima, atta a
comandare e a proibire, è la retta ragione del sommo Giove.
CICERONE, De legibus, I, 12, 33 = SVF III, 317
Ché se, come vorrebbe la natura, gli uomini nella loro riflessione
«non stimassero nulla di umano alieno da sé» (come dice il
poeta189), il diritto sarebbe rispettato ugualmente da tutti. Quelli
a cui la ragione è stata data dalla natura hanno la possibilità di
esercitarla rettamente, e quindi di attuare la legge, che è retta
ragione relativa a comandi e divieti; e se la legge, anche il
diritto. Ma a tutti è stata data la ragione, quindi a tutti è stato
anche dato il diritto. E giustamente Socrate era solito maledire chi
per primo avesse separato l’utilità dal diritto, giacché
lamentava che questa fosse la radice di tutte le sciagure190.
CICERONE, De legibus, II, 5, 11-12 = SVF III, 318
Che ogni legge che veramente si possa dire tale sia lodevole, lo
insegnano con alcuni argomenti che sono i seguenti. Si sa per certo
che le leggi sono state formulate in vista della salvezza dei
cittadini, della sicurezza delle città, della vita tranquilla e
felice degli uomini; e che quelli che per primi hanno sancito tali
norme hanno mostrato ai popoli che scrivevano e presentavano
disposizioni tal da permettere loro, una volta adottatele, di vivere
onestamente e felicemente; e le norme così composte e sancite sono
state da loro chiamate leggi. Da ciò si può facilmente intendere
come quelli che hanno scritto comandi perniciosi e ingiusti per i
popoli, avendo fatto cosa del tutto opposta a ciò che avevano
assicurato e promesso, hanno fatto tutto anziché una legge. Chiedo
dunque … così come essi sono usi chiedere: ciò che, se una città ne
è priva, per lo stesso fatto che ne è priva, viene ad essere
annullata nella sua essenza, è da annoverarsi fra i beni? Ma certo,
e fra i beni più grandi. Ma la città che manchi della legge non è
annullata nel suo essere? Non si potrebbe negare. E dunque di
necessità la legge deve ritenersi un grandissimo bene.
CICERONE, De legibus, I, 15-17, 42-44 = SVF III, 319-321
Sommamente stolto è il ritenere che tutto quello che sia stato
sancito nelle istituzioni e nelle leggi dei popoli sia per ciò
stesso giusto. Forse anche se si tratti di leggi dei tiranni?… C’è
infatti un solo diritto, dal quale è legata la società umana e che
una sola legge ha fondato; e questa legge è la retta ragione circa
comandi e divieti; chi la ignora è ingiusto, sia essa scritta o non
lo sia in alcun luogo. Se la giustizia si identificasse con
l’obbedienza alla legge scritta e tutte le cose fossero commisurate,
come gli stessi dicono191, all’utilità, quello che stimasse gli
fosse conveniente potrebbe impunemente trascurare le leggi o
infrangerle; così accade che non vi sia più alcuna giustizia, se non
è per natura; né sarebbe tale quella che, costituita in vista
dell’utilità, per un altro tipo di utilità potesse essere
rovesciata… Ché se poi il diritto si fondasse esclusivamente sui
comandi delle assemblee popolari, sui decreti dei capi, sulle
sentenze dei giudici, diverrebbe diritto il rubare, diritto il
falsificare, diritto l’adulterare i testamenti, una volta che tali
cose fossero approvate dai voti e dalle deliberazioni della massa. E
se tanto potere avessero i pareri e i comandi degli stolti da poter
coi voti di quelli rovesciare la natura stessa: perché essi non
sanciscono una volta per tutte che le cose che si ritengono malvagie
e rovinose siano invece ritenute buone e salutari? Se la legge può
far diventare l’ingiustizia diritto, per quale ragione non potrebbe
far diventare il male bene? Ma noi non possiamo dividere una legge
buona da una cattiva in nessun altro modo se non in base a una norma
di natura.
FILONE ALESSANDRINO, De Iosepho, 28 segg., IV, p, 67, 15 segg. Cohn
= SVF III, 323
Infatti il regime politico che vige presso i popoli è qualcosa che
viene ad aggiungersi a quella natura che ha la signoria di tutte le
cose: giacché questo nostro cosmo non è che una grande città e si
vale di un solo regime, di una sola legge. E questa è poi la ragione
della natura, che comanda ciò ch’è da farsi e vieta ciò che non è da
farsi.
Infinite per numero sono le città disseminate nei singoli luoghi,
che si valgono di assetti politici e leggi differenti fra di loro:
di luogo in luogo sono state trovate e proposte norme di costume e
di leggi differenti… Causa di ciò è il fatto che gli uomini non sono
congiunti e consociati, e ciò avviene non solo nei rapporti fra
Greci e barbari ma in generale nei rapporti specifici di ciascuna
gente con quelli della stessa stirpe. Ma vengono meno al vero se ne
attribuiscono la causa a realtà che non sono assolutamente la causa
di tutto questo, come situazioni indipendenti dalla volontà,
scarsità di frutti, sterilità del terreno, la posizione del luogo a
seconda che questo sia all’interno del territorio, o vicino alla
costa, o su un’isola o in terra ferma, o altre simili ragioni. In
realtà è l’avidità e la sfiducia reciproca la causa per cui,
non contentandosi delle norme sacre (θεσμοί) della natura, si
considerano leggi e si sanciscono per tali quelle regole che
sembrano esser di giovamento a un gruppo di gente che abbia la
stessa opinione: sì che ragionevolmente si può dire che le
costituzioni politiche parziali sono qualcosa che si viene ad
aggiungere a quella unica che è secondo natura. Le leggi della
città, quindi, sono qualcosa che viene ad aggiungersi rispetto alla
retta ragione naturale… La casa è come una città stabilita in ambito
ristretto e l’amministrazione della casa è come un governo politico
ridotto; allo stesso modo anche la città è una grande casa e il
governo politico è come una amministrazione domestica estesa a
tutti192.
Per queste ragioni si afferma che l’amministratore e il politico
sono la stessa cosa, anche se cambi la moltitudine e l’ampiezza di
chi è soggetto al governo.
CICERONE, De re publ., III, 22, 33 = SVF III, 325193
La vera legge è in realtà detta ragione, diffusa in tutto il genere
umano, costante ed eterna, il cui compito è quello di chiamare al
dovere con comando e distogliere dalla colpa proibendo: né essa
tuttavia è tale da comandare o vietare invano ai giusti o da poter
mutare i malvagi col comando o col divieto. A tale legge non è
lecito andar contro o derogare in qualche punto, né totalmente
abrogarla; né tanto meno … possiamo liberarcene, né dobbiamo cercare
qualcun altro che ce la spieghi o interpreti; e non è in un modo a
Roma e in un modo ad Atene, né in un modo ora e in un modo in
futuro; una sola legge, eterna e immutabile, terrà sempre sotto di
sé il genere umano, e la divinità sola sarà sempre quasi il maestro
e il capo comune di tutti: è la divinità stessa che ha stabilito la
legge, l’ha interpretata, l’ha proposta; se qualcuno le
disubbidisca, costui rifuggirà da se stesso e disprezzerà la natura
stessa dell’uomo, e per questa sola ragione sconterà terribili pene,
anche se fosse riuscito a sottrarsi a tutti quei supplizi che in
genere sono ritenuti tali.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 26, 172, 2, p. 324 Stählin =
SVF III, 327
Dicono anche gli Stoici che il cielo è veramente una città, mentre
quelle che sono sulla terra non lo sono veramente; la città e il
popolo infatti sono un organismo buono e una moltitudine di uomini
governata dalla legge.
STOBEO, Eclog., II, 7, ni, p. 103, 9 segg. Wachsmuth = SVF III, 328
Dicono che ogni stolto è un esule, poiché è privo di quella legge e
di quella costituzione politica che sono ordinate dalla natura.
Infatti, come abbiamo detto, la legge è cosa buona, così come lo è
la città…194 La città può definirsi in tre modi, secondo la sua
essenza di rifugio, o di insieme organico di uomini, o in terzo modo
secondo l’uno e l’altro; e si dice essere cosa buona in relazione a
due significati, come insieme organico di uomini e come insieme e
rifugio presi in un solo concetto, con relazione a quelli che vi
abitano.
DIONE CRISOSTOMO, Oratio XXXVI, 20, II, p. 6, 13 segg. Arnim = SVF
III, 329
Dicono che la città è una moltitudine di uomini che abitano nello
stesso luogo, governata dalla legge.
DIONE CRISOSTOMO, Oratio III, 43, I, p. 41, 7 Arnim = SVF III, 331
Il governo è definito «amministrazione di uomini secondo la legge» e
«provvidenza che si esercita sugli uomini secondo la legge».
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, II, 25-268, 166, 5 segg., pp.
104-105 Stählin = SVF III, 332
In quanto alcuni … hanno detto la legge cosa retta, che comanda ciò
che è da compiersi e vieta ciò che non è da compiersi… Il regime
politico … è un buon allevamento di uomini in società. L’attività
giudiziaria … è scienza che corregge gli errori commessi, avendo in
vista il giusto. Compagna di questa è l’attività punitiva, che è una
scienza relativa alle punizioni, dotata della giusta misura. La
punizione è una correzione dell’anima… Solo il sapiente quei
filosofi proclamano essere re, legislatore, stratego, giusto, santo,
amante degli dèi… Così come diciamo che l’arte del pastore è quella
che provvede al gregge … così anche diremo che l’arte del
legislatore deve instaurare fra gli uomini la virtù, eccitando il
più possibile ciò che vi è nell’uomo di buono, sorreggendo e
vigilando la greggia degli uomini.
CICERONE, De fin. bon. et mal, III, 19, 64 = SVF III, 333
Ritengono che il mondo sia retto dal divino potere degli dèi, e che
esso sia come una città abitata comunemente da uomini e dèi, e che
ciascuno di noi fa parte di un simile universo, sì che ne consegue
che per natura dobbiamo preporre l’utilità del tutto alla nostra
privata195. Così come le leggi antepongono la salvezza della
collettività a quella dei singoli, così l’uomo buono e sapiente e
ubbidiente alle leggi e conscio del suo dovere di cittadino pensa
all’utilità comune più che a quella di uno qualsiasi o alla sua
propria. Né si deve biasimare il traditore della patria più di
quanto non si biasimi chi tradisca la comune utilità o la comune
salvezza per l’utilità e salvezza sua particolare. Avviene di
conseguenza che va lodato colui che scelga di morire per lo stato,
poiché la patria deve esserci più cara di noi stessi.
DIONE CRISOSTOMO, Oratio XXXVI, 23, II, p. 7, 7 segg. Arnim = SVF
III, 334
Solo questa dobbiamo chiamare in termini rigorosi una costituzione
politica felice la società degli dèi gli uni verso gli altri, e, se
si vuole che essa abbracci tutti gli esseri dotati di ragione,
contando con gli dèi anche gli uomini, gli uomini che essi dicono
far parte della città nella stessa posizione in cui sono i bambini
nei confronti degli adulti: cittadini per natura, tuttavia non
attivamente, col pensare e agire da cittadini e col partecipare alla
legge, poiché non sono capaci di comprenderla.
DIONE CRISOSTOMO, Oratio I, 42, Ι, p. 8, 8 segg. Arnim = SVF III,
335
È bello dunque parlare del governo del tutto, quale sia esso che,
tutto quanto sapiente e felice, trascorre il tempo infinito
interrottamente in infiniti cicli con anima buona e démone
consimile, e provvidenza, e governo giustissimo e ottimo; e ci rende
simili secondo la natura comune sua e nostra, ordinati secondo un
solo sacro diritto e una sola legge e facenti parte di una stessa
costituzione politica; chi onora questa e la rispetta e non fa nulla
di contrario ad essa, è uomo ossequiente alla legge, amante degli
dèi, ben ordinato; quello che per quanto sta in lui la turba e la
trasgredisce e la ignora, è uomo illegale e disordinato, allo stesso
modo se sia un semplice privato o se abbia il nome di capo della
città.
FILONE ALESSANDRINO, De opificio mundi, 3, I, p. 1-11 segg. Wendland
= SVF III, 336
Poiché l’uomo ubbidiente alla legge è di per sé stesso cittadino
dell’universo, e indirizza le sue azioni secondo la volontà della
natura in virtù della quale è governato tutto il cosmo.
FILONE ALESSANDRINO, De opif. mundi, 142-43, I, p. 50, 2 segg.
Wendland = SVF III, 337
Diremo cosa verissima chiamando quel progenitore non solo primo
uomo, ma anche il solo cittadino del cosmo. Il cosmo infatti era a
lui città e casa…
Poiché ogni città dotata di buone leggi ha un suo assetto politico,
avveniva necessariamente a quel cittadino del cosmo di valersi di
quell’assetto che era proprio del cosmo nel suo insieme. E questo è
la retta ragione della natura, che con un appellativo più pertinente
può esser chiamata legge sacra, essendo la legge divina secondo la
quale a ciascuno è stato distribuito ciò che gli conviene e ciò che
gli spetta. Di questa città e di questo assetto politico ci devono
essere stati altri cittadini prima dell’uomo, che si dovessero dire
a buon diritto cittadini di una grande città… Questi non potrebbero
esser stati altro che nature intelligenti e divine, le une prive di
corpo e intellegibili, altre anche dotate di corpo, come si trovano
ad essere gli astri.
CICERONE, De re publica, I, 13, 19 = SVF III, 338
Non pensi che alle nostre case interessi ciò che si fa e che avviene
nella casa stessa? ma la casa non è solo quella che è recinta dalle
nostre pareti domestiche, ma è tutto il nostro universo, che gli dèi
ci hanno dato come casa e patria comune, da dividersi con loro
stessi.
CICERONE, De legibus, I, 7, 22-23 = SVF III, 339
Questo animale previdente, sagace, di molteplici attitudini,
intelligente, pieno di ragione e di riflessione, che chiamiamo uomo,
sappiamo che è stato generato dalla divinità suprema in una
condizione privilegiata. Solo, fra tanti generi di esseri viventi,
egli è partecipe di natura razionale e capacità di pensare, mentre
tutti gli altri esseri ne sono privi. E che cosa ci può essere di
più divino, non dico nell’uomo, ma in tutto il cielo e la terra? e
questa ragione, quando è diventata adulta ed è giunta alla sua
perfezione, giustamente si può chiamare sapienza. Perciò, poiché
nulla è superiore alla ragione, e questa si trova nell’uomo e nella
divinità, la prima associazione fra uomo e divinità è quella che
proviene dalla comune ragione. Ma quelli fra cui è comune la ragione
hanno anche comunanza di retta ragione; e poiché quest’ultima si
identifica con la legge, ecco che noi uomini siamo associati con gli
dèi per mezzo della legge. Ma fra quelli fra i quali vige una
comunanza di legge vige anche una comunanza di diritto; e quelli cui
sono comuni queste cose, hanno anche fra loro comunanza di città;
tanto più se obbediscono allo stesso comando, allo stesso potere.
Essi in realtà obbediscono a questo nostro ordine celeste, e alla
intelligenza divina, e alla divinità che ha potere superiore: sì che
tutto questo nostro universo può essere considerato una sola comune
città degli dèi e degli uomini. E poiché nelle città, per una
determinata ragione di cui si parlerà a suo luogo, gli ordini delle
famiglie sono contrassegnati da parentela, così nella natura ciò
avviene in una forma tanto più magnifica e illustre per il fatto
stesso che uomini e dèi sono congiunti da parentela e appartenenti a
una stessa gente196.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 19, 62 = SVF III, 340
Pensano essi che sia pertinente alla materia il comprendere ch’è un
fatto di ordine naturale che i figli siano amati dai genitori, e che
da questo inizio abbia preso l’avvio la comune società del genere
umano che noi perpetuiamo. Ciò si può capire in primo luogo dalla
configurazione e articolazione del corpo, che di per sé stessa
rivela come la procreazione delle cose abbia seguito un metodo
razionale. Ma queste realtà non potrebbero avere una coerenza
reciproca se la natura, dopo aver voluto procreare, si fosse
disinteressata di ciò che aveva procreato. Anche nelle bestie si può
osservare la forza insita nella natura, dal momento che, quando
vediamo il loro adoperarsi nel generare ed allevare i rampolli, ci
sembra di udire la stessa voce della natura. Perciò, come è evidente
che per natura noi rifuggiamo dal dolore, così anche appare chiaro
che noi siamo spinti dalla natura ad amare quelli che abbiamo
generato. Da ciò deriva che anche fra gli uomini ci sia una comune
inclinazione all’amore reciproco, e che di necessità l’uomo, per il
fatto stesso che è tale, non possa essere estraneo a un altro uomo…
E poiché si considerano inumane le parole di quelli che affermano
non importar loro nulla se, dopo la loro morte, avvenga una
conflagrazione universale (il che si suole esprimere con un verso
greco comunissimo), è certamente vero che dobbiamo provvedere anche
a quelli che nasceranno in futuro, per loro stessi. Da questa
disposizione d’animo sono nati i testamenti e le raccomandazioni dei
morenti… Dal fatto stesso che nessuno di noi vorrebbe passare la sua
vita in estrema solitudine, neanche se si trovasse immerso in
infiniti piaceri, si comprende facilmente che siamo nati in vista
della parentela e consociazione degli uomini fra loro e della
comunanza secondo natura. Siamo spinti dalla natura a cercare di
render un benefizio al maggior numero possibile di persone, in primo
luogo con l’insegnamento e col trasmettere il metodo della saggezza.
Per questa ragione non è facile trovare qualcuno che non trasmetta
ad altri ciò che egli sa; e per questa ragione non siamo solo
proclivi ad apprendere, ma anche ad insegnare. Così come ai tori è
stata data l’inclinazione naturale a combattere per i loro rampolli
con la più grande forza e il più grande impeto contro i leoni, così
quelli che ne hanno il potere e possono farlo — come ci è raccontato
di Ercole e di Bacco — sono spinti da inclinazione naturale alla
salvezza del genere umano… Così come usiamo delle nostre membra
ancor prima di aver appreso in vista di quale vantaggio le
possediamo, così allo stesso modo siamo naturalmente associati e
congiunti fra di noi alla comunanza civile. E se non fosse così non
ci sarebbe alcuna possibilità di attuazione della giustizia o della
bontà.
CICERONE, De legibus, I, 10, 28 = SVF III, 343
Nulla certo è più importante del comprendere come noi siamo
naturalmente portati alla giustizia, e come il diritto sia fondato
sulla natura e non sulla opinione. Ti sarà chiaro se considererai
quale sia la società e la parentela reciproca degli uomini. Nulla è
così uguale e simile a un’altra cosa quanto lo siamo noi stessi fra
di noi: se il deterioramento delle abitudini, la vacuità delle
opinioni non facesse deviare in peggio gli animi, per la loro
debolezza, nella direzione che vuole, certo nessuno sarebbe tanto
simile a se stesso quanto lo siamo gli uni agli altri. Qualunque
definizione si dia del singolo uomo, essa vale per tutti gli uomini.
E questo prova che nel genere umano non vi è nessuna dissomiglianza;
perché se questa ci fosse, non sarebbe possibile contenerlo tutto
nella stessa definizione. Infatti la ragione, la sola proprietà che
ci rende superiori alle bestie, in virtù della quale sappiamo
argomentare, refutare, disputare, compiere qualcosa, arrivare a
certe conclusioni, è certamente comune a tutti; differente è
l’insegnamento che riceviamo, uguale è tuttavia in essa la capacità
di apprendere. Tutte le cose infatti sono comprese dai sensi; e le
cose che impressionano i sensi allo stesso modo impressionano la
mente; e quelle comprensioni iniziali che si imprimono nell’animo,
di cui ho già detto, si imprimono in tutti in forma simile, e il
discorso, interprete della mente, le distribuisce in parole,
coerentemente alle opinioni. Né vi è alcuno, di alcun popolo, che
avendo a sua guida la natura non possa pervenire alla virtù.
CICERONE, De legibus, I, 15, 43 = SVF III, 344
E se la natura non confermerà il diritto, tutte le virtù saranno
soppresse. Dove potrà esistere la liberalità, la carità di patria,
la pietà religiosa, dove la volontà di meritar bene dell’ altro o di
render grazie? Tutte queste cose infatti nascono dal fatto che siamo
per natura propensi all’amore reciproco, e che questo è il
fondamento del diritto. E non saranno soppressi solo gli atti di
ossequio verso gli uomini, ma anche le cerimonie e gli atti di culto
verso gli dèi; che credo debbano esser conservati non per paura
degli dèi stessi, ma in virtù di quella stretta comunanza che vige
tra l’uomo e la divinità.
DIOGENE DI ENOANDA, NF 39, coll. I-II197
… il fatto che essa (la divinità) abbia necessità di appartenere a
una città e di aver concittadini; oltre al fatto che è ridicolo che,
avendo natura divina, cerchi di avere degli uomini come
concittadini. E questo ancora (si può osservare): se essa ha
foggiato per sé il cosmo come una casa e una città, io chiedo dove
mai vivesse prima che ci fosse il cosmo: dal ragionamento che quelli
fanno, quando vogliono dimostrare che uno solo è il cosmo, non
riesco proprio a trovar risposta. Perciò in tutto quell’infinito
tempo, come sembra evidente, il loro dio è stato privo di città e di
casa, come un uomo caduto nella sventura — non dico certo un dio! —
e, non avendo né una sua città, né concittadini, è stato costretto a
errare non si sa dove.
LATTANZIO, Div. Inst., V, 17, p. 457 Brandt = SVF III, 345
In tutti gli animali vediamo che, mancando essi di sapienza, hanno
la natura come fondamento della propria conservazione. Perciò essi
nuocciono ad altri per giovare a se stessi, giacché non sanno che
nuocere è male. Invece l’uomo, che possiede la scienza del bene e
male, si astiene dal far danno ad altri anche se ciò debba
comportare svantaggio per lui, ciò che l’animale privo di ragione
non può fare; e perciò il non recar danno ad altri è considerata una
virtù fra le più alte dell’uomo. Da ciò appare chiaro che è
sapientissimo chi preferisse la propria rovina pur di non far del
male ad altri, per adempiere a quello fra i doveri che lo distingue
dagli animali privi di favella.
ORIGENE, Contra Celsum, VIII, 50, p. 265, 22 Kötschau = SVF III, 546
La socievolezza non è stata circoscritta in modo da tagliarne fuori
gli uomini selvaggi così come gli animali irragionevoli: chi ci ha
creati ci ha fatti tutti quanti dotati di istinto sociale.
PROCLO, In Plat. Alcib. I, 215, p. 99 Westerink = SVF III, 347
Gli Stoici accusano direttamente cose siffatte di esser cose
malvagie. Non è possibile per loro che ci sia un modo giusto di
ingannare, costringere, privare di qualcosa; tutte queste cose
derivano da abito selvaggio. Gli antichi ritengono invece che si
tratti di realtà di valore intermedio.
CICERONE, De fin. bon. et mal., ΙII, 21, 70 = SVF III, 348
Ritengono che si debba praticare l’amicizia, perché appartiene a
quel genere di cose che sono giovevoli. Benché nell’amicizia alcuni
dicano che il bene dell’amico deve essere caro come il proprio e
altri invece ritengano che a ciascuno non può non essere sempre più
caro il proprio, tuttavia anche questi ulteriormente198 sostengono
che è contrario alla giustizia — alla quale siamo tutti indirizzati
per natura — sottrarre qualcosa ad un altro per farlo proprio. E ciò
che non si approva affatto: … è il sostenere che cose come la
giustizia o l’amicizia si pratichino in vista dei vantaggi: proprio
quei vantaggi, al contrario, possono distruggerle e rovinarle. Né la
giustizia né l’amicizia possono esistere se non le si ricerca per se
stesse.
SENECA, De benef., III, 28 = SVF III, 349
Tutti hanno gli stessi inizi e la stessa origine, nessuno è più
nobile di un altro, se non chi abbia indole più retta e più atta
alle buone arti… Il mondo è il solo padre di tutti noi: o per gradi
nobili o per ignobili, a questo si riconduce l’origine prima di
tutti.
FILONE ALESSANDRINO, De spec. legibus, IV, 69, V, p. 103, 20 Cohn =
SVF III, 352
… nessun uomo, infatti, è schiavo per natura199.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., III, 11, 106, 3, p. 269 Stählin =
SVF III, 354
Quella che è vera nobiltà, e che va cercata in ciò che nell’anima è
bello per natura, è estranea al servo non per il fatto che esso sia
comprato, ma per il suo atteggiamento non degno di un libero.
DIONE CRISOSTOMO, Oratio XIV, 16, II, p. 230, 17 segg. Arnim = SVF
III, 356
In una parola, non è lecito fare azioni malvagie … mentre bisogna
dire che è doveroso e lecito fare azioni giuste, ed utili, e buone…
Per nessuno dunque resta impunito il fatto di compiere azioni
malvagie e sciagurate … il compier le cose opposte a queste è invece
lecito a tutti, e chi compia le cose che sono lecite vive al sicuro
da punizione, mentre chi fa cose vietate viene punito. Ma non ti
sembra che quelli che fanno cose lecite siano coloro che sanno, e
quelli che fanno il contrario siano coloro che non sanno?… Ai saggi
dunque è lecito fare ciò che essi vogliono, mentre agli stolti non è
lecito accingersi a fare ciò che è nelle loro intenzioni. E perciò
se ne deduce necessariamente che i saggi sono liberi e che ad essi è
lecito fare ciò che vogliono, gli stolti sono servi e non è loro
lecito fare ciò che vogliono. Bisogna dunque definire la libertà
scienza delle cose permesse e delle cose vietate e la schiavitù
ignoranza di ciò che è lecito e di ciò che non lo è.
FILONE ALESSANDRINO, Quod omnis probus lib., 32, VI, p. 10
Cohn-Reiter = SVF III, 358-361
Che il fare opere servili non è di per sé segno di schiavitù, ne
offrono prova chiarissima le guerre: è infatti possibile vedere come
quelli che si trovano in una qualche spedizione bellica si facciano
da sé tutte le cose, non solo portando l’armatura ma anche
caricandosi come bestie da soma di quelle cose che occorrono per le
necessità della vita e uscendo per fare provvista di acqua, legna,
foraggio per le bestie… Anche in tempo di pace c’è una guerra che
non la cede in nulla a quella armata, che ci muovono la oscurità, la
povertà, il bisogno; tormentati da questa si è costretti a por mano
anche ad opere degne in tutto e per tutto di servi, a scavare la
terra, coltivare con fatica, esercitare arti servili, render
prontamente servigi, allo scopo di procurarci di che vivere… E i
fanciulli non sopportano forse gli ordini del padre e della madre, e
i discepoli si adeguano a ciò che vietano loro i maestri? nessuno
infatti serve spontaneamente. I genitori non dovranno dimostrare un
disprezzo esagerato dei propri figli, sì da accettare di costringer
i figli solo a quei servigi che sono vere e proprie immagini della
schiavitù… Se qualcuno vedendo degli uomini venduti dai mercanti di
schiavi creda senz’altro per ciò stesso che siano servi, quegli è
assai lontano dalla verità. Non la vendita rivela in verità
padrone il venditore, schiavo il venduto: ci sono stati spesso
padri che hanno riscattato i figli e figli che hanno riscattato i
padri, essendo essi stati rapiti dai pirati o fatti prigionieri in
guerra.
… Ci sono stati alcuni che addirittura, spingendo la cosa
all’estremo, sono arrivati all’opposto, e sono diventati padroni di
quelli che li avevano comprati invece che loro servi…
Ma poi inoltre, chi potrebbe dire che gli uomini che sono cari a
Dio200 non sono liberi? Se neanche agli amici dei re si potrebbe
giustamente negare non dico libertà, ma potere, dal momento che sono
compagni e compartecipi del potere stesso, come si potrebbe
rettamente attribuire la servitù a quelli che sono amici degli
Olimpii, e che, in virtù del loro amore per la divinità divenuti
amici di Dio, e ricambiati da questo di uguale benevolenza, secondo
giusta verità sono, come dicono i poeti, capi supremi e re dei re?…
E inoltre, come delle città alcune, sotto oligarchie o tirannidi,
soffrono servitù, avendo padroni aspri e duri che le dominano e le
signoreggiano, mentre altre, valendosi delle leggi come governanti e
signori, sono libere, così anche degli uomini alcuni, che sono
signoreggiati dall’ira, o dal desiderio, o da qualche altra passione
o malconsiglio, sono in tutto e per tutto servi, mentre quelli che
vivono nella legge sono liberi. E legge esente da frode è la retta
ragione, che non è impressa da quello o quell’altro uomo mortale in
rotoli di papiro o, inanimata, in stele inanimate, ma è impressa,
indistruttibile, dalla natura immortale nel pensiero immortale. Ci
si potrebbe perciò meravigliare della cecità di coloro che non
vedono le proprietà evidenti delle cose, e dicono che ai grandi
popoli di Atene e di Sparta furono sufficienti in ogni modo a
conservare la libertà le leggi di Solone e di Licurgo, che dominano
e comandano ai cittadini da esse retti e ad esse obbedienti, mentre
poi non credono che la retta ragione, che anche agli altri è fonte
delle leggi, sia sufficiente a dare la libertà agli uomini sapienti
che ubbidiscono ad essa in tutto ciò che comandi o vieti.
FILONE ALESSANDRINO, Quod omnis probus lib., 47-48, VI, p. 14, 5
segg. Cohn-Reiter = SVF III, 361
Oltre a quanto già si è detto, prova evidentissima della libertà è
l’uguale libertà di parola che tutti i saggi praticano gli universo
gli altri; e per questo dicono che sono pieni di significato
filosofico quei trimetri che recitano: «per natura i servi non
possono partecipare alle leggi» e ancora: «sei nato servo, non puoi
avere parte alla ragione»201. Così come la conoscenza delle leggi
musicali dà a quanti praticano la musica la libertà di parlare
relativa a quell’arte, e quella delle leggi grammatiche e
geometriche fa lo stesso nei riguardi di chi si occupa di geometria
o di grammatica, così anche la norma che regola la vita la dà a
quelli che sono esperti del vivere. Ma tutti i saggi sono esperti
delle cose relative alla vita, dal momento che lo sono di tutte
quelle relative alla natura tutta; e se riconosciamo che alcuni di
essi sono liberi, tutti quelli che han parte alla libertà di parola,
bisogna dire che nessuno che sia saggio è servo, ma tutti sono
liberi. In base a tale premessa si dimostrerà poi che lo stolto è
servo: come la norma che vige nella musica non dà uguale libertà di
parola all’inesperto di musica rispetto agli esperti, così come
avviene del resto per la grammatica e in generale per tutte le altre
arti, così la norma che regola la vita non concede libertà di parola
a coloro che sono inesperti del vivere rispetto a quelli che ne sono
esperti. Ma se ai liberi è data quella libertà di parola che deriva
dalla legge, e alcuni dei saggi sono liberi, e della norma del
vivere sono esperti i saggi e del tutto inesperti gli stolti, ciò
vuol dire che non sono liberi alcuni degli stolti, ma sono tutti
quanti servi.
FILONE ALESSANDRINO, Quod omnis probus lib., 58, VI, p, 16
Cohn-Reiter = SVF III, 362-363
Si dice dunque non a caso che il saggio fa bene tutto ciò che fa; ma
chi fa bene tutte le cose fa anche tutto rettamente; e chi fa tutto
rettamente agisce anche in maniera irreprensibile, esente da
biasimo, esente da rendiconto e non soggetta a punizione. Per questa
ragione egli ha licenza di fare tutto ciò che vuole e di vivere come
vuole; e colui cui ciò è permesso è libero. Ma l’uomo buono compie
tutto saggiamente: egli solo dunque è libero… Ed è certamente libero
quello che non può esser costretto né impedito: ma il saggio non può
essere né costretto né impedito, e quindi non può essere servo. È
impedito chi non può raggiungere ciò a cui tende: ma il sapiente
tende alla virtù alla quale per sua stessa natura non può venir
meno. E se subisse costrizione, è chiaro che farebbe qualcosa contro
la sua volontà. Le azioni degli uomini sono o azioni rette secondo
virtù, o azioni viziose secondo errore, oppure azioni medie e
indifferenti. Quelle secondo virtù, egli le farà tutte quante non
costretto, ma volontariamente, perché sono per lui da scegliersi;
quelle viziose, in quanto da fuggirsi, non c’è nemmeno da sognarsi
che le faccia. Né è verosimile pensare che compia contro il suo
volere le azioni indifferenti, nei confronti delle quali la sua
mente si trova come su una bilancia in equilibrio, ben conscia per
l’insegnamento ricevuto che esse non hanno valore tale da poter
suscitare attrazione o repulsione. E perciò chiaro che egli non farà
nulla involontariamente, né sarà mai costretto a nulla. Se però
fosse servo, agirebbe in stato di costrizione; quindi l’uomo buono è
libero.
FILONE ALESSANDRINO, De poster. Caini, 138, II, p. 30, 17 Wendland =
SVF III, 364
Questo è principio fra i più generali, che solo il sapiente è libero
e capo, abbia pure infiniti padroni del suo corpo.
ANONIMO, Comm. in Platonis Theaethetum, col. II, 12-40, P. 144b
Diels-Schubart
Secondo gli antichi, poiché molte sono le virtù e per ciascuna
sussiste una particolare buona disposizione per natura (εὐφυιΐα), si
porrà la questione se queste buone disposizioni naturali siano
conseguenti l’una all’altra; e si converrà che non lo sono in
tutto e per tutto; non è impossibile, infatti, che chi ne possiede
una manchi delle altre. Invece secondo gli Stoici non si pone
neppure una questione del genere, dal momento che essi suppongono
che una sola sia la disposizione naturale valida per tutte le virtù.
Essi paragonano infatti la parte direttiva dell’anima ad una cera
ben plasmabile, adatta per natura ad accogliere in sé tutte le
immagini rappresentate.
DIONE CRISOSTOMO, Oratio XV, 31, II, p. 230, 32 Arnim = SVF III, 365
Cosicché chi sia per natura proclive alla virtù, questi bisogna
dirlo «bennato»… Ma non è possibile che chi sia bennato non sia
anche nobile; e chi è nobile deve di necessità esser libero. Chi è
ignobile quindi deve necessariamente essere servo.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11m, p. 107, 14 segg. Wachsmuth = SVF III,
366
Circa l’essere buoni per natura e nobili, alcuni di questa sette
giunsero fino a dire che ogni sapiente è tale, gli altri no. Essi
credono infatti che non solo si sia ben disposti alla virtù per
natura, ma alcuni lo divengano in base a una certa formazione; e lo
dimostrano con questo detto proverbiale202: «l’esercizio inveterato
diventa infine natura». Similmente pensarono circa la nobiltà: per
loro la buona disposizione naturale è abito datoci generalmente
dalla natura o dalla formazione che abbiamo, proclive alla virtù, o
anche abito in base al quale alcuni sono suscettibili di virtù; la
nobiltà un abito proclive alla virtù che deriva dalla stirpe o dalla
formazione.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 81, I, p. 351, 7 segg. Kötschau = SVF
III, 368
Egli, nel valutare queste cose203, non si rese conto in che cosa
differiscono le azioni compiute in base a ragione e ragionamento da
quelle derivanti da natura irrazionale e da pura formazione
naturale, azioni delle quali non si assume la responsabilità alcuna
ragione immanente in chi le compia; esse non hanno infatti ragione…
Presso gli uomini si sono formate città con molte arti e con
ordinamento di leggi; e vi sono fra gli uomini regimi politici,
cariche, governi, sia quelli chiamati così in senso proprio, che
sono abiti e atti di valore positivo, sia quelli che sono chiamati
così in senso improprio in virtù della loro imitazione dei primi
nella misura del possibile; guardando a quelli i legislatori accorti
fondarono i regimi migliori e le migliori cariche e governi. Ma fra
gli animali irragionevoli non è dato trovare nulla di simile.
… Va piuttosto osservato con ammirazione come la natura divina
estenda fino agli esseri privi di ragione qualcosa che è come
un’imitazione di ciò ch’è razionale.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 19, 63 = SVF III, 369
Così come tra le nostre membra ce ne sono alcune che hanno in sé la
loro virtù naturale, come gli occhi o le orecchie, altre invece che
collaborano all’uso di altre membra, come le gambe o le mani, così
anche fra le bestie ve ne sono alcune che hanno una loro sussistenza
naturale indipendente; ma per esempio ce ne sono di quelle come
l’arsella (pina) che sta dentro l’ampia valva della conchiglia e
quello che esce nuotando dalla conchiglia e si chiama pinotere
perché custodisce l’altra e quando si ritira si richiude dentro di
essa, sì che sembra quasi ammonirla ad essere cauta. Allo stesso
modo le formiche, le api, le cicogne compiono alcune operazioni a
vantaggio di altri. In senso molto più proprio ciò avviene fra gli
uomini; e perciò noi siamo per natura portati all’associazione, alla
società, alla convivenza politica.
SESTO EMPIRICO, Adv. ethicos, 130 = SVF III, 370
Erravano affermando così Pitagora e i suoi. Non è detto che, se vi è
un soffio vitale che percorre allo stesso modo noi e loro, ci sia
anche immediatamente una giustizia comune per noi e per gli animali
irragionevoli. Ecco che allo stesso modo si potrebbe dire che uno
stesso soffio vitale pervade noi e le pietre e le piante, sì che c’è
una unità fra noi e quelle; ma certo non abbiamo nessuna forma di
giustizia che riguardi le piante o le pietre, e se tagliamo e
seghiamo i loro corpi non commettiamo niente di riprovevole. E come
mai dunque gli Stoici dicono che c’è un vincolo di giustizia fra noi
reciprocamente e fra noi e gli dèi? Non in virtù del soffio vitale
che tutto pervade, perché in questo caso dovremmo anche ammettere
una giustizia comune fra noi e gli animali irragionevoli, ma solo in
virtù della ragione che si estende a noi tutti nei nostri rapporti
reciproci e alla divinità; proprio perché gli animali non
partecipano di questa non possono avere nessun rapporto giuridico
con noi.
FILONE ALESSANDRINO, De opificio mundi, 73, I, p. 24, 21 segg.
Wendland = SVF III, 372
Delle realtà che esistono alcune non sono partecipi né di virtù né
di vizio, come le piante e gli animali irragionevoli, le une perché
non hanno anima204 e sono rette da una natura che non consente loro
rappresentazioni, gli altri perché non è stato loro dato né
intelletto né ragione. Intelletto e ragione sono quasi la casa in
cui per natura risiedono la virtù e il vizio. Questi ultimi sono
infatti esseri viventi … e sono detti esseri viventi intellegibili…
Vi sono realtà di natura mista, come l’uomo, suscettibile … di virtù
e vizio.
PLUTARCO, De Stoic. rep., 11, 1037a = SVF III, 521
Il medico, dicono, ordina al proprio discepolo di tagliare e
bruciare, omettendo la frase «a tempo debito e con misura»; e il
musicante ordina al proprio discepolo di suonare e cantare,
omettendo la frase «con cura e con armonia»; per cui essi poi
puniscono chi ha fatto ciò male e contro le regole dell’arte: non
hanno eseguito rettamente comandi in cui era implicita la
prescrizione di eseguirli rettamente. Dunque anche il sapiente,
quando comanda di dire o fare qualcosa a un servo e poi non lo
punisca se non faccia ciò a tempo debito né rettamente, indica con
ciò chiaramente che sta comandando qualcosa di indifferente, non
un’azione retta; e se i sapienti comandano agli stolti cose
indifferenti, che cosa vieta che le comandi la legge?
PLUTARCO, De sollertia anim., 6, 963f = SVF III, 373
Gli Stoici e i Peripatetici a questo proposito portano i loro
discorsi a conclusioni opposte, poiché la giustizia non potrebbe
nascere e in ogni caso sarebbe vana e inesistente se tutti gli
esseri viventi partecipassero della ragione: se noi risparmiassimo
gli animali, o diventerebbe necessario compiere ingiustizia, oppure,
se non ce ne servissimo, la vita diventerebbe piena di difficoltà
fino ad essere impossibile, e in qualche modo, respingendo i
vantaggi che ci derivano dalle bestie, ci ridurremmo a vivere noi
stessi come le bestie205.
PLUTARCO, De esu carnium, II, 6, 999a = SVF III, 374
Non è uguale il contrasto con gli Stoici a proposito del mangiar
carne. Che cos’è questo eccesso di tensione verso i piaceri del
ventre e della gola? perché mai, dopo aver considerato il piacere
effeminato e averlo calunniato e averlo dichiarato né buono né
connaturato a noi, si danno poi tanta cura dei piaceri? Sarebbe
stato coerente alle loro premesse, così come dai simposii respingono
pesci prelibati e piatti raffinati, rifiutare ancor più la carne e
il sangue. Ed ecco invece che, facendo filosofia come se scrivessero
un libro dei conti, cancellano le spese relative a cose inutili e
superflue, ma non rifiutano la parte più crudele e sanguinosa del
lusso. «Sì, dicono, perché non abbiamo alcun rapporto giuridico con
gli esseri privi di ragione». Ma, potrebbe dire qualcuno, non lo
avete neanche con l’anguilla o con i condimenti esotici, e queste
cose le respingete, cacciando via ciò che non è né utile né
necessario al piacere.
FILONE ALESSANDRINO, De sacrif. Abel et Cain, 46, Ι, p. 220, 19
Wendland = SVF III, 375
In due forme per natura è l’irrazionale: l’una forma è quella che va
contro la ragione e le sue scelte, ed è chiamata stoltezza; l’altra
forma è quella che proviene da mancanza di ragione, e a questo tipo
appartengono quelli fra gli animali che chiamiamo irragionevoli.
IL SAPIENTE
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 117-131 = SVF III, 549, 556,
561, 588, 590, 606, 612, 617, 628, 631, 641-647, 649, 664.
Dicono che il sapiente è esente dalle passioni, per il fatto stesso
che è irreprensibile. Ma vi è anche un altro impassibile, lo stolto,
la cui impassibilità si può dire uguale alla durezza e all’aridità.
E il sapiente è anche privo di boria: si comporta indifferentemente
nei riguardi della fama e dell’oscurità. Anche in questo caso c’è un
altro tipo di mancanza di boria, ma che si addice a chi è
sconsiderato, e quindi si tratta di uno stolto. Dicono anche che
tutti i saggi sono austeri, in quanto non attendono al piacere di
per sé né si fanno indurre al piacere da altri; e c’è anche un altro
tipo di austero «che però si può dire simile a quel vino aspro di
cui ci serve per fare farmachi, ma non certo per il bere. I saggi
sono sinceri e si guardano dal voler apparire migliori di quel che
sono nascondendo ad arte i mali e mettendo in mostra i beni che
hanno. Sono immuni da finzione, e bandiscono del tutto la finzione
dalla voce e dall’aspetto. Non sono eccessivamente attivi206, perché
rifuggono dall’agire contro il dovuto. Bevono il vino ma non cadono
in ebbrezza; e non perdono la coscienza; se qualche volta può
avvenire ad uno di loro che cada, per via di una rappresentazione
assurda, in stato di malinconia o delirio, ciò non avviene in base
alla ragione che compie le scelte, ma contro natura. Né il sapiente
potrà mai essere affetto da afflizione, per il fatto che la
afflizione è una contrazione irrazionale dell’anima, come dice
Apollodoro nell’Etica.207
I sapienti sono divini: è infatti in loro qualcosa di divino. Invece
lo stolto è ateo; e si dice ateo in due modi, in primo luogo nel
senso di contrario alla divinità, in secondo luogo nel senso di chi
disprezza la divinità: ma questo non si addice in verità ad ogni
stolto. I buoni sono pii: sono infatti esperti delle leggi relative
agli dèi, e la pietà religiosa è scienza del servizio divino. Perciò
essi sacrificheranno agli dèi e praticheranno la santità; infatti
rifuggono dal commettere colpe contro gli dèi. E gli dèi li amano
perché essi sono santi e praticano il giusto riguardo a ciò ch’è
divino. Sacerdoti sono solo i sapienti, perché sono ben edotti a
proposito di sacrifici, costruzioni di templi, purificazioni e tutte
le altre cose proprie del culto divino.
Ritengono che si debbano venerare i genitori e i fratelli al secondo
posto dopo gli dèi: dicono che per essi anche l’amore verso i figli
è un fatto di ordine naturale e non può trovarsi negli stolti…
Dicono che il sapiente potrà esercitare l’attività politica se non
ne sarà impedito da qualche ragione, come dice Crisippo nel libro I
del Dei generi di vita; e sposarsi come dice Zenone nella
Repubblica, e generare figli. Il sapiente poi non dovrà avere
opinioni, cioè non assentirà mai ad alcuna cosa falsa. Potrà anche
comportarsi alla maniera dei cinici: il cinismo infatti, come dice
Apollodoro nell’Etica, è una via raccorciata verso la virtù. Se le
circostanze lo impongono, potrà anche mangiare carne umana. Egli
solo è libero, mentre gli stolti sono servi: la libertà è infatti
possibilità di agire autonomamente mentre la servitù è privazione di
ciò. Vi è anche un’altra servitù, che consiste nell’essere
subordinato a qualcuno, e una terza, che consiste nell’esser non
solo subordinato ma anche posseduto; e a questa si oppone la
condizione di padrone, che anch’essa è propria degli stolti. Ma i
sapienti non sono solo liberi, sono anche re, poiché la condizione
di re equivale a un comando che non è soggetto a rendiconto208, e
questo tipo di comando si trova solo fra i saggi… Similmente essi
sono anche capaci di gestire le cariche, di amministrare la
giustizia, di esercitare la retorica, mentre non lo è nessuno degli
stolti. E sono esenti da errori, per il fatto che non possono cadere
in errore. Sono anche esenti da danno; non possono infatti recar
danno né ad altri né a se stessi. Non sono suscettibili di
compassione né perdonano ad alcuno; non condonano infatti le pene
stabilite dalla legge, perché il cedere alla compassione, alla
misericordia, all’equità sono forme di pochezza d’animo che non sa
stare all’altezza della giustizia stabilita dalla legge; e non per
questo essi crederanno di essere troppo duri.
Inoltre il sapiente non si meraviglierà di nessuna di quelle realtà
che sembrano straordinarie, come le porte di Caronte209, o le maree,
o le sorgenti calde, o le eruzioni di vapore igneo. Il sapiente
tuttavia non vivrà nella solitudine: dovrà essere portato alla vita
in società e all’azione. Non rifiuterà di fare esercizi per rendere
forte il suo corpo. Pregherà, essi dicono ancora, chiedendo beni
agli dèi (così dicono Posidonio nel libro I del Sui doveri, ed
Ecatone nel libro III del Sui paradossi210). Dicono che l’amicizia
può sussistere solo fra i saggi, per la loro somiglianza; dicono che
infatti sono ad essi comuni le cose che servono alla vita e che essi
si comportano nei riguardi degli amici come nei riguardi di se
stessi. Per questo ritengono che l’amico sia fra le realtà
desiderabili e che aver molti amici sia un bene. Tra gli stolti non
può esservi amicizia, né uno stolto è mai amico di un altro; non
sono persone dotate di senso, infatti, e compiono tutto in base a
uguale follia, derivante dalla loro stoltezza. Ma il sapiente fa
bene tutto ciò che fa, così come diciamo che Ismenia suonava bene
tutte le musiche da flauto. E tutto appartiene ai sapienti: è data
infatti ad essi dalla legge piena signoria su tutto. Degli stolti
invece sono solo alcune cose, allo stesso modo che degli ingiusti; e
altre cose diciamo che sono della città, altre di quelli che le
usano.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5b pp. 65, 12, 68, 22 passim Wachsmuth = SVF
III, 557, 560, 604, 654, 660, 663
Dicono che il sapiente fa bene tutto ciò che fa secondo tutte le
virtù: ogni sua azione è perfetta, perché nessuna virtù gli manca…
Dicono che il sapiente fa bene tutto ciò che fa, e ciò è chiaro.
Così come diciamo che il flautista o il citaredo fa bene tutto
quello che fa se intendiamo che l’uno fa bene tutto ciò che riguarda
il flauto e l’altro tutto ciò che riguarda la cetra, allo stesso
modo diciamo che tutto fa bene l’uomo saggio, sia le cose che fa,
per Zeus, sia quelle che non fa. Ritennero infatti che al saper
compiere ogni cosa secondo retta ragione e come secondo virtù, che è
arte che riguarda tutto il vivere, sia conseguente il principio che
il sapiente fa bene tutto ciò che fa. Analogamente si dovrà dire che
lo stolto fa male tutte le cose, in quanto le fa secondo tutti i
vizi… Dicono che solo il sapiente è sacerdote, e nessuno stolto può
esserlo. Infatti chi è sacerdote deve essere esperto delle norme che
riguardano i sacrifici e le preghiere, le purificazioni, le
costruzioni dei templi e tutte le cose simili a queste; inoltre egli
deve avere santità e pietà ed esperienza del culto da tributarsi
agli dèi, e di come saper entrare nei segreti della natura divina.
Nulla di tutto questo è pertinente allo stolto, perché tutti gli
stolti sono anche empii. L’empietà è un vizio, in quanto è ignoranza
del culto divino; mentre la pietà, come già si è detto, è scienza
del culto da tributarsi agli dèi. Dicono anche che solo il sapiente
è buon indovino, poeta e retore e dialettico e critico, egli è non
un uomo qualsiasi, per il fatto che per queste cose occorre avere
certi principi teorici di comprensione. Dicono che la mantica è
scienza teorica dei segni che, dati da dèi o da dèmoni, si
riferiscono alla vita umana; similmente si può dire per le specie
della mantica… Similmente dicono che gli stolti non possono essere
santi. La santità si definisce come giustizia nei riguardi degli
dèi: ma gli stolti trasgrediscono molti dei doveri di giustizia nei
riguardi degli dèi, per cui sono privi di santità, impuri, empii,
corrotti, funesti, Dicono che il celebrare le feste è proprio di chi
è buono, essendo la festività il tempo in cui si deve rendere onore
al divino secondo il rito conveniente, sì che colui che celebra la
festa deve porsi in una simile disposizione di pietà.
… Dicono inoltre che tutti gli stolti sono pazzi, non avendo
coscienza di sé né di ciò che è pertinente a sé, il che equivale a
follia. L’ignoranza è il vizio opposto alla saggezza; essa, poiché
rende gli impulsi instabili e agirati in relazione a qualcosa211, è
una forma di follia; e infatti essi definiscono la follia: ignoranza
con agitazione.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11b-d, pp. 93-96 Wachsmuth = SVF III, 625,
611, 623, 640, 613
Dicono che tutti i beni dei saggi sono 〈comuni〉212 per cui chi fa un
beneficio a qualcuno dei vicini fa anche un beneficio a se stesso.
La concordia è scienza dei beni comuni; per cui tutti i saggi sono
concordi fra di loro, per il fatto che sono in reciproca armonia
nelle cose che riguardano la vita, mentre gli stolti sono in
discordia reciproca e nemici fra loro e si fanno reciprocamente del
male e si avversano… Dicono che il giusto è per natura e non per
posizione. Ne consegue che il sapiente debba fare attività politica
e soprattutto in quelle città che dimostrano una possibilità di
progredire verso la costituzione perfetta; e debba anche legiferare,
ed educare gli altri uomini; dicono anche è conveniente all’uomo
saggio anche lo scrivere in leggi le cose che possono portare
giovamento a quelli che gli si trovino intorno, e anche
l’acconsentire alle nozze e alla generazione dei figli, per se
stesso e per la patria; e che per quest’ultima, purché essa sia
temperata, dovrà sopportare sofferenze e la stessa morte. Sono
contrapposte a queste azioni malvagie come il cercare il favore
popolare, il praticare arte sofistica, lo scrivere leggi dannose a
chi ci sta intorno; cose tutte che non potrebbero mai trovarsi nei
buoni.
… Dicono che solo l’uomo saggio è buon amministratore e atto a
gestire ricchezze. La scienza dell’economia è un abito teorico e
pratico circa le cose che giovano alla casa, e l’economia è buon
ordine circa le spese, le opere, la cura dei propri beni, dei lavori
dei campi; il saper gestire ricchezze è arte dell’acquisto di beni
ottenuto con mezzi leciti e con risparmio e spesa in vista del
benessere; questa capacità è detta da alcuni un valore intermedio,
mentre altri lo ritengono un bene213. Nessuno stolto può essere buon
capo di casa, né può offrire l’esempio di una casa ben diretta. E
solo l’uomo saggio può essere buon gestore di ricchezze, poiché sa
con che mezzi si debba farlo, e quando, e come, e fino a che punto…
Dicono che 〈l’uomo di senno〉 non deve perdonare 〈nessuno: è proprio
dello stolto perdonare〉214 e ritenere che chi pecca non pecca per
sua colpa, mentre invece tutti peccano per il vizio ch’è loro
proprio: ragion per cui si deve affermare che non si deve perdonare
a chi pecca. Dicono che l’uomo buono non deve essere equo,
perché l’uomo equo si lascia convincere a non applicare la
punizione che a ciascuno spetta; e che è proprio dello stesso essere
equo e trascurare le punizioni stabilite dalla legge per chi ha
commesso il male, ritenendo che siano troppo rigide, e credere che
il legislatore abbia comminato pene che vanno al di là di quanto si
è commesso… Dicono che la legge è cosa buona, essendo un discorso
retto che comanda ciò che si deve fare e vieta ciò che non si deve
fare. Poiché la legge è cosa buona, buono è anche colui che si
attiene alle leggi: secondo le leggi è l’uomo che segue queste
e compie ciò che esse ordinano; esperto del diritto è chi interpreta
la legge. Né secondo la legge né esperto di legge può essere nessuno
che sia stolto.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11g-i, pp. 99-103 Wachsmuth = SVF III, 567,
589, 587, 593, 626, 563
E l’uomo saggio, che nelle sue azioni si vale dell’esperienza del
vivere, fa tutto bene, in quanto agisce con saggezza e temperanza e
secondo tutte le altre virtù; mentre lo stolto compie tutte le cose
male per le ragioni contrarie. Il saggio è grande, poderoso, alto,
forte: grande perché può arrivare a tutto ciò che vuole e che si è
proposto; poderoso perché è cresciuto bene da ogni parte; alto
perché partecipa di quell’altezza che è propria dell’uomo bennato e
sapiente; forte perché dispone della forza a lui pertinente, tale da
renderlo invincibile e senza rivali. Per queste ragioni non può
subire costrizione da parte di alcuno né costringere altri, né avere
impedimenti né impedire altri, né sottostare a violenza né farne, né
comportarsi da padrone né subire un padrone, né far del male a
qualcuno né essere oggetto di male, né incidere in guai 〈né farvi
incidere un altro〉215, né essere ingannato né ingannare, né mentire,
né ignorare, né c’è nulla di cui non si accorga e nessuna cosa in
generale che supponga falsamente; è felice al sommo grado,
fortunato, beato, ricco, pio, amante degli dèi, pieno di dignità, e
inoltre capace di essere re, stratego, uomo politico, buon
amministratore, buon mercante. Agli stolti sono pertinenti le
caratterizzazioni opposte… In generale ai saggi sono pertinenti
tutti i beni, e agli stolti tutti i mali. Non si deve credere che
essi dicano così nel senso che se vi sono dei beni questi sono
appartenenti ai buoni (e similmente riguardo ai mali); ma nel senso
che quelli hanno tanti beni quanti ne sono sufficienti in vista
della vita perfetta 〈e felice〉216, questi altri hanno tanti mali da
rendere la loro vita misera e infelice… Dei beni nessuno compete
agli stolti, poiché il bene è o virtù o ciò che partecipa della
virtù: quelle cose che si accompagnano ai beni, che sono quelle che
bisogna avere, in quanto sono vantaggi, toccano in sorte solo ai
buoni, così come le cose che si accompagnano ai mali, e che sono
quelle che non bisogna avere, toccano solo ai cattivi. Per questo i
buoni sono esenti dal danno nei due sensi, non sono suscettibili di
riceverne né capaci di farne, mentre gli stolti tutt’al contrario.
Dicono che quella ricchezza che è tale secondo verità è un bene,
come è un male quella povertà che è tale secondo verità; e che la
libertà che è tale secondo verità è un bene, come è un male quella
che è la vera servitù; perciò l’uomo saggio è il solo che sia ricco
e libero, mentre lo stolto all’opposto è povero, poiché è privato di
quello che è il punto stesso di partenza per poter essere ricco; ed
è servo per la disposizione ad errare che c’è in lui stesso. Tutti i
beni sono comuni dei buoni, come dei cattivi i mali. Perciò chi
giova a un altro giova anche a se stesso, chi danneggia un altro
danneggia anche se stesso. Tutti i buoni si recano giovamento a
vicenda, sì che, anche se non possono esser tutti reciprocamente
amici o benefattori o ben noti o accetti per il fatto che non
abitano nello stesso luogo, tuttavia sono benevolmente disposti nei
reciproci confronti, e amichevolmente, e in certo quale modo si
conoscono e si accettano a vicenda; mentre gli stolti si trovano
nella posizione opposta a questa.
Essendo la legge cosa buona, come abbiamo detto, dal momento che è
discorso retto che comanda ciò che si deve fare e vieta ciò che non
si deve, solo il sapiente dicono che è secondo le leggi, in quanto
fa le cose che la legge comanda, e solo è interprete di essa, per
cui è esperto di diritto; mentre gli stolti sono il contrario di
ciò. Ai buoni attribuiscono anche la capacità di dirigere come capi
e le specie di questa, il regno, la strategia, l’arte del nocchiero
e quelle simili a queste. In base a ciò solo il saggio comanda, se
non sempre in atto, sempre tuttavia in ogni caso in quanto alla sua
disposizione217. E solo è anche capace di obbedire, essendo capace
di seguire chi comanda. Degli stolti nessuno è tale: lo stolto non è
capace né di comandare né di sottostare al comando, essendo spavaldo
e indocile.
… Tutto bene fa l’uomo che ha senno, e con saggezza, con continenza,
con compostezza e buon ordine, valendosi di continuo delle
esperienze circa il vivere. Invece lo stolto, essendo inesperto di
quest’uso, fa tutto male, agendo secondo la disposizione che gli è
propria, essendo proclive all’errore e soggetto a pentimento
riguardo a tutte le cose. Il pentimento è dolore che sopravviene in
base ad azioni compiute che si ritengono errate, ed è una passione
dell’anima infelice ed agitata; in quanto ci si tormenta nel
pentimento per fatti avvenuti, ci si adira contro se stessi come
causa di questi: perciò ogni stolto è anche disprezzato, in quanto
indegno di onore e privo di pregio. L’onore è infatti l’essere
stimato degno di pregio; il premio è la ricompensa della virtù
beneficante. Chi non partecipa della virtù a ragione è disprezzato.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11m, pp. 108-109 Wachsmuth = SVF III, 617,
656, 630
Il saggio, essendo proclive alla compagnia, affabile, atto
all’esortazione, buono a procacciarsi benevolenza e amicizia nei
rapporti umani, è al più alto grado ben disposto verso la
moltitudine, per cui è anche piacevole, amabile, grazioso,
credibile, inoltre anche cortese, accorto, opportuno, perspicace,
sicuro, parco, semplice, sincero; mentre chi è stolto è in preda a
tutti i vizi opposti. Dicono che l’ironia è propria degli stolti:
nessuno infatti che sia libero e saggio fa dell’ironia; e similmente
si può dire del sarcasmo, che è un fare ironia con un certo scherno.
Ammettono l’amicizia solo fra i saggi, poiché solo fra questi c’è
concordia circa le cose della vita: la concordia è poi la scienza
dei beni comuni. L’amicizia vera e non tale solo di nome non può
sussistere senza fiducia e sicurezza: tra gli stolti, che sono
infidi e insicuri, e hanno opinioni in contrasto fra loro, non c’è
amicizia; ma solo certe altre relazioni reciproche e certi legami
estrinseci tenuti insieme da costrizione e da opinioni. Dicono che
anche l’amore e l’aver rapporti affettuosi e teneri è proprio solo
dei saggi. E dicono che solo il sapiente è re e capace di regnare,
mentre non lo è nessuno degli stolti: il regno è un comando non
soggetto a rendiconto, al grado più alto e sopra tutti gli altri…
Dicono che l’uomo saggio è anche ottimo medico di se stesso: avendo
cura della propria natura, è buon conservatore di sé e sapiente
circa le cose che possono essere utili alla salute.
E dicono che chi ha senno non si ubriaca; l’ubriachezza è infatti
colpevole, forma di delirio derivata dal troppo vino, e nessun
saggio si trova in colpa, per il fatto che compie tutto secondo
virtù e retta ragione… E dicono che il sapiente non compie azioni
tracotanti; non è soggetto ad esse né le compie, giacché la
tracotanza è una ingiustizia e un danno che porta vergogna; ma il
saggio non può sottostare né ad ingiustizia né a danno; può solo
succedere che alcuni si comportino con lui in maniera ingiusta e
tracotante, e in questo caso sono quelli a commettere ingiustizia.
Inoltre bisogna dire che un torto occasionale non può dirsi
tracotanza vera e propria: è tracotanza quella che porta vergogna ed
è fatta con reale intenzione di compierla. Chi ha senno non potrà
mai cadere in azioni del genere né mai in nessun caso nella
vergogna: in sé ha infatti il bene e la virtù divina, per cui è al
di fuori di ogni vizio o danno.
STOBEO, Ecl., II, 7, 11 m-n, p. 111-113 Wachsmuth = SVF III,
548
Non mentirà mai il saggio, ma sempre dirà il vero. Il mentire
infatti non consiste nel dire una menzogna, ma nel dirla con
l’intento preciso di mentire e ingannare il prossimo. Essi dicono
che talvolta il sapiente potrà anche valersi, e in più modi, di una
menzogna, senza dare ad essa il suo assenso; così per esempio nella
strategia contro gli avversari, e prevenendo ciò che può essere
utile, e in varie altre forme della condotta razionale della
vita218. Ma il sapiente non può concepire nulla che sia falso, né
mai dare il suo assenso a qualcosa di non effettivamente compreso,
giacché egli non è soggetto ad opinione né ad ignoranza.
Quest’ultima, infatti, consiste in un assenso fallibile e debole. Ma
il sapiente non fa supposizioni deboli, al contrario ha conoscenza
sicura e salda, e perciò si può dire che non ha opinioni. Di due
tipi sono le opinioni, o assenso dato a ciò che non si è
effettivamente compreso, o supposizione debole; in entrambi i casi
sono estranee all’abito che è proprio del sapiente; per cui
l’asserire affrettatamente è cosa stolta e non può aver luogo
nell’uomo di buona natura, perfetto e saggio. Né a lui sfugge
niente: il lasciarsi sfuggire qualcosa è infatti supposizione che
rivela la falsità dell’oggetto. Conseguentemente, non è mai
incredulo: l’incredulità è supposizione che qualcosa sia falso,
mentre la fiducia è cosa buona; è infatti comprensione sicura, che
conferma ciò che si era supposto. Allo stesso modo è la scienza
stessa, che è tale da non lasciarsi rovesciare da ragionamento; e
per questo essi dicono che lo stolto non può sapere veramente nulla,
né aver fiducia in nulla.
Si riconnette a tutto questo il dire che il sapiente non vaneggia,
né si fa raggirare o ingannare, né fa o subisce alcuna frode
(l’inganno comprende in sé tutte queste cose, e, di volta in volta,
il consenso a più tipi di menzogna). Dicono che nessuno degli uomini
buoni sbaglia strada, o casa, o scopo; non credono nemmeno che il
sapiente possa ingannarsi nella vista, o nell’udito, o in generale
in nessuno dei suoi atti sensoriali (sono solo i sensi che di per sé
non passibili di assenso a false rappresentazioni). Dicono che il
sapiente non fa supposizioni: le supposizioni, infatti, sono assenso
a qualcosa che non si è veramente compreso. E dicono che chi ha
senso non si pente mai: infatti il pentimento non è possibile senza
un atto di consenso errato nel quale si sarebbe caduti
precedentemente. Il sapiente non subisce mutamento in alcun modo,
non cambia la sua posizione, non cade in errore: queste son tutte
cose che accadono a coloro che cambiano di opinione, il che è
estraneo a chi ha senno: come si è già detto, non c’è nulla che a
lui solamente «sembri».
STOBEO, Ecl., II, 7, 11. q-s, pp. 114-116 Wachsmuth = SVF III,
601, 602, 605, 638, 564, 632, 650, 648
Dicono che solo l’uomo buono ha buoni figli, e non l’uomo volgare;
chi ha buoni figli deve valersi di essi, infatti, come tali. E solo
l’uomo saggio ha una buona vecchiaia e fa una buona morte; avere una
buona vecchiaia vuol dire passar l’ultima parte della propria vita
nella virtù secondo un certo modo di esser vecchi, fare una buona
morte vuol dire morire di un certo tipo di morte in stato di virtù.
Dicono che le cose possano dirsi, per l’uomo, di volta in volta
apportatrici di salute o di malattia, in quanto o nutritive o causa
di dissoluzione e di arresto e altre cose consimili. Apportatrici di
salute sono quelle che per natura sono tali da produrre o mantenere
la salute; apportatrici di malattia quelle che producono l’effetto
contrario. Simile è anche il discorso relativo alle altre cose.
Dicono che solo il sapiente è buon indovino, in quanto possiede la
scienza che lo fa capace di distinguere i sogni che, provenendo
dagli dèi o dai démoni, si riferiscono alla vita degli uomini. Al
saggio perciò si devono ricondurre le varie specie dell’arte
divinatoria, come l’esame dei sogni, la divinazione mediante il volo
degli uccelli, la divinazione sacrificale e tutte le altre possibili
forme simili a queste.
Dicono che ogni uomo di animo nobile è incapace di calunniare, così
come è inattaccabile dalla calunnia; è estraneo alla calunnia in tal
modo, giacché egli stesso non calunnia alcuno. La calunnia è una
discordia fra presunti amici per via di un discorso menzognero; ma
ciò non si verifica presso i buoni, solo gli stolti calunniano e
sono calunniati; perciò a quelli che sono amici in vero senso non
avviene di esser soggetti alla calunnia, mentre lo sono gli amici
presunti e apparenti.
Dicono che il saggio è austero, in quanto non rivolge ad alcuno, né
accetta da altri, discorsi che siano puramente gradevoli219. Dicono
anche che il sapiente farà professione di cinismo per quel tanto che
il cinismo ha di uguale alla costanza220; ciò non vuol dire che, per
il fatto di esser sapienti, si debba dar luogo ad un atteggiamento
di tipo cinico.
Dicono che al sapiente non succede nulla che vada contro la sua
tendenza, o il suo impulso, o la sua intenzione, per il fatto che
egli compie ogni sua azione in base a scelta autonoma, e nessuna
delle cose in cui incide lo coglie privo di anticipazione
conoscitiva.
Dicono che è mite, intendendosi per mitezza un abito in base al
quale ci si comporta mitemente nel compiere tutto ciò che si deve,
né mai si è trasportati da ira contro qualcuno. E che è pacifico e
composto, la compostezza essendo scienza dei moti convenienti e
l’esser pacifici una disposizione ben ordinata riguardo ai moti
dell’anima e del corpo (mentre negli stolti si verifica in ogni caso
il contrario di tutto questo).
Il sapiente poi non differirà nulla: infatti il differire significa
rimandare Fattività per esitazione; alcune cose tuttavia è lecito
differirle, non essendo il differimento colpevole di per sé.
Ripetono, a proposito del differire, quel detto di Esiodo: «non
rimandare al domani né al posdomani»221, o l’altro: «l’uomo che
indugia lotta con le sciagure»222; l’indugio, infatti, provoca una
perdita di azioni che converrebbe compiere.
ORIGENE, In Ioannis Evang., II, 10, p. 72, 29 segg. Preuschen = SVF
III, 544
Fra i Greci vi sono alcuni princìpi detti paradossi, che
conferiscono una gran quantità di proprietà a chi è sapiente secondo
la loro dottrina, con dimostrazione o con una supposta
dimostrazione. In base a questi dicono che il sapiente soltanto è
sacerdote, per l’avere egli solo scienza del culto divino; e che
soltanto il sapiente è libero, poiché attinge la facoltà di agire
autonomamente dalla legge divina: definiscono poi tale facoltà un
potere fondato sulla legge.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 157 = SVF III, 550
Il sapiente non appartiene a coloro che opinano; l’opinare è infatti
presso di loro causa di stoltezza e di errore.
CICERONE, Acad. pr., II, 48 = SVF III, 551
… soprattutto dal momento che voi (Stoici) dite che il sapiente
quando è irato sì astiene da ogni assenso, poiché nelle sue
rappresentazioni non vi è nulla di chiaro.
AGOSTINO, Soliloquia, I, 4, 9, P.L. XXXII, col. 874 = SVF III, 552
Dunque non esiti a chiamare scienza lo studio di tali cose, se in
qualche modo lo pratichi? No, purché me lo permettano gli Stoici,
che attribuiscono la scienza al solo sapiente e a nessun altro. Non
nego di avere la percezione di queste cose, il che essi ammettono si
possa trovare anche nello stolto.
LATTANZIO, Div. inst., III, 4, p. 184 Brandt = SVF III, 553
Giustamente dunque Zenone e gli Stoici hanno ripudiato l’opinare. Il
credere infatti di sapere ciò che non si sa, è proprio non del
sapiente, ma piuttosto di chi è temerario e stolto. Se dunque non si
può sapere nulla, come ritenne Socrate, né bisogna opinare, come
ritenne Zenone, ogni filosofia viene soppressa.
QUINTILIANO, Inst. Orat., XII, 1, 38 = SVF III, 555
Ma per prima cosa mi devono tutti concedere quello che ammettono
anche i severissimi Stoici, che qualche volta può avvenire che anche
l’uomo buono dica qualcosa di falso, e in verità per cause talvolta
di poco peso: così come diciamo molte bugie ai bambini ammalati per
il loro bene o promettiamo molte cose che poi non faremo;
soprattutto se si tratti di distogliere un predone dall’uccidere un
uomo oppure di ingannare il nemico per la salvezza della patria; sì
che in questo caso ciò che sarebbe da biasimarsi anche in uno
schiavo diventa da lodarsi, per altre ragioni, nel sapiente.
FILONE ALESSANDRINO, De praemiis et poenis, 112, V, p. 362, 1 segg.
Cohn = SVF III, 558
Così il saggio non lascia alcun giorno vuoto e aperto all’ingresso
del vizio, ma lo riempie di cose nobili e virtuose in tutte le sue
parti e i suoi intervalli. La virtù e il decoro si giudicano non in
base alla quantità, ma alla qualità: perciò essi pensavano che anche
un solo giorno condotto nella rettitudine sia pari a un’intera bella
vita di sapiente… Il saggio è lodevole in tutte le sue azioni e in
tutti i suoi atteggiamenti, interiori ed esteriori, sia egli
politico o amministratore: più simile all’amministratore della casa
se compie azioni rette interiormente, più simile al politico se
compie esteriormente azioni utili e rette.
DIONE CRISOSTOMO, Orat. LXXI, 5, II, p. 182 Arnim = SVF III, 562
Io dico che il sapiente non è possibile sappia tutte quante le arti
(è già difficile infatti esercitarne anche una sola con esattezza),
ma che sa fare tutte le cose meglio di ciò che uno qualsiasi degli
altri uomini faccia bene a caso; e così anche nel campo delle arti,
se per necessità si trovi a doverne esercitare qualcuna, anche se
non eserciti quell’arte come sua professione specifica… Anche se non
è verosimile pensare che un inesperto eserciti la falegnameria
meglio del falegname di professione, o chi non è esperto di
agricoltura possa poi apparire nell’esercitarla più esperto di chi
la coltiva espressamente, … tuttavia in che cosa il primo sarà
superiore all’altro? Nel saper fare le cose in modo giovevole, e
quando bisogna, e dove bisogna, nel conoscere il tempo opportuno e
il possibile meglio di quanto non sappia l’artigiano.
SENECA, De benef., IV, 34 = SVF III, 565
Il sapiente non cambia parere, purché permangano tutte quelle
condizioni che esistevano quando ha cominciato ad agire. Perciò egli
non è soggetto a pentimento, perché nel periodo successivo rispetto
a quello dell’azione non è possibile che sia emerso qualcosa di
meglio di ciò che ha fatto, o che si possa decidere meglio di quanto
allora non si sia deciso. Del resto il sapiente si accinge a tutto
con una riserva: se non avverrà niente, che impedisca. Per questa
ragione diciamo che tutto gli riesce: perché ha già nel suo animo la
presupposizione che possa intervenire qualcosa che impedisca ciò che
egli ha deciso.
FILONE ALESSANDRINO, Quod deus sit immut., 22, II, p. 61, 1 segg.
Wendland = SVF III, 566
E tuttavia alcuni ritengono che non tutti gli uomini siano incerti
nelle loro opinioni. Ritengono infatti che quelli che esercitano la
filosofia con sincerità e purezza abbiano trovato questo gran bene
derivato dalla scienza, di non poter mai cambiare col cambiare delle
circostanze, ma di por mano a tutte le cose convenienti con
sicurezza immutabile e solida certezza.
AEZIO, Plac., IV, 9, 17, Dox Gr., p. 398 = SVF III, 568
Gli Stoici dicono che il sapiente si può riconoscere in modo
irrefutabile alla sensazione dal suo solo aspetto.
PLUTARCO, De comm. not., 11, 1064a = SVF III, 762
E dicono che ad Eraclito e a Ferecide223 sarebbe convenuto, se lo
avessero potuto, abbandonare la loro virtù e la loro saggezza per
poter cessare dalla pediculosi e dalla idropisia; e se Circe
versasse due filtri, quello che fa diventare, da saggi che si era,
folli e quello che fa diventare, da uomini che si era, asini, ma
conservando il senno, sarebbe stato meglio per Odisseo bere il
filtro della follia piuttosto che mutare il suo aspetto in quello di
una fiera, pur conservando il senno (e con esso, evidentemente,
anche la felicità). Dicono che la saggezza prescrive e comanda:
«lasciami andare, disprezzami, poiché mi sono perduta e pervertita
in aspetto di asino».
LATTANZIO, Div. inst., V, 11, p. 433 Brandt = SVF III, 762
Egregiamente dice Marco Tullio224: «se non vi è nessuno che non
preferisca morire piuttosto che esser tramutato in forma ferina, pur
avendo ancora intelletto umano: quanto non sarà più miserando
l’essere di animo degno di fiera in aspetto umano? Mi sembra che lo
sia di tanto, quanto l’anima è superiore al corpo».
CICERONE, Tusc disp., III, 6-8, 14-18 = SVF III, 570
In primo luogo … facciamo a mo’ degli Stoici, che sono soliti
restringere le loro argomentazioni in frasi concise… Chi è forte, è
anche fiducioso … ma chi è fiducioso, certamente non teme: l’aver
fiducia è tutto il contrario dell’aver timore. Ma chi è suscettibile
di afflizione, lo è anche di timore: le stesse cose che ci
affliggono se presenti, sono quelle che temiamo quando le crediamo
imminenti o future. E perciò di necessità l’afflizione è in
contrasto con la fortezza; ed è dunque verosimile che colui in cui
può trovarsi la tristezza possa esser anche soggetto a timore, e
perdita d’animo o depressione. Quello in cui possono trovarsi simili
stati è tale che potrà anche avere animo servile, e potrà
all’occorrenza confessarsi vinto; chi è suscettibile di tutto
questo, lo è anche di incapacità e di viltà. L’uomo forte non può
essere soggetto a tutto questo; l’afflizione quindi non può trovarsi
nel sapiente.
Inoltre, necessariamente, chi è forte è anche di grande animo, e chi
è magnanimo è anche invitto; ma chi è invitto disprezza le cose
umane e le considera al di sotto di sé. Nessuno però può disprezzate
quelle cose a causa delle quali può essere oppresso da dolore; ciò
significa che nessun uomo forte potrà mai esser oppresso da dolore;
e quindi tutti i sapienti sono forti; e quindi l’afflizione non può
trovarsi nel sapiente. E così come l’occhio, se perturbato, non può
fungere rettamente al suo ufficio, e tutte le altre parti del corpo
e il corpo stesso nel suo insieme, se si allontanano dal loro stato
naturale, mancano al loro dovere e compito, così un animo che sia
perturbato non è atto a compiere l’ufficio che gli è proprio. E
compito specifico del’anima quello di usare rettamente della
ragione; e perciò l’anima del sapiente è sempre disposta in maniera
tale da saper usare della ragione nel modo migliore; mai quindi è
perturbata. Ma l’afflizione è una perturbazione dell’anima: sempre
dunque il saggio ne sarà esente.
… La frugalità … contiene in sé anche le altre virtù… Sembra infatti
sua proprietà il dominare e calmare i moti dell’anima nelle loro
appetizioni, e, opponendosi al desiderio, sempre conservare una
misurata costanza in ogni cosa: il vizio ad essa contrario si chiama
nequizia… Chi dunque è frugale, o, se preferisci, moderato e
temperante, deve di necessità essere anche costante; chi è costante,
è anche tranquillo; chi è tranquillo, è esente da ogni perturbazione
e quindi anche dall’afflizione. Perciò l’afflizione sarà estranea al
sapiente… Forse si può dire che una mano, quando si gonfia, è in
condizione normale, oppure non si dirà che un membro che è tumido ed
enfiato è in stato anormale? Allo stesso modo anche un animo enfiato
e tumido è nel vizio. Ma l’anima del sapiente è sempre libera dal
vizio, mai si gonfia, mai ribolle; questo stato d’animo è proprio di
chi è irato. Ma il sapiente non è mai irato; perché se si adira
significa che desidera qualcosa; è proprio di chi è irato il
desiderare che soffra grandi dolori colui che crede averlo offeso; e
chi desidera così necessariamente dovrà aver gran gioia se ottenga
ciò, il che vuol dire che esulterà del male altrui; e poiché tutte
queste cose non possono verificarsi nel sapiente, necessariamente il
sapiente non è soggetto all’ira. Se egli fosse soggetto
all’afflizione, sarebbe soggetto anche all’ira; ma se è estraneo a
questa, sarà anche estraneo all’afflizione. E se il sapiente potesse
cadere in stati di afflizione, potrebbe cadere anche in stati di
compassione o di invidia… Così come la compassione è afflizione per
la sventura di un altro, così l’invidia è afflizione per la fortuna
di un altro; e chi è soggetto a invidia, lo è anche a compassione.
Ma il sapiente non è soggetto a invidia, quindi neanche a
compassione; ed è quindi alieno dalla sofferenza.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et. solut. in Gen., IV, 73, p. 302
Aucher = SVF III, 571
In chi non conosce alterazione non ci può esser luogo per il pianto;
ma la sapienza, così come tutta la virtù, non è passibile di
alterazione. Si subisce afflizione riguardo a quelle cose che si
potrebbero avere ma tuttavia mancano. In verità bisogna adoperare
ogni cura per avere ciò che fa sì che il sapiente non abbia pianto
né lamento … infatti le cose che si verificano all’improvviso e che
ci sollecitano indipendentemente dalla nostra volontà urgono e fanno
cadere l’uomo di mente debole, ma quanto all’uomo forte, pur se
cercano di deprimerlo con il loro urto, quest’ultimo tuttavia non
riesce ad esser tale da arrivare a raggiungere il suo fine: respinte
da chi è padrone della sua volontà con la più gran forza, sono
costrette a retrocedere.
AGOSTINO, De vita beata, 25 = SVF III, 572
Nessuno dubita, io dico dunque, che è in condizioni di infelicità
colui che ha bisogno; né ci spaventano alcune cose che sono
necessarie anche al corpo del sapiente; questi, infatti, non ha
bisogno di esse nell’anima, in cui è riposta la felicità della vita.
Egli è infatti perfetto, e nessuno che sia perfetto ha bisogno di
qualcosa; e ciò che gli sembri esser necessario al suo corpo lo
accetterà se sia a disposizione; ma se non lo sia non potrà
abbatterlo la mancanza di simili cose. Infatti chiunque sia sapiente
è anche forte, e nessuno che sia forte teme alcunché; dunque il
sapiente non avrà timore della morte fisica o dei dolori, per
cacciar via o evitare i quali occorrono quelle cose di cui egli
potrebbe trovarsi a mancare. Tuttavia, se queste cose non gli
mancano, non verrà meno al dovere di saperne usare bene…225 Egli
eviterà la morte e il dolore per quanto può e per quanto è
conveniente; ma se non avrà potuto evitarli non sarà infelice per il
fatto che gli avvengono certe cose, ma perché non ha voluto evitarle
quando gli sarebbe stato possibile, il che è segno manifesto di
stoltezza. Non evitando simili cose, non sarà infelice per averle
dovute subire, ma per la sua stoltezza. Tuttavia, se non sarà
riuscito ad evitarle pur avendo messo ogni sua cura e diligenza
nell’adoperarsi a ciò, il loro irrompere nonostante tutto non sarà
sufficiente a renderlo infelice…226. Ciò che egli capisce che non
può accadergli, non può neanche volerlo: la sua volontà verte
intorno a cose certissime, cioè egli vuole agire in ogni cosa
secondo la prescrizione della virtù e di quella legge di sapienza
divina che non possono in alcun modo venirgli tolte227.
SENECA, De beneficiis, II, 18 = SVF III, 573
Bisogna che tante volte io ricordi che non sto parlando di quei
sapienti ai quali piace tutto ciò che è anche necessario, che
dominano completamente il loro animo e si dànno la legge che
vogliono, e sono fedeli a quella che si sono data.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 13, 42228
Può esserci qualcosa di più certo del ragionamento per cui quelli
che pongono il dolore fra i mali affermano che il sapiente non può
esser felice se torturato sul cavalletto? mentre quelli che
ritengono che il dolore non sia un male devono di necessità
affermare che la vita felice per il sapiente viene salvata anche in
mezzo ai peggiori tormenti.
Commenta Lucani, IX, 569, p. 304 Usener = SVF III, 575
Nessuna violenza può portare mutamento nel sapiente; né lo sgomenta
la sorte che gli faccia perdere o acquisire alcunché: egli subisce
volentieri ciò che la sorte nemica gli porti. Gli Stoici negano che
il sapiente possa esser colpito da mali.
LATTANZIO, Div. inst., V, 13, pp. 441-442 Brandt = SVF III, 577
Questa è la vera virtù, che anche i filosofi esaltano dandosi vanto
non di cose ma di parole vuote e disputando sul fatto che nulla è
tanto coerente alla gravità e alla costanza dell’uomo sapiente
quanto il non poter essere distolto dal proposito che sta nella sua
mente con qualsiasi mezzo che incuta spavento; ma egli è da tanto da
acconsentire a esser tormentato a morte per non tradire la parola
data, allontanarsi dal suo dovere, far qualcosa di ingiusto spinto
dal timore della morte o da un crudele dolore229.
SENECA, De benef., II, 35 = SVF, 580
Alcune di quelle cose che diciamo si allontanano dall’abitudine, ma
poi per altra via vi ritornano. Diciamo che il sapiente non può
essere soggetto a ingiuria, tuttavia colui che lo abbia percosso col
pugno sarà condannato per ingiuria; neghiamo che lo stolto possa
possedere alcunché, e tuttavia colui che abbia rubato qualcosa ad
uno stolto sarà condannato per furto; diciamo che tutti sono pazzi,
tuttavia non curiamo tutti con l’elleboro, anzi permettiamo voto e
facoltà giuridiche anche a quegli stessi che chiamiamo pazzi.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 7, 26 = SVF III, 582
Se questo è il fine estremo, vivere in coerenza e congruenza con la
natura, necessariamente ne consegue che tutti i sapienti vivono
sempre in maniera felice, libera, fortunata: in nessuna cosa sono
impediti, in nessuna ostacolati, di nessuna hanno mancanza.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Gen., VI, 92, p. 318
Aucher = SVF III, 583
Tutta la vita del sapiente è in assoluto piena di felicità, poiché
in essa non è lasciata allo scoperto nessuna parte in cui possa
insinuarsi il peccato.
STEFANO, Comment. in Arist. Rhet., p. 325, 15 Rabe = SVF III, 585
Gli Stoici dicono felice anche chi abbia sopportato sventure simili
a quelle di Priamo.
GREGORIO NAZIANZENO, Epist. 32, P. G. XXXVII, col. 72 = SVF III, 586
Degli Stoici lodo il modo di sentire ardito e generoso, quando
dicono che nulla delle cose esterne può impedire al sapiente di
essere felice, ma che egli è beato anche sia bruciato entro il toro
di Falaride230.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 22, 75 = SVF III, 591
Ci sarà qualcuno chiamato re più a ragione di Tarquinio che non
riuscì a reggere veramente né sé né i suoi; qualcuno chiamato
«magister populi» ossia dittatore più a ragione di Silla, che in
realtà fu maestro di tre perniciosi vizi, la lussuria, l’avarizia,
la crudeltà; e ricco più a ragione di Crasso, che non avrebbe mai
per nessuna ragione di guerra acconsentito a passare l’Eufrate se
non fosse stato perché aveva bisogno di denaro. Insomma di tutte le
cose sarà detto a ragione capo colui che solo di tutte sa usare; e
giustamente allora sarà detto anche bello — la delicatezza
dell’anima è ancora più bella di quella del corpo —, a ragione solo
libero, perché non obbedisce ad alcun dominio né cede alla cupidità,
a ragione invitto, perché, anche se sono imposte catene al suo
corpo, nessun vincolo può esser imposto al suo animo; né aspetterà
il momento supremo della sua vita per esser giudicato felice o non
felice quando la morte avrà posto un termine ai suoi giorni (ed è
questo l’ammonimento non sapiente che uno dei sette sapienti dette a
Creso231: infatti se veramente fosse stato felice egli avrebbe
portato con sé la sua vita sommamente beata fino al rogo che Ciro
gli aveva fatto innalzare).
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Gen., IV, 99, p. 323
Aucher = SVF III, 592
Non si creda con questo che vogliamo portare la bellezza fisica a
confronto con quella che abbiamo chiamata avvenenza, e che consiste
nella simmetria delle parti e nel decoro della forma; una bellezza
simile può esservi anche nelle meretrici, che tuttavia non direi mai
che siano belle, ma al contrario brutte; questo nome è loro più
proprio dal momento che … come le proprietà del corpo appaiono quasi
attraverso un specchio, anche le proprietà dell’anima appaiono
attraverso il volto e l’aspetto: di lì il loro aspetto sfrontato, la
testa alta, il moto frequente delle sopracciglia, l’incedere
lascivo, senza alcun rossore né pudore per le colpe, tutto è indizio
di anima bruttissima, che dipinge e descrive le nascoste proprietà
delle sue vergogne nella parte visibile del corpo. Invece, coloro
nei quali abitarono veri oracoli della divinità, per opera di
sapienza e di virtù, divennero di necessità bellissimi, come lo
divenne colui che superava in deformità il Sileno: il bene per un
simile uomo è sapersi conformare in maniera, venerabile col proprio
pudore alla accettazione di coloro che lo vedono232.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 47, 12 segg. Wallies
= SVF III, 595
In base a tutta questa trattazione ci si dovrebbe ora accingere ad
esaminare quelli che sono detti i paradossi degli Stoici: se è vero
per esempio che, mentre i molti dicono ricco solo colui che possiede
molte cose, se non si dovesse usare della definizione in questo
significato ma in quello di chi ha la sapienza e le virtù, si
passerebbe ben oltre il comune significato fissato nell’uso delle
parole.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 134, 13 segg.
Wallies = SVF III, 594
Quelli che dicono che solo il sapiente è ricco, o solo è bello, solo
nobile, solo retore, non ignorano che tipo di bellezza o ricchezza o
nobiltà siano pertinenti al saggio, ma semplicemente vengono meno
all’uso comune del parlare.
FILONE ALESSANDRINO, De plantatione Noe, 69, II, p. 147, 15 segg.
Wendland = SVF III, 596
Alcuni credettero che quelli che dicevano che tutte le cose
appartengono all’uomo saggio dicessero cose assurde, pensando che
questo si riferisse ai beni e alla sostanza esterna e che nessuno
che non abbia posseduto beni possa essere ricco.
Ps. ACRONE, In Horat. Sat., I, 3, v. 124, p. 48 Keller = SVF III,
597
Dicono gli Stoici che il sapiente è ricco anche se va in giro a
mendicare, e nobile anche se sia schiavo, e bellissimo, anche se è
repellente.
PORFIRIONE, In Horat. Sat., I, 3, v. 124, p. 247 Holder = SVF ΠΙ,
597
Anzi gli Stoici ritengono che l’uomo di perfetta sapienza possieda
tutto; e anche Lucilio educato a quella scuola dice: «non avrà
ancora tutte queste cose, di esser ricco, libero, re egli solo?»233.
Ps. ACRONE, In Horat. epist, I, 19, v. 19, o. 273 Keller = SVF III,
597
Gli Stoici dicono che nessuno è libero tranne il sapiente.
SESTO EMPIRICO, Adv. ethicos, 170 = SVF III, 598
Al contrario gli Stoici dicono che la saggezza, che è scienza di ciò
che è buono, che è cattivo e che non è né l’uno né l’altro, è
un’arte concernente la vita, nella quale, dopo averla appresa,
divengono esperti solo alcuni che sono perciò essi solo belli, essi
solo ricchi, essi solo saggi. Chi possiede molte cose di valore è
ricco, ma molto più valore ha la virtù, e solo questa il sapiente
possiede; quindi solo il sapiente è ricco. E chi è degno di essere
amato è bello; solo il sapiente lo è, solo quindi il sapiente è
bello.
CICERONE, Acad. pr., 44, 136 = SVF III, 599
Non posso sopportare queste cose, non perché mi dispiacciano di per
sé (sono in realtà di marca socratica molti di quei principi
strabilianti degli Stoici che essi chiamano παράδοξα) ma dove si
trovano cose siffatte in Senocrate, dove in Aristotele?… Avrebbero
mai essi detto che solo i sapienti sono re, ricchi, belli? che
nessuno avrebbe mai potuto essere console, pretore, comandante in
capo, non so nemmeno se quinqueviro tranne il sapiente? e infine che
solo il sapiente è cittadino e solo è libero, mentre tutti gli
insipienti sono erranti, esuli, schiavi, pazzi? e infine che quelle
di Licurgo o Solone o le nostre dodici tavole non sono vere leggi, e
non ci sono vere città né cittadinanze se non quelle formate da
sapienti?234
CICERONE, De re publ., I, 17, 28 = SVF III, 600
Chi potrebbe alcuno stimare più ricco di colui che non ha nessuna
mancanza di ciò che la natura richiede, o più potente di quello che
riesca a ottenere tutto ciò che desidera, o più felice di colui che
si sia liberato di ogni passione dell’anima, o di più sicura fortuna
che colui che può portare con sé e salvare anche da un naufragio,
come si dice, tutto quel che possiede? Quale dignità di re, o di
magistratura, o di comando, può esser più desiderabile della
condizione di chi disprezzando tutte le cose che sono proprie della
comune umanità e giudicandole inferiori alla sapienza, non faccia
che rivolgere nel proprio animo null’altro che non sia eterno e
divino?
FILONE ALESSANDRINO, De sobrietate, 56, II, p. 226, 16 segg.
Wendland = SVF III, 603
Chi ha avuto questa eredità ha oltrepassato i limiti della felicità
umana. Solo egli è nobile, perché ha adottato Dio come padre ed è
stato da lui adottato come unico figlio. E non è ricco, ma
sovrabbondante di ricchezza, e vive sontuosamente fra quei beni che
sono copiosi e genuini, non soggetti a invecchiamento ma anzi tali
da ringiovanire e rinnovarsi sempre. Non ha solo buona fama, ma è
illustre, perché non è imbastardito dall’adulazione, ma rafforzato
dalla verità ottiene giusta lode; ed è egli solo re per il fatto che
riceve da colui che tutto regge il potere senza rivali di comandare
su tutto l’universo; ed è infine solo libero perché ha cacciato via
una padrona terribile, la vana opinione235.
CICERONE, De divin., II, 63, 129 = SVF III, 607
I tuoi Stoici dicono che nessuno fuorché il sapiente può essere
indovino.
FILONE ALESSANDRINO, De sacrif. Abel et Cain, 111, I, p. 277, 9
segg. Wendland = SVF III, 609
Una festa è serenità dell’anima in virtù perfette … una simile festa
può festeggiarla solo il sapiente, e nessuno degli altri; è la cosa
più rara infatti trovare un’anima che non abbia mai provato passioni
o vizi.
FILONE ALESSANDRINO, De spec. legibus, II, 46 e 49, V, p. 98, 3
segg. Cohn = SVF III, 610
(I sapienti), rallegrati dalle loro virtù, per tutta la loro vita
celebrano come una festa … mentre degli stolti nessuno è in festa,
neanche per un tempo brevissimo.
CICERONE, De fin. bon, et mal., III, 20, 68 = SVF III, 616
Poiché vediamo che l’uomo è nato per proteggere e salvare gli altri
uomini, è coerente a una siffatta natura che il sapiente voglia
dirigere e amministrare lo stato e anche — al fine di vivere secondo
natura — prender moglie e desiderare da lei dei figli.
OLIMPIODORO, In Plat. Alcib. I, 55, p. 37 Westerink = SVF III, 618
In terzo luogo, nel solenne discorso che fanno gli Stoici, l’uomo
nato per comandare, cioè colui che sa comandare, è in effetti il
solo capo, anche se non possiede gli strumenti per mettere in
pratica la scienza del comando; e il saggio è anche il solo ricco,
cioè il solo che sa come si debba usare della ricchezza, anche se
non abbia questa a sua disposizione.
PROCLO, In Plat. Alcib. I, 164-165, p. 75 Westerink = SVF III, 618
In ciò Socrate è passato oltre anche alla magniloquenza stoica «Che
cosa si può dedurre da quanto si è detto, se non che il solo vero
capo è il saggio, è come il solo signore, il solo re, il solo
condottiero di tutti, il solo libero, e che tutte le cose sono dei
sapienti così come sono degli dèi? comuni sono infatti le cose degli
amici236; se dunque tutte le cose sono degli dèi, lo sono anche dei
saggi… E come diciamo che falegname non è quello che possiede gli
strumenti della falegnameria, ma quello che possiede l’arte:
allo stesso modo diciamo che capo e re è colui che possiede la
scienza regia, non certo colui che domina su molti. Strumento del
potere è la evidente facoltà di esercitarlo, ma è l’abito con cui lo
si esercita quello che importa: senza di esso nessuno può dirsi capo
né re.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., II, 4, 19, 3, pp. 122-123 Stählin =
SVF III, 619
Speusippo, nel suo A Cleofonte, libro I, sembra avere scritto cose
simili a quelle di Platone su questo argomento237: «Se il regnare è
cosa buona, il saggio solo è re e capo, e la legge, essendo discorso
retto, è anch’essa buona». Ed è effettivamente così. Coerentemente a
questo i filosofi stoici hanno elaborato i loro principi,
attribuendo al sapiente il regno, il sacerdozio, la profezia, la
scienza della legislazione, la ricchezza, la vera bellezza, la
nobiltà, la libertà. Ma anche da parte loro si conviene che è ben
difficile a trovarsi un uomo siffatto.
FILONE ALESSANDRINO, De mutat. nominum, 152, III, p. 182, 23 segg,
Wendland = SVF III, 620
Dicono che solo il sapiente è re. È infatti in realtà il saggio
quello che dirige gli stolti, sapendo quali sono le cose che si
devono o non si devono fare; e così il temperante gli intemperanti,
sapendo esattamente e non fortuitamente che cosa sia da scegliere e
che cosa da fuggire; e il valoroso i vili conoscendo chiaramente che
cosa sia da sopportare e che cosa no; e il giusto gli ingiusti,
perché sa ben mirare ad una equilibrata giustizia nell’ambito della
distribuzione.
FILONE ALESSANDRINO, De migrat. Abr., 197, II, p. 307, 8 Wendland =
SVF III, 621
Diciamo che il regnare è sapienza, dal momento che il sapiente è re.
LUCIANO, Vitarum auctio, 20 = SVF III, 622
… che solo questo è saggio, bello, giusto, valoroso, re, retore,
ricco, legislatore!
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Gen., IV, 165, p. 372
Aucher = SVF III, 624
Il sapiente e il buon amministratore hanno due qualità identiche,
l’essere semplice e l’abitare in casa. L’atteggiamento semplice
rivela la schiettezza e l’essere alieno da adulazione … l’altra
qualità, quella di abitare in casa, in quanto implica costume
domestico è l’opposto della vita selvaggia. Prese insieme,
queste due cose indicano governo domestico e sono come un piccolo
compendio di vita civile: la civiltà e la buona amministrazione sono
infatti virtù apparentate, che non sarà inutile mostrare come siano
addirittura interscambiabili: l’una è buona amministrazione della
vita cittadina, l’altra della vita domestica.
LATTANZIO, Div. inst., V, 17, p. 458 Brandt = SVF III, 629
Il sapiente non tende mai al guadagno, perché disprezza i beni di
questa terra; e non lascia che alcuno cada in errore, perché dovere
dell’uomo buono è quello di correggere gli errori degli uomini e
riportarli sulla retta via; dal momento che la natura degli uomini è
sociale e portata al beneficare, e solo in questo ha una parentela
con la natura divina.
SENECA, Epist. ad Luc., 81, 8-12 = SVF III, 633
Non tutti coloro che provano gratitudine sanno che far benefici è un
dovere … solo il sapiente sa quanto ogni cosa esattamente sia da
ripagarsi; quello di cui si parlava poc’anzi, anche se di buona
volontà, è uno stolto, e quindi rende il beneficio o in misura
minore di quanto non debba oppure in tempo inopportuno. Ma il
sapiente pondera bene fra sé ogni cosa: quanto abbia ricevuto, da
chi, quando, dove, come. E per questo diciamo che nessuno sa
veramente attestare riconoscenza se non il sapiente, così come
nessuno sa compiere un beneficio se non il sapiente… Solo il
sapiente sa amare; solo egli è amico… Diciamo che la vera lealtà non
può esserci se non nel sapiente.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Gen., IV, 74, p. 303
Aucher = SVF III, 634
Chi veramente desidera la sapienza non si attarda né si accompagna
con nessuno di quelli che son vani e vuoti, anche se è imparentato
con essi per natura, ma si tiene col suo senno lontano da essi; si
che il sapiente nei riguardi dello stolto non può dirsi veramente né
compagno di navigazione, né compagno di strada, né concittadino, né
compagno di vita, né concorrente, per la ragione che nella mente
dell’uno e dell’altro la parte direttiva è in reciproca opposizione.
CICERONE, De nat. deor., I, 44, 121 = SVF III, 635
Quanto meglio pensano gli Stoici!… Essi pensano che i sapienti siano
amici dei sapienti anche se non li conoscano. Nulla infatti è più
degno di essere amato che la virtù: chi l’avrà conseguita, in
qualsiasi parte del mondo sia, dovremo amarlo.
FILONE ALESSANDRINO, De sacrif. Abel et Cain, 121-123, I, p. 251, 3
segg. Wendland = SVF III, 636
… A meno che non si introduca come principio necessario quello
secondo cui ogni saggio è di per sé una forma di riscatto per lo
stolto; giacché quest’ultimo non potrebbe vivere nemmeno un tempo
breve se l’altro, con misericordia e previdenza, non si prendesse
cura della sua sussistenza, così come fa il medico ponendosi di
fronte alle malattie del paziente e rendendole più miti o
sopprimendole del tutto — a meno che queste infuriando con impeto
irrefrenabile non riescano a superare le cure di chi cerca di
sanarle… Bisogna tuttavia sforzarsi di salvare «per quanto è
possibile, quelli che sono condotti a rovina dal vizio ch’è in loro,
imitando i buoni medici, i quali, anche quando vedano bene che non è
possibile salvare un ammalato, tuttavia gli praticano alacremente le
cure in ogni caso, perché non sembri che un fatto inatteso sia
avvenuto per la loro negligenza. Se poi si rivelasse anche qualcosa
come un piccolo seme di salvezza, bisogna attizzarlo come un tizzone
posto fra la cenere: c’è speranza che, se esso duri e cresca, l’uomo
possa vivere una vita migliore e meno sbagliata238.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VII, 7, 45, p. 34 Stählin = SVF
III, 639
L’austero è per noi quello che è tale non solo in maniera da non
farsi mai corrompere, ma in maniera da non farsi mai tentare. Egli
non mostra mai un’anima che sia facile preda del piacere o del
dolore: se sia giudice, sa essere inflessibile se la ragione così
esiga, né indulge alle passioni in alcuna forma, ma 〈con piede〉239
fermissimo procede per la via giusta secondo natura.
CICERONE, De fin, bon. et mal., III, 20, 68 = SVF III, 645-651
Alcuni dicono che il sapiente potrà accettare la vita e
l’atteggiamento dei cinici, se le circostanze lo rendano opportuno,
altri invece negano che ciò possa avvenire…240 Non ritengono che gli
amori leciti siano estranei al sapiente.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 33-34, 70-72 = SVF III, 653-652
Veniamo ai filosofi, maestri di virtù: i quali negano che tutto
l’amore si riduca a stupro, e per questo sono in discordia con
Epicuro… Gli Stoici dicono che il sapiente potrà amare, e che
l’amore di per sé non è che un tendere a stabilire una relazione
affettuosa per impulso della bellezza che si rivela all’apparenza.
PLUTARCO, De tranquill. animae, 12, 472a = SVF III, 655
Ma alcuni credono che gli Stoici vogliano scherzare, quando li
sentono affermare che il sapiente non è solo saggio e giusto e
valoroso, ma è chiamato anche oratore, poeta, stratego, ricco, re.
SESTO EMPIRICO, Adv. log., I, 432 = SVF III, 657
D’altronde, se presso di loro ogni supposizione dello stolto è
ignoranza e solo il sapiente conosce il vero e ha del vero una
sicura scienza, ne consegue che fino ad ora non si è mai trovato uno
che fosse sapiente, e che è impossibile a trovarsi il vero, e perciò
le cose sono tutte impossibili a comprendersi, dal momento che,
tutti quanti essendo stolti, non possiamo avere sicura comprensione
del vero. Stando così le cose è ammissibile che ciò che dagli Stoici
si va dicendo contro gli scettici parzialmente possa anche
ritorcersi da parte di questi ultimi contro gli Stoici. Poiché
presso di loro perfino Zenone, Cleante e Crisippo e tutti gli altri
filosofi della setta sono annoverati fra gli stolti241; e ognuno che
sia stolto è dominato dall’ignoranza, ciò vuol dire che Zenone
ignorava totalmente se egli era contenuto nel mondo, o se egli
stesso conteneva in sé il mondo, o quale fosse il suo sesso; e
Cleante non poteva sapere se era un uomo o una belva più complessa
di Tifone. E Crisippo conosceva questo principio, che è stoico:
«tutto ignora lo stolto»; oppure non conosceva neppure questo,
perché in tal caso avrebbe saputo, almeno, pur essendo stolto, che
«lo stolto ignora tutto»; e certo in tal caso sarebbe falso dire che
lo stolto ignora tutto. Ma se non sapeva nemmeno questo — di
ignorare tutto — come è possibile che asserisse principi certi
intorno a molte cose, affermando che uno è il cosmo, e che è
governato da provvidenza, e che la materia è mutevole in ogni sua
parte, e tutte le altre cose che essi affermano? E se a qualcuno è
gradito potrà controbattere con altre aporie consimili, così come
essi sogliono fare con gli scettici.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De fato, 28, p. 199, 7 segg. Bruns = SVF
III, 658
Quelli che dicono che di necessità noi siamo o diveniamo tali
(sapienti o stolti), e non concedono a noi la facoltà di fare o non
fare ciò per cui diveniamo tali o no, … come sfuggiranno alla
conclusione che l’uomo deve risultare il peggiore di tutti gli
esseri viventi, in virtù della natura, l’uomo per cui, essi
dicono, sono fatte le altre cose, che tutte cooperano alla sua
salvezza? Infatti, se per loro la virtù e il vizio sono
rispettivamente il solo bene e il solo male, e nessuno degli altri
esseri viventi è suscettibile di questi, mentre gli uomini sono per
la massima parte cattivi, e per di più fra di loro si parla come di
cosa mitica di uno o due che possano dirsi buoni, come esseri
viventi straordinari e contro natura e più rari di quanto non lo sia
la fenice tra gli Etiopi, mentre tutti i cattivi sono tali allo
stesso grado, sì che nessuno differisce dall’altro e tutti quelli
che non sono sapienti sono pazzi, come non dovrebbe l’uomo essere il
più sciagurato degli esseri viventi, dal momento che gli è
connaturata ed è suo retaggio tanta malvagità e follia?
SENECA, De benef., IV, 27 = SVF III, 659
C’è chi è detto timoroso, perché è stolto; e ciò consegue ai
cattivi, che sono circondati da vizi di tutti i generi; ma
propriamente si dice timoroso anche chi per natura è pavido di
fronte a rumori vani. Lo stolto ha tutti i vizi, ma per natura non è
proclive a tutti insieme: chi è portato all’avidità, chi alla
lussuria, chi alla sfrontatezza. E sbagliano quindi quelli che
controbattono polemicamente agli Stoici: e che? forse di Achille si
può dire che è pauroso?… Noi non diciamo questo, che tutti i vizi si
trovino insieme in tutti gli stolti così come emergono in
particolare in alcuni: diciamo che in generale il malvagio e lo
stolto non sono esenti da alcun vizio. Diciamo che chi è temerario
può essere anche soggetto a timore, chi è prodigo non è detto sia
libero dall’avidità.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11i-k, pp. 103, 24-105, 22 Wachsmuth = SVF
III, 677, 682, 661, 683, 684
Dicono che tutti gli stolti sono selvaggi; essere selvaggi significa
essere inesperti dei costumi e delle leggi propri della vita
cittadina; e a questo modo di essere ogni stolto è soggetto. Esso è
anche feroce, giacché si trova all’opposto del modo di vivere civile
secondo la legge, ed è uomo belluino e nocivo. Lo stesso stolto è
anche spietato e tirannico, essendo incline a compiere azioni
dispotiche e pronto a commettere anioni crudeli, violente e contro
la legge in determinate occasioni. Ed è privo di riconoscenza, non
essendo disposto a rendere il benefizio né a contraccambiarlo,
perché non fa nulla con senso sociale, con amicizia, con
disinteresse. Né lo stolto ama fare né ascoltare discorsi, giacché
fin dal principio non è disposto ad accogliere discorsi retti, per
la stoltezza che lo fa cadere al male deviandolo, per il fatto che
nessuno degli stolti può essere indirizzato alla virtù né può
indirizzare altri ad essa; chi è così indirizzato o così capace di
indirizzare altri deve essere predisposto al filosofare, ma chi è
predisposto in tal modo non ha alcun impedimento, mentre lo stolto
in nessun caso si trova in tale condizione. Né si può dire che sia
predisposto al filosofare chi ascolta con zelo e serba a memoria le
cose dette dai filosofi, ma chi è ben disposto a tradurre nelle
opere le cose predicate dai filosofi, e a vivere secondo esse.
Nessuno degli stolti è tale, poiché si trova già da prima in preda
ai principi del vizio. Se qualcuno degli stolti potesse essere fin
da prima ben indirizzato, potrebbe essere anche distolto dal vizio;
ma nessuno che abbia in sé il vizio può essere rivolto verso la
virtù, così come nessuno che sia veramente ammalato verso la salute.
Può solo esserle fin da prima indirizzato chi già è sapiente ed è
capace di indirizzare a sua volta altri; ma degli insipienti nessuno
«Secondo i principi della filosofia non vive nessuno degli stolti:
non ama i discorsi, forse ama solo parlare242, e giunge solo a una
chiacchiera inconcludente, né riesce a confermare con le opere il
discorso sulla virtù. Essi ritengono che ogni errore sia anche
un’empietà. Il fare qualcosa contro il volere della divinità è segno
di empietà. E poiché gli dèi sono apparentati alla virtù e alle
opere di questa, alieni dal vizio e da ciò che viene compiuto in
base a questo, ed ogni errore è un atto compiuto in base al vizio,
ecco che ogni errore si rivela come qualcosa di sgradito agli dèi,
il che equivale a dire un atto di empietà: per ciascun suo errore lo
stolto compie un atto sgradito agli dèi… Inoltre, poiché ogni stolto
fa tutto ciò che fa in base a disposizione viziosa, così come il
saggio in base a virtù, e avendo un vizio ha, con esso, tutti quanti
gli altri, fra i vizi è compresa anche l’empietà; quindi egli ha in
sé perlomeno anche quella empietà che è disposizione contraria alla
pietà, anche se non commette empietà in atto. Ma ciò che è fatto in
base a disposizione empia è un atto empio, e perciò ogni errore è
tale.
Ritengono poi che ogni stolto sia nemico agli dèi; l’inimicizia è
discordia e dissentimento circa le cose che riguardano la vita, così
come la concordia è accordo e consentimento. Gli stolti sono in
discordia rispetto agli dèi circa le cose che riguardano il vivere,
ragion per cui ogni stolto è nemico degli dèi. Inoltre, se tutti
ritengono che siano loro nemici quelli che sono all’opposto rispetto
a loro, e lo stolto è all’opposto del saggio, e saggio è il dio, se
ne conclude che lo stolto è nemico alla divinità.
Né alcuno degli stolti è amante del lavoro: l’amore per il lavoro è
una disposizione che si esercita instancabilmente con fatica intorno
alle circostanze soggette: ma nessuno degli stolti si esercita
instancabilmente nel lavoro. Né alcuno degli stolti attribuisce la
giusta stima (δόσις) al bene che ci offre la virtù: tale bene è cosa
buona, perché è scienza secondo la quale riteniamo di compiere cosa
degna di lode. Nulla però di buono possono compiere gli stolti,
cosicché nessuno di essi può valutare il bene che deriva dalla
virtù. Se lo potesse, questa stessa valutazione farebbe sì che
allontanerebbe da sé il vizio. Ma ciascuno stolto è attaccato con
diletto alla propria viziosità. Bisogna non guardare alla parte
esteriore dei loro discorsi, che è stolta, ma al senso delle loro
azioni; è in base a questo che si può confutarli perché i loro
impulsi sono errati, non vertono intorno alle cose nobile e sagge,
ma a godimenti smoderati degno di schiavi.
CICERONE, Tusc. disp., IV, 24, 54 = SVF III, 665
E che? gli Stoici, i quali dicono che tutti gli stolti sono anche
pazzi, non raccolgono forse tutte queste argomentazioni? Metti da
parte le passioni e soprattutto l’ira, e vedrai che ti appariranno
dire cose paradossali. Essi però si difendono dicendo che quando
affermano che tutti gli stolti sono pazzi lo dicono nel senso che
«il fango puzza sempre»: non sempre, però smuovilo e te ne
accorgerai. Così l’iracondo: non è sempre in ira, però stuzzicalo e
lo vedrai nella sua follia.
PORFIRIONE, In Horat. Sat., II, 3, v. 32, p. 297 Holder = SVF III,
666
…npoiché gli Stoici dicono che tutti gli uomini sono pazzi e stolti
eccetto il sapiente243.
PORFIRIONE, In Horat. epist., I, 1, v. 82, p. 319 Holder = SVF III,
669
Ambedue queste cose sono affermate dagli Stoici circa la pazzia del
volgo: in primo luogo essi sono in discordia fra loro, poi anche con
se stessi, in quanto mutano di proposito da un momento all’altro.
PLUTARCO, De comm. not, 10, 1062f = SVF III, 668244
E ti sembrano forse avere una mirabile sicurezza nelle loro
dottrine? o forse ancor più nei fatti, quando pur affermando che
tutti quelli che non sono sapienti sono allo stesso grado malvagi e
ingiusti e infidi e stolti, avviene poi che alcuni uomini li evitino
in ogni modo e li scansino quando li incontrano, ad altri prestino
denaro, affidino cariche, diano in mogli le figlie?
FILONE ALESSANDRINO, De posterit. Caini, 75, II, p. 16, 22 segg.
Wendland = SVF III, 670
Tutto ciò che intraprende lo stolto è colpevole, in quanto è
contaminato da una opinione impura. Al contrario le azioni
volontarie dei saggi sono tutte lodevoli.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. alleg., III, 247, I, p. 168, 5 segg.
Wendland = SVF III, 671
Per tutta la vita lo stolto è affetto da sofferenza nella sua anima,
non avendo nessuna causa di gioia, perché questa può essere
ingenerata solo dalla giustizia, dalla saggezza e da altre virtù che
regnano insieme ad esse.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, VI, 17, 157, 3, p. 512 Stählin =
SVF III, 673
Molti privilegi possono essere comuni agli uomini buoni e ai
cattivi; ma essi sono utili soltanto agli uomini saggi e buoni.
Scholia in Homer. lliad., XXIV, ν. 536, p. 356 Dindorf, 475 Maass =
SVF III, 675
Con la ricchezza: il suo potere risiede nella saggezza, se è vero
che, come dicono gli Stoici, chi non ha educazione è anche privo di
ricchezza.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. Alleg., III, 201, I, p. 157, 25 segg.
Wendland = SVF III, 676
Per esempio l’atleta e lo schiavo ricevono le percosse in modo del
tutto diverso: quest’ultimo, per la sua pochezza, si sottomette alle
offese e cede, mentre l’atleta resiste e lotta e respinge i colpi. E
diversamente subiscono la tosatura l’uomo e la pecora: la pecora non
fa altro che subirla, mentre l’uomo accingendosi a farsi tagliare i
capelli dà qualcosa in cambio e quasi opera scambievolmente. Così
l’uomo irragionevole, alla maniera degli schiavi, cede all’altro e
sottostà alle sofferenze inflittegli come a padrone impetuose, non
riuscendo a resistere ad esse… Attraverso le sue sensazioni, una
infinita moltitudine di dolori lo inonda. Ma colui che sa,
resistendo alla maniera di un atleta con forza ed energia, non si
lascia sommergere dalle sofferenze, sì che appare esserne sì ferito,
ma resta di fronte a ciascuna di esse indifferente. Egli potrebbe
arditamente, mi sembra, pronunziare contro il dolore quel verso
della tragedia245; «bruciami, ardimi la carne, riempiti di me
bevendo il nero mio sangue: le stelle passeranno al di sotto della
terra e la terra si innalzerà nell’etere prima che giunga a te una
mia parola di lusinga».
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Gen., IV, 165, p. 371
Aucher = SVF III, 678
Inoltre (lo stolto), poiché è selvaggio, è fuori dalla città e
transfuga rispetto alla legge, e ignora il contatto con la vita
civile; è ribelle e contumace, non prende parte a nessuna cosa che
sia dei giusti e dei buoni, è nemico di ogni vita familiare, umana e
comunitaria, e conduce una vita asociale.
FILONE ALESSANDRINO, Leg. Alleg., III, 1, I, p. 113, 3 Wendland =
SVF III, 679
E da loro introdotta la dottrina che dice che lo stolto è anche
esule. Se infatti la virtù è come la città propria dei saggi, chi
non può partecipare della virtù è estraneo alla città; e così lo
stolto non può prender parte alla vita di questa. Solo lo stolto
perciò è veramente esule e fuggiasco.
FILONE ALESSANDRINO, De gigant., 67, II, p. 55, 5 segg. Wendland =
SVF III, 680
Dicono che … lo stolto è come un uomo senza casa, senza città, senza
dimora fissa, e così pure esule e disertore; mentre il saggio è un
fedelissimo alleato.
FILONE ALESSANDRINO, Quaest. et solut. in Gen., IV, 76, p. 304
Aucher = SVF III, 681
In secondo luogo egli ha stabilito una legge del tutto naturale che
alcuni filosofi hanno accettata. Questa legge afferma che degli
insipienti nessuno può essere re, anche se abbia reso soggetti a sé
tutta la terra e il mare, ma può esserlo solo l’uomo sapiente che
ama Dio, a parte tutto quell’apparato bellico con il quale molti
acquistano il potere con mezzi violenti. Così come se qualcuno sia
inesperto di nautica, o di medicina, o di musica, ciò è provato
dallo stesso uso che fa del timone, della commistura dei
medicamenti, del flauto o della lira (nessuno di questi strumenti
egli è capace di usare nell’impiego cui sono destinati, ma si dirà
che essi possono convenire solo al nocchiero o al medico o al
musico) così certamente, dal momento che l’ufficio del re è un’arte,
sarà in grado di esercitarla solo l’uomo artefice di esso in quanto
dotato di virtù. Infatti chi è inesperto e ignaro delle cose che
possono giovare agli uomini si deve ritenere un uomo senza precise
norme e selvaggio; re si deve dire solo chi sia esperto e
consapevole.
PRECETTI DI VITA
DIOGENE LAERZIO, Vitae Philos., VII, 130 = SVF III, 687
Tre essendo i generi di vita, il teoretico, il pratico, il
razionale, dicono che questo terzo è da scegliersi: infatti l’essere
vivente ragionevole è adatto per natura sia alla teoria sia alla
azione. E ritengono che sia ragionevole che il sapiente in certi
casi si tolga la vita, per il bene della patria o degli amici, o
anche se si trovi in dolori troppo crudeli, o afflitto da
menomazioni o da malattie inguaribili246.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11, p. 109, 10 segg. Wachsmuth = SVF III, 686
Vi sono tre forme preminenti di vita: quella regia, quella politica,
in terzo luogo quella secondo scienza. Similmente vi sono tre modi
di ottenere guadagni, quello che deriva dal regnare, in quanto si
regni personalmente oppure ci si possa valere delle ricchezze del
re; il secondo quello che deriva dalla politica, in quanto in primo
luogo si svolge attività politica; e in questo caso ci si sposerà
anche e si avrà figli, cose che sono conseguenti al carattere
sociale e a quella tendenza all’ amicizia reciproca che sono propri
〈della natura〉247 dell’essere vivente ragionevole. Si potrà poi
anche trarre dei vantaggi finanziari dalla partecipazione alla vita
della città, e dagli amici che hanno posti di potere. Invece quei
filosofi furono in reciproco dissidio circa il significato da dare a
«fare professione di sofista» e «trarre guadagno dalla professione
di sofista». Si trovarono d’accordo quanto alla possibilità di
trarre guadagno dall’insegnamento e l’accettare ricompense da quelli
che apprendevano da loro a filosofare; ma vi era fra loro contesa
circa il significato, in quanto alcuni affermavano di fare essi
stessi professione di sofista e accettare di trasmettere
l’insegnamento filosofico dietro ricompensa, altri invece
sospettavano che nel far professione di sofista sia compreso un
significato negativo, come fare discorsi capziosi; e affermavano che
non bisogna trarre vantaggio pratico dall’insegnamento a scapito
degli ascoltatori occasionali, perché un simile tipo di guadagno non
si addice alla grande dignità della filosofia.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11m, p. 111, 3 segg. Wachsmuth = SVF III, 690
Dicono che l’uomo che 〈ha〉 senno potrà all’occorrenza essere egli
stesso re, oppure convivere con un re che dimostri buona natura e
amore per la scienza. Abbiamo già detto che secondo loro è anche
lecito far vita politica secondo ragione preminente, ma che bisogna
astenersi dalla partecipazione alla vita politica se qualcosa lo
〈impedisca〉248 e soprattutto se si comprenda che questo non porterà
alcun vantaggio alla patria, ma ne seguiranno invece pericoli grandi
e terribili.
SENECA, Epist. ad Luc., 68, 2 = SVF III, 696
Non consigliamo di partecipare alla vita di qualsiasi stato, né
sempre, né senza un fine specifico; e inoltre, dal momento che
abbiamo assegnato al sapiente quello stato che è degno di lui,
l’universo, si deve dire che anche quando egli si allontana dalla
vita politica partecipa sempre ad essa.
FILONE ALESSANDRINO, De fortitudine, 6, V, p. 267-268 Cohn = SVF
III, 707
Di niente mancherà mai chi tiene per sua guida la ricchezza
inesauribile della natura: in primo luogo l’aria, il cibo più
necessario, che prendiamo di continuo respirandolo giorno e notte; e
poi le fonti inesauribili … per la necessità del bere; poi per
ulteriore cibo i prodotti dei più vari frutti e le specie di tutti
gli alberi che sempre producono i loro frutti a seconda delle
stagioni dell’anno.
GREGORIO NAZIANZENO, Carmina, I sect. II, 10, v. 604 = SVF III, 710
E quel discorso dei carissimi nostri Stoici: uno si rivolge alla sua
umile carne quasi rivolgendosi a un altro: «che cosa devo darti,
dice, o pelle infelice? da mangiare? il pane dato con scarsezza è
già moltissimo. Da bere? ti daremo acqua con aceto. Ma tu non mi
chiedi questo: mi chiedi il cibo della gozzoviglia e della voracità,
mi chiedi la mollezza delle bevande in tazze cristalline. Ti daremo
tutto questo anche troppo presto: ti daremo un cappio».
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 84, 14 segg. Wallies
= SVF III, 711
Son cose cui è congiunta la dimostrazione facile, e facili a
conoscersi con breve apprendimento… Simili sono le cose di cui gli
Stoici fanno ricerca nei loro libri sui doveri; per esempio se
bisogna tendere la mano verso ciò che sta più lontano se questo è
più abbondante, quando si mangia con qualcuno o con lo stesso padre,
oppure se bisogna non farlo e contentarsi di ciò che si ha dinnanzi;
o se, quando si ascolta un filosofo, bisogna incrociare i piedi.
FILONE ALESSANDRINO, De plantatione Noe, 142-154 passim, II, p. 161,
18 segg. Wendland = SVF III, 712
È stata trattata questa questione presso molti filosofi, e non in
forma misurata: così si enuncia: può il sapiente ubriacarsi?
L’ubriacarsi si può intendere in due significati: in uno dei due
significa solo inebriarsi di vino, nell’altro delirare in stato di
ebbrezza. Di quelli che si sono accinti a risolvere la questione,
gli uni hanno detto che il sapiente né userà di vino in forma più
abbondante del necessario, né dovrà delirare, perché l’una cosa è
una colpa, l’altra è causa di colpa, e sia l’una che l’altra cosa
sono estranee a chi compia azioni rette, Ma altri hanno ritenuto che
l’essere in suato di ebbrezza possa essere anche conveniente al
saggio, mentre gli è estraneo il delirare. Infatti la saggezza che è
in lui è sufficiente a resistere a ciò che tenterebbe di
danneggiarlo e a distruggere quell’alterazione che sopravverrebbe
nella sua anima: la saggezza ha la forza di attuare lo spegnimento
delle passioni, siano esse stimolate dal pungiglione dell’amore
ardente, o accese da molto e ribollente vino; e perciò riesce ad
averne ragione. Anche fra quelli che affondano in un fiume profondo
o nel mare quelli inesperti del nuotare muoiono, mentre quelli che
ne sono esperti riescono presto a salvarsi…
Gli antichi per il vino schietto usavano indifferentemente i due
termini di οἶνος (vino) e μέθυ [da μέθη, ebbrezza]; questo secondo
nome, che significa «inebriante», è usato spesso nella poesia,
cosicché, se i due termini si usano come sinonimi in relazione allo
stesso oggetto, anche gli effetti che ne derivano non si
distingueranno altro che per l’espressione. L’uno e l’altro indicano
un uso eccessivo di vino; e per molte ragioni il sapiente può
trovarsi in situazione tale da non potersene esimere. Se egli si
riempirà di vino, si inebrierà anche; ma in base a questa ebbrezza
non starà in una disposizione peggiore di quella che subirebbe da
una bevuta di vino leggera.
STOBEO, Eclog., II, 7, 5b, p. 65, 15 segg. Wachsmuth = SVF III, 717
Ritengono che il sapiente agisca con assennatezza e con capacità
dialettica, e possa partecipare a banchetti e a ritrovi erotici.
Quanto all’erotico, ha due diversi significati. L’uno è secondo
virtù, ed è cosa buona, l’altro invece vizioso e si usa nel biasimo,
come quando si dice che qualcuno è erotomane. L’amore 〈buono〉 è
〈simile all’amicizia?〉249; chi è degno di essere amato è degno di
amicizia, e non di essere oggetto di godimento. Essi accettano fra
le virtù la virtù simposiaca insieme con quella erotica, perché
questa è la scienza che verte intorno a ciò che si deve fare nei
simposii, come li si debba condurre e come si debba bere insieme:
quanto alla scienza di come andare a caccia di giovani di buona
natura, essendo tale da indurre alle azioni virtuose, è in generale
una scienza dell’amare bene; e per questo dicono che l’uomo che ha
senno potrà aver rapporti amorosi. L’amare in se stesso certo è un
indifferente, perché può avvenire anche fra gli stolti. Ma l’amore
non è semplicemente desiderio né appartiene di necessità alle azioni
viziose: è uno slancio verso l’amicizia per la manifestazione del
bello.
Schol. in Dionys. Thr., p. 120, 33 segg. Hilgard = SVF III, 721
E di contro gli Epicurei dicono che l’amore è rapida tensione verso
i piaceri della carne250, mentre gli Stoici dicono che è impulso a
fare amicizia con i giovani per la manifestazione della loro
bellezza: doppia è infatti la natura dell’amore, c’è quello del
corpo e quello dell’anima.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, In Arist. Top., p. 139, 21 segg.
Wallies = SVF III, 722
Ma all’affermazione che ogni amore è di per sé buono, asserzione non
vera, possiamo sostituire quella che non ogni amore è cattivo,
distinguendo fra l’amore come dice Epicuro, rapida tensione verso i
piaceri carnali, che non è possibile sia cosa buona, dall’amore come
dicono gli Stoici, slancio a fare amicizia causato dal manifestarsi
della bellezza.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Strom., II, 19, 101, 3, p. 168 Stählin = SVF
III, 723
Ci hanno insegnato che ci sono tre tipi di amicizia e il primo di
questi è ottimo secondo virtù: è saldo infatti quell’amore che nasce
dalla ragione; il secondo è medio, quello scambievole, che è istinto
socievole, implicante beneficio reciproco, utile per la vita (comune
infatti è l’amicizia che deriva dalla riconoscenza); terzo e ultimo
noi diciamo che è quello che proviene dalla dimestichezza mentre
essi ritengono che sia quello basato sul piacere, volubile e labile.
ORIGENE, Contro Celsum, VII, 63, II, p. 213, 6 segg. Kötschau = SVF
III, 729
Rifiutano l’adulterio quelli che seguono la filosofia di Zenone di
Cizio… perché il fare adulterio con una donna congiunta a un altro
dalla legge e distruggere la casa altrui è atto 〈contro〉251
l’istinto sociale e contro natura per l’essere vivente ragionevole.
CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., II, 10, 90, 2, p. 211 Stählin = SVF
III, 730
Se dunque, come dicono gli Stoici, la ragione non permette al
sapiente nemmeno di muovere un dito a caso, quanto più quelli che
seguono la sapienza non dovranno dominare la parte erotica della
loro anima?
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 16, I, p. 285, 23 segg. Kötschau = SVF
III, 732
Ci sono come diverse forme del discorso a seconda dello stadio che
presenta di volta in volta la ragione di quelli che vengono educati
alla virtù: in analogia alla disposizione d’animo di chi è educato,
sia egli ancora indietro nel progresso o abbastanza progredito o
giunto vicino alla virtù oppure già arrivato ad essa.
FILONE ALESSANDRINO, De sacrif. Abel et Cain, 78, I, p. 234, 7 segg.
Wendland = SVF III, 739
Può essere utile, anche se non in vista del possesso della virtù
perfetta, per la partecipazione alla vita della città, essere
allevati nell’ossequio a principi antichi e vetusti, e seguire
l’audizione tradizionale di belle imprese che gli storici e tutti i
poeti hanno tramandato alla memoria di contemporanei e posteri.
QUINTILIANO, Inst. Orat., I, 10, 15 = SVF III, 740
Ma i capi di quella setta che ad alcuni sembra severissima, ad altri
arcigna, furono dell’opinione che fra i sapienti qualcuno potrà
concedere una certa attenzione a questi studi.
ORIGENE, Contra Celsum, III, 25, Ι, p. 221, 3 segg. Kötschau = SVF
III, 741
Se è vero che la cura del proprio corpo è una cosa di natura
intermedia, e che può trovarsi non solo nei buoni ma anche nei
cattivi, dovrà esserlo anche la previsione del futuro: non sempre
chi prevede rivela ciò che è bene.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 96, I, p. 368, 23 segg. Kötschau = SVF
IH, 742
Bisogna sapere che la previsione del futuro non è in assoluto cosa
divina: di per sé è cosa intermedia e può trovarsi fra i saggi come
fra gli stolti: per esempio anche i medici fanno previsioni sulla
base della scienza medica, anche se siano poi cattivi per costume, e
così anche i nocchieri, se siano poi malvagi, sanno prevedere i
segni e la violenza dei venti e i mutamenti dell’ambiente, in base
alla loro esperienza e alla loro osservazione; non per questo, se
sono malvagi di costumi, li si potrebbe dire in alcun modo
divini252.
ORIGENE, Contra Celsum, IV, 45, I, p. 318, 17 segg. Kötschau = SVF
III, 743
Anche i Greci hanno fatto ricerche sulla natura del bene, del male,
dell’indifferente; e ve ne sono fra di essi che pongono il bene e il
male solo in ciò che è oggetto di libera scelta e dicono che tutte
le cose indifferenti in senso proprio sono da cercarsi in quelle che
esulano dalla scelta; e per questi la scelta debitamente applicata è
lodevole, non debitamente è biasimevole. Dicono dunque nella
trattazione degli indifferenti che in senso proprio unirsi alle
proprie figlie è un indifferente, anche se nelle comunità cittadine
costituite non lo si deve fare. Come esempio, per dimostrare che
all’occasione ciò può appartenere agli indifferenti, hanno preso il
caso di un sapiente rimasto solo insieme con una figlia mentre
intorno è distrutto tutto il genere umano; e si chiedono se faccia
il suo dovere quel padre a unirsi con la figlia perché sia evitata —
secondo l’ipotesi che si è detto — la distruzione di tutta
l’umanità. Non sono prive di senso queste questioni che si dibattono
fra i Greci, e così argomenta tra di essi la non disprezzabile setta
stoica.
PLUTARCO, De esu carnium, II, 3, 997e = SVF III, 749
Guarda chi è tra i filosofi che ci rende più civili, se quelli che
ritengono che possiamo mangiare, una volta che siano morti, i nostri
figli, o amici, o padri, o mogli; oppure Pitagora ed Empedocle.253
TEOFILO, Ad Autolycum, III, 5-6, p. 196-198 Otto = SVF III, 750
Poiché hai letto molte cose, che te ne sembra delle opinioni di
Zenone, o Diogene, o Cleante, che sono contenute nei loro libri: che
ci insegnano a mangiare carne umana, e dicono che i padri possono
essere cotti e mangiati dai propri figli, e che se uno non volesse,
o gettasse via un membro dell’orribile pasto, è lecito mangiare
quegli stessi che si rifiutano di farlo? Ancora più empia
l’espressione di Diogene, secondo il quale i figli possono offrire
in sacrificio i genitori e cibarsene,
… Inoltre Epicuro254 e gli Stoici ritengono che si possano compiere
atti di accoppiamento fra fratelli o in generale fra maschi; di
questi begli insegnamenti hanno riempito i loro libri.
LATTANZIO, Div. inst., VI, 12, p. 529 Brandt = SVF III, 751
Non sono mancati quelli che hanno ritenuto cosa del tutto superflua
la sepoltura, e hanno detto che non c’è niente di male se uno giace
senza tomba e viene gettato via. Questa loro empia sapienza la
rifiuta l’intero genere umano, non solo, ma anche le prescrizioni
divine che ordinano che ciò sia fatto. In verità essi non osano dire
che non bisogna farlo; ma dicono che, se per caso non avvenga, non
vi è in questo alcun male. In altri termini, non parlano tanto a mo’
di chi dà precetti, ma di chi consola, perché, se per caso una
simile cosa avvenga al sapiente, questi non debba per ciò reputarsi
infelice.
SESTO EMPIRICO, Pyrrh. Hypot., III, 210 = SVF III, 755
E vediamo che gli Stoici dicono che non è assurdo il convivere con
una etèra o addirittura trarre il sostentamento per la vita dalle
prestazioni di una etèra.
ORIGENE, Contra Celsum, IX, 26, I, p. 295, 29 Kötschau = SVF III,
756
… come quelli che frequentano indifferentemente prostitute, dicendo
che la cosa non è assolutamente contro il conveniente.
STOBEO, Eclog., II, 7, 11m, p. 110, 9 segg. Wachsmuth = SVF III, 758
Dicono che talvolta anche l’andarsene dalla vita è doveroso per i
sapienti, in più modi, mentre gli stolti devono rimanere in vita,
anche se non dovessero poi diventar sapienti. Né la virtù forza a
rimanere in vita, né il vizio ad uscirne; la vita e la morte vanno
commisurate a ciò ch’è secondo il dovere o contro il dovere.
CICERONE, De fin. bon. et mal., III, 18, 60-61 = SVF III, 763
Ma poiché tutti i doveri hano il loro punto di partenza in questi
(principi naturali), non senza ragione si dice che ad essi si
riportano tutti i nostri pensieri, e tra questi anche l’uscire dalla
vita o il rimanere in vita. Colui nel quale la maggior parte delle
cose è secondo natura, è conveniente rimanga in vita, mentre colui
in cui sono o sembrano, esservi più cose contrarie alla natura, è
bene esca dalla vita. Perciò è chiaro che talvolta sarà dovere del
sapiente uscire dalla vita, anche se egli è felice, e dello stolto
restare in vita, anche se sia infelice. Infatti il bene e il male …
si raggiungono in un secondo tempo; primariamente cadono sotto il
giudizio e la scelta del sapiente le realtà primarie della natura,
siano essi secondo o contro questa, e sono soggette alla sapienza
come sua materia. Pertanto le ragioni di rimanere in vita o di
uscire dalla vita sono da commisurarsi a tutte quelle cose che ho
detto sopra. Né 〈colui che possiede la virtù〉 è trattenuto in vita
dalla virtù stessa255, né coloro che sono privi di virtù per questa
ragione devono desiderare la morte: e spesso è dovere del sapiente
lasciare la vita anche se è sommamente felice, se può fare ciò
opportunamente. Così essi pensano, che l’opportunità sia condizione
del vivere felicemente, che equivale al vivere secondo natura. E
perciò è precetto della sapienza che il sapiente abbandoni quella
sua sapienza stessa, se ciò sia opportuno. Dunque, non avendo i vizi
il potere di motivare una morte volontaria, è evidente che dovere
degli stolti, per infelici che siano, rimanere in vita, se siano in
possesso della maggior parte di quelle cose che sono dette secondo
natura.
Poiché lo stolto, sia che rimanga in vita sia che se ne vada da
essa, è infelice allo stesso modo, né il prolungarsi della sua vita
gliela rende più degna di fuggirsi, non senza ragione si dice che
colui che può godere di più delle cose secondo natura deve rimanere
in vita.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 168, 1 segg.
Bruns = SVF III, 764
Se è vero che in generale la virtù è sufficiente da sola a rendere
la nostra vita in alto grado beata e felice, come è ragionevole che
debba uscire dalla vita chi possiede la virtù e si trova quindi in
una vita beata?
Come sarebbe assurdo dire che Zeus voglia morire, così è ugualmente
assurdo dire che colui che ha una felicità pari a quella di Zeus
possa ragionevolmente spingere se stesso fuori della vita, dal
momento che tutte le cose che riguardano il corpo e sono estrinseche
sono degli indifferenti, e non causano la felicità né la tolgono,
mentre la virtù, che sola produce la felicità della vita e la
conserva saldamente, non può mai abbandonare il sapiente … Come può
essere ragionevole che la virtù induca il saggio a questo?
CLEMENTE ALESSANDRINO, Stromata, IV, 6, 28, 2, p. 260 Stählin = SVF
III, 765
I filosofi concedono facilmente che l’uscir dalla vita è cosa
ragionevole per il sapiente, se egli sia così privato della
possibilità di agire da non restargliene nemmeno la speranza.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 160, 24 segg.
Bruns = SVF III, 766
Se l’atto della virtù si esplica nella scelta delle cose
secondo natura e proprie ad essa, e nel rifiutare e respingere tutto
ciò che alla natura è contrario, è chiaro che devono esservi cose
che siano oggetto di scelta. Ma non sempre queste vi sono per
l’uomo; e talvolta l’uomo che possiede la virtù si uccide per
mancanza di quelle cose. Il suo uccidersi non è causato dal non
poter egli operare le scelte, il che è proprio della virtù, ma dal
fatto che non possiede alcune cose che non dipendono da questa.
ALESSANDRO D’AFRODISIA, De anima libri mant., p. 159, 19 Bruns
= SVF III, 767
Chi possiede la virtù dovrebbe talvolta lasciare volontariamente la
vita secondo virtù, facendo una morte ragionevole.
Excepta Philos., Anecdota Paris, IV, p. 403 Cramer = SVF III, 768
Ma anche i filosofi stoici … hanno considerato la filosofia una
meditazione della morte naturale: perciò hanno descritto cinque modi
per cui si può ragionevolmente uscire dalla vita. La vita, dicono, è
paragonabile a un simposio lungo, nel quale l’anima ritiene talvolta
di essere sazia; e per quanti modi si scioglie un simposio, per
altrettanti possono anche verificarsi modi ragionevoli. Un simposio
si può sciogliere in cinque modi. Per una necessità importante che
si verifichi all’improvviso, per esempio l’arrivo occasionale di un
amico; in questo caso per la gioia gli amici si alzano e il simposio
cessa. Oppure il simposio può sciogliersi perché entrano persone che
fanno schiamazzo e dicono parole oscene; o perché le vivande che
sono imbandite sono cose putride e nocive; o perché c’è scarsezza di
vivande; oppure può anche sciogliersi per l’ubriachezza dei
convitati.
Anche le morti ragionevoli avvengono in cinque modi consimili. O per
una necessità importante che si verifichi all’improvviso: per
esempio la Pizia può ordinare a qualcuno di uccidersi per la propria
patria, alla quale sovrasta rovina... Oppure può succedere che i
tiranni impazzino e ci costringano a fare turpitudini e a dire cose
nefande… Oppure può sopravvenire una lunga malattia, che impedisca
all’anima in gran parte di valersi del corpo come strumento, e in
questo caso è ragionevole far uscire questa dal corpo: è per tale
ragione che Platone non accetta le cure ordinarie della medicina
come educatrici delle malattie, che le rendono inveterate, ma
piuttosto la chirurgia e la farmaceutica di cui si serviva
Archigene, il medico dell’esercito (anche Sofocle dice: «non è da
medico saggio intonare carmi magici su una ferita aperta»256).
Oppure può verificarsi una grande povertà, e ben dice in questo caso
Teognide: «bisogna che fuggendo la povertà, ecc.»257. O può
sopravvenire la pazzia: e come là era l’ubriachezza a sciogliere il
simposio, così qui è lecito a qualcuno di uccidersi per follia; la
follia non è altro se non una ubriacatura naturale, né l’ubriacatura
è altro se non una pazzia voluta.
1. È questo uno dei passi dai quali sembrerebbe di dover dedurre il
carattere crisippeo della teoria della οἰκείωσις, qui chiaramente
attribuita a questo filosofo; ma per gli argomenti che consigliano
di attribuirne a Zenone almeno la prima formulazione cfr. Intr.,
nota 33, parte II, nota 104.
2. Cfr. DIOGENE LAERZIO, X, 137 (EPICURO, fr. 66 Us., 1 Arr.2); ma
non si tratta solo di Epicuro ed epicurei; cfr., per Eodosso di
Cnido, ARISTOTELE, Eth. Nic., X, 1172b 9 segg. (= fr. D 3 Lasserre)
3. Cfr. per la definizione di εὔρoια τοῦ βίου supra, parte
I, p. 189 e parte II, p. 254.
4. Incertezza del testo: accetta πραγματειῶν il Long; πραγμάτων
Gigante sulla scorta di Hermann e Reiske.
5. ἀδιαστρόφους (ἀδιαστρόφως in alcuni codici); per il concetto di
διαστροφή, parte I, nota 104.
6. Fr. 6 Gomoll; e cfr. il commento, GOMOLL, Hekaton, pp. 15 e 40.
7. Fr. 2 Edelstein-Kidd = 435b Theiler.
8. Fr. 8 Gomoll.
9. 〈δικαιοσύνην〉 è integrazione di Hicks. Per la presenza della
giustizia cfr. VII, 126.
10. Integr. Arnim 〈τὸ δὲ καθ’ὃ συμβαίνει〉. Nell’enumerazione dei
beni e dei mali c’è certamente materiale medio-stoico.
11. Integrazione del Lipsio. Dopo τελικά SUIDA (s.ν. ἀγαθόν)
aggiunge oἶov φίλος καὶ ἐλευθερία καὶ τέρψις («quali un amico, la
libertà, il godimento»).
12. Integr. Hikcs, resa necessaria dalla precedente.
13. È l’idea stoica di bellezza come simmetria, proporzione delle
parti; per cui cfr. supra, nota 433.
14. In base alla lezione proposta da Usener e accettata oggi da
Gigante, non il tradito ἀπέχειν (cfr. ad loc. Long) ma περιέχειν.
15. Fr. 4 Gomoll.
16. Stobeo ci riporta qui un uso promiscuo di τέλος e σκοπός, che
appaiono invece distinti; ma probabilmente non lo sono con chiarezza
prima di Antipatro di Tarso; cfr. supra, parte V, note 192 e 219 (in
base a PLUTARCO, De stoic. rep., 1072f = SVF III, Antipater, 59). In
proposito cfr. O. RIETH, «Hermes», 1934, pp. 13-45, in part. 32
segg. e POHLENZ, Stoa, II, p. 96 (ma Pohlenz si rifa sostanzialmente
allo studio del Rieth). La distinzione fra σκοπός e τέλος (il primo,
lo scopo prefisso; il secondo, il raggiungimento dello scopo) è
collegato al concetto di τέχνη στοχαστική, per cui cfr. ARISTOTELE,
Top., I, 1, 101b 4 e altrove; nel Peripato Aristone presso SESTO
EMPIRICO, Adv. math., II, 61. Difficile l’attribuzione della
definizione finale che Stobeo riporta, del τέλος come ἔσχατον τῶν
ὀρεκτῶν.
17. Lo ἰσχῦσαι è aggiunta amplificatoria di Filone.
18. Per il concetto di un’arte senza risultato esterno contrapposta
a un altro tipo di arte, dal diverso statuto ontologico (che produce
alcunché di esterno, e quindi fa venire all’essere e lascia un
oggetto dietro di sé) cfr. ARISTOTELE, Eth. Eud., II, 1219a 13
segg., Eth. Nicom., I, 1094a 4 segg.
19. Cfr. ancora RIETH, «Hermes» 1934, p. 34 segg.; A. A. LONG,
«Phronesis» 1967, p. 84 segg.; THEILER, Poseidonios, II, p. 358. Qui
ci si riferisce forse ad Antipatro e alla sua disputa con Carneade,
cui si farebbe allusione con il termine «i sofisti». La definizione
κατ’ἐμπερίαν τῶν φύσει συμβαινόντων è attribuita a Crisippo da
STOBEO, Ecl., II, 76, 3 e da DIOGENE LAERZIO, VII, 87. Antipatro
l’avrebbe modificata in una forma che Posidonio ritiene ancora
insufficiente. Per tutto il passo posidoniano cfr. fr. 187
Edelstein-Kidd = 417 Theiler.
20. Fr. 129 Gigante. Per il concetto di μέσα καθήκοντα (i «media
officia» di Cicerone, De fin., III, 17, 58) cfr. infra, nota 679.
21. SENOCRATE fr. 79 Heinze = 234 Isnardi Parente. Il nome di
Senocrate non è qui comunque particolarmente significativo; si parla
essenzialmente di Polemone, e Senocrate è richiamato in nome della
teoria, propria di Antioco, del riconducimento all’Accademia e
all’Accademia nella sua continuità di tutto ciò ch’è essenziale
nella teoria stoica.
22. Cfr, anche De fin., III, 9, 31; e per Aristippo IV A 184
Giannantoni.
23. È formula conciliatoria che media Zenone con Cleante e Crisippo:
cfr. ancora Intr., p. 21, anche per un tentativo (non sempre
possibile) di attribuzione delle singole definizioni del τέλος.
24. Nel brano di Michele Efesio la definizione ἔσχατον … τῆς φυσιχῆς
ὀρέξεως è attribuita non direttamente al τέλος ma allo εὐδαιμονεῖν,
«godere della felicità», in quanto questo è considerato τέλος. Il
passo è di commento a Eth. Nicom. X, 1178b 24 segg., ove si afferma
che gli animali privi di ragione non sono suscettibili di felicità.
25. È ancora un brano relativo alla definizione di «arte
congetturale», di cui per primo Aristotele si è valso per chiarire
anche le norme che regolano la vita etica (cfr. Eth. Nicom., II,
1106b 15-28, con ripresa in 1109a 23 segg). Il carattere stoico di
questo come del brano seguente, di Alessandro, è peraltro
discutibile, anche se i due brani sono stati inseriti dall’Arnim
nella raccolta: riportano teorie di carattere peripatetico che
probabilmente filosofi stoici come Antipatro hanno adattato ala
dottrina della scuola.
26. Riferimento alla famosa disputa degli Stoici contro Accademici e
peripatetici per cui cfr. ampiamente Cicerone, supra, parte IV (SVF
III, 20 segg.).
27. Analogie con la dottrina di Crisippo non mancano (cfr. PLUTARCO,
Stoic. rep., 1039c; STOBEO, Ecl., II, 172; DIOGENE LAERZIO, VII,
112) anche se certo tale dottrina è mediata da Cicerone attraverso
scritti medio-stoici. Cfr. anche Tusc. disp., V, 15, 43-45.
28. Cfr. anche De fin. V, 7, 20.
29. Cfr. anche Inst. div., III, 27.
30. «Noi» è riferito agli epicurei; si tratta di un passo
dell’argomentazione che Cicerone pone in bocca all’epicureo C.
Valerio Triario.
31. Sono notizie di Gellio relative alla sua discepolanza presso
Favorino di Arles («cum essemus una omnes Ostiae cum Favorino»).
32. Polemica antiperipatetica posta in bocca all’interlocutore
stoico, che è Marco Porcio Catone.
33. Cfr. in proposito di questo passo BABUT, Plutarque et le
stoïcisme, p. 336 e nota 4: accusa di contraddizione, con
contrapposizione della coerenza accademica (Senocrate, Polemone)
alla incoerenza degli stoici. Cfr. anche CHERNISS, Plut. Mor., XIII,
2, ad loc., per numerosi richiami ad altri passi ciceroniani e
plutarchei.
34. Per il concetto di condizioni ὧν οὐκ ἄνευ e l’inserimento di
queste nell’elenco generale delle cause cfr. CLEMENTE, Strom., VIII,
9 (= SVF II, 346) e supra, pp. 804 segg. Alessandro sembra riferirsi
a una dottrina secondo cui la φαντασία è considerata fra le cause ὧν
οὐκ ἄνευ dell’azione, e tende per suo conto a distinguere la
necessità di tipo naturale da quella che può essere in qualche modo
connessa al concetto di πρᾶξις: concetto che, nella tradizione che
risale ad Aristotele, è considerato facente parte del mondo del
contingente,
35. EPICURO, fr. 515 Us.
36. Così come in relazione al concetto di fine, ritornano qui in
questo brano, in relazione al concetto di felicità e «godere della
felicità» diverse definizioni di difficile attribuzione; la più
antica probabilmente, legata all’etica cinica e risalente a Zenone,
quella di αὐτάρκεια. Anche qui la definizione di ἔσχατον τῶν ὀρεκτῶν
è applicata allo εὐδαιμονεῖν piuttosto che direttamente al concetto
di τέλος. Per il carattere λογικόν della ὄρεξις cfr. infra, SVF III,
169 (da STOBEO, Ecl., II, 86, 17) e III, 441 Ida GALENO, De Hipp. et
Plat., plac., V, 7); Galeno afferma addirittura che, per gli Stoici,
vera ὄρεξις è solo quella del sapiente.
37. Tutti questi passi della Mantissa sono attribuiti dall’Arnim a
Crisippo, che però non è citato esplicitamente da Alessandro.
38. Cfr. la citazione esplicita di Senocrate in SESTO EMPIRICO, Adv.
eth., 3 segg. (fr. 76 Heinze = 231 Isnardi Parente). Rimando in
proposito a quanto detto in «Elenchos», 1981 p. 29.
39. Cfr. ARNIM, in nota, ad loc., per la ricostruzione delle
corrispondenti parole greche in base a DIOGENE LAERZIO, VII, 52
(usus = περίπτωσις, coniunctio = σύνθεσις, similitudo = ὀμοιότης,
collatio rationis = ἀναλογία). Ma nella enumerazione di Diogene
Laerzio (fra l’altro più ampia, se solo si pensi alla conoscenza
degli incorporei in base a un atto di μετάβασις o «traslazione»,
cfr. supra, parte VI, p. 692) il bene si dice esser conosciuto
φυσικῶς, per natura, il che risponde alla teoria stoica delle κοιναὶ
ἔννοιαι. Cicerone segue qui una teoria stoica venata di platonismo
se non mediostoica probabilmente però postcrisippea.
40. Cfr. anche Pyrrh. Hypot., III, 172; e, nel seguito del passo, la
definizione di εὔροια βίου, parte II (Cleante), parte IV (Crisippo),
e nota 556. Incerto a chi risalga il concetto di συμπληρωτικόν;
potrebbe far pensare a Crisippo il fatto che esso torni (in forma
negativa: gli indifferenti non sono συμπληρωτικά) in PLUTARCO, De
comm. not., 1060c).
41. Simplicio muove questa accusa agli Stoici pur riconoscendo che
questi non considerano un bene le forze, o capacità (δυνάμεις) e che
per essi il termine ἀγαθόν ha valore univoco e assoluto.
L’argomentazione logica ha luogo nell’ambito del commento a Phys.
VIII, 251b 17-19
42. Seneca fa riferimento allo pseudómenon nel contesto, ma per
porre una questione di tipo etico e non logico.
43. Seneca accetta la tesi della corporeità della virtù, ma rifiuta
l’estensione della teoria che fa sì che la virtù venga concepita
come un essere animato, ζῷον; cfr. Epist. 113, 20 segg., ove le
argomentazioni in proposito sono dette «subtiles ineptiae», e la
conclusione, 25 («et ego … fateor animum animal esse: actiones eius
animalia esse nego»). Le conclusioni senechiane rappresentano
peraltro un passo ulteriore rispetto alla teoria della Stoa antica.
Cfr. infra, nota 676.
44. Si richiede qui una frase necessaria per la simmetria
dell’insieme; così come alla fine ἐπαινετόν si rende necessario per
la stessa ragione (integr. Heeren).
45. Ancora integrazione Heeren. La distinzione, che si vale dei due
aggettivi verbali contrapposti, rientra in quella più generale di
σκοπός e τέλος, per cui cfr. supra, nota 569: fra l’oggetto che ci
si prefigge di possedere, o attuare, o scegliere, e l’atto effettivo
e realizzato.
46. Integrazione Heine; anche qui il testo è lacunoso.
47. La teoria del carattere incorporeo del predicato è data come
cleantea, ma perfezionata da Archedemo di Tarso; cfr. parte II, nota
52; parte V, nota 210. Le disquisizioni teoriche assai sottili
trattate nel brano in questione fanno pensare come ipotesi più
probabile alla loro appartenenza ad Archedemo.
48. Integrazione Wachsmuth. Per l’accettazione delle virtù
platoniche da parte degli Stoici cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 102, e
infra.
49. Integrazione Meineke.
50. Cfr. la traduzione di SENECA, Epist. 102, 5 = SVF III, 160: «ex
distantibus». Διεστηκότα significa infatti, letteralmente, «cose
separate l’una dall’altra», e quindi anche esterne l’una
all’altra: il significato di esteriorità ed estraneità è il più
pertinente a questo brano, che ci riporta una teoria secondo la
quale vero bene è solo quello intrinseco e «attivo» (non essere
oggetto dell’amicizia altrui, ma nutrire amicizia).
51. Cfr. per questo brano anche Scholia in Lucianum (Bis Accus.,
22), p. 140 segg. Rabe. Περιπάτεσις ha naturalmente significato
filosofico ed è detto dell’uso della scuola; cfr. anche DIOGENE
LAERZIO, VII, 109; GELLIO, Ν. Α., XX, 5, 5; per non dire
naturalmente dell’uso del termine περίπατος per scuola filosofica e
sede della medesima, non solo della scuola di Aristotele ma già
dell’Accademia (Index. Acad. herc., p. 38 Mekler, e altrove) o nel
senso di scuola filosofica in generale (ἓτερος περίπατος, ancora
Index Acad. herc., p. 39 Mekler).
52. Cfr. Scholia in Lucianum, loc. cit.; per la parola qui usata, di
uso tardo, φρονίμευσις, in part. p. 141, 14 Rabe. Un altro esempio
di coniazione simile in STOBEO, Ecl., II, 7, ne (φρονίμευμα). Per
l’uso stoico di ἓξις e διάθεσις, nota 253.
53. Cfr. DIOGENE LAERZIO, VII, 96, supra, p. 1056 segg.
54. Alla parola σχέσις non è qui possibile dare il semplice
significato di situazione o condizione, come in passi quali
SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 165, 32 segg, Kalbfleisch, cfr.
SVF II, 403). Cfr. il passo, in verità più peripatetico che stoico,
di FILONE, De sobrietate, 34, II, p. 220, 10 segg. Wendland = SVF
II, 244, in cui la parola σχέσις ritorna in contrapposizione a
κίνησις e viene assimilata a ἔξις, così come κίνησις a ἐνέργεια.
55. La distinzione richiama SIMPLICIO, In Arist. Categ., p. 166, 6
segg. Kalbfl. (= SVF II, 403), per la presenza del concetto e
dell’espressione accademica di καθ’ἐαυτό, «per sé». La
quadripartizione categoriale stoica tende, mediante questo, a
ridursi a bipartizione.
56. 〈συμφωνίαν〉 è integrazione del Wachsmuth.
57. Cfr. definizioni simili negli Ὃροι pseudoplatonici, che non sono
del resto esenti da qualche influenza stoica: per la definizione
della φιλία ivi, 413a-b.
58. Il seguito del passo senechiano verte sul tema dell’uguaglianza
di tutti i beni in quanto tali. ARNIM, ad loc., propende ad
attribuire le argomentazioni ad Ecatone. Che l’influenza di Ecatone
su Seneca fosse notevole e maggiore di quella di Panezio è opinione
di GOMOLL, Hekaton, p. 25 segg.
59. Cioè indifferente, detto nel modo più antico e forse ancora
zenoniano (ma, già prima di Zenone, senocrateo; cfr. Intr., note 3,
36: SENOCRATE, fr. 76 Heinze, 231 Isnardi Parente; da SESTO
EMPIRICO, Adv. eth., 3).
60. fr. 7 Gomoll.
61. Integrazione del Wachsmuth, in base al passo analogo di Scholia
in Lucianum (Bis accus., 22), pp. 140-144 Rabe.
62. Cfr. anche Pyrrh. Hypot., III, 191.
63. Cfr. supra, parte V, note 149 e 192 (SVF III, Antip., 52). La
parola ἐκλογή acquista particolare importanza nel tardo ellenismo,
fino alla formazione dell’aggettivo ἐκλεκτικός come indicante una
tendenza e corrente filosofica.
64. Cfr. parte V, nota 150, a proposito di Diogene di Babilonia (SVF
III, Diog. B., 47).
65. Il testo italiano rende imperfettamente il significato di
«esame» e di «esaminare» connesso alla parola δοκιμάζειν; si pensi
alla δοκιμασία come termine politico (esame preliminare necessario
per i magistrati, soprattutto se sorteggiati, prima di adire la
carica).
66. Per la discussione della critica moderna sulla formazione di
ἀποπροηγμένον cfr. supra, Intr., nota 38.
67. Integr. Wachsmuth. La presenza del concetto di ἐκλογή fa pensare
ad Antipatro o ad Archedemo di Tarso.
68. Leggera integrazione del Wachsmuth «ἀπό» ma l’Arnim ritiene che
la parte caduta sia più ampia. Dal testo quale è tradito si
dedurrebbe che gli Stoici, o meglio alcuni di essi, avessero anche
formulato un concetto di πρῶτα παρὰ φύσιν, condizioni o
situazioni di menomazione naturale e primaria. Il concetto non
sembra però attestato altrove.
69. Integrazione Wachsmuth.
70. ἀν〈εν〉εκτικῶς anziché ἀνεκτικῶς, emendazione Arnim.
71. Integrazione Schweighäuser (1799), non accettata comunque da
tutti i successivi editori. Nel testo è citato il nome di Crisippo,
ma si tratta di un Crisippo «persona ficta» e non di un autentico
riferimento.
72. Cfr. AEZIO, IV, 23, 1, Dox. Gr., p. 414a (ove si parla in
termini analoghi anche di Epicuro); supra, p. 1044. Può darsi che
Clemente Alessandrino abbia qui in mente una teoria di questo tipo,
circa il distacco dei πάθη dallo ἠγεμονικόν.
73. È allusione ad Antistene; cfr. per questo fr. 108b Decleva
Caizzi, e, con più ampi riferimenti, GIANNANTONI, Socraticorum
reliquiae II, VA 122. Chiarisce e delimita il testo un riferimento
analcgo da GELLIO, Noctes Att., IX, 5, 3 (= 108c Decleva Caizzi).
74. PANEZIO, fr. 112 Van Straaten. La citazione fatta qui da Panezio
può chiarire il «plerique» di Cicerone, SVF III, 154.
75. Seneca respinge più volte certi sofismi crisippei o della Stoa
antica con l’espressione «cavillatio» o «cavillari»: cfr. Epist. 45,
5; 64, 3; 108, 12; 111, 2.
76. Integrazione Arnim, che modifica quella già compiuta dal
Wachsmuth (πράττειν anziché μὴ πράττειν).
77. È segnalata qui dagli editori una lacuna di notevoli
proporzioni.
78. 〈Αἳρεσις〉, integrazione del Salmasius; così pure il successivo
ἐν χερσίν è emendamento del medesimo.
79. È riferimento alla scuola e alle lezioni di Calvisio Tauro; per
il quale cfr. parte I, nota 130. Tauro consola in termini
stoicheggianti il dolore di un «nobilis in Stoica disciplina
philosophus» che sa astenersi dal gemere seppur afflitto da
terribili sofferenze fisiche.
80. «Sensus sui» è traduzione, probabilmente, di συνείδησις (cfr.
DIOGENE LAERZIO, VII, 85) ο συναίσθησις.
81. Alessandro, secondo il Pohlenz (ed è teoria ancora sostenibile)
ci renderebbe in questo passo la distinzione fra la forma zenoniana
della dottrina della οἰκείωσις (nella forma linguistica πρῶτον
οἰκεῖον) e quella crisippea con la formazione terminologica
definitiva; cfr. Grundfragen St. Philos., p. 13 segg.
82. Sembra di vedere in ciò una correzione in senso platonizzante
della dottrina della οἰκείωσις. Ciò potrebbe far pensare alla
Media Stoa; forse, con l’Arnim, a Posidonio. Ma la mediazione
potrebbe esser anche quella dell’Accademia stoicheggiante di
Antioco.
83. Segue un tratto relativo ad Erillo di Calcedone e ad Aristone di
Chio, e forse anche questo brano riflette una polemica crisippea
contro questi filosofi, per i quali contro natura è solo la virtù e
non gli indifferenti non preferibili (la malattia, la povertà). Cfr.
supra, parte III, nota 101.
84. Il fr. 200a della raccolta dell’Arnim (SENECA, Epist. 76, 9) non
sembra aver nulla di specificamente stoico: essa pone una gerarchia
della ragione come superiore all’intendimento dell’animale e
inferiore all’intendimento divino ch’è tema assai generico, e può
dipendere anche da Aristotele.
85. Cfr. PLOTINO, Enn., I, 1, 2, 7-10.
86. Il paragone fra la «arte del vivere» e l’arte del flauto ha
ascendenze platoniche (cfr. l’esempio di arte del flauto come arte
dell’uso in Resp., X, 601d). Potrebbe essere un elemento a favore
della possibile origine della teoria non tanto dalla Stoa quanto da
Antioco di Ascalona; o perlomeno di un passaggio della teoria stoica
attraverso la speculazione di Antioco.
87. Cfr. il testo dato dal Diehl, I, p. 56, 28-57, 4: τὴν τῆς ζῳῆς
ἀξίαν (l’Arnim considera invece τῆς ζῳῆς parole corrotte).
88. Di stoico c’è, in questo brano, il tema dell’estendersi
dell’intelletto fino ai sensi (cfr. parte II, nota 78). Le quattro
virtù platoniche, che qui compaiono, sono accettate, com’è già noto,
dagli Stoici, non meno che dagli Epicurei (per Zenone cfr. DIOGENE
LAERZIO, VII, 102; parte I, nota 212).
89. I beni dati dagli dèi sono qui i beni esterni dati dalla tyche
(l’ordine regna nella natura, ma non nella vita degli uomini; cfr.
Intr., p. 56). Plutarco considera questo (abolizione di fatto della
tyche e reintroduzione di essa) una contraddizione della dottrina
stoica.
90. Per il concetto di φυσικὴ ἀρετή cfr. Eth, Nicom., VI, 1144b
3-17; VII, 1151a 18; e anche Eth. Eud., III, 1234a 27 segg.
91. Integr. Kötschau.
92. Cfr., sulle cause del διαστρέφεσθαι qui addotte da Calcidio,
anche DIOGENE LAERZIO, VII, 89; e analogamente il brano seguente a
questo, da Galeno. Per ulteriori riferimenti cfr. l’apparato del
WASZINK, Plato Latinus, IV, London-Leiden 1962, pp. 196-197.
93. Il discorso fa parte della polemica anticrisippea, con ritorno
alla tripartizione platonica, per cui vfr. parte IV, note 153 e
segg.
94. POSIDONIO, fr. 160 Edelstein-Kidd = fr. 416 Theiler.
95. È testimonianza sui culti egiziani (adorazione dello sciacallo
Anobi e della dea-gatto Bastet). Può risalire ad Antioco di
Ascalona, di cui è ben noto il soggiorno ad Alessandria; ma si
tratta di dati culturali ben noti anche indipendentemente e
anteriormente.
96. Seguono citazioni poetiche varie, che non si può dire se siano
già comprese (ciò potrebbe essere) nella fonte stoica: almeno lo
potrebbero essere EURIPIDE, Danae (fr. 324 Nauck2) e il passo del
Bellerofonte, così come i Fr. trag. adesp. 181 e 461 Nauck2. È
invece senechiana la citazione di OVIDIO, Metam., II, 1 segg., 107
segg.
97. ἠλίθιοι, corregge Arnim al posto di ἀληθεῖς; è da notarsi che il
Kühn, su cui l’edizione Arnim si fonda, lasciava il testo tradito
pur traducendo «stulti». Le integrazioni sono dell’Arnim.
98. È una teoria stoica in polemica probabile con quella
rappresentata da ARISTOTELE, De an., II, 412a 25, e passi analoghi,
nei quali il sonno è considerato stato di ἀδυναμία e caratterizzato
dallo ἔχειν ma non esercitare in atto, μὴ ἐνεργεῖν. Per gli Stoici
lo stato del sapiente, il suo abito, non subisce variazioni dal
sonno alla veglia.
99. TEOGNETO, fr. 1 Kock, da ATENEO, Deipnosoph., III, 104b. Per
l’autore, poeta comico della commedia nuova, dell’avanzato III sec.
a. C., cfr. KÖRTE, Real-Encycl., V A 2, 1934, coll. 1971-72.
100. Alessandro applica tipicamente al discorso stoico concetti
aristotelici, quali quelli di potenza e atto. Ma è probabile che nel
ragionamento ci sia un nucleo originariamente stoico: gli Stoici, in
posizione difensiva nei riguardi dei loro avversari, avrebbero
sostenuto che il sapiente non può non compiere più altro che azioni
virtuose, ma può pur sempre compierne alcune piuttosto che altre;
quindi alcune, di fatto, può non compierle.
101. Cfr. più sinteticamente ORIGENE, Contra Celsum, IV, 29 e
CLEMENTE, Stromata, VII, 14 (SVF III, 249-250). La teoria che
afferma essere uguale la virtù del sapiente e quella della divinità
è allo stesso modo stoica ed epicurea; per Epicuro cfr. i frr.
601-602 Us. (SENECA, Epist. 119, 7; ELIANO, V. H., IV, 13; CLEMENTE,
Strom., II, 21).
102. EPICURO, fr. 227a Us.
103. 〈λογικοῦ〉 ζᾡου, Wachsmuth, (πολιτικοῦ) Arnim.
104. Integrazione Heeren.
105. Cfr. supra, nota 641.
106. Integr. Wachsmuth.
107. Integr. Schuchhardt, conservata dall’editore più recente,
Glibert-Thirry. La parola usata per 'abito' dallo ps. Andronico è
quella peripatetica (e aristotelica) di ἓξις, anziché quella più
tipicamente stoica di διάθεσις (cfr. supra, nota 246). Tuttavia, per
la presenza di forti elementi stoici nell’operetta attribuita ad
Andronico, oltre all’Arnim, SVF, Intr., cfr. oggi nuovamente
GLIBERT-THIRRY, CAG Suppl. 2, Leiden, 1977, p. 23 segg.
108. Sono esempi tratti dalla vita di Senocrate; di Laide parla
DIOGENE LAERZIO, IV, 7 (fr. 2 Isnardi Parente) e di Frine VALERIO
MASSIMO, Fact. Mem., IV, 3, ext. 3 (fr. 26 I. P.).
109. Più misto il linguaggio di Clemente, nel quale troviamo la
virtù definita ora ἓξις, ora διάθεσις, ora ἐπιστήμη, rispetto a
quello dello ps. Andronico.
110. Per una ritraduzione possibile dei termini: habitudo = ἓξις;
habendum = ἑκτόν; ma nella seconda terna ἐπιστητόν dovrebbe
corrispondere a scibile.
111. Integr. Usener.
112. Segue un passo di PANEZIO, fr. 109 Van Straaten; ma il fatto
che il passaggio suoni «similmente disse Panezio» sembra attestare
che quanto sopra non è paneziano.
113. Sono, fondamentalmente, i precetti limitativi dell’etica
delfica; ma è significativamente stoico il dichiarare che nemmeno
questi possono esser compresi senza la conoscenza di una corretta
scienza della natura.
114. Cfr. più oltre per la precisa definizione di κατόρθωμα, in
contrapposizione a καθῆκον. Il concetto di εὔλογος («ragionevole») è
di Arcesilao; in tal caso la traduzione migliore sarebbe
'ragionevolmente' ma nel vocabolario stoico la parola assume un
significato più deciso. Arnim ritiene che il passo riporti polemica
di Arcesilao contro gli Stoici.
115. «Affectus», il termine usato da Girolamo, è scarsamente adatto
a tradurre sia ἓξις, sia διάθεσις.
116. ’Αγάπη non sembra concetto stoico (mentre figura nel
vocabolario stoico ἀγάπησις, cfr. SVF IV, Index, s. v.) e tanto meno
lo è nel senso chiaramente cristiano di «carità» che gli dà
Clemente; tuttavia a questa parola che ha subito uno scivolamento di
significato Clemente applica definizioni stoicheggianti. Per
ἀγάπησις cfr. anche PS. ANDRONICO, De aff., 6, SVF III, 432.
117. Arnim ha qui cercato di ricostituire la definizione stoica
ponendo un σπουδαία (= buona) al posto di τοῦ χριστιανοῦ, e ha
considerato καὶ ὄρεξιν ἀληθείας come aggiunta di Clemente.
118. ECATONE, fr. 7 Gomoll. Per Crisippo e Apollodoro cfr. parte IV
e parte V.
119. È un altro modo per dire che le virtù sono ποιαί, «qualificate»
(per Crisippo nella polemica contro Aristone di Chio supra, parte
IV, nota 203); qui si usa il concetto di ἲδιον, mutuato ad
Aristotele e al Peripato.
120. In quanto l’essere in sé, per Filone, si identifica con Dio:
tratto specificamente filoniano che si inserisce in un contesto
stoico.
121. Testimonianza su Anassagora, che non sembra esser compresa
nella raccolta Diels-Kranz.
122. Ancora affermazione del carattere στοχαστικόν, congetturale,
questa volta applicato al discorso sulla virtù e non direttamente a
questa; il che denota una volta di più l’ampio uso che si fa del
motivo dello στοχασμός.
123. Cfr. già supra, nota 596: Seneca espone qui la dottrina delle
virtù come esseri animati, non condividendola; cfr. la conclusione
«quod nullo modo recipiendum est».
124. Integr. Casaubonus.
125. Lo scoliasta commenta i passi stoicheggianti della Pharsalia
con ricorso a CICERONE, De fin., ΙΠ, 6, 20-22, De off., I, 4, 12; 7.
22. Ma mentre in Cicerone il collegamento emergente è quello di
«prima naturae» / οἰκείωσις, lo scoliasta sembra privilegiare
l’accostamento καθῆκον / οἰκείωσις, fondando il concetto di
azione doverosa su quello di apparentamento con se stessi. Una volta
di più siamo ricondotti, per questa strada, all’attribuzione della
teoria, anche se probabilmente in forma terminologica non
tecnicizzata, a Zenone.
126. Questa è forse la scia testimonianza ciceroniana in cui il
καθήκον, atto di dovere sociale esterno o atto «conveniente», venga
posto in stretta relazione col concetto di οἰκείωσις.
La οἰκείωσις è propria anche degli stolti e lo stolto può,
in forma puramente esteriore, compiere un καθῆκον; ciò porta
certamente ad una attenuazione nella rigidità della distinzione,
senza smentirla.
127. Il concetto di μέσαι τέχναι appartiene alla Stoa matura; il
primo ad attestarcelo è Filone, essendo Alessandro d’Afrodisia e
Porfirio (cfr. infra) le altre fonti. «Arte» è usato in forma
avalutativa, come abilità inteligente che verte intorno ad alcunché
di indifferente. Non necessariamente comunque il concetto è da
attribuirsi alla media Stoa.
128. Forse il maestro di Frontone, Dionisio detto ὁ λεπτός
(latinamente «Tenuior») retore del II sec. d. C.
129. Integrazione del Naber (1867) accettata anche dal più recente
editore, Van den Hout (Leiden 1954).
130. πιστός non è certo espressione stoica: ma occorre sempre
tener conto della trasposizione che fa Clemente di termini stoici in
termini cristiani.
131. Probabilmente giusto l’emendamento τεχνικὴ διάθεσις contro il
τ. διαίρεσις dei codici.
132. 〈Μή〉 integrato dal Mangey.
133. Integrazioni del Busse.
134. Sono esempi paradigmatici del coraggio e della viltà al loro
estremo (Brasida, il famoso generale spartano della guerra
archidamica da un lato, e dall’altro il personaggio Dolone di
Iliade, X, libro detto appunto «Doloneia», allo scopo di
ridicolizzare la teoria stoica. Le aggiunte di Platone e di Meleto
appartengono alla tradizione socratico-platonica; forse, dal momento
che vi figura Platone anziché Socrate, sono aggiunta plutarchea.
135. EURIPIDE, Iphig. Taur., v. 569. Per la teoria del progresso
cfr. Intr., nota 45, a proposito delle Testimonianze plutarchee (p.
es. in De comm. not., 1063a) relative a Crisippo.
136. La testimonianza di Filone manca della carica polemica tipica
di quella plutarchea, e sembra chiarire che colui che non è ancor
conscio del suo sapere o della raggiunta ragionevolezza e virtù non
è «il sapiente», ma colui che si trova ancora al limite della
sapienza vera e propria. La forzatura di Plutarco supera certamente
i limiti dell’obbiettività e non è attendibile.
137. Non contenuto negli SVF, forse perché dall’Arnim ritenuto non
pertinente alla dottrina della Stoa antica, il passo di Seneca va,
nel suo contenuto, al di là della stessa testimonianza filoniana:
non è il sapiente, ma è il προκόπτων ἐπ’ἄκpov, l’uomo giunto al
massimo grado del progresso ma non ancora giunto alla sapienza, cui
può applicarsi la teoria stoica che Plutarco irride come del tutto
contraddittoria, quella della non consapevolezza. Più che di uno
sviluppo postcrisippeo, si tratta probabilmente della dottrina dello
stesso Crisippo, ridotta alle sue proporzioni e dimensioni
ragionevoli.
138. È l’argomento «degli stadi» (chi dista cento stadi dalla città
ne è fuori così come chi ne dista uno soltanto; cfr. DIOGENE
LAERZIO, VII, 120).
139. È già noto come le quattro passioni corrispondano specularmente
alle quattro virtù. Ampia è la tradizione dossografica in proposito;
per l’esame di essa cfr. GIUSTA, Dossografi di etica, II, p. 244
segg. Per i precedenti platonici cfr. Phaedo, 83b; Resp., IV, 430a.
Per Ecatone cfr. fr. 9 Gomoll.
140. Integrato in base a SUIDA, Lex., s. ν. φόβος.
141. Iliad., I, vv. 81-82.
142. Il papiro medico (non in SVF) sembra riflettere la polemica di
Crisippo, secondo il quale la passione si distingue soprattutto per
la sua opposizione alla ragione, contro Zenone e discepoli che la
considerano una ὑπέρτασις, una tensione esagerata. La definizione è
peraltro data conservando un certo carattere ambiguo e misto. Manca
in essa ciò che è più ancor tipicamente crisippeo, l’equiparazione
della passione a un cattivo giudizio.
143. Integrazione del Wachsmuth e dello Heine, rispettivamente.
144. GIUSTA, Dossografi di Etica, II, p. 251 segg., fa notare le
oscillazioni così frequenti nei riferitori fra
passione/perturbazione e passione come «conseguenza di δόξα»
(Zenone) o «cattiva δόξα» (Crisippo). Cfr. anche supra, per le
differenziazioni di Clemente Alessandrino fra i vari aspetti del
πάθος.
145. Per il significato di πράσφατος/recens («attuale, ancor
fresco») cfr. la spiegazione di Cicerone in Tusc. disp., III, 75, e
supra, parte I, nota 222.
146. Integrazioni del Diels.
147. EURIPIDE, fr. 837 Nauck2.
148. Integrazione del Wachsmuth; l’aggiunta ulteriore, congetturale,
risale al Salmasius.
149. Integr. Heine.
150. Manca la definizione del «pudor»; lacuna che il Baiter ha
inteso riempire con «pudorem metum sanguinem diffundentem», la
vergogna che causa rossore.
151. Non pertinente alla Stoa antica, ovviamente, la successiva
aggiunta ciceroniana di una citazione di Ennio, che compare anche in
Orator, III, 38, 154.
152. Ossia i «predicati», distinzione fra oggetti concreti (=
corporei) e predicati veri e propri (= incorporei) che ricorda la
distinzione di Archedemo di Tarso (parte V, nota 210).
153. La convinzione dell’Arnim, che parte delle definizioni dello
ps. Andronico siano aggiunte estrinseche, e soprattutto fuori della
tradizione stoica, ha le sue radici negli studi dei due editori,
Kreuttner e Schuchhardt, che hanno ritenuto non pertinente
originariamente al testo tutto ciò che non figura nel codice più
antico e più ridotto, il Coisliniano 120 del sec. X. L’editore più
recente, Glibert-Thirry, ad loc., conserva nel testo l’espressione ἤ
λύπη ἐπὶ τῇ τῶν ἐπιεικῶν εὐπραγἱᾳ.
154. Anche qui cfr. Glibert-Thirry per la conservazione di ζῆλος
μαχαρισμὸς ἀστειότητος: che tuttavia sembra veramente inserzione
estranea.
155. Arnim, con il Kreuttner, considera aliena al testo originario
tutta questa definizione.
156. Anche qui espunto dagli editori più antichi, fra cui l’Arnim, e
conservato dal Glibert-Thirry.
157. Incerto (ma è accettato anche in questo caso da Glibert-Thirry)
il seguente «o il cader nell’eccesso quanto a venerazione verso gli
dèi».
158. Accetto la emendazione testuale del GIUSTA, Dossogr. etica, II
p. 265 segg., νέων anziché ναῶν: il servire gli dèi nell’adornamento
dei templi non si adatta assolutamente al resto della frase e rende
il tutto privo di senso. Giusta integra anche un 〈εὐφυῶν τε〉 prima
del καί. Per il tema dei «giovani belli» nella Stoa cfr. PLUTARCO,
De comm. not., 1072f (infra) Tutta la prima parte della definizione
è espunta dagli editori più antichi; Glibert-Thirry conserva il
tutto senza emendazione, il che non appare ragionevole.
159. Un ἄχρηστος, «inutile», è considerato inserimento estraneo
anche dal Glibert-Thirry. Non c’è invece alcuna ragione di espungere
il precedente ἄμετρος, giacché i concetti di misura e simmetria sono
largamente penetrati nella Stoa.
160. Sembra concessione alla μετριοπαθία peripatetica; il che
indica una volta di più la scarsa coerenza e la tendenza alla
contaminazione in questi autori tardivi che dipendono da tradizione
dossografica.
161. Le definizioni di Nemesio (o della sua fonte dossografica) non
coincidono del tutto con quelle di Diogene Laerzio: cfr. ad es. la
definizione di κατάπληξις, che manca nel testo di quest’ultimo, VII,
112-113.
162. Anche qui differenza rispetto alla definizione laerziana di
ἀγωνία (VII, 113; il cui testo è peraltro lacunoso in più codici).
163. È rimprovero che Crisippo doveva muovere alla filosofia
preredente: cfr. GALENO, De Hippocr. et Pl. plac., IV, 4 = SVF III,
440; supra, parte IV. Nell’insieme la fonte dossografica di Nemesio
sembra riportare materiale antico-stoico: le manca il tecnicismo
virtuoslstico della nomenclatura filosofica postcrisippea.
164. La parola usata è platonizzante, θυμός; il che potrebbe anche,
di per sé, riportarci alla Stoa di mezzo; ma sconsiglia a crederlo
l’insieme del brano. Θυμός è anche parola arcaizzante, di origine
omerica, aliena da tecnicismo.
165. L’uso dell’etimologia (nel senso di verità della parola
affidata alla sua stessa struttura linguistica) è indice di una
certa antichità di queste teorie. I giochi linguistici di questo
tipo sembrano appartenere a tradizione zenoniana-cleantea.
166. Fr. 24 Wehrli; cfr. il commento, Sch. d. Arist., X, p. 69.
167. Notissimo il personaggio euripideo di Ippolito; quanto a Timone
il misantropo, la prima citazione di questo personaggio è in
ARISTOFANE, Aves, ν. 1547; Lysistr., ν. 805.
168. «Morbus» e «aegrotatio» sono le due traduzioni che Cicerone dà
di νόσημα e ἀρρώστημα; Seneca (cfr. fr. seg.) distinguerà più
semplicemente fra «affectus» e «morbi». Cfr. GIUSTA, Dossogr. Etica,
II, p. 275 n. 3 (con la citazione a rincalzo dell’Anonimo Londinese,
De Medic., III, 16 segg.).
169. È certamente una attenuazione della rigidezza stoica nella
distinzione fra sapienti e stolti; e tutta la teoria delle εὐπάθειαι
(«passioni buone») ο εὐσυμπτωσίαι («inclinazioni a passioni buone»)
potrebbe appartenere ad una fase avanzata della Stoa, addirittura
alla Stoa di mezzo (o forse alla fase di transizione). Cfr. ancora
GIUSTA, Dossogr. etica, II, pp. 276-277 e infra, nota 725.
170. È ripresa stoica di un antico concetto platonico-pitagorico,
della salute come simmetria e proporzione (Tim. 82 a segg.).
171. [Non] è stato espunto già dal Lambino. Proposte di emendazione
del testo, con l’integrazione di «hi» o «qui», da parte di più
interpreti.
172. Εὐπάθεια è tradotto da Cicerone con «constantia». Per la
possibilità del carattere seriore della teoria della εὐπάθεια cfr.
ARNIM, Quellenstudien zu Philo ν. Alexandreia, Philol. Unters. XI,
1888, p. 129; per tutta la questione Intr., p. 63 segg.; e supra,
nota 722,
173. Integr. Wachsmuth, come il seguente (εὕνοια).
174. Difficilmente questo punto può ascriversi alla Stoa antica, per
la quale il concetto di compassione è negativo (qui invece essa è
considerata una passione buona o ragionevole); per gli Stoici, o
almeno per la Stoa antica, la compassione è «aegritudo», dolore,
quindi male. Cfr. infra, nota 734.
175. Iliad. VI, v. 484.
176. Questa citazione di Platone ha fatto supporre all’Arnim che qui
Galeno riporti polemica crisippea contro Platone stesso; cfr. SVF
III, p. 108. Ma il contesto non sembra dare molto supporto
all’ipotesi; la citazione di Platone è probabilmente propria di
Galeno.
177. Clemente, e in genere il pensiero cristiano, eredita dalla Stoa
la teoria secondo cui la passione è atto volontario, e quindi
colpevole; essa, nonostante l’apparenza che la direbbe un «subire»,
implica l’assenso e quindi il consenso del volere. Su questo doppio
aspetto del πάθος cfr. GIUSTA, Dossografi di Etica, II, p. 268.
178. Cfr. anche, dello stesso Filone, De decalogo, 142 segg., ove si
fa una importante concessione alla tesi stoica della volontarietà
del πάθος: pur essendo i πάθη in genere derivati dall’esterno e
quindi involontari, non così si può dire almeno per uno di essi, la
επιθυμία, il desiderio. Cfr. ancora GIUSTA, loc. cit, p. 269 segg.
179. «Spes» è qui usato da Girolamo ove potremmo aspettarci
«cupiditas».
180. Probabilmente riferendosi alla stessa caratteristica di
litigiosità e puntigliosità verbale rilevata da Critolao, supra,
nota 719.
181. Seneca riporta qui l’esatta dottrina antico-stoica circa la
compassione; cfr. supra, nota 727.
182. L’interpretazione in senso razionalistico della psicologia
stoica è spinta fino all’esasperazione da Plutarco; cfr. in
proposito Intr., p. 62 segg.
183. Cioè dell’anima, del corpo, esterni (secondo la dottrina
peripatetica). Per la posizione di chi crede di poter unite nella
nozione di sommo bene la virtù e il piacere cfr. De officiis, III,
33, 119 («quo magis reprehendendos Calliphontem et Dinomachum ludico
qui se dirempturos controversiam putaverunt si cum honestate
voluptatem tamquam cum homine pecudem copulavissent»).
184. Exodus, I, 7 (citato in base alla traduzione dei Settanta).
185. Abbiamo qui il contrasto δόξα φύσις anziché νόμος φύσις. Νόμος
e δόξα si giustificano se la fonte di Cicerone in questi passi del
De legibus non è tanto un autore stoico quanto un autore
stoicheggiante (Antioco di Ascalona).
186. Più ampia integrazione proposta dal Madvig (an arboris aut equi
ingenium natura) etc.
187. L’idea che la legge vera, autentica, si identifica con l’azione
del φρόνιμος, dell’uomo buono e saggio, è prestoica; cfr.
ARISTOTELE, Protr., fr. 5 a Ross; Eth. Nicom., III, 1113 a 32 segg.,
X, 1176 a 17; Polit., III, 1284a 15; per altri passi ancora cfr. I.
DÜRING, Aristotle’s Protrepticus. An Attempt at Reconstruction,
Goteborg 1961, p. 121.
188. È polemica contro posizioni quali quelle espresse da Protagora
secondo PLATONE, Theaet., 166d-172b (cfr. 80 A 21a Diels-Kranz, ove
però il passo è riportato in forma incompleta) o anche Democrito
secondo una fonte tardiva, EPIFANIO, Adv. haereses, III, 2, 9 (68 A
166 Diels-Kranz): secondo le quali la legge è δόξα, ο ἐπίνοια
(«escogitazione»), dell’insieme del popolo che rappresenta la città.
189. TERENZIO, Heautòn Timoroúmenos, ν. 77
190. Il passo ricorda una presa di posizione cleantea nei riguardi
di Socrate per cui cfr. parte II, nota 37. Naturalmente è del tutto
improbabile che qui Cicerone attinga a Cleante direttamente.
191. Per questo passo ciceroniano cfr. M. UNTERSTEINER, Sofisti, I,
Firenze, 1967, p. 59 segg. (PROTAGORA, fr. 23a): si tratterebbe,
secondo l’Untersteiner, di polemica diretta contro un passo
protagoreo ricostruibile attraverso le frasi ciceroniane nella sua
quasi integrità (per il tentativo di ricostruzione cfr. ivi, pp.
60-61). È tuttavia improbabile che gli Stoici polemizzassero ancora
direttamente con i sofisti; e, se il passo deve considerarsi mediato
attraverso Antioco di Ascalona, è più ovvio pensare che si tratti di
polemica anticarneadea di questi. Sarebbe cioè Carneade ad aver
ripreso, ma anche sviluppato in maniera autonoma, certi argomenti
sofistici circa le relatività delle leggi, cui Antioco avrebbe
opposto gli argomenti, di marca stoica ma con ascendenti platonici,
della validità ab aeterno della legge secondo natura. La figura di
Protagora diviene, a questa luce, alquanto remota.
192. Dottrina di ascendenza socratico-platonica; diversamente,
Aristotele, nel libro I della Politica, distingue nettamente governo
della casa da governo della città. Cfr. per l’unità di governo della
casa e governo pubblico anche SENOFONTE, Oecon., 1 segg.
193. Cfr. anche LATTANZIO, Inst. div., VI, 8. Anche qui potrebbe
esserci l’eco di polemica anti-caraeadea.
194. È la posizione, nella Stoa, sostenuta soprattutto da Cleante,
cfr. Intr., P· 37, e parte II, nota 120.
195. Per altre espressioni del cosmopolitismo stoico cfr. anche i
passi seguenti; questi peraltro derivano da fonti più tardive, e
prezioso è per noi questo passo ciceroniano ad attestazione del
fatto che una simile espressione di cosmopolitismo è
tardo-ellenistica e non va cercata in età imperiale. Cfr. Intr., p.
67 segg.
196. Il concetto di οἰκειότης, parentela, coinvolge dunque uomini e
dèi. Cfr. più oltre SESTO, Adv. eth., 130 segg. (= SVF III, 370),
dal quale abbiamo la precisazione che tale parentela è in virtù del
λόγος, della ragione di cui uomini e dèi partecipano, e non in virtù
del semplice πνεῦμα ο soffio vitale; altrimenti essa si estenderebbe
anche agli animali irragionevoli, il che la Stoa non ammette.
197. Appartiene ai nuovi frammenti, recentemente scoperti ed editi,
della grande iscrizione epicurea di Diogene di Enoanda, ed è fra
essi quello che contiene una più vivace e diretta polemica
antistoica. Cfr. M. FERGUSON SMITH, «Cahiers de Philologie» I,
Lille, 1976, pp. 279-318, in part. per il nostro passo p. 286.
198. Sembra essere una divergenza interna, fra Stoici; difficile a
precisarsi.
199. È una delle prime formulazioni del principio famoso che poi
sarà pietra basilare delle distinzioni del diritto romano; cfr.
Ulpiano in Dig. I, 1 (de iustitia et iure); ivi, 4; riecheggiato in
Inst. I, 2 (de iure naturali et gentium et civili).
200. Alcune divergenze fra il testo emendato da Arnim e quello del
Cohn, cfr. Cohn-Wendland VI, ad loc. (si segue qui quest’ultimo, τίς
oὐκ ἂν εἲποι). Ricostituito dal Cohn φίλον θεῶν, anziché
θεοῦ, come nella tradizione modificata ed emendata; e ciò sulla
scorta del seguente «degli dèi olimpi».
201. Adesp., fr 326 e fr. 304 Nauck2. Filone usa il termine ἰσηγορία
e non il più ambiguo παρρησία.
202. Adesp., fr. 227 Nauck2.
203. Il richiamo a Pitagora e i suoi si fa per il vegetarianesimo;
ma si passa, per questo motivo, attraverso la tradizione accademica
e peripatetica, se si pensi almeno a Teofrasto (ciò si è fatto
chiaro a partire da J. BERNAYS, Theophrastos’ Schrift über die
Frommigkeit, Berlin 1866, che ricostruiva la presenza di Teofrasto
nell’opera di PORFIRIO, De abstinentia) Il frammento manca nelle
raccolte dedicate al pitagorismo antico (Diels-Kranz, Timpanaro
Cardini).
204. Questo è motivo schiettamente stoico, diretto sia contro
Platone (Tim. 90a) sia contro Aristotele e la dottrina dell’anima
vegetativa.
205. Per gli argomenti pro e contro l’astensione dall’uccidere e
cibarsi di animali (l’argomento stoico è qui basato sul concetto di
giustizia come «dare a ciascuno il suo»: sarebbe ingiusto dare
ugualmente a chi è privo di ragione e a chi la possiede; negazione,
in altri termini, della giustizia «aritmetica») rimando a M. ISNARDI
PARENTE, Le ’tu ne tueras pas’ de Xénocrate, in Histoire et
Structure. A la mémoire de V. Goldschmidt (edd. J. BRUNSCHWIG, C.
IMBERT, A. ROGER), Paris, 1985, pp. 161-172.
206. È tratto, di marca tradizionale, contro la πολυπραγμοσύνη;
concetto negativo in Platone, cfr. Resp. IV, 434b, 444b (e altrove).
207. Per Apollodoro di Seleucia cfr. parte V, nota 205.
208. I concetti di ὑπεύθυνος e ἀνυπεύθυνος, in riferimento alla
regalità, sono eredità accademica. Cfr. PS. PLATONE, Def., 415b.
209. Dette dai latini «ianua Ditis», o «Acheruntis ostium»: dai
Greci, oltre che χαρώνεια come qui, anche πλουτώνια. Sono
caverne da cui si riteneva emanassero vapori mortali, collegate
percio con l’oltretomba.
210. Cfr. POSIDONIO, fr. 40 Edelstein-Kidd = 429 Theiler; ECATONE,
fr. 20 Gomoll.
211. L’espressione greca è πρός τί πως ἔχουσα, con richiamo
specifico, cioè, ad una delle categorie dell’essere.
212. 〈κοινὰ〉 è integrazione del Wachsmuth.
213. Sembra di intravvedere una divisione nell’ambito della Stoa,
difficile a definirsi in termini precisi, fra una corrente che
riteneva bene vero e proprio, quindi virtù, il saper correttamente
gestire la ricchezza, ed un’altra che riteneva ciò un indifferente.
214. La lunga aggiunta è del Wachsmuth in base al testo analogo del
Florilegio, IV, 5, p. 212, 1 segg. Hense.
215. Integrazione del Meineke, accettata da Wachsmuth e Arnim.
216. Integrazione del Meineke, accettata dagli editori seguenti.
217. Formula che risale a PLATONE, Polit., 269c (ἄντε ἄρχων ἄντε
ἰδιώτης ὢν τυγχάνῃ).
218. È una ripresa della teoria platonica del γενναῖον ψεῦδος,
«nobile menzogna», per cui cfr. Resp., III, 414c segg. Per le varie
proposte di emendazioni al testo (διαπατᾶσθαι, più oltre, è dello
Heeren) cfr. l’apparato critico del Wachsmuth, ad loc. Per questa
tematica cfr. anche SESTO EMPIRICO, supra, p. 728.
219. È usata la formula πρὸς χάριν, sempre dispregiativa nella
letteratura antica filosofica, politica, retorica, come inganno o
lusinga gradevole; ma qui il significato sembra debole.
220. Cfr. la posizione del tutto differente di Epicuro di fronte al
modello di vita del cinico, D.L.X., 119, 5 (= fr. 14 Us.). Per il
testo, 〈ὄv〉 è integrazione del Valckenaer, accettata dagli altri
editori.
221. ESIODO, Opera, v. 410.
222. Opera, v. 413.
223. Per le tradizioni relative alla morte di Eraclito e Ferecide
cfr. PLUTARCO, Sulla, 36, 5 e DIOGENE LAERZIO, IX, 3-5; in proposito
CHERNISS, Plutarch’s Mor., XIII, 2, pp. 696-697. Il testo, molto
danneggiato, è stato restituito dal Wyttenbach.
224. Fr. inc. 66; per dubbi sul riferimento testuale da parte di
Lattanzio cfr. P. MONAT (Lactance, Institutions divines, Paris,
1973, II, p. 104); in ogni caso il frammento è in genere
riallacciato a De republica, IV, 1.
225. TERENZIO, Eunuchus, IV, v. 6.
226. TERENZIO, Andria, II, v. 1.
227. Cfr. anche MINUCIO FELICE, Octavius, 37 (SVF III, 576), ove
sono applicati al saggio cristiano motivi propri del saggio stoico.
228. Manca in SVF; forse perché il motivo non è ritenuto
specificamente stoico, ma in primis epicureo; cfr. peraltro nota
783.
229. Riferimento indubbio, nell’autore cristiano, ai problemi
suscitati dalle persecuzioni e dai «lapsi», cui si contrappone un
ideale di rigorismo stoico in versione cristiana.
230. Per questo motivo, qui attribuito agli Stoici ma con ogni
probabilità originariamente epicureo, cfr. i passi raccolti in fr.
601 Usener. In proposito A. ARDIZZONI, Il saggio felice fra i
tormenti. Studio sull’eudemonologia classica, «Riv. FiloL. Istr.
Class.» LXX, 1942, pp. 81-102.
231. Richiamo al detto celebre di Solone in ERODOTO, Hist. I, 31-32.
232. Richiamo a PLATONE, Sympos., 215a-b, e al discorso di
Alcibiade.
233. Cfr. Lucilii carminum reliquiae, ed. F. Marx, Lipsiae, 1904, I,
p. 83. Porfirione chiosa la più moderna satira di Orazio con la più
antica di Lucilio.
234. Cfr. la analoga testimonianza di Diogeniano su Crisippo resaci
da Eusebio, per cui cfr. parte IV, nota 456.
235. L’operazione di Filone è analoga a quella compiuta dagli autori
cristiani: adattamento del rigorismo stoico e dei suoi principi
all’uomo «eletto da Dio» e che è «nella Legge».
236. Per il famoso detto pitagorico κοινὰ τὰ φίλων cfr DIOGENE
LAERZIO, VIEL 10 (da TIMEO, Fr. Eist. Gr. 566, F 13b).
237. SPEUSIPPO, fr. 2 Lang =119 LP. = 4 Tarán. Tentativo di
emendazione di Σπεύσιππος in Χρύσιππος da parte di L. DELATTE, «Rev.
Hist. Philos.» VI, 1938, pp. 168-170, e di M. GIGANTE, Nomos
basileus, Napoli 1956, p. 108, nota 2; ma qui Clemente tende proprio
a stabilire una successione fra Accademia antica e Stoa, e
l’emendazione non è giustificata.
238. Il paragone del filosofo col medico è antico (cfr. per Crisippo
supra, parte IV, nota 233); ma l’espressione ἐλέω χρώμενος potrebbe
far pensare a fonte medio-stoica.
239. Ἀμεταστάτῳ 〈ποδί〉 Arnim; Stählin preferisce ἀμεταστάτως.
240. Cfr. Epicuro, in DIOGENE LAERZIO, X, 119, per l’opinione
opposta, e supra, parte V, nota 206.
241. Ciò in base al principio che in realtà il vero sapiente non è
mai esistito; cfr. Diogeniano, supra, parte IV, nota 472 (SVF III,
668), per Crisippo, il quale avrebbe ammesso in tutto l’esistenza di
«uno o due sapienti».
242. Distinzione fra φιλόλογος (non solo termine tecnico per chi
studia questioni letterarie, ma, nella tradizione platonica, dotato
di accezione più vasta) e λογὁφιλος; cfr. parte I, nota 82.
243. Così anche nell’altro passo In Hor. Sat. II, 3, v. 187 («dogma
Stoicorum… omnes nomines insanos esse»).
244. In base al principio, così spesso usato nella polemica antica,
di contraddizione fra espressione teorica e agire pratico. Cfr.
CHERNISS, Plutarch’s Mor., XIII, 2, ad loc.
245. EURIPIDE, fr. 687 Nauck2.
246. Anche qui differenza da Epicuro, per il quale il sapiente deve
accettare di vivere in ogni condizione; per il passo (testualmente
assai difficile) cfr. DIOGENE LAERZIO, X, 119 (fr. 8 Us.); rimando
per osservazioni sul testo a EPICURO, Opere2, p. 282, nota 1.
247. Integrazione Heeren, accettata da Wachsmuth e Arnim.
248. 〈ἔχοντα〉 è integrazione Heeren, 〈κωλύῃ〉 è integrazione Heine;
accettate entrambe dagli editori seguenti.
249. 〈τὸν σπουδαῖον φιλίαν〉 è integrazione posta in nota
congettualmente dal Wachsmuth, sulla base del confronto con DIOGENE
L., VII, 129 segg., e ATENEO, Deipnosoph., XIII, 561c.
250. EPICURO, fr. 483 Us. (comprendente più testimonianze).
251. Il testo, emendato dall’Amim in 〈μὴ〉 κοινωνικόν, può essere
invece accettato così com’è tràdito secondo M. BORRET, Paris, 1969
(Sources Chrétiennes, 150), pp. 162-163.
252. Origene riprende argomenti antichi contro la divinazione: per
la divinazione del tutto razionale del medico o del nocchiero cfr.
CICERONE, De divinatione, II, 70, 145.
253. Fonti principali circa Pitagora ed Empedocle sotto questo
aspetto sono PLUTARCO, De esu carnium, e PORFIRIO, De abstinentia,
attraverso la mediazione teofrastea; per Empedocle in particolare
cfr. i passi dei Katharmoi in 31 Β 128, 31 Β 136 Diels-Kranz ecc.;
importante anche la testimonianza di SESTO EMPIRICO, Adv. phys., I,
127. Varietà peraltro di testimonianze su Pitagora in 14 A 9
Diels-Kranz (l’astensione dalle carni non sarebbe stata totale ma
relativa o a certi animali, o a certe parti del corpo degli
animali).
254. Fr. 535 Us.: notizia errata, che accomuna falsamente epicurei e
stoici; cfr. USENER, Epicurea, p. 323, in nota.
255. Integrato in forme simili da più editori: Baiter 〈virtutem qui
habet〉; Madvig 〈qui virtute utitur〉.
256. SOFOCLE, Aiax, v. 582.
257. TEOGNIDE, V. 175; ma il testo dato dall’autore dell’anecdoton è
corrotto: cfr. oggi BERGK, Poetae Lyr. Gr. II, Lipsiae, 1982, 19152,
p. 134: ἣν δὴ χρὴ φεύγοντα etc.