TEETETO
Sommario
 

Euclide narra a Terpsione di essersi imbattuto in Teeteto reduce dal campo in gravi condizioni per le ferite e soprattutto per la malattia, e di essersi ricordato in quell'occasione del giudizio altamente elogiativo che di Teeteto aveva dato Socrate dopo una loro conversazione. Terpsione vuole il resoconto di quella conversazione che Euclide ha trascritto sotto forma di dialogo diretto (I 142a-143c). Teodoro presenta a Socrate Teeteto facendone un alto elogio. Inizio della conversazione tra Socrate e Teeteto (II 143c-145b). Socrate pone a Teeteto il problema: che cos'è il conoscere? Teeteto si lascia persuadere a rispondere alle domande di Socrate (III 145b-146c). Ciò che Socrate chiede non è, come Teeteto mostra di credere all'inizio, che cos'è ciò di cui si dà conoscenza o quante sono le conoscenze (IV 146c-147c). Teeteto ha compreso il senso della domanda di Socrate e per darne la prova espone il caso analogo, prima discusso, della definizione di cosa è "potenza" in senso matematico. Socrate lo incoraggia a discutere anche questo nuovo problema (V 147c-148d). L'arte maieutica (VI 148d-150b). Anche Socrate possiede, per le anime, l'arte maieutica ed anche Socrate, come le ostetriche, è sterile (VII 150b-151d). Ritorno al problema e prima definizione di Teeteto: la conoscenza è sensazione. Socrate riconduce questa definizione alla dottrina di Protagora dell' "uomo misura di tutte le cose" e poi all'altra dottrina, quella "segreta" di Protagora: il divenire universale su cui tutti, ad eccezione di Parmenide, consentono (VIII 151d-152e). Argomenti in favore di questa dottrina del divenire universale (IX 152e-153d). Quale è la dottrina del conoscere che deriva da queste premesse: ogni sensazione si genera, in condizioni sempre diverse, dall'incontro tra l'oggetto sentito ed il soggetto senziente (X 153d-154e). Necessità di arrivare alle ultime conseguenze: la filosofia nasce dalla meraviglia (XI 154c-155e). La dottrina dei "più raffinati" discepoli di Protagora: soggetto ed oggetto, agente e paziente non esistono per sé, ma solo nella loro relazione reciproca: è l'assoluto relativismo (XII 155e-157d). Il problema delle sensazioni fallaci in relazione ai sogni, alle malattie, alla pazzia: la distinzione tra il sonno e la veglia (XIII 157d-158e). Per parlare di sensazioni fallaci, si dovrebbe presupporre che il Socrate sano e il Socrate malato, il Socrate sveglio e il Socrate dormiente siano la stessa persona, il che per i relativisti è un'assurdità. Se ne deve quindi concludere che ogni sensazione è esclusiva di chi la prova in quel momento in cui la prova, e che per lui essa è vera, come dice Protagora (XV 158c-160c). A questo "parto" di Teeteto bisogna ora fare l'amfidromia e vedere se è valido oppure no (XV 160c-161b). Ma perché Protagora ha detto che misura di tutte le cose è l'uomo e non il porco o qualsiasi altro essere senziente? E se per ciascuno è vero ciò che tale gli appare che diritto ha Protagora di presentarsi come maestro e che diritto hanno gli altri di criticarlo? (XVI 161b-162b). Tutti gli uomini, allora, si equivarrebbero in sapienza. Tuttavia, per evitare un'immediata risposta possibile da parte di Protagora è bene esaminare altrimenti la cosa. Precisazione dell'identità di sensazione e scienza (XVII 162b-163c). Si presenta un'altra difficoltà: se conoscere è sentire, si dovrà dire che uno conosce solo per il tempo in cui ha sensazione? E la memoria? non è essa forse una conoscenza senza che vi sia più la sensazione? Non si deve ancora cantare vittoria e ritenere senz'altro confutato Protagora, che potrebbe invece ancora accampare validissime ragioni, di cui si deve tener conto. Prima, però, un'altra obbiezione (XVIII 163c-165b). Se conoscenza è sensazione, che cosa si dovrà dire di uno che con un occhio veda e con l'altro no? che insieme conosce e non conosce? Obbiezioni simili a queste sono possibili all'infinito. Ma cosa risponderebbe a tutte Protagora? (XIX 165b-e). L"'apologia di Protagora". Socrate cerca di immaginare quali sarebbero i discorsi che Protagora potrebbe fare per difendersi: forse che l'uomo che ricorda è lo stesso uomo che prima ha avuto una sensazione? E, tenendo presente questo continuo mutare, che difficoltà c'è ad ammettere che uno conosca e contemporaneamente non conosca? E' vero che tutte le opinioni sono vere, ma ciò non vuol dire che tutti gli uomini sono sullo stesso piano: c'è il sano e il malato, ma è meglio esser sano che malato; le opinioni della persona sana non sono più vere di quelle del malato, però sono migliori. Cosicché, sia sul piano privato che pubblico, sapiente è colui che è capace di far sì che uno, che prima aveva sensazioni peggiori, poi le abbia migliori: ed è proprio ciò che fa il sofista mediante i discorsi. Quale è il corretto metodo di discussione (XX 165e-168c). Socrate persuade Teodoro a prendere il posto di Teeteto, affinché le tesi di Protagora siano discusse, con serietà, da persone mature (XXI 168c-169d). Secondo Protagora, dunque, tutte le opinioni sono vere: è un fatto però che gli uomini opinano in modo diverso e che chi opina in un modo non stima sapiente chi opina diversamente né ritiene vere le opinioni altrui. Anche la "verità" di Protagora non è ritenuta tale da moltissimi, cosicché Protagora è costretto ad ammettere che è vera tanto la sua opinione quanto quella che la contraddice (XXII 169d-171d). La distinzione tra sapienti e non sapienti. Se il tema si allarga, ciò non deve preoccupare perché proprio in questo sta la differenza tra le discussioni filosofiche e i dibattiti giudiziari: nello sceverare un argomento senza limiti di tempo, con piena libertà e serenità (XXIII 171d-173c). Inettitudine del filosofo di fronte al mondo, alla politica, alle controversie giuridiche: l'aneddoto di Talete che cade nel pozzo per contemplare le stelle (XXIV 173c-175b). Superiorità del filosofo quando siano in questione le cose veramente importanti. L'"assomigliarsi a Dio". Fine della digressione (XXV 175b-177c). Ritorno alla tesi di Protagora: se ogni uomo è misura di tutte le cose, lo sarà anche delle cose future? Oppure tra le previsioni possibili circa il futuro è necessario distinguere quelle dei competenti da quelle degli ignoranti? Necessità di stringere ancora più da vicino l'argomento (XXVI 177c-179d). Bisogna perciò esaminare la dottrina degli eraclitei e di tutti coloro che sostengono che tutto è in movimento. Contrasto tra costoro e quelli che sostengono che tutto è in quiete (XXVII 179d-181b). Vi sono due specie di movimento: quello di traslazione e di rotazione, da un lato, e quello di alterazione, dall'altro. E poiché per i sostenitori della tesi che tutto è in movimento, tutte le cose partecipano di tutte le specie di movimento, di tutto si potrà contemporaneamente dire che è e che non è qualcosa, cosicché anche la conoscenza non sarà niente più che non conoscenza, ed anche il linguaggio diventa impossibile. E' impossibile, perciò, che la conoscenza sia sensazione (XXVIII 181b-183c). Teeteto riprende a discutere con Socrate: la conclusione ora espressa non è legittima finché non si sia esaminata anche la dottrina opposta: quella di Parmenide. Tuttavia Socrate rinvia questo esame e conclude l'analisi dell'identità di conoscenza e sensazione; non sono i sensi che sentono ma è l'anima che sente "mediante" i sensi. Non solo, ma ci sono cose che l'anima conosce direttamente, senza l'intervento dei sensi (XXIX 183c-186a). Sensazione e ragionamento. E' impossibile identificare sensazione e conoscenza (XXX 186a-187b). Seconda definizione del conoscere: la conoscenza è l'opinione vera. Questa definizione, però, implica l'opinione falsa: ma come è concepibile un'opinione falsa, se noi o conosciamo o non conosciamo una cosa? L'alternativa è tra verità e ignoranza: e l'errore? Come è possibile opinare quel che non è? (XXXI 187b-189b). L'opinione falsa come scambio di una cosa per un'altra. Il dialogo dell'anima con se stessa: anche il ragionare con se stessi è un opinare. Ma come può uno, in se stesso, scambiare una cosa per un'altra? Anche in questo caso egli opinerà qualcosa ed anche per questa via è impossibile spiegare come possa esserci un'opinione falsa (XXXII 189b-190e). Ancora sull'opinione falsa: l'anima è come una cera su cui si imprimono le conoscenze. La sostituzione delle conoscenze e delle sensazioni: in quali casi è possibile l'errore e in quali no (XXXIII 190e-192d). Ulteriore esemplificazione di questi casi e riconoscimento della possibilità che vi siano opinioni vere e false (XXXIV 192d-195b). Tuttavia il risultato è stato solo apparentemente raggiunto, perché in tutti i casi precedentemente esaminati l'errore nasceva dal contatto, tra sensazione e pensiero ma mai nel contatto tra sensazioni o tra pensieri. E tuttavia anche in questi casi l'errore può sussistere, ma allora si ricade nelle difficoltà precedenti. In realtà il problema dell'errore non può essere risolto se prima non si definisce il conoscere (XXXV 195b-197a). Il conoscere come "avere" conoscenza. Distinzione tra "avere" e "possedere". L'esempio della colombaia: conoscere è "possedere" conoscenze nell'anima, anche se non le si "hanno" tutte presenti (XXXVI 197a-198c). Ancora su questo principio: l'errore nasce quando uno volendo rievocare una conoscenza che già possiede, invece di quella ne prende un'altra. Ma anche per questa via si è alla fine costretti ad ammettere che è impossibile comprendere cosa è un'opinione falsa se prima non si è definito che cosa è conoscenza (XXXVII 198c-200d). L'attività del giudice che può opinare rettamente circa cose che non conosce direttamente dimostra definitivamente l'impossibilità di tener ferma la definizione della conoscenza come opinione vera. Terza definizione: conoscenza è l'opinione vera accompagnata da ragione (XXXVIII 200d-201d). Secondo i sostenitori di questa dottrina gli elementi non sono conoscibili perché non se ne può dare ragione, mentre i nessi tra gli elementi sono conoscibili: esempio delle lettere dell'alfabeto e delle sillabe (XXXIX 201d-202e). Ma come è possibile che uno conosca la sillaba e non conosca le lettere che la compongono? Il tutto e l'intero: secondo Teeteto son cose diverse (XL 203a-204b). Confutazione dialettica di Socrate; se però "tutto" ed "intero" sono identici, allora l'intero (nel caso: la sillaba), non avendo parti, sarà identico all'elemento (nel caso: la lettera) e perciò inconoscibile. Non è possibile quindi sostenere che gli elementi sono inconoscibili e i nessi sono conoscibili, ma, caso mai, viceversa (XLI 204b-206b). I molteplici significati del termine "ragione". Primo significato: immagine del pensiero nella voce; secondo significato: la ragione definita come enumerazione degli elementi: l'esempio delle lettere, però, mostra che è possibile una retta opinione accompagnata da ragione che non è ancora conoscenza (XLII 206b-208b). Terzo significato: la ragione definita opinione senza ragione, cioè che non è ancora conoscenza, contiene la differenza caratteristica. Sicché o l'aggiunta della ragione non ha senso oppure si arriva alla conclusione che la conoscenza è retta opinione accompagnata da... conoscenza (XLIII 208b-210b). Pur senza essere pervenuti ad una conclusione positiva, grandi sono stati i benefici della maieutica (XLIV 210b-d).

TESTO

 [142a I. EUCLIDE. Or ora, Terpsione, o da tempo, sei tornato di campagna? TERPSIONE. E’ già un po’ di tempo. Anzi, ti cercavo per piazza e mi stupivo di non riuscire a trovarti. EUCL. Non ero in città. TERPS. O dov’eri? EUCL. Ero giù per la via che mena al porto; e m’imbattei in Teeteto, che lo portavano di Corinto, dal campo, a Atene. TERPS. Vivo o morto? EUCL. Più [b] morto che vivo. E’ veramente in condizioni gravi: né solo per le ferite, ma più perché l’ha preso la malattia che è entrata nell’esercito. TERPS. Che, la dissenteria? EUCL. Sì. TERPS. Oh, quale uomo mi dici in pericolo di vita! EUCL. Un prode e dabbene uomo, o Terpsione, e anche ora udivo di lui gran lodi per la sua condotta nella battaglia. TERPS. Niente di strano; anzi, molto più strano sarebbe [c] se non si fosse comportato così. Ma come mai non s’è fermato qui a Mègara? EUCL. Avea fretta di andare a casa. Lo pregai, sì, e lo consigliai di fermarsi, ma non volle. Ebbene, mentre io, dopo averlo accompagnato un po’, me ne tornavo indietro, ripensando a certe parole di Socrate, fui preso da meraviglia che anche a proposito di lui, come già altre volte di altri, Socrate avesse indovinato giusto. Di fatti, poco prima, credo, che egli morisse, s’incontrò con Teeteto che era ancora giovinetto; e, stando e ragionando con lui, rimase addirittura incantato della natura sua. Recatomi poi io ad Atene, mi riferì i ragiona-[d] menti che insieme avevano avuti, degnissimi di essere uditi; e anche mi disse che, quando fosse cresciuto negli anni, non poteva fallire che non divenisse persona di altissimo conto. TERPS. E disse proprio, come si vede, la verità. Ma quali furono questi ragionamenti? me li potresti riferire? EUCL. No, non potrei, almeno così a memoria. [143a] Ma mi scrissi allora, sùbito, ritornato a casa, certi appunti; e dopo, con comodo, mano mano che me ne venivo ricordando, li distendevo; poi, tutte le volte che andavo a Atene, se c’era cosa che non ricordavo, ne chiedevo a Socrate, e, tornato qui, correggevo. Cosicché tutto il dialogo, si può dire, ce l’ho scritto. TERPS. E’ vero: anche prima ti ho sentito dir questo. Anzi, ricordo, parecchie volte sono stato lì lì per pregarti che tu me lo mostrassi codesto dialogo, e ho indugiato fino a oggi. Ebbene, chi c’impedisce che lo scorriamo ora? Io, tra l’altro, ho anche [b] bisogno di riposarmi; ché vengo di campagna. EUCL. E sia; anche io, che ho accompagnato Teeteto fino a Erìneo, ho piacere di riposarmi un po’. Andiamo dunque; e, mentre restiamo qui insieme a riposarci, il ragazzo leggerà. TERPS. Bene. EUCL. Il libro, o Terpsione, eccolo qui. Se non che il dialogo io lo scrissi in questo modo: e cioè, non come se Socrate me lo raccontasse come me lo raccontò, bensì come se direttamente parlasse con quelli con cui disse d’aver parlato; e disse di aver parlato con Teodoro il geometra e con Teeteto. Ora dunque, perché [c] nello scritto non dessero fastidio quelle indicazioni tra un discorso e l’altro, sia quando Socrate diceva di sé, per esempio, ‘E parlai io’, oppure ‘E io dissi’; sia quando diceva della persona interrogata, per esempio, ‘Conveniva’, oppure ‘Non era d’accordo’; per ciò scrissi il dialogo immaginando che Socrate parlasse egli stesso direttamente coi suoi interlocutori, e tutte codeste indicazioni le tolsi via. TERPS. E va benissimo, o Euclide. EUCL. O via, ragazzo, prendi il libro e leggi.

II. SOCRATE. Se io mi curassi, o Teodoro, più di Cirène [d] che di Atene, ti domanderei delle cose e persone di colà, se vi sono giovani che attendano ivi con amore a studi di geometria o di altra scienza; se non che, più di quelli, mi stanno a cuore qui questi nostri, e soprattutto di questi desidero essere informato se ve n’è che diano a sperare di divenire un giorno eccellenti. La quale cosa vengo io indagando da me medesimo come posso; ma anche ne interrogo gli altri coi quali vedo che questi giovani si trovano insieme volentieri. Ora, i giovani che si avvicinano a te, sono tutt’altro che pochi; ed è naturale, [e] perché tu hai grandi meriti, massimamente per la tua dottrina in geometria. Se dunque ne hai incontrato alcuno di qualche valore, avrei piacere di saperlo. TEODORO. Volentieri, o Socrate: e val bene la pena che io ti dica e tu ascolti quale giovane io ho incontrato qui fra i concittadini vostri. Se fosse bello, avrei molto ritegno a parlarne, ché non vorrei paresse a taluno io ne fossi innamorato; ma - non avertene a male! - non è bello, e, con quel suo naso schiacciato e quei suoi occhi in fuori, - sebbene un po’ meno di te! - ha la tua faccia; sicché, dunque, posso [144a] parlarne senza scrupolo. Ora tu devi sapere che di quanti giovani io abbia mai incontrati, e ne ho avvicinati moltissimi, non ne ho mai conosciuto uno di così meravigliosa natura. Perché un giovane il quale, pur avendo così gran prontezza nell’apprendere quanta è difficile trovarne in altri, abbia anche così straordinaria mitezza di animo, e sia per giunta e senza paragone alcuno così coraggioso, io non credevo in verità che ci fosse, né vedo che ci sia. Quelli che sono come lui, di ingegno acuto, di alacre spirito e di memoria tenace, sono anche, per lo più, assai proclivi all’ira, e sbalzano qua e là come navi senza za-[b] vorra, e hanno indole più furiosa che coraggiosa; quelli invece che sono di animo più posato e greve, hanno, di fronte agli studi, non so che lentezza, e sono pieni di oblio. Ebbene, Teeteto, nei suoi studi e nelle sue ricerche, procede liscio e spedito, e sempre giunge al suo fine, e con una grande placidità, come rivolo d’olio che scorre senza rumore; cosicché fa meraviglia che un giovane dell’età sua già sia capace di tanto in codesto modo. SOCR. Mi hai dato una bella notizia. E di chi dei miei concittadini è figliolo questo giovane? TEOD. Mi hanno detto il nome, [c] ma non me lo ricordo. Ma eccolo qui, tra codesti che vengono avanti, quello di mezzo. Poco fa, nel portico esterno, si stavano ungendo codesti giovani e lui stesso; e ora che si sono unti, pare, vengono qua. Vedi se lo conosci. SOCR. Lo conosco. E’ il figliolo di Eufrònio, di Sùnio: suo padre fu proprio, o amico, tal quale tu mi descrivi il figlio, uomo per più rispetti di buona reputazione, che anche lasciò una sostanza assai grande. Ma il nome del giovane non lo so. TEOD. Teeteto si chiama, [d] o Socrate. La sostanza gliel’hanno rovinata, credo, certi suoi tutori; e tuttavia anche nel danaro è di una meravigliosa liberalità, o Socrate. SOCR. Un nobile uomo tu dici. Ebbene, pregalo di venire qui a sedere con noi. TEOD. Sùbito. Teeteto, vieni qui da Socrate. SOCR. Bravo Teeteto, che io veda bene anch’io che faccia ho; perché [e] dice Teodoro che l’ho simile alla tua. Ma se dicesse colui che, avendo ciascun di noi una lira, esse sono accordate all’unisono, gli crederemmo senz’altro, oppure vorremmo prima esaminare se è musico chi dice così? TEET. Esamineremmo se è musico. SOCR. Perché, trovando che è musico, gli crederemmo; se no, non gli crederemmo. Non è così? TEET. Precisamente. SOCR. E ora, penso, se ci preme codesta simiglianza dei nostri vólti, [145a] bisognerà esaminare se è disegnatore colui che dice così, oppure no. TEET. Mi pare. SOCR. Ebbene, è disegnatore Teodoro? TEET. No, che io sappia. SOCR. E non è neanche geometra? TEET. Questo sì, certamente, o Socrate. SOCR. Ed è anche astronomo e matematico e musico, e insomma al tutto persona cólta? TEET. Mi pare di sì. SOCR. Se dunque egli dice, per lode o biasimo, che noi nella persona un poco ci assomigliamo, non mette proprio conto che gli diamo retta. TEET. Credo di [b] no. SOCR. E se, invece, dell’uno di noi due lodasse la virtù e la saggezza dell’anima? Non metterebbe conto a quello che ascolta di esaminare sùbito, con sollecitudine, la persona lodata, e all’altro, con sollecitudine, di rivelare se stesso? TEET. Certamente, o Socrate.

III. SOCR. E allora è il momento, mio caro Teeteto, per te di rivelare te stesso, per me di esaminarti. Perché hai da sapere che Teodoro molti forestieri mi ha lodati e concittadini, ma di nessuno ha detto mai così bene come di te or ora. TEET. Sarebbe una bella cosa, o Socrate; [c] ma bada che non abbia detto per ischerzo. SOCR. Non è costume di Teodoro, questo. Tu, piuttosto, non ti tirare indietro ora da quello che hai già concesso, col pretesto che colui parli per ischerzo; cosicché poi egli sia costretto a farne anche testimonianza: - tanto più che nessuno potrà accusarlo di testimoniare il falso. - Via dunque, sta tranquillo, e rimani al punto convenuto. TEET. Bene, facciamo così, se così ti piace. SOCR. Dimmi, dunque, impari geometria da Teodoro? TEET. Sì. SOCR. [d] E anche astronomia e armonia e calcolo? TEET. Mi ci provo, se non altro. SOCR. Anch’io, caro figliolo, mi ci provo; e non solo da Teodoro, ma anche da altri i quali io creda che di codeste cose se ne intendano un po’. A ogni modo, quanto al resto, me la cavo bene abbastanza; solo c’è un piccolo punto in cui sono perplesso, e lo vorrei esaminare insieme con te e con questi qui. Dimmi, l’imparare non è un divenir più sapienti in quello che uno impara? TEET. E come no? SOCR. E i sapienti, credo, [e] sono sapienti per il sapere. TEET. Sì. SOCR. E dimmi, differisce in qualche cosa codesto dal conoscere? TEET. Che cosa dici "codesto"? SOCR. Il sapere. In ció che gli uomini conoscono non sono anche sapienti? TEET. Certo. SOCR. Dunque sono la stessa cosa conoscenza e sapienza? TEET. Sì. SOCR. Ebbene, il punto che mi lascia perplesso, e su cui non riesco da me a farmi un’idea chiara, è precisamente questo: che cosa è conoscenza. [146a] Siamo in grado di darne la definizione? che dite?... chi di noi parlerà per il primo? Ma se sbaglia, e via via chi sbaglierà, si metterà a sedere asino, come dicono i ragazzi che giocano alla palla; e chi non sbaglierà e vincerà la partita, costui sarà nostro re, e avrà diritto di domandare qualunque cosa voglia gli si risponda... Perché tacete? Che forse io, o Teodoro, con questa mia smania di disputare, sono un po’ grossolano insistendo perché si ragioni qui fra di noi e si diventi amici e si stringano re-[b] lazioni gli uni con gli altri? TEOD. No no, non c’è niente di grossolano, o Socrate, in codesto. Soltanto, prega qualcuno di questi giovinetti che ti risponda; io non sono avvezzo a siffatto modo di disputare; e d’altra parte son troppo vecchio per avvezzarmici ora. A costoro invece conviene, e ne ricaveranno molto maggior profitto: in realtà i giovani ricavano profitto in ogni cosa. Séguita dunque come hai cominciato; non lasciar da parte Teeteto, e interrogalo. SOCR. Tu senti, Teeteto, quel che dice Teo-[c] doro: disobbedirgli, credo, non vorrai; né sta bene in cose come queste che un giovane disobbedisca al volere di un uomo saggio. Su dunque, rispondi bene e da bravo: che cosa credi che sia conoscenza? TEET. Bisognerà pur rispondere, o Socrate, visto che volete così. In ogni modo, se sbaglio, correggerete.

IV. SOCR. Sta bene; purché ne siamo capaci. TEET. Io credo dunque che anche le cose che uno può imparare da Teodoro, come la geometria e le altre discipline che or ora annoverasti, siano conoscenze; e così pure l’arte del [d] calzolaio e quelle degli altri artigiani, tutte e ciascuna, non sono altro che conoscenza. SOCR. Tu sei bene un generoso e magnifico donatore, amico Teeteto! Ti si domanda una cosa sola e semplice, e tu ne dài molte e diverse. TEET. Che cosa vuoi dire, Socrate? SOCR. Forse una cosa da nulla dico: a ogni modo ti spiegherò quello che penso. Quando tu dici arte del calzolaio, intendi tu dire altra cosa se non conoscenza del fabbricare scarpe? TEET. No[e] SOCR. E ancora, quando dici arte del falegname, intendi dire altra cosa se non conoscenza del fabbricare utensili di legno? TEET. No, ma questo. SOCR. Dunque, in ambedue i casi, tu dài per definizione di conoscenza ciò solo di cui ciascuna arte è conoscenza: non è così? TEET. Sì. SOCR. Ma la questione, o Teeteto, non era questa, di che cosa si dà conoscenza, né quante sono le conoscenze; non richiedevo io, con la mia domanda, una enumerazione di conoscenze; bensì volevo sapere che cosa è essa la conoscenza in sé. O dico cosa senza senso? TEET. No, tu [147a] dici cosa giustissima. SOCR. Vedi allora anche questo. Se uno ci domandasse, di una qualunque delle cose più vili e comuni, per esempio dell’argilla, che cosa è; se noi gli rispondessimo che argilla è quella dei vasai, argilla è quella dei fornaciai, argilla è quella dei mattonai, non saremmo ridicoli? TEET. Forse sì. SOCR. Ma certo: e in primo luogo saremmo ridicoli in quanto crediamo che chi interroga possa capir qualche cosa dalla nostra risposta solo perché, pronunciando il nome ‘argilla’, vi aggiungia-[b] mo ‘dei figurinai’ o di altro artefice qualunque. Credi tu che possa uno capire il nome di una data cosa se codesta cosa ignora che cosa è? TEET. In nessun modo. SOCR. E dunque neanche capisce che cosa vuol dire conoscenza di calzature chi non sa che cosa è conoscenza. TEET. No di certo. SOCR. E non intende arte di calzolaio né alcun’altra arte chi non sa che cosa è conoscenza. TEET. E’ proprio così. SOCR. Ed è risposta ridicola, se uno è domandato che cosa è conoscenza, rispondere facendo il [c] nome di un’arte. Perché risponde ‘conoscenza di una data cosa’, mentre la domanda era diversa. TEET. Così pare. SOCR. E in secondo luogo si è ridicoli perché, potendo dare una risposta semplice e breve, facciamo un giro che non finisce più. Così, anche nella domanda dell’argilla, doveva essere, credo, semplice e facile dire che argilla è terra impastata con acqua, lasciando stare di chi.

V. TEET. Così come la poni ora, o Socrate, la cosa mi sembra facile. E anzi, se non sbaglio, il tuo modo di domandare è proprio simile a quello che venne in mente anche a noi poco fa mentre stavamo disputando; a me, [d] dico, e a questo tuo omonimo Socrate. SOCR. Quale modo, Teeteto? TEET. Ecco: il nostro Teodoro ci disegnava certe figure su le potenze, per esempio, su quella di tre piedi [quadrati] e su quella di cinque, dimostrando che codeste potenze, rispetto alla lunghezza [del lato], non sono commensurabili con l’unità del piede; e così, trascegliendo via via ogni potenza, arrivò fino a quella di diciassette piedi; e qui si fermò. Allora a noi venne in mente qualche cosa di simile: considerato che le potenze, evidentemente, sono infinite di numero, provarci a raccoglierle insieme in una unica categoria e quindi chiamarle, [e] tutte quante, con quest’unico nome di potenze. SOCR. E avete trovato? TEET. Mi pare di sì; vedi anche tu. SOCR. Di’ pure. TEET. Tutta la serie dei numeri dividemmo in due classi: ogni numero il quale ha la possibilità di derivare dalla moltiplicazione fra loro di due fattori eguali, lo rassomigliammo nella figura a un quadrato, e lo chiamammo numero quadrato ed equilatero. SOCR. Va bene. TEET. E i numeri intermedi a questi, come il tre [148a] e il cinque, e in generale tutti i numeri che non hanno in sé la possibilità di derivare da due fattori eguali moltiplicati tra loro, bensì derivano da moltiplicazione di un fattore maggiore con uno minore, o di un fattore minore con uno maggiore, e perciò sono sempre [,considerandoli come figure,] circoscritti da un lato maggiore e da uno minore; questi li rassomigliammo alla figura oblunga e li chiamammo numeri oblunghi. SOCR. Benissimo. E dopo? TEET. Tutte le linee i cui quadrati equivalgono al numero equilatero e piano, le definimmo lunghezze; e tutte le altre i cui quadrati equivalgono al numero oblungo, le definim-[b] mo potenze, per il fatto che, in misura lineare, non sono commensurabili a quelle lunghezze, ma nel valore della superficie quadrata che esse potenziano, sì. E anche dei solidi si disse qualche cosa di simile. SOCR. Una vera meraviglia, figliuoli: sicché, mi pare, difficilmente Teodoro potrà essere accusato di falsa testimonianza sul conto vostro. TEET. In verità, o Socrate, alla tua domanda su ciò che sia conoscenza io non so rispondere, come pur seppi invece su le lunghezze e su le potenze; sebbene la ricerca, a quel che pare, sia su per giù la stessa. E così Teodoro anche una volta apparisce testimone falso. SOCR. O come, [c] se Teodoro ti avesse lodato per la tua bravura nella corsa, dicendo di non aver mai visto un giovane così buon corridore come te ; e tu poi, in una gara di corsa, fossi stato sorpassato da un corridore vigorosissimo e velocissimo, credi tu che la lode di Teodoro sarebbe stata meno vera per questo? TEET. No, affatto. SOCR. E credi tu che ritrovare che cosa è conoscenza sia veramente, com’io dicevo or ora, cosa da poco, e non piuttosto da uomini di acuto intelletto? TEET. Ma di certo; anzi, ti dico, di acutissimo intelletto. SOCR. Abbi fede dunque in te stesso: non credere che Teodoro abbia parlato con leggerezza; [d] e adopra ogni tuo zelo per darti ragione esatta e delle altre cose in genere e in particolare della conoscenza, che cosa realmente essa è. TEET. Se è solo questione di zelo, questo, o Socrate, si vedrà chiaro.

VI. SOCR. Orsù dunque: tu stesso or ora indicasti la strada. Tieni come esempio la tua risposta su le potenze; e, come queste, che pur sono molte, comprendesti in un’unica specie, così anche le molte conoscenze pròvati a raccoglierle in un’unica definizione. TEET. Sii certo, o [e] Socrate, che più volte ho tentato di chiarire codesto problema, quando mi si riferivano certe domande che tu ponevi; ma in realtà né posso persuadermi di esser capace io di dare una risposta, né credo poter udire da altri quella risposta che vorresti tu; e d’altra parte nemmeno so rinunciare al desiderio di trovare una soluzione. SOCR. Tu hai le doglie, caro Teeteto: segno che non sei vuoto, ma pieno. TEET. Non lo so, o Socrate: io ti dico solo quello che provo. [149a] SOCR. Oh, mio piacevole amico! e tu non hai sentito dire che io sono figliuolo d’una molto brava e vigorosa levatrice, di Fenàrete? TEET. Questo sì, l’ho sentito dire. SOCR. E che io esercito la stessa arte l’hai sentito dire? TEET. No, mai! SOCR. Sappi dunque che è così. Tu però non andarlo a dire agli altri. Non lo sanno, caro amico, che io possiedo quest’arte; e, non sapendolo, non dicono di me questo, bensì ch’io sono il più stravagante degli uomini e che non faccio che seminar dubbi. Anche [b] questo l’avrai sentito dire, è vero? TEET. Sì. SOCR. E vuoi che te ne dica la ragione? TEET. Volentieri. SOCR. Vedi di intendere bene che cosa è questo mestiere della levatrice, e capirai più facilmente che cosa voglio dire. Tu sai che nessuna donna, finché sia ella in istato di concepire e di generare, fa da levatrice alle altre donne; ma quelle soltanto che generare non possono più. TEET. Sta bene. SOCR. La causa di ciò dicono sia stata Artèmide, che ebbe in sorte di presiedere ai parti benché ver-[c] gine. Ella dunque a donne sterili non concedette di fare da levatrici, essendo la natura umana troppo debole perché possa chiunque acquistare un’arte di cui non abbia avuto esperienza; ma assegnò codesto ufficio a quelle donne che per l’età loro non potevano più generare, onorando in tal modo la somiglianza che esse avevano con lei. TEET. Naturale. SOCR. E non è anche naturale e anzi necessario che siano le levatrici a riconoscere meglio d’ogni altro se una donna è incinta oppure no? TEET. Certamente. SOCR. E non sono le levatrici che, somministrando farmachi [d] e facendo incantesimi, possono svegliare i dolori o renderli più miti se vogliono; e facilitare il parto a quelle che stentano; e anche far abortire, se credon di fare abortire, quando il feto è ancora immaturo? TEET. E’ vero. SOCR. E non hai mai osservato di costoro anche questo, che sono abilissime a combinar matrimoni, esperte come sono a conoscere quale uomo e quale donna si hanno da congiungere insieme per generare i figliuoli migliori? TEET. Non sapevo codesto. SOCR. E allora sappi che di questa lor [e] arte esse menano più vanto assai che del taglio dell’ombellico. Pensa un poco: credi tu che sia la medesima arte o siano due arti diverse il ricogliere con ogni cura i frutti della terra, e il riconoscere in quale terra qual pianta vada piantata e qual seme seminato? TEET. La medesima arte, credo. SOCR. E quanto alla donna, credi tu che altra sia l’arte del seminare e altra quella del ricogliere? [150a] TEET. No, non mi pare. SOCR. Non è infatti. Se non che, a cagione di quell’accoppiare, contro legge e contro natura, uomo con donna, a cui si dà nome di ruffianesimo, le levatrici, che badano alla loro onorabilità, si astengono anche dal combinar matrimoni onesti, per paura, facendo codesto, di incorrere appunto in quell’accusa; mentre soltanto alle levatrici vere e proprie si converrebbe, io credo, combinar matrimoni come si deve. TEET. Mi pare. SOCR. Questo dunque è l’ufficio delle levatrici, ed è grande; ma pur minore di quello che fo io. Difatti alle donne non [b] accade di partorire ora fantasmi e ora esseri reali, e che ciò sia difficile a distinguere: ché se codesto accadesse, grandissimo e bellissimo ufficio sarebbe per le levatrici distinguere il vero e il non vero; non ti pare? TEET. Sì, mi pare.

VII. SOCR. Ora, la mia arte di ostetrico, in tutto il rimanente rassomiglia a quella delle levatrici, ma ne differisce in questo, che opera su gli uomini e non su le donne, e provvede alle anime partorienti e non ai corpi. E la più grande capacità sua è ch’io riesco, per essa, a discernere [c] sicuramente se fantasma e menzogna partorisce l’anima del giovane, oppure se cosa vitale e reale. Poiché questo ho di comune con le levatrici, che anch’io sono sterile... di sapienza; e il biasimo che già tanti mi hanno fatto, che interrogo sì gli altri, ma non manifesto mai io stesso su nessuna questione il mio pensiero, ignorante come sono, è verissimo biasimo. E la ragione è appunto questa, che il dio mi costringe a fare da ostetrico, ma mi vietò di generare. Io sono dunque, in me, tutt’altro che sapiente, né [d] da me è venuta fuori alcuna sapiente scoperta che sia generazione del mio animo; quelli invece che amano stare con me, se pur da principio appariscano, alcuni di loro, del tutto ignoranti, tutti quanti poi, seguitando a frequentare la mia compagnia, ne ricavano, purché il dio glielo permetta, straordinario profitto: come veggono essi medesimi e gli altri. Ed è chiaro che da me non hanno imparato nulla, bensì proprio e solo da se stessi molte cose e belle hanno trovato e generato; ma d’averli aiutati a generare, questo sì, il merito spetta al dio e a me. Ed eccone la prova. [e] Molti che non conoscevano ciò, e ritenevano che il merito fosse tutto loro, e me riguardavano con certo disprezzo, un giorno, più presto che non bisognasse, si allontanarono da me, o di loro propria volontà o perché istigati da altri; e, una volta allontanatisi, non solo il restante tempo non fecero che abortire, per mali accoppiamenti in cui capitarono, ma anche tutto ciò che con l’aiuto mio avean potuto partorire, per difetto di allevamento lo guastarono, tenendo in maggior conto menzogne e fantasmi che la verità; e finirono con l’apparire ignorantissimi a se stessi ed altrui. [151a] Di costoro uno fu Aristìde, figlio di Lisìmaco; e moltissimi altri. Ce n’è poi che tornano a impetrare la mia compagnia e fanno per riaverla cose stranissime; e se con alcuni di loro il dèmone che in me è sempre presente mi impedisce di congiungermi, con altri invece lo permette, e quelli ne ricavano profitto tuttavia. Ora, quelli che si congiungono meco, anche in questo patiscono le stesse pene delle donne partorienti: ché hanno le doglie, e giorno e notte sono pieni di inquietudine assai più delle donne. E la mia arte ha il potere appunto di suscitare e al tempo [b] stesso di calmare i loro dolori. Così è dunque di costoro. Ce n’è poi altri, o Teeteto, che non mi sembrano gravidi; e allora codesti, conoscendo che di me non hanno bisogno, mi do premura di collocarli altrove; e, diciamo pure, con l’aiuto di dio, riesco assai facilmente a trovare con chi possano congiungersi e trovar giovamento. E così molti ne maritai a Pròdico, e molti ad altri sapienti e divini uomini. Ebbene, mio eccellente amico, tutta questa storia io l’ho tirata in lungo proprio per questo, perché ho il sospetto che tu, e lo pensi tu stesso, sia gravido e abbia le doglie del parto. E dunque affidati a me, che sono figliolo [c] di levatrice e ostetrico io stesso; e a quel che ti domando vedi di rispondere nel miglior modo che sai. Che se poi, esaminando le tue risposte, io trovi che alcuna di esse è fantasma e non verità, e te la strappo di dosso e te la butto via, tu non sdegnarti meco come fanno per i lor figliuoli le donne di primo parto. Già molti, amico mio, hanno verso di me questo malanimo, tanto che sono pronti addirittura a mordermi se io cerco strappar loro di dosso qualche scempiaggine; e non pensano che per benevolenza io faccio codesto, lontani come sono dal sapere [d] che nessun dio è malevolo ad uomini; né in verità per malevolenza io faccio mai cosa simile, ma solo perché accettare il falso non mi reputo lecito, né oscurare la verità.

VIII. Orsù dunque, o Teeteto, da capo: vedi di dirmi che cosa è conoscenza. E non mi tirar fuori che non sei capace: se il dio vuole, e tu ti sforzi un poco, ne sarai capacissimo. TEET. Ebbene, Socrate, poiché sei tu che mi esorti, sarebbe brutto non mi adoperassi in ogni modo a [e] dire quello che ho in mente. Io credo dunque che chi conosce una cosa ha la sensazione della cosa che conosce; e perciò, almeno a quel che mi pare in questo momento, conoscenza non è altro che sensazione. SOCR. Proprio bene e bravo, caro figliolo: così si deve rispondere, mettendo in luce senz’altro il proprio pensiero. Se non che, esaminiamolo un po’ insieme codesto pensiero, se davvero è fecondo o sterile. Conoscenza, tu dici, è sensazione? TEET. Sì. SOCR. Non è affatto spregevole, mi sembra, questa definizione che tu dài della conoscenza; anzi, è [152a] quella che dette anche Protàgora. Però Protagora la stessa cosa la disse in un modo un poco diverso. Disse così: "Di tutte cose è misura l’uomo; di quelle che esistono che esistono, di quelle che non esistono che non esistono". L’hai letto tu il suo libro? TEET. Moltissime volte l’ho letto. SOCR. E non viene egli in certo modo a dire questo, che quale ciascuna cosa apparisce a me, tale codesta cosa è per me, quale apparisce a te, tale è per te; e uomini siamo tu e io? TEET. Proprio così dice. SOCR. E’ verosimile che uomo così saggio non dica cosa insensata. [b] Seguiamo dunque il suo ragionamento. Non accade talora che, soffiando lo stesso vento, l’uno di noi abbia freddo, e l’altro no? e l’uno abbia freddo un poco e l’altro molto? TEET. Sì certo. SOCR. E allora dimmi, considerandolo in se stesso, quel vento, in quel momento, come lo diremmo, freddo o non freddo? o ammetteremo, con Protàgora, che per chi ha freddo è freddo, per chi no, non è freddo? TEET. Così direi. SOCR. E non anche appare così, freddo e non freddo, all’uno e all’altro? TEET. Sì. SOCR. Ma questo ‘appare’ non è lo stesso che ‘averne la [c] sensazione’? TEET. Appunto. SOCR. Dunque, rispetto al caldo e a tutti gli esempi di simil genere, apparenza e sensazione si equivalgono: quale sente, ciascuno, una data cosa, tale è anche codesta cosa per ciascuno. TEET. Sembra. SOCR. E sensazione, in quanto è conoscenza, si dà sempre di cosa che è; né è soggetta a errore. TEET. E’ chiaro. SOCR. In nome delle Càriti! E dunque fu uomo di gran sapienza questo Protàgora, il quale al pubblico grosso come noi disse queste cose in enigma, ma ai suoi discepoli espose in segreto la verità. TEET. Che [d] cosa vuoi dire, o Socrate, con codesto? SOCR. Te lo dirò; si tratta di una dottrina assai rinomata. Questa: nessuna cosa è per se stessa una sola; tu non puoi, correttamente, dar nome a una cosa né a una sua qualità; se tu, per esempio, chiami alcuna cosa grande, ecco che essa potrà apparire anche piccola; se la chiami pesante, potrà apparire anche leggera; e così via per tutto il resto, perché niente è uno, né sostanza, né qualità. Dal mutar luogo, dal muoversi, dal mescolarsi delle cose fra loro, tutto diviene ciò che noi, adoprando una espressione non corretta, di-[e] ciamo che è; perché niente mai è, ma sempre diviene. Su questo punto tutti i filosofi, uno dopo l’altro, a eccezione di Parmenide, si deve ammettere che sono d’accordo, Protàgora, Eraclìto Empedocle; e anche sono d’accordo i migliori poeti dell’uno e dell’altro genere di poesia, Epicarmo della commedia, della tragedia Omero; il quale, dicendo "Padre fu Oceano a’ numi e madre Teti", intese dire che tutte le cose hanno origine dal flusso e dal movimento. O non credi che egli intese dire così? TEET. Sì, lo credo.

[153a] IX. SOCR. E chi potrebbe ormai far fronte a così potente esercito che ha per duce Omero, senza cader nel ridicolo? TEET. Non sarebbe facile, o Socrate. SOCR. No certo, o Teeteto. Tanto più che la loro dottrina anche da queste prove è sostenuta validamente, in quanto il così detto "essere", cioè il "divenire", è dato dal moto, e il non essere e perire è dato dalla quiete. Di fatti il calore del fuoco, che è ciò appunto che genera e governa tutte le altre cose, è generato esso stesso da spostamento e da sfregamento, i quali sono moti tutt’e due. Non sono questi [b] i mezzi onde si genera il fuoco? TEET. Questi sono. SOCR. E anche la generazione degli esseri viventi avviene allo stesso modo. TEET. Senza dubbio. SOCR. E dimmi, il nostro corpo non si corrompe con la quiete e con l’inerzia, mentre assai a lungo si conserva con gli esercizi e col moto? TEET. Sì. SOCR. E l’anima non acquista sapere con l’istruzione e con lo studio, che sono moti, e si conserva e diviene migliore; mentre con la quiete, che è assenza d’istruzione e di studio, non impara niente, e [c] quel che impara dimentica? TEET. Certamente. SOCR. L’uno dunque, cioè il moto, è un bene per l’anima e per il corpo, l’altro il contrario: non ti pare? TEET. Sì. SOCR. E ancora: devo io parlarti di calme di venti e bonacce di mari e altre cose simili, per dimostrare che sempre la quiete corrompe e distrugge, e il suo opposto conserva? E devo aggiungere a questi argomenti, come prova definitiva, la famosa corda d’oro, con la quale Omero non [d] intese dir altro che il sole, volendo dimostrare che, fino a quando la rotazione del cielo e del sole è in moto, tutto esiste e tutto si conserva tra gli dèi e tra gli uomini; ma appena cotesta rotazione si fermasse come incatenata, tutto perirebbe e andrebbe, come si dice, sottosopra? TEET. Mi pare, o Socrate, che proprio questo che tu dici Omero abbia voluto significare.

X. SOCR. Ottimo amico, considera la cosa in questo modo. E anzi tutto relativamente al senso della vista. Ciò che tu chiami color bianco non esiste in se stesso, come un che separato e diverso, né fuori degli occhi, né dentro [e] gli occhi; e nemmeno gli devi assegnare un suo luogo; perché allora, se cioè fosse in un qualche luogo assegnatogli, non solo esisterebbe in sé, ma esisterebbe come cosa immobile, e quindi non si genererebbe per via di generazione. TEET. Come dici? SOCR. Seguiamo il ragionamento che ponemmo or ora, che niente esiste in se stesso come unità indipendente. E così il nero il bianco ed ogni altro colore ci appariranno generati dall’incontro degli occhi con qualche cosa che si muove nella direzione degli occhi stessi; e ciò che noi diciamo questo o quel colore non sarà né l’oggetto che viene incontro all’occhio né [154a] l’occhio che è incontrato, bensì qualche cosa che si è generato tra mezzo e che è particolare a ciascuno. Vorrai tu forse sostenere che, come si presenta a te questo o quel colore, altrettale si presenti a un cane e a qualunque altro essere vivente? TEET. No certo. SOCR. E dimmi, c’è una cosa qualunque la quale apparisca ad altri tale che a te? Sei tu convinto sicuramente di questo? O meglio ancora, che neppure a te stesso nessuna cosa apparisce la stessa, per il fatto che neppure tu sei mai eguale a te stesso? TEET. Sì, questo mi par più vero di quello. SOCR. Adunque, [b] se l’oggetto al quale noi ci misuriamo, o quello che tocchiamo, fosse grande o bianco o caldo, non potrebbe mai, per contatto che venisse ad avere con altro senziente, divenire diverso, nulla mutando esso in se stesso; e, d’altra parte, se il soggetto senziente che si misura o che tocca fosse esso o questa o quella delle qualità sopra dette, non potrebbe mai, perché un altro oggetto gli si avvicinasse o quello di prima qualche mutazione patisse, divenire diverso, non essendo patibile esso in sé di veruna mutazione. E così, mio caro amico, noi siamo costretti a dire senza discernimento cose strane e ridicole; come appunto potrebbe rimproverarci Protàgora e chiunque sostiene la stessa dottrina di lui. TEET. Come, e quali cose dici? SOCR. [c] Ecco qui un piccolo esempio, e capirai quello che voglio dire. Se tu a 6 dadi ne metti accanto, poniamo, 4, diciamo che i 6 sono più dei 4, e precisamente che sono del valore di 1 e 1/2 rispetto a 1; se 12, diciamo che sono meno e precisamente la metà. Né sarebbe tollerabile dire altrimenti; o tu tollereresti? TEET. Io no. SOCR. E allora, se Protàgora o un altro ti chiedesse, "Teeteto, è possibile che una data cosa diventi più grande o di più altrimenti che aumentandola?", tu che cosa risponderesti? TEET. Ecco qua, Socrate: se ho da rispondere quel che [d] penso relativamente alla domanda che mi fai ora, dico che non è possibile; se relativamente alla domanda di prima, badando a non cadere in contraddizione, dico che non è possibile. SOCR. Benissimo, caro amico; divinamente. Se non che, se tu rispondi che è possibile, ti succederà, credo, qualche cosa di simile al detto di Euripide, che cioè la nostra lingua sarà inconfutabile, ma non sarà inconfutabile la mente. TEET. E’ vero. SOCR. Orbene, se fossimo io e tu disputatori abili e sapienti, e avessimo esaurito tutte le ricerche sui problemi del pensiero, potremmo d’ora innanzi, tanto per passare il tempo, saggiare a vicenda le [e] nostre forze, e attaccar battaglia alla maniera dei sofisti, ribattendo l’un contro l’altro i nostri ragionamenti. Se non che, povera gente come siamo, vorremo Piuttosto esaminare insieme, comparandoli gli uni con gli altri, che cosa sono questi pensieri che abbiamo in mente, e vedere se tra loro vanno d’accordo oppure no. TEET. Ma sì, proprio questo io vorrei.

XI. SOCR. E anch’io. Ora, stando così le cose, che altro possiamo fare, con tanto tempo a nostra disposizione, se [155a] non riesaminare da capo, quietamente, senza impazienze, ma guardando bene in fondo a noi stessi, che cosa sono queste "apparenze" che abbiamo dentro di noi? Ed esaminando la prima di esse diremo, io penso, che nessuna cosa mai può divenir maggiore o minore, né di mole né di numero, finché rimane uguale a se stessa. Non è così? TEET. Sì. SOCR. E la seconda è questa, che ciò a cui nulla si aggiunga o si tolga non può mai né crescere né diminuire, ma sempre rimane uguale. TEET. Perfetta-[b] mente. SOCR. E la terza è questa, che ciò che prima non era non può essere dopo senza divenire. TEET. Mi pare. SOCR. Ebbene, queste tre proposizioni in cui siamo d’accordo, fanno a pugni con se stesse, credo, nella nostra anima, quando ripetiamo quel che si disse a proposito dei dadi, o quando diciamo che io, a questa mia età, senza più né crescere né diminuire, sono, nello spazio di un anno, ora, più grande di te che sei giovane, dopo, più piccolo; e non perché sia stato levato via niente dalla mia persona, [c] ma perché è cresciuta la tua. lo dunque sono, dopo, quello che prima non ero pur senza divenir tale. Perché non è possibile che uno, a un dato momento, diventi qualche cosa senza questo processo di divenire; né io avrei potuto divenire più piccolo senza perdere nulla della mia persona. E ce ne sono migliaia su migliaia di casi come questi, se noi appunto ammettiamo questi. Certo tu mi segui, Teeteto, non è vero? Né mi sembra tu sia nuovo a siffatte argomentazioni. TEET. In verità, o Socrate, io sono straordinariamente meravigliato di quel che siano queste "apparenze"; e talora, se mi ci fisso a guardarle, real-[d] mente, ho le vertigini. SOCR. Amico mio, non mi pare che Teodoro abbia giudicato male della tua natura. Ed è proprio del filosofo questo che tu provi, di esser pieno di meraviglia; né altro cominciamento ha il filosofare che questo; e chi disse che Iride fu generata da Taumante, non sbagliò, mi sembra, nella genealogia. O via, intendi tu ormai perché queste cose siano proprio così in conseguenza di quel che diciamo sosteneva Protàgora; o non ancora? TEET. Non ancora, mi sembra. SOCR. E allora tu mi sarai grato se il pensiero di quest’uomo, e anzi di questi uomini rinomati, che ancora è oscuro, cer-[e] cherò insieme con te di scoprirlo nella sua vera "verità". TEET. Te ne sarò grato certamente, e moltissimo.

XII. SOCR. Apri bene gli occhi e guàrdati bene dattorno che nessuno ci senta dei non iniziati! Sono gente costoro i quali niente altro credono ci sia al mondo se non ciò che possono prendere e tenere stretto con le mani; e azioni e generazioni, e insomma tutto ciò che è invisibile, non lo ammettono, perché non fa parte, dicono, dell’essere. TEET. [156a] In verità sono ben duri e cocciuti uomini, o Socrate, codesti di cui parli. SOCR. Proprio così sono, figliolo mio, grossolani parecchio. Ma altri sono assai più raffinati; e di questi voglio rivelarti i misteri. Il principio da cui anche dipende tutto quello che dicevamo or ora è questo, che tutto è moto, e all’infuori del moto non c’è altro; e del moto ci sono due specie, infinite di numero tutte due, e l’una ha potere di agire, l’altra di patire. Dal congiungimento e dallo sfregamento di queste due specie fra loro [b] si generano figliolanze infinite di numero, ma in due serie, del sensibile l’una, della sensazione l’altra, la quale vien sempre a coincidere e a generarsi insieme col sensibile. Ora le sensazioni hanno da noi nomi di questa specie, come vista, udito, odorato, senso del freddo e del caldo; e così pure diciamo piacere e dolore, desiderio e paura; e ce n’è tante altre ancora, di cui un numero infinito non hanno nome affatto, moltissime lo hanno. Quanto poi alla serie dei sensibili, essi si generano contemporaneamente e corrispondentemente alle singole sensazioni; così, per esempio, in corrispondenza alle sensazioni della vista, che sono [c] diversissime, si generano diversissimi colori; e suoni diversi in rapporto alle sensazioni diverse dell’udito: e insomma con tutte le altre sensazioni nascono insieme tutti gli altri sensibili. Ebbene, caro Teeteto, che vuol dire questo mito relativamente a quel che si disse prima? lo capisci tu? TEET. Non troppo bene, Socrate. SOCR. Sta attento dunque, e vediamo se si riesce in qualche modo a conchiudere. Vuol dire che queste cose, tutte quante, come dicevamo, si muovono, e c’è nei loro moti velocità e lentezza. Ora, tutto ciò che è lento, trattiene il suo moto nella [d] cosa stessa e in rapporto alle cose vicine, e così appunto genera; e le cose, proprio perché così generate, sono più veloci. Queste infatti si trasferiscono qua e là nello spazio. e in codesto trasferirsi è il loro naturale moto. Ebbene, quando l’occhio e un oggetto qualunque che sia commisurabile all’occhio, avvicinandosi l’uno all’altro, generano la bianchezza e la sensazione che naturalmente le corrisponde, - le quali cose non si sarebbero mai generate se l’occhio e l’oggetto fossero andati ciascuno in direzione diversa, - allora, movendosi, nello spazio intermedio, da parte degli occhi la vista, da parte dell’oggetto che insieme [e] con l’occhio genera il colore, la bianchezza; allora, dico, l’occhio diventa pieno di vista e vede, ed è non più vista ma occhio che vede, e l’oggetto che insieme con l’occhio genera il colore, si riempie tutt’attorno di bianchezza, e non è più bianchezza ma cosa bianca, sia legno sia pietra o sia altro oggetto qualunque a cui càpiti essere colorato di codesto color bianco. E anche delle altre qualità, duro caldo e così via, si deve pensare allo stesso modo, che cioè [157a] nessuna è niente in se stessa, come dicevamo anche prima, bensì tutte si vengono generando, e in forme svariatissime, nel loro reciproco congiungersi per opera del movimento; tanto che anche l’agente e il paziente non possiamo rappresentarceli in maniera concreta come esistenti, essi dicono, ciascuno isolatamente. E di fatti nulla è agente se prima non si congiunga a ciò che è paziente, nulla è paziente se non si congiunga a ciò che è agente; e ciò che, congiungendosi con qualche cosa, con questa è agente, ecco che poi, abbattendosi in un’altra, tosto ci si rivela paziente. Consegue da tutto questo, come già dicemmo in principio, che niuna cosa è, presa isolatamente in se stessa, ma sempre diviene relativamente a un’altra; e dunque que-[b] sta parola ‘essere’ si deve levar via in ogni modo; sebbene più volte e anche or ora, per consuetudine e per ignoranza, si sia stati costretti a adoperarla. E il vero è, come i sapienti dicono, che non bisogna; e nemmeno bisogna acquetarsi, parlando di me o di altri, in questa parola o in quella, né insomma pronunciare alcun nome che indichi qualche cosa di fermo e immutabile; bensì adoperare espressioni secondo la natura delle cose, e dire appunto che esse si generano, che si fanno, che periscono, che si alterano: perché solo che uno, nel suo parlare, fermi qualche cosa, facilmente costui, così facendo, sarà sùbito confutato. E bisogna parlare in codesto modo sia di ciascuna cosa singolarmente, sia di molte cose nel loro insieme; che è quell’insieme a cui dànno nome, per esempio, di uomo, [c] di pietra, e così via per ogni altro animale e per ogni altra specie. Ebbene, caro Teeteto, ti sembra piacevole questo argomentare? lo gusti? ti soddisfa? TEET. Io non so, o Socrate, veramente: perché neanche riesco a capire se tu dici cose che pensi, o se fai così per provarmi. SOCR. Tu non ricordi, amico mio, che nulla veramente io so, e che quindi nessuna di codeste cose io posso pretendere come mia, perché sono sterile; e piuttosto aiuto te a generare; e appunto per questo ti fo l’incantesimo, e ti imbandisco l’una dopo l’altra le opinioni di questi sapienti [d] perché tu ne gusti; finché non sarò riuscito a trarre alla luce l’opinione tua: e quando sia venuta fuori la tua, allora la esaminerò, se sia per essere vuota o vitale. Coraggio, dunque, e non ti stancare; e rispondimi bene e da bravo che cosa pensi delle cose che ti domando. TEET. Domanda dunque.

XIII. SOCR. Su dunque, da capo; e dimmi se ti soddisfa questa proposizione che niente è, ma sempre diviene, il buono il bello e tutto ciò di cui or ora abbiamo discorso. TEET. Sì, a me, da che ti sento discorrere in codesto modo, pare una meraviglia il tuo ragionamento; e credo che le cose debbano appunto esser concepite così come dici. [e] SOCR. E allora non tralasciamo quel che ci rimane tuttavia da dire. E ci rimane a dire dei sogni e delle malattie, e, fra queste, massimamente della pazzia, e cioè insomma di quel traudire o travedere o comunque trasentire che si dice appunto [di coloro che sognano, o dei malati, o dei pazzi]. Perché tu sai bene che tutto ciò sembra essere per comune consenso una prova inconfutabile contro il ragionamento che facevamo or ora, in quanto che, se ci sono [158a] sensazioni fallaci, quelle che si generano nei casi sopra detti sono certamente le più fallaci di tutte; e ben lungi dal ritenere che quel che a ciascuno apparisce sia anche realtà, si ritiene anzi, tutt’al contrario, che niente sia realtà di quello che apparisce. TEET. Hai perfettamente ragione, o Socrate. SOCR. Quale argomento rimane allora, o figliolo, a chi sostiene che la sensazione è conoscenza, e che quel che a ciascuno appare, codesto anche è per quegli cui appare? TEET. Io non ho più il coraggio, o Socrate, di dirti che non so che dire; ché proprio ora mi hai dato addosso per averti risposto così. Ma in verità io non saprei [b] come mettere in dubbio che non abbiano opinioni false coloro che sono pazzi o che sognano, quando c’è, per esempio, tra quelli, chi crede di essere dio, e tra questi, chi s’immagina d’avere le ali e di volare nel sonno. SOCR. O forse tu neanche hai in mente quel tale dubbio che si può mettere innanzi a proposito di costoro, e massimamente a proposito della veglia e del sonno? TEET. Quale? SOCR. Questo: più volte io credo tu abbia sentito persone chiedere qual prova si potrebbe ‘dare a dimostrazione [che si è svegli o no], quando uno, per esempio, ora stesso, così sul momento, ci venisse a domandare se dormiamo e se sia sogno tutto quello che stiamo pensando, oppure se [c] siamo svegli e proprio da svegli ragioniamo tra noi. TEET. Certamente, o Socrate, una prova dimostrativa è difficile darla; perché tutto [nella veglia e nel sonno], si succede perfettamente uguale, quasi fossero l’uno il contrapposto dell’altro. E difatti, questi ragionamenti che abbiamo fatti ora, niente impedisce che potremmo credere di farli tra noi anche dormendo; e quando in sogno ci par di raccontare sogni, assai singolare è la somiglianza di quel che ci càpita dormendo con quello che facciamo da svegli. SOCR. Tu vedi dunque che suscitar dubbi a questo propo-[d] sito non è difficile, quando persino si dubita se si è svegli o si dorme; e poiché il tempo in cui dormiamo è uguale a quello in cui siamo svegli, in ciascuno di questi intervalli la nostra anima si batte per sostener che sono vere unicamente quelle opinioni che ella ha di volta in volta come presenti; cosicché per un eguale tempo diciamo che sono vere queste [della veglia], per altro eguale tempo quelle [del sogno]: e sempre, ora per le une ora per le altre, battagliamo con pari ardore. TEET. Precisamente così. SOCR. Ebbene, per i casi di malattia e di pazzia non si deve fare lo stesso ragionamento, pur astraendo dal tempo che non è uguale? TEET. Giusto. SOCR. Che forse dalla maggiore o minor durata del tempo sarà definita [e] la verità? TEET. Sarebbe cosa ridicola in ogni modo. SOCR. Ma hai tu altro segno evidente per dimostrare quali di queste opinioni sono vere? TEET. Non mi pare.

XIV. SOCR. Ascolta dunque da me in che modo potrebbero rispondere a codesta obiezione coloro i quali le cose che via via appaiono definiscono come realmente esistenti per colui al quale appaiono. Rispondono, io credo, interrogando in questo modo: "O Teeteto, una cosa che sia totalmente altra da un’altra, potrà mai avere un suo potere che sia lo stesso di quest’altra? E bada, non dobbiamo noi immaginare che la cosa di cui domandiamo sia in parte la stessa e in parte un’altra, bensì un’altra del tutto". TEET. In questo caso, quando cioè si tratti di cosa che sia perfettamente un’altra, non è possibile ch’ella abbia, né [159a] potenzialmente né in altro modo qualsiasi, alcunché di identico. SOCR. E non si deve riconoscere che codesta tale cosa è anche dissimile? TEET. Così almeno mi pare. SOCR. Se dunque accade che qualche cosa diventi simile o dissimile a checchessia, sia pure a se stessa o a un’altra cosa, non diremo noi che, assomigliandosi, diviene, la stessa, dissomigliandosi, un’altra? TEET. Necessariamente. SOCR. E non dicevamo prima che molti sono gli elementi attivi, e anzi infiniti, e altrettanti i passivi? TEET. Sì. SOCR. E che mescolandosi insieme questi due elementi l’un l’altro, e poi ancora l’uno con un altro diverso, [b] non genereranno le medesime cose, ma altre? TEET. Precisamente. SOCR. Ebbene, possiamo parlare di me e di te, e di ogni altra cosa oramai allo stesso modo; per esempio, di Socrate sano e di Socrate ammalato: diremo che questo è simile a quello, o che è dissimile? TEET. Quando dici ‘Socrate ammalato’, intendi dire tutto intiero questo, il ‘Socrate ammalato’, se è simile o dissimile a tutto intiero quell’altro, il ‘Socrate sano’? SOCR. Hai capito benissimo: proprio codesto volevo dire. TEET. Dissimile certamente. SOCR. E dunque un altro, per ciò appunto che dici dissimile. TEET. Necessariamente. SOCR. E anche di Socrate dormiente, e via via di Socrate in tutte [c] le condizioni di cui discorrevamo or ora, dirai lo stesso? TEET. Sì. SOCR. Ora, ciascuno di quegli elementi che da natura hanno potere di agire, quando s’imbattono in Socrate sano, non mi tratteranno come una persona diversa dal Socrate malato? e quando s’imbattono in Socrate ammalato, come una persona diversa dal Socrate sano? TEET. Sarà così. SOCR. E cose diverse, nell’un caso e nell’altro, genereremo insieme, io, il paziente, e quello, l’agente. TEET. E allora? SOCR. Ecco, se bevo vino stando bene, mi pare buono e dolce: è vero? TEET. Sì. SOCR. Infatti, come già riconoscemmo d’accordo, l’agente e il pa-[d] ziente generano insieme dolcezza e sensazione di dolcezza, che si muovono tutt’e due contemporaneamente: e cioè, da un lato la sensazione, che ha origine dal soggetto paziente, fa senziente la lingua; dall’altro la dolcezza, che proviene dal vino e intorno a esso si muove, fa sì che il vino a una lingua sana e sia e apparisca dolce. TEET. Perfettamente; così riconoscemmo già prima. SOCR. Ma quando l’agente trova Socrate ammalato, non è anzi tutto verissimo che non trova più la medesima persona? S’è incontrato difatti con persona dissomigliante. TEET. Sì. [e] SOCR. E allora altre cose generano insieme questo Socrate ammalato e la bevuta del vino: sensazione di amarezza che si genera e si muove intorno alla lingua, amarezza che si genera e si muove intorno al vino; e l’uno, il vino, non sarà amarezza ma amaro, e io, Socrate, non sarò sensazione ma senziente. Non è così? TEET. Perfettamente. SOCR. E dunque io di nessun'altra cosa potrò mai divenire senziente in questo modo: perché altra cosa importa altra [160a] sensazione, e altra sensazione àltera e fa altro il senziente; e nemmeno è possibile che quel dato agente che opera su me, qualora s'incontri con altra persona, diventi esso tal quale generando il medesimo, perché, da altra persona generando altro, diverrà altro esso stesso. TEET. E’ così. SOCR. Né io certo diverrò tale [,cioè senziente, isolatamente] a me stesso; né diverrà tale [,cioè sentita] quella data cosa [isolatamente] a se stessa. TEET. No, certo. SOCR. Bensì è necessario che, divenendo io senziente, divenga senziente di qualche cosa; perché divenir senziente è possibile, ma di nessuna cosa senziente non è possibile. E così pur è necessario che quella data cosa, [b] quando diviene dolce o amara o altro simile, divenga tale per qualcheduno; perché divenir dolce, è possibile, ma per nessuno divenir dolce non è possibile. TEET. Sta benissimo. SOCR. Resta dunque, mi pare, che noi, o si sia o si diventi, siamo o diventiamo l’uno relativamente all’altro, dal momento che la naturale necessità nostra, mentre lega reciprocamente il nostro essere, non lo lega però con nessun'altra cosa [che sia fuori di noi], e nemmeno ciascuno di noi con se stesso. Resta dunque, io dico, che siamo legati fra noi in una reciproca dipendenza. Cosicché, o dica uno di qualche cosa che è, o dica che diviene, dovrà pur sempre dire costui che quella cosa o è o diviene per qualche altra cosa, di qualche altra cosa, relativamente a qualche altra cosa; ma che una cosa o sia o [c] divenga isolatamente per se medesima, questo non potrà dire, né potrà consentire che altri lo dica, come dimostra il ragionamento che abbiamo fatto. TEET. Tu hai ragione del tutto, o Socrate. SOCR. Poiché dunque una cosa che in un dato momento agisce su me è relativa a me e non ad altri, anche la sensazione di codesta cosa l’avrò io, ma altri non l’avrà: non è così? TEET. Certo. SOCR. Vera è dunque per me la mia sensazione; infatti ella è sempre un particolare momento del mio essere. E così io, come dice Protàgora, sono giudice di ciò che è per me come è, di ciò che non è, come non è. TEET. Così pare.

[d] XV. SOCR. O come allora, se è vero che non m’inganno, se è vero che non prendo abbagli nel giudicare di ciò che è o diviene, come non sarò io conoscente delle cose di cui sono senziente? TEET. Non è possibile infatti che tu non sia. SOCR. Dunque tu hai detto benissimo che conoscenza non è altro che sensazione: e perciò, sia quel che dissero Omero ed Eraclìto e gli altri come loro che tutto si muove come in un continuo fluire; sia quel che disse il sapientissimo Protàgora, che di tutto è misura l’uomo; e sia quel che ha detto Teeteto, che, così stando [e] le cose, sensazione è conoscenza; tutte queste proposizioni vengono insieme a coincidere e a identificarsi. Ebbene, o Teeteto, vogliamo dire che codesto pensiero è una specie di figliuol tuo nato ora, e mia fu l’arte che t’aiutò a generarlo? o come vuoi dire? TEET. Così si deve dire, o Socrate. SOCR. Questo figliolo dunque, a quel che pare, anche se con fatica, siamo pur riusciti, finalmente, a generarlo, quale esso sia: se non che, dopo il parto, bisogna che gli facciamo una vera e propria amfidròmia, menandolo di corsa tutt’attorno col nostro ragionamento, per vedere se davvero valga la pena, così com’è, di allevarlo, [161a] e non sia invece, senza che ce ne avvediamo, inconsistente e fallace. O tu pensi che questo figliol tuo si debba allevare in ogni modo e non esporlo; o anche sopporterai di vederlo messo alla prova, e non ti adirerai fortemente se qualcuno te lo leva di sotto, così di primo parto come sei? TEOD. Lo sopporterà volentieri questo, o Socrate Teeteto; ché non è affatto di carattere difficile. Ma in nome degli dei, dimmi in che modo la cosa può ancora non essere così? SOCR. Tu sei veramente un amico del ragionare, o Teodoro, e un dabbene uomo, se credi ch’io sia una specie di sacco di ragionamenti, e mi sia facile ogni tanto tirarne fuori uno per dimostrare che ancora una [b] volta la cosa non sta così. E non capisci quel che in realtà mi accade, che cioè nessun ragionamento viene fuori da me, ma sempre da colui che meco ragiona, e che io non ho in più nessun’altra abilità se non questa semplicissima, di prendere da altra persona sapiente un suo ragionamento e accoglierlo come si conviene. E ora mi proverò di far questo con Teeteto, e di mio non dirò nulla. TEOD. Sta bene, Socrate: fai così.

XVI. SOCR. Sai tu, o Teodoro, che cosa mi fa meravi-[c] glia di quel tuo amico Protàgora? TEOD. Che cosa? SOCR. Per il resto quel che ha detto mi piace moltissimo: ciò che pare a ciascuno, codesto anche è; ma il principio del suo ragionamento mi ha fatto meraviglia: e cioè come mai, principiando quel suo libro su la Verità, non abbia detto così, che "di tutte le cose è misura il porco" o "il cinocefalo" o qualunque altro anche più strano essere capace di sensazione. In codesto modo, fin dal principio, egli ci avrebbe parlato con un magnifico e grandioso dispregio, mostrandoci che mentre noi lo ammiravamo per il suo sapere come un dio, in realtà egli non valeva per [d] intelligenza niente di meglio, non dico di un altr’uomo qualsiasi, ma nemmeno di un girino di ranocchio. O come dobbiamo dire, caro Teodoro? Se per ognuno sarà vera quella opinione ch’egli si forma da ciò che sente, né quel che càpita a uno sarà capace un altro di giudicarlo meglio di quello, né mai alcuno avrà maggiore autorità di valutare l’opinione di un altro se è vera o se è falsa, bensì, come s'è detto più volte, ciascuno potrà avere opinioni di ciò che direttamente lo tocchi, e queste opinioni tutte quante saranno giuste e vere; perché mai, o amico, Protàgora soltanto aveva da esser sapiente sì da credersi in diritto di [e] far da maestro agli altri e di farlo a così gran prezzo, e noi s’aveva da essere in paragone suo così ignoranti, e si doveva andar a scuola da lui, dal momento che è misura ciascuno del proprio sapere? Come non credere che Protàgora per il pubblico grosso diceva queste cose? Quanto poi a me e alla mia arte ostetricia, non ti dico quanto ridicolo ci tiriamo addosso; e così, penso, tutta la mia pratica del disputare. Questo esaminare e cercar di confutare gli uni degli altri opinioni e giudizi, che sono veri [162a] per ciascuno, non sarebbe la più grande, la più enorme stoltezza, se proprio è vera la Verità di Protàgora, e non ha ella piuttosto oracoleggiato per burla dal santuario del suo libro? TEOD. O Socrate, amico mio fu Protàgora, come or ora dicesti anche tu. E io non potrei adattarmi a veder confutato Protàgora col mio consenso; né potrei d’altra parte oppormi a te contro l’opinione mia. Riprendi dunque a disputare con Teeteto; tanto più che anche or ora mi pareva ti ascoltasse con grande attenzione. SOCR. [b] O dimmi, Teodoro, se tu andassi a Lacedèmone, nella palestra, ti crederesti in diritto di star a guardar nudi gli altri, e alcuni di costoro anche brutti, senza che alla tua volta ti spogliassi anche tu ed esponessi al giudizio loro il tuo corpo? TEOD. E perché no, se essi me lo volessero permettere e si lasciassero persuadere? Così ora io spero di persuader voi a lasciar qui me da spettatore senza trascinarmi nel ginnasio, indurito ormai come sono; e intanto ti batti tu con questo, che è più giovane e agile.

XVII. SOCR. Ebbene, Teodoro, se così piace a te, ne[c] anche a me dispiace, come dice il proverbio. E ritorniamo dunque al sapiente Teeteto. Dimmi, Teeteto, - e mi riferisco anzi tutto a quello che dicemmo ora, - non ti meraviglieresti tu se così, tutt’a un tratto, ti scoprissi a non esser da meno in sapienza di uno qualunque degli uomini o a dirittura degli dèi? o pensi che la misura di Protàgora non sì addica agli dèi come agli uomini? TEET. No, io non dico questo; anzi, per rispondere alla tua domanda, dico che me ne meraviglierei grandemente. Di fatti, quando, noi esaminavamo in che modo costoro dices-[d] sero che quel che appare a ciascuno codesto anche è per colui al quale appare, mi pareva fosse detto benissimo; ora invece la cosa mi si è rovesciata tutt’al contrario. SOCR. Perché tu sei giovane, caro figliolo; e ai discorsi facili e volgari aguzzi le orecchie e ti lasci prendere l’animo. Ma a codesti argomenti ecco che cosa replicherebbe Protàgora o un altro per lui: "O buona e brava gente, giovani e vecchi, voi ve ne state qui a sedere, e fate di codesti vostri discorsi spicci, e ci tirate in mezzo gli dèi, [e] mentre io gli dèi li escludo da ogni mio detto o scritto, e non mi curo se esistono o non esistono. Al volgo possono piacere argomenti simili, come quando dite, per esempio, che sarebbe straordinario non ci fosse nessuna differenza nel sapere fra gli uomini e una bestia qualunque. Ma una dimostrazione, una prova conclusiva, voi non la date mai; e vi servite come prova di ciò solo che è verosimile. E sì che se Teodoro o altro geometra volessero, per loro questioni geometriche, argomentare in tal modo, conterebbero meno di zero. State attenti dunque, tu e Teodoro, se pro-[163a] prio siete disposti, intorno a problemi di tal peso, ad accogliere argomenti che si fondano soltanto su verosimiglianza e probabilità". TEET. Né tu né noi, o Socrate, potremmo dire che ciò sia ragionevole. SOCR. Bisogna dunque esaminare la cosa in altro modo, come mi pare vogliate intendere tu e Teodoro. TEET. Precisamente, in altro modo. SOCR. E allora esaminiamola così, ricercando se veramente conoscenza e sensazione sono la stessa cosa o sono due cose diverse. Ché questo, mi pare, era il punto a cui tendeva ogni nostra disputa, e proprio per questo agitammo tante e così strane questioni. Non è così? TEET. [b] Certamente. SOCR. O dunque, saremo d’accordo nel dire che di tutte le cose di cui abbiamo sensazione perché le vediamo o udiamo, di tutte codeste nel medesimo tempo abbiamo anche conoscenza? Per esempio, prima di aver appreso il linguaggio dei barbari, che cosa diremmo quando costoro si esprimono, che noi non udiamo, oppure che udiamo e insieme conosciamo ciò che essi dicono? Ancora: noi non conosciamo le lettere; se gettiamo lo sguardo su di esse, che cosa sosterremo, che non le vediamo, oppure che ne abbiamo conoscenza se le vediamo? TEET. Di codeste cose, o Socrate, noi diremo di conoscere quello solo che realmente ne vediamo e udiamo: e cioè, delle lettere diremo di vedere e conoscere il colore e la forma, dei [c] suoni diremo di udire e al tempo stesso conoscere l’acutezza e la gravità. Quanto ad altre cose che possono insegnarci di quel linguaggio i letterati e gli interpreti, diremo che, non vedendole né udendole, non ne abbiamo alcuna sensazione, e non le conosciamo. SOCR. Benissimo, caro Tecteto; né su codesto val la pena di disputare; anche perché così prenderai coraggio.

XVIII. Ma sta bene attento anche a quest’altra difficoltà che ci viene addosso; e vedi in che modo la potremo scansare. TEET. Quale difficoltà? SOCR. Questa: se ci si [d] domandasse, "E’ possibile che uno, il quale sia divenuto un giorno conoscente di qualche cosa, e di codesta cosa abbia e tuttavia conservi il ricordo; è possibile che colui, nel momento in cui si ricorda, non conosca ciò appunto di cui si ricorda?"... Ma io fo, vedo bene, un lungo giro di parole mentre voglio domandare semplicemente questo, se uno che ha imparato una cosa può, ricordandosene, non saperla. TEET. E com’è possibile, Socrate? Sarebbe assurdo questo che dici. SOCR. O che forse vaneggio? Considera: non dici tu che il vedere è sentire, e che la vista è sensazione? TEET. Così dico. SOCR. Ebbene, chi vide una cosa non è perciò divenuto conoscente [e] della cosa che vide, se stiamo al ragionamento di prima? TEET. Si. SOCR. Dimmi ora: non c'è qualche cosa che tu chiami memoria? TEET. Sì. SOCR. Ed è memoria di qualche cosa o di niente? TEET. Di qualche cosa, certo. SOCR. Dunque di ciò che uno apprese e di ciò di cui ebbe sensazione, di codeste cose è memoria. TEET. Ebbene? SOCR. Naturalmente, di quel che vide, se ne ricorda uno qualche volta, non è vero? TEET. Sì, se ne ricorda. SOCR. Anche se chiude gli occhi se ne ricorda? o facendo così se ne dimentica? TEET. Ma è un’enormità, Socrate, [164a] affermare codesto. SOCR. E tuttavia bisognerà affermarlo, dico io, cotesto, se vogliamo tenere stretto il ragionamento di prima: se no, addio, se ne va. TEET. Anch’io, Socrate, ho un po’ di paura che se ne vada; ma non capisco bene. Dimmi tu in che modo. SOCR. Così. Colui che vede, dicevamo, si trova a essere conoscente di ciò che vede; perché vista, sensazione e conoscenza siamo d’accordo che sono la stessa cosa. TEET. Benissimo. SOCR. Ma colui che vede, e però è divenuto conoscente di ciò che vedeva, se chiude gli occhi, si ricorda, sì, ancora, ma non vede più. Non è così? TEET. Sì. SOCR. Ma [b] questo non vede vuol dire ‘non conosce’, se è vero che ‘vede vuol dire conosce’. TEET. E’ vero. SOCR. E allora ne risulta che chi divenne conoscente di una cosa, ancorché di codesta cosa si ricordi, non la conosce più, dal momento che più non la vede: che sarebbe appunto, se così fosse, quell’assurdo che dicevamo. TEET. Verissimo. SOCR. E dunque ne risulta, mi pare, una conclusione che non può reggere, chi afferma che conoscenza e sensazione sono lo stesso. TEET. Così sembra. SOCR. E quindi altra cosa si dovrà dire che è conoscenza, altra cosa sensazione. TEET. Parrebbe di sì. SOCR. E allora, [c] che cosa è conoscenza? Bisognerà ridirlo, credo, da capo. Sebbene... che cosa stiamo per fare, Teeteto? TEET. A che proposito? SOCR. Mi pare che noi, come farebbe un gallo ignobile, saltiamo giù... dal discorso e cantiamo vittoria prima di aver vinto. TEET. O come? SOCR. Si direbbe che ci siam messi d’accordo, alla maniera degli antilogici, su le omologie delle parole; e vinto così, con tale artificio, l’argomento avversario, senz’altro ci dichiariamo lieti e contenti. E mentre ci vantiamo di non essere eristici ma filosofi, veniamo a fare senza avvedercene [d] proprio lo stesso di quei tremendi disputatori. TEET. Non capisco ancora bene che cosa vuoi dire. SOCR. Mi proverò a chiarirti il mio pensiero. Noi ci ponemmo questa questione, se un uomo, che ha imparato una data cosa e la ricorda, non la conosce; e avendo dimostrato che chi vide, anche se chiude gli occhi, ricorda, ma non vede, concludemmo che quell’uomo non sa, e al tempo stesso ricorda: e questo dicemmo essere impossibile. E così morì il mito di Protàgora; e insieme è morto anche il tuo, quello [e] della conoscenza e sensazione che sono tutt’uno. TEET. Pare. SOCR. lo credo invece, caro amico, che la conclusione sarebbe diversa se il padre del primo di codesti due miti fosse ancor vivo, ché con molte ragioni lo difenderebbe. Ora invece, orfano com’è, noi lo ricopriamo di vitupèri. E nemmeno i tutori che Protàgora lasciò hanno voglia di venir in suo aiuto; dei quali è pur uno, qui, il nostro Teodoro. E andrà a finire che per amor di giustizia gli verremo in aiuto proprio noi. TEOD. Non io, Socrate, [165a] bensi Callia figliolo di Ipponìco è tutore delle cose di Protàgora. Noi ben presto, dalla nuda dialettica passammo allo studio della geometria. Comunque, se vorrai tu dargli aiuto, ti saremo grati. SOCR. Tu dici bene, Teodoro. Vedi dunque, per quel che valga, questo mio aiuto. Ma certo ci si dovrà rassegnare a paradossi ben più gravi di questi di ora se non si sta molto attenti al significato delle parole, e cioè al modo onde siamo soliti le più volte affermare e negare. A te vuoi ch’io dica come, o a Teeteto? TEOD. [b] A tutti due insieme; ma risponda il più giovane, che, se sbaglia, sfigurerà meno.

XIX. SOCR. Voglio farti la più stravagante delle domande; che, credo, è questa: possibile che la stessa persona la quale sa una data cosa, quella cosa che sa non la sappia? TEOD. Teeteto, che cosa possiamo rispondere? TEET. Io, per parte mia, direi che non è possibile, mi pare. SOCR. Niente affatto, se tu ammetti che il vedere è conoscere. O come te la caverai se un avversario ostinato, con una di quelle domande senza scampo in cui si è presi, come si dice, dentro un pozzo, mentre con la mano ti chiude uno degli occhi, ti domanda se vedi il suo mantello con [c] l’occhio chiuso? TEET. Gli risponderò, mi pare, che con quest’occhio non lo vedo, ma lo vedo con l’altro. SOCR. Dunque tu vedi e non vedi al tempo stesso la stessa cosa? TEET. Sì, almeno in un certo senso. SOCR. Non si tratta di questo, dirà costui: io non voglio tu mi risponda né io ti domando in che senso; bensì questo soltanto, se quel che conosci anche non lo conosci. Tu hai dichiarato proprio ora che vedi ciò che non vedi; e d’altra parte hai pur convenuto che il vedere è conoscere e il non vedere non conoscere. Dunque concludi tu che cosa ti vien fuori da queste due proposizioni. TEET. Ebbene, concludo che [d] mi vien fuori tutto il contrario di quel che supponevo prima. SOCR. E io credo, amico mio, che te ne capiterà più d’uno di questi casi, quando ancora, per esempio, ti si domandi se c’è un conoscere acuto e un conoscere debole, se è possibile la stessa cosa conoscerla da vicino e da lontano no, conoscerla molto e conoscerla poco, e così via. Uno di quei mercenari di parole, di quei disputatori di leggera armatura, qualora tu mantenessi la tua posizione che sensazione e conoscenza sono la stessa cosa, potrebbe, in suo agguato, fartene infinite altre di queste domande; e, dato l’assalto all’udire all’odorare e agli altri sensi, avrebbe su te facile vittoria tenendo duro, e non lasciando sua [e] presa finché non t’avesse legato mani e piedi entro la stessa rete della tua ammirazione per così desiderata sapienza; e, dopo essersi in tale modo impadronito di te e averti fatto ormai prigioniero, allora soltanto ti lascerebbe andare quando tu gli pagassi quel tanto denaro che fosse stato fra te e lui convenuto. Ebbene, mi dirai tu, Protàgora quale argomento potrà usare in soccorso della sua dottrina? non vogliamo provarci a dirlo? TEET. Ma certamente.

XX. SOCR. Egli dirà tutto quello che noi già stavamo [166a] dicendo in sua difesa; e poi, credo, ci assalterà più da presso, e con aria sprezzante seguiterà così: "Questo brav’uomo di Socrate domanda qui a un ragazzetto se crede possibile che una stessa persona ricordi e insieme non sappia la stessa cosa; e poiché il ragazzo, incapace di vedere un poco più in là della domanda, si è spaventato e ha risposto di no, costui s’è rivoltato contro di me e ha fatto di me lo zimbello dei suoi discorsi. Ma no, troppo facilone tu sei, caro Socrate: la cosa sta così. Quando tu esamini per via di domande qualcuna delle mie proposizioni, se l’interrogato sbaglia rispondendo come risponderei io, il confutato [b] sono io; ma se sbaglia rispondendo diversamente da me, allora il confutato non sono più io ma la persona interrogata. Veniamo senz’altro al caso nostro: credi tu che ti si potrà concedere che sopravviva in taluno il ricordo di un’impressione già provata il quale sia la stessa cosa di codesta impressione nel momento in cui quel tale la provò, quando non la prova più? No certamente: e ancora: credi tu che stenterà uno ad ammettere che la stessa persona può sapere e non sapere la stessa cosa? Oppure, se ti spaventa ammettere questo, ti si potrà mai concedere che chi è divenuto diverso séguiti a essere lo stesso di quel che era prima di divenire diverso? e più ancora, che costui sia uno solo e non molti, e che questi molti non si moltiplichino all’infinito, sempre che in quell’uno si generi diversità? Tutto [c] ciò dico se vogliamo stare attenti a non prenderci al laccio l’un l’altro con tranelli di parole. Ebbene amico mio", seguiterà egli, "fatti contro a quello ch’io dico con più schietto animo, e dimostrami, se puoi, che le sensazioni non si generano individualmente a ciascuno di noi; oppure che, se anche si generano individualmente, non ne consegue in ogni modo che, ciò che appare a ciascuno, si generi o sia - se si deve usare questa parola ‘essere’ per quello soltanto a cui appare. E, mentre parli di porci, e di cinocefali, non solo fai il porco tu stesso, ma anche quelli che ti ascoltano gli persuadi a fare contro i miei [d] scritti altrettanto; e hai torto. Io affermo, sì, che la verità è proprio come ho scritto; che ciascuno di noi è misura delle cose che sono e che non sono: ma c’è una differenza infinita fra uomo e uomo per ciò appunto che le cose appariscono e sono all’uno in un modo, all’altro in un altro. E sono così lontano dal negare che esistano sapienza e uomo sapiente, che anzi chiamo sapiente colui il quale, trasmutando quello di noi cui certe cose appariscono e sono cattive, riesca a far sì che codeste medesime cose appariscono e siano buone. E tu non combattere il mio [e] ragionamento inseguendolo ancora nelle parole; ma vedi piuttosto di intendere così, sempre più chiaramente, che cosa voglio dire. Ricorda quel che già prima dicemmo, che a chi è malato i cibi sembrano e sono amari, a chi sta bene, al contrario, sono e sembrano gradevoli. Se non che non è lecito inferire da ciò che di questi due l’uno è più sapiente dell’altro, - ché non è possibile, - e nemmeno [167a] si deve dire che l’ammalato, perché ha tale opinione, è ignorante, ed è sapiente il sano perché ha opinione contraria; bensì bisogna mutare uno stato nell’altro, perché lo stato di sanità è migliore. E così, anche nell’educazione, bisogna tramutar l’uomo da un abito peggiore a un abito migliore. Ora, per codesti mutamenti, il sofista adopra discorsi come il medico farmachi: ma nessuno mai indusse chicchessia che avesse opinioni false ad avere opinioni vere; né di fatti è possibile che uno pensi cose che per lui non esistono, o cose estranee a quelle di cui abbia in quel momento una data impressione, ché queste soltanto per lui [b] sono vere ogni volta. Ebbene, colui che per uno stato d’animo inferiore ha opinioni conformi alla natura di codesto suo animo, può esser indotto, credo, da un animo superiore ad avere opinioni diverse che siano conformi a codesto animo superiore; che sono appunto quelle fantasie che taluni per ignoranza dicono vere, e io dico semplicemente migliori le une delle altre, ma più vere nessuna. E i sapienti, amico Socrate, io sono ben lontano dal chiamarli ranocchi; che anzi rispetto ai corpi li chiamo medici, rispetto alle piante agricoltori. E dico che questi agricoltori introducono nelle piante, se qualcuna ne ammala, invece di [c] sensazioni cattive, sensazioni buone e salutari, non solo vere; e i sapienti e buoni rètori fanno sì che alle città apparisca giusto il bene anzi che il male. Infatti ciò che per una data città apparisce giusto e bello, codesto anche è, per quella città, e giusto e bello, finché così ella reputi e sancisca: ma è l’uomo sapiente che per ogni singola cosa la quale ai cittadini sia male sostituisce altre cose che sono e appariscono bene. Per la stessa ragione anche il sofista che è capace di educare in tal modo i suoi alunni è uomo [d] sapiente e meritevole di esser pagato da costoro con molto danaro. E così alcuni sono più sapienti di altri, e nessuno ha opinioni errate; e tu devi rassegnarti, voglia o non voglia, a essere misura delle cose: in questo che s’è detto si fonda appunto la salvezza della mia dottrina. Alla quale tu, se vuoi contraddire da capo, contraddici pure, opponendole un’argomentazione continuata; se poi ti piacesse valerti di domande, allora domanda; ché certo questo modo non è da fuggire, ma anzi da preferire sopra ogni altro, chi abbia senno. Bada a questo, però: non commettere [e] ingiustizia nell’interrogare; perché sarebbe un’assai strana contraddizione che chi si professa zelatore di virtù finisse a non far altro nei suoi discorsi che commettere ingiustizia. E si commette ingiustizia in questo modo, quando uno non distingua nettamente, facendo sue dispute, se disputa con animo di contendente o con animo di dialettico: ché nel primo caso ama scherzare e cerca quanto più può di cogliere in fallo l’avversario; mentre nell’altro ragiona con serietà, e chi parla con lui raddrizza e corregge, e lo avverte dì quegli errori soltanto nei quali sia caduto [168a] per colpa propria o di coloro coi quali abbia disputato precedentemente. Ora, se tu fai così come io dico, quelli che disputano con te incolperanno se stessi di loro turbamenti e incertezze, non te; e te seguiranno e ameranno, e se stessi odieranno; e fuggiranno da sé per gettarsi nella filosofia, e liberarsi in tal modo, divenendo altri, da quel che erano prima. Ma se fai, come la più parte, il contrario, tutto il contrario ti succederà, e i tuoi compagni di dispute, [b] anzi che filosofi, diventeranno odiatori della filosofia appena cresciuti negli anni. Dammi ascolto, dunque; e, come già prima si disse, non con malignità e bramosia polemica, ma sinceramente, con tranquillità e remissione di animo, vedi di esaminare che cosa intendiamo dire quando affermiamo che tutto si muove, e che quel che pare a ciascuno codesto anche è, sia per ogni cittadino singolarmente, sia per tutti quanti insieme. Solo in questo modo potrai anche esaminare se sono la stessa cosa o diverse sensazione e conoscenza; e non già, come facevi or ora, movendo [c] dal comune uso dei nomi e delle parole cui la più parte degli uomini tirano qua e là a loro capriccio, creandosi l’un l’altro infinite e molteplici difficoltà". Queste cose, o Teodoro, mi provai io a dire, come potei, per soccorrere all’amico tuo: piccolo soccorso, di piccolo uomo; ché certo, se fosse stato vivo lui, miglior difesa avrebbe potuto fare egli stesso della sua dottrina.

XXI. TEOD. Tu scherzi, Socrate: hai difeso Protàgora con una vivacità davvero giovanile. SOCR. Sta bene, amico; ma dimmi: hai tu notato quel che diceva or ora Pro[d] tàgora, e il rimprovero che ci faceva di discutere con un ragazzetto, e che della timidità di questo ragazzo noi approfittavamo per combattere le dottrine sue? e rinfacciandoci codesto discutere come una cosa da burla, ed esaltando quella tal "misura di tutto", non finiva di ammonirci che della sua dottrina si deve ragionare con serietà? TEOD. E come non l’ho notato, o Socrate? SOCR. Ebbene, vuoi che gli diamo ascolto? TEOD. Certamente. SOCR. Tu vedi però che tutti questi qui, all’infuori di te, sono ragazzi: se dunque vogliamo dar retta a Protàgora davvero, bisogna che di quella sua dottrina ci mettiamo a [e] discutere seriamente io e tu, interrogandoci e rispondendo a vicenda; perché poi, almeno, non abbia da rinfacciarci che ne disputammo una seconda volta scherzando con dei ragazzi. TEOD. O come, non sarebbe capace Teeteto, meglio di tanti altri che hanno lunghe barbe, di tener dietro a una ricerca di filosofia? SOCR. Sì, ma non meglio di te, Teodoro. E non credere che debba difenderlo [169a] in ogni modo io il tuo amico, ora che è morto, e tu niente. Orsù, dunque, mio caro, seguimi un poco, fino a qui, fino a che vediamo se, relativamente alle figure geometriche, la misura devi esser tu; oppure se tutti quanti al pari di te sono sufficienti a se stessi, come anche nell’astronomia e nelle altre scienze dove tu hai pur fama di eccellere sopra tutti. TEOD. Non è facile, o Socrate, sederti vicino e non partecipare alla disputa; e io dissi or ora una grossa sciocchezza, che tu mi avresti consentito di spogliarmi, e non mi avresti costretto, come fanno i Lacedèmoni. Se non che tu m’hai l’aria di tirare da Sci-[b] róne, piuttosto. I Lacedèmoni ordinano, "O te ne vai o ti spogli"; ma tu fai di fatti, mi pare, alla maniera di Antèo: chi ti viene accanto non lo lasci più se prima non lo costringi a spogliarsi e a lottare con te... di ragionamenti. SOCR. Tu hai raffigurato benissimo, o Teodoro, il mio male; solo che io sono un lottatore più saldo di costoro. Ne ho già incontrati migliaia di Praeli e Tèsei, lottatori di gran vigoria nel disputare, e che mi hanno battuto forte assai; e ciò non ostante non cedo ancora, così vio-[c] lenta passione mi ha invaso l’animo per questa specie di ginnastica. Anche tu dunque non rifiutarti; e sta pronto, che di questa contesa avremo giovamento io e tu insieme. TEOD. Non mi oppongo più; e sia come tu vuoi. Questo destino, quale che sia che tu fili, bisogna sopportarlo... e lasciarsi confutare. Bada però che io non potrò seguirti oltre gli argomenti che tu hai proposto. SOCR. Sia pure, anche così è sufficiente. Ma sta bene attento che non ci vengano fuori, senz’avvedercene, discorsi da ragazzi; e [d] qualcuno non ce ne abbia da rimproverare un’altra volta. TEOD. Sta bene, ci starò attento più che posso.

XXII. SOCR. Anzi tutto, dunque, riprendiamo la questione al punto di prima, e vediamo se si aveva ragione o no di essere insoddisfatti di codesta teoria, e di rifiutarla in quanto poneva che ogni uomo, rispetto a conoscenza, è sufficiente a se stesso. Non ci concedette Protàgora che nella conoscenza del meglio e del peggio taluni eccellono sopra gli altri, e che appunto questi sono sapienti? TEOD. Sì. SOCR. Ebbene, se ce l’avesse consentito egli stesso codesto, [e] personalmente, e non l’avessimo invece conceduto noi per lui, parlando in sua difesa; non ci sarebbe nessun bisogno che ritornassimo ora su l’argomento per confermarlo. Se non che qualcuno, ora, potrebbe anche dirci che noi non eravamo autorizzati a fare questa concessione in nome suo. Perciò il meglio è venire a un accordo più chiaro ed esplicito su questo punto: non è differenza da poco che la cosa stia così o diversamente. TEOD. Hai ragione. SOCR. Dunque non per mezzo di altri, ma direttamente e [170a] immediatamente dalle argomentazioni sue, vediamo di cogliere che cosa Protàgora ci ha consentito. TEOD. E come? SOCR. Così. Dice Protàgora che ciò che pare a ciascuno codesto anche è per quegli a cui pare? TEOD. Questo dice, sì. SOCR. E allora, caro Protàgora, anche noi esprimiamo il "parere" di un uomo, e anzi di tutti gli uomini, quando diciamo che non c’è nessuno il quale per certe cose non reputi se stesso più sapiente degli altri, e per certe altre non reputi altri più sapienti di sé; e che, trovandosi gli uomini in mezzo ai pericoli più gravi, come quando sono travagliati da guerre o da malattie o da tempeste di mare, si tengono stretti a coloro che in ciascuna di queste circostanze comandano, come fossero divinità, e [b] da loro aspettano salvezza, sebbene per nessun altro motivo siano a loro superiori che per il sapere. E tutta l’umanità, si può dire, è piena di persone le quali, o per altri esseri viventi o per opere che intraprendono, cercano chi le istruisca e comandi; come, d’altra parte, è piena di persone che si credono capaci di istruire e di comandare. Ora, in tutti questi casi, che altro possiamo dire se non che essi stessi gli uomini in generale reputano esistere presso di loro e sapienza e ignoranza? TEOD. Niente altro che questo. SOCR. E la sapienza non la reputano gli uomini [c] pensiero vero, e l’ignoranza opinione falsa? TEOD. Certamente. SOCR. O allora, Protàgora, come ci regoleremo col tuo ragionamento? dobbiamo dire che gli uomini hanno sempre opinioni vere, oppure che hanno talora opinioni vere, talora false? Perché da tutte e due le proposizioni risulta questo, mi pare, che non sempre gli uomini hanno opinioni vere, ma vere e false. E di fatti pensa un momento, Teodoro: sarebbe disposto qualcuno dei discepoli di Protàgora, o anche tu stesso, a sostenere che nessuno reputa un altro ignorante, né che abbia opinioni false? TEOD. Ma sarebbe incredibile, o Socrate. SOCR. Eppure [d] proprio a questo deve riuscire necessariamente la tua affermazione che l’uomo è misura di tutte le cose. TEOD. Come dici? SOCR. Ecco: quando tu giudichi, per conto tuo, una data cosa, e poi esprimi a me, su quella cosa, la tua opinione, ammettiamo pure che per te, secondo la teoria di Protàgora, codesta opinione sia vera; ma quanto a noi, e a tutti gli altri in genere, non è lecito che ci facciamo giudici del tuo giudizio? o ci limitiamo a giudicare che la tua opinione è vera sempre? o piuttosto ci sono, tutte le volte, mille e mille persone che si oppongono alla opinione tua, e la combattono perché reputano che tu pensi e giudichi falsamente? TEOD. Ma certo, o Socrate; ce [e] n’è, come dice Omero, migliaia e migliaia di queste persone, le quali mi procurano tutti i fastidi del mondo. SOCR. O dunque, non vuoi che diciamo che in tali casi per te l’opinione tua è vera, per queste migliaia è falsa? TEOD. Mi pare che dal tuo ragionamento questo risulti, necessariamente. SOCR. E per Protàgora che cosa risulta? Se nemmeno Protàgora avesse mai pensato che l’uomo è misura, né lo avesse pensato - come difatti non lo pensa la maggioranza degli uomini, necessariamente questa verità che Protàgora ha così definita e predicata non esiste-[171a] rebbe per nessuno; se invece fu, sì, pensiero di Protàgora, ma la maggioranza non vi consente, tu capisci, anzi tutto, che quanto maggiore è il numero di coloro a cui codesta verità non pare di quelli a cui pare, tanto più essa non è di quello che è. TEOD. Necessariamente, dato che ciò sia o non sia secondo che a ciascuno pare o non pare. SOCR. Ed ecco allora la seconda conclusione, che è la più graziosa di tutte: Protàgora, relativamente alla propria opinione [che l’uomo è misura], in quanto riconosce che tutte le opinioni degli uomini sono vere, viene ad ammettere che sia vera anche la opinione di coloro che alla sua si oppongono e per la quale essi ritengono che egli abbia opinione falsa. TEOD. E’ proprio così. SOCR. E [b] allora non ammetterà egli che la propria opinione è falsa, se riconosce vera la opinione di coloro i quali ritengono che egli abbia opinione falsa? TEOD. Necessariamente. SOCR. Ma questi altri non concedono a se stessi d’ aver opinione falsa. TEOD. No di certo. SOCR. E d’altra parte lo stesso Protàgora riconosce che anche questa loro opinione è vera, secondo quello che ha scritto. TEOD. E’ chiaro. SOCR. Da tutti costoro dunque, a cominciare da Protàgora, risulterà questo, che tutti sono in dubbio; e, meglio ancora, questo, che Protàgora, quando concede, a chi dice il contrario di lui, che abbia opinione vera, [c] - allora, dico, anche Protàgora dovrà concedere che né cane né uomo sono misura di cosa veruna che non abbiano appresa. Non è così? TEOD. E’ così. SOCR. E dunque, poiché tutti ne dubitano, la Verità di Protàgora non sarà vera per nessuno, né per altri né per Protàgora stesso. TEOD. Ma noi gli diamo addosso un po’ troppo, Socrate, all’amico mio. SOCR. Sì, mio caro: ma io non vedo bene se proprio contro ragione gli diamo addosso. Certamente costui, come più vecchio, è da credere sia anche [d] più sapiente di noi; e se ora, di qui, tutt’a un tratto, ci sbucasse fuori fino al collo, parecchie cose, è probabile, avrebbe da ribattere contro di noi, sia contro me perché dico stoltezze, sia contro te perché le accetti; e poi, ricacciatosi sotto, se ne andrebbe via correndo. Ma noi, mi pare, non possiamo far altro, quali che siamo, che adoperare noi stessi; e le opinioni che abbiamo, esprimere sempre queste. E così, anche ora, non dobbiamo dire che su questo punto sono tutti d’accordo, che cioè uno è più sapiente di un altro e uno più ignorante? TEOD. Così almeno mi pare.

XXIII. SOCR. E anche questo diremo, che la posizione più salda della dottrina è in quella distinzione cui accen-[e] nammo difendendo Protàgora, che cioè la più parte delle cose, rispetto al caldo al secco al dolce e a tutte le altre qualità di questo genere, sono realmente per ognuno quali a ognuno appariscono; ma d’altra parte, se ci sono cose in cui si ammette che uno è superiore a un altro, come quando si tratti, per esempio, di ciò che è giovevole o nocivo alla salute del corpo, lo stesso Protàgora sarà disposto a sostenere che non ogni donnicciuola né ragazzo né bestia sono capaci di guarire se stessi riconoscendo ciascuno ciò che a se stesso è salutare; e dunque proprio in questi casi, se in altri mai, è naturale ci sia diversità di opinioni di un uomo dall’altro. Non ti pare? TEOD. Mi [172a] pare di sì. SOCR. E così in politica, quei princìpi che si riferiscono al bello e al brutto, al giusto e all’ingiusto, al santo e al non santo, codesti princìpi anche saranno veramente per ogni città quali ogni città pensa che siano e stabilisce nelle sue leggi a se stessa; e nella loro valutazione nessuno è più sapiente di un altro, né cittadino di cittadino, né città di città. Ma quando una città, stabilendo sue leggi, distingua quelle che reputi a se stessa giovevoli da quelle non giovevoli, ancora una volta Protàgora dovrà ammettere che in questa distinzione sopra tutte c’è differenza tra consigliere e consigliere, tra città e città, nelle opinioni loro [b] rispetto al vero; e non oserà mai affermare che quelle leggi che una città pone a se stessa ritenendole utili, dovranno essere effettivamente utili in ogni modo: mentre, rispetto a quello che dicevo ora, al giusto e all’ingiusto, al santo e al non santo, i seguaci di Protàgora sostengono deliberatamente che nessuna di codeste cose esiste per natura con essenza sua propria, bensì, l’opinione che comunemente se ne ha, diviene ella opinione vera nel momento in cui si opina e per tutto il tempo che si opina. E tutti coloro che pur non seguono al tutto il pensiero di Protàgora, ragionano su per giù in questo modo. Se non che da un discorso, caro Teodoro, ce ne vien fuori un altro, [c] da uno più piccolo, un altro più grande. TEOD. E non abbiamo tempo a nostra disposizione, o Socrate? SOCR. L’abbiamo di certo. E più volte in verità, mio buon amico, anche in altre circostanze, ma in questa particolarmente, m’è capitato di osservare che coloro i quali consumano molto tempo nello studio della filosofia, quando si presentano davanti ai tribunali appariscono oratori ridicoli: ed è naturale che sia così. TEOD. Come dici questo? SOCR. Perché quelli i quali fino da giovinetti vanno attorno per tribunali e per luoghi simili, di fronte a coloro che sono stati allevati nello studio della filosofia e in simili [d] occupazioni, sembra che abbiano avuto un allevamento come di schiavi di fronte a uomini liberi. TEOD. Ma perché? SOCR. Per questo, che gli uni, come tu dicevi, hanno sempre gran tempo a loro agio, e i loro discorsi fanno agiatamente e in pace; e, come noi che mutiamo ora argomento per la terza volta, così anch’essi, se d’improvviso un argomento nuovo gli attiri più di quello che hanno a mano; e di condurre il discorso più o meno in lungo non si preoccupano affatto, pur di toccare la verità. Gli altri, al contrario, non solo parlano sempre in grande affanno, incalzati come sono dall’acqua che scorre già dalla [e] clessidra, ma nemmeno hanno libertà di svolgere i loro argomenti come vogliono; ché sta loro addosso l’avversario, impugnando la legge inflessibile e recitando l’atto d’accusa, che sono i limiti fuor dei quali non è lecito deviare. E sempre i loro discorsi sono o pro o contro qualche compagno di servitù; e si rivolgono a un padrone, che è là, sopra uno scanno, e ha la causa nelle sue mani; e sono come gare di corsa le quali non vanno mai per questa o quella via indifferentemente, ma sempre girano attorno a una mèta ben distinta; e prezzo della corsa, il più delle [173a] volte, è la vita. Cosicché, per tutto questo, essi sono, sempre in grande tensione, e sono sottili e accorti, e sanno l’arte di lusingare il padrone con le parole e di ingraziarselo coi fatti: piccoli di anima, non retti. Ogni elevamento morale, ogni dirittura e semplicità di carattere, ogni senso di libertà, tutto in loro distrugge, costringendoli a operare per vie oblique, quell’abito a servire che hanno fino dalla giovinezza: perché gettati, con anime ancora tènere, in grandi e paurosi rischi, e non avendo la forza di affrontarli e superarli senza venir meno alla giustizia e alla verità, sùbito si abbandonano alla menzogna, e al farsi ingiuria gli uni [b] con gli altri; e vengono su in mille modi storti e storpiati. Sicché quando, finalmente, da giovinetti sono cresciuti uomini, non c’è più niente nella loro anima che non sia guasto e corrotto, per quanto abbiano acquistato, com’essi credono, somma abilità e sapienza. Tali sono, o Teodoro, costoro. Vuoi tu ch’io ti descriva ora quelli del nostro coro; o vuoi ch’io lasci stare, e ritorniamo invece al nostro argomento, per non abusare troppo di quella libertà di mutar discorsi di cui parlavamo poco fa? TEOD. Niente affatto, o Socrate: descriviamo anche questi. Tu hai detto benis-[c] simo che noi che facciamo parte di questo coro non siamo servi dei discorsi, bensì i discorsi sono come servi nostri, e ognuno d’essi aspetta d’essere finito quando a noi piaccia. E del resto non ci sono qui né giudici né spettatori che presiedano a noi come ai poeti per infliggerci censure o darci comandi.

XXIV. SOCR. Parliamo dunque di costoro, se così ti piace; ma, naturalmente, dei corifèi soltanto, perché degli altri, che trattano la filosofia con leggerezza, non c’è niente da dire. Anzi tutto i veri filosofi, fino da giovanotti, non co-[d] noscono la via che mena al fòro; non sanno dov’è il tribunale, dov’è il consiglio, o altro luogo di adunanze pubbliche della città; leggi e decreti, o recitati o scritti, non leggono né ascoltano. Brighe di consorterie per acquistar cariche pubbliche, e convegni e banchetti e festini in compagnia di aulètridi, sono tutte cose che nemmeno in sogno vien loro in mente di fare. Che uno in città sia nato di famiglia nobile o ignobile; che qualche segno di ignobiltà sia derivato a un altro dai suoi antenati per parte di padre o di madre: e queste e simili ciarle il filosofo non sa niente più di quel che sappia, come si dice, quanti bicchieri di [e] acqua ha il mare. E neppure sa di non saperle; ché non se ne tiene lontano per aver fama di uomo singolare. E il vero è che il suo corpo soltanto si trova nelle città e ivi dimora, ma non la sua anima; la quale tutte codeste reputandole cose da poco e anzi da nulla, e avendole in dispregio grande, trasvola, come dice Pindaro, da ogni parte, e ora scende giù nel profondo della terra, ora ne misura la superficie, ora sale su nel cielo a mirare le stesse, e tutta [174a] quanta investiga in ogni punto la natura degli esseri, ciascuno nella sua universalità, senza mai abbassare se stessa a niente in particolare di ciò che le è vicino. TEOD. Che cosa vuoi dire, o Socrate, con questo? SOCR. Quello stesso, o Teodoro, che si racconta anche di Talète, il quale, mentre stava mirando le stelle e avea gli occhi in su, cadde in un pozzo; e allora una sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che avea davanti e tra i piedi non le vedeva affatto. Questo motto si può [b] ben applicare egualmente a tutti coloro che fanno professione di filosofia. Perché il filosofo in verità non solo non si avvede di chi gli è presso, né del vicino di casa che cosa faccia, ma nemmeno, si può dire, se è uomo o altro animale; ma se si tratti invece di ritrovare che cosa l’uomo è, e che cosa alla natura dell’uomo, a differenza dagli altri esseri, conviene fare e patire, egli adopra in codesto ogni suo studio. Mi capisci ora, Teodoro? o no? TEOD. Sì, capisco; e dici bene. SOCR. Ebbene, amico mio, quando un uomo simile, o in privato o in pubblico, si trovi, come [c] dicevamo in principio, a contatto con qualcheduno; e sia costretto, o in tribunale o altrove, a ragionare di ciò che ha tra i piedi e davanti agli occhi; ecco che cade anche lui, per sua inesperienza, dentro ai pozzi, e si impiglia in difficoltà d’ogni sorta, suscitando il riso non pur delle serve di Tracia ma di tutta la gente, perché la sua goffagine è straordinaria e gli fa fare la figura dello scimunito. Di fatti, se ha da rispondere ingiuria a chicchessia, non conoscendo egli, per non essersene mai curato, nessuna magagna di nessuno, è incapace di trovar la parola che vada dritta a colpire l’avversario, e nel suo imbarazzo apparisce [d] ridicolo; e se ode lodare e magnificare altrui, a vederlo che ride, non già per darsi aria, ma schiettamente, lo si prende per un burlone. Così, per esempio, se sente lodare un re o un tiranno come un pastore, egli crede realmente di sentir lodare e felicitare costui come un vero pastore, o di porci o di capre o di vacche, per il molto latte che ne munge: soltanto, egli pensa che il re pascoli e munga un animale un po’ meno trattabile di quelli, e più insidioso; e che per forza, con tante sue brighe, ha da essere non [e] meno dei pastori ignorante e selvatico, chiuso tutto intorno anche lui da muraglie, come da un recinto i pastori sopra le montagne. E quando sente dire di uno che possiede una estensione immensa di terra perché ne possiede dieci mila plettri e anche più, gli pare cosa estremamente piccola, abituato com’è a riguardare la terra tutta quanta. E se altri levano inni alla nobiltà della stirpe, e dicono che uno è nobile perché può mettere in mostra sette avi ricchi; egli pensa che codesta è lode di persone che hanno [175a] vista corta e ottusa, e perciò non possono per la ignoranza loro fissare sempre lo sguardo sul genere umano tutt’insieme, e fare il conto che di avi e proavi ciascuno di noi ne ha miriadi innumerevoli, e che in queste miriadi chiunque si trova ad averne e riaverne più volte migliaia e migliaia, di ricchi e di poveri, di re e di servi, di barbari e di Ellèni. Vantarsi poi di un catalogo di venticinque progenitori, e far risalire la propria stirpe fino a Eracle figlio di Amfitrione, è un conto che al filosofo pare straordinariamente meschino; ed egli ride di questi cotali che, come non riescono a capire che il venticinquesimo antenato [b] da Amfitrione in su e ancora il cinquantesimo da codesto non furono né più né meno di quel che la fortuna gli fece, così neanche sono capaci di reprimere il vago orgoglio della loro anima stolida. Ebbene, in tutti questi casi, un uomo siffatto è deriso dal volgo, sia perché, come pare, dimostri una sprezzante alterigia, sia perché ignora le cose più comuni e si smarrisce e si perde a ogni momento. TEOD. E’ proprio così come tu dici, o Socrate.

 XXIV. SOCR. Parliamo dunque di costoro, se così ti piace; ma, naturalmente, dei corifèi soltanto, perché degli altri, che trattano la filosofia con leggerezza, non c’è niente da dire. Anzi tutto i veri filosofi, fino da giovanotti, non co-[d] noscono la via che mena al fòro; non sanno dov’è il tribunale, dov’è il consiglio, o altro luogo di adunanze pubbliche della città; leggi e decreti, o recitati o scritti, non leggono né ascoltano. Brighe di consorterie per acquistar cariche pubbliche, e convegni e banchetti e festini in compagnia di aulètridi, sono tutte cose che nemmeno in sogno vien loro in mente di fare. Che uno in città sia nato di famiglia nobile o ignobile; che qualche segno di ignobiltà sia derivato a un altro dai suoi antenati per parte di padre o di madre: e queste e simili ciarle il filosofo non sa niente più di quel che sappia, come si dice, quanti bicchieri di [e] acqua ha il mare. E neppure sa di non saperle; ché non se ne tiene lontano per aver fama di uomo singolare. E il vero è che il suo corpo soltanto si trova nelle città e ivi dimora, ma non la sua anima; la quale tutte codeste reputandole cose da poco e anzi da nulla, e avendole in dispregio grande, trasvola, come dice Pindaro, da ogni parte, e ora scende giù nel profondo della terra, ora ne misura la superficie, ora sale su nel cielo a mirare le stesse, e tutta [174a] quanta investiga in ogni punto la natura degli esseri, ciascuno nella sua universalità, senza mai abbassare se stessa a niente in particolare di ciò che le è vicino. TEOD. Che cosa vuoi dire, o Socrate, con questo? SOCR. Quello stesso, o Teodoro, che si racconta anche di Talète, il quale, mentre stava mirando le stelle e avea gli occhi in su, cadde in un pozzo; e allora una sua servetta di Tracia, spiritosa e graziosa, lo motteggiò dicendogli che le cose del cielo si dava gran pena di conoscerle, ma quelle che avea davanti e tra i piedi non le vedeva affatto. Questo motto si può [b] ben applicare egualmente a tutti coloro che fanno professione di filosofia. Perché il filosofo in verità non solo non si avvede di chi gli è presso, né del vicino di casa che cosa faccia, ma nemmeno, si può dire, se è uomo o altro animale; ma se si tratti invece di ritrovare che cosa l’uomo è, e che cosa alla natura dell’uomo, a differenza dagli altri esseri, conviene fare e patire, egli adopra in codesto ogni suo studio. Mi capisci ora, Teodoro? o no? TEOD. Sì, capisco; e dici bene. SOCR. Ebbene, amico mio, quando un uomo simile, o in privato o in pubblico, si trovi, come [c] dicevamo in principio, a contatto con qualcheduno; e sia costretto, o in tribunale o altrove, a ragionare di ciò che ha tra i piedi e davanti agli occhi; ecco che cade anche lui, per sua inesperienza, dentro ai pozzi, e si impiglia in difficoltà d’ogni sorta, suscitando il riso non pur delle serve di Tracia ma di tutta la gente, perché la sua goffagine è straordinaria e gli fa fare la figura dello scimunito. Di fatti, se ha da rispondere ingiuria a chicchessia, non conoscendo egli, per non essersene mai curato, nessuna magagna di nessuno, è incapace di trovar la parola che vada dritta a colpire l’avversario, e nel suo imbarazzo apparisce [d] ridicolo; e se ode lodare e magnificare altrui, a vederlo che ride, non già per darsi aria, ma schiettamente, lo si prende per un burlone. Così, per esempio, se sente lodare un re o un tiranno come un pastore, egli crede realmente di sentir lodare e felicitare costui come un vero pastore, o di porci o di capre o di vacche, per il molto latte che ne munge: soltanto, egli pensa che il re pascoli e munga un animale un po’ meno trattabile di quelli, e più insidioso; e che per forza, con tante sue brighe, ha da essere non [e] meno dei pastori ignorante e selvatico, chiuso tutto intorno anche lui da muraglie, come da un recinto i pastori sopra le montagne. E quando sente dire di uno che possiede una estensione immensa di terra perché ne possiede dieci mila plettri e anche più, gli pare cosa estremamente piccola, abituato com’è a riguardare la terra tutta quanta. E se altri levano inni alla nobiltà della stirpe, e dicono che uno è nobile perché può mettere in mostra sette avi ricchi; egli pensa che codesta è lode di persone che hanno [175a] vista corta e ottusa, e perciò non possono per la ignoranza loro fissare sempre lo sguardo sul genere umano tutt’insieme, e fare il conto che di avi e proavi ciascuno di noi ne ha miriadi innumerevoli, e che in queste miriadi chiunque si trova ad averne e riaverne più volte migliaia e migliaia, di ricchi e di poveri, di re e di servi, di barbari e di Ellèni. Vantarsi poi di un catalogo di venticinque progenitori, e far risalire la propria stirpe fino a Eracle figlio di Amfitrione, è un conto che al filosofo pare straordinariamente meschino; ed egli ride di questi cotali che, come non riescono a capire che il venticinquesimo antenato [b] da Amfitrione in su e ancora il cinquantesimo da codesto non furono né più né meno di quel che la fortuna gli fece, così neanche sono capaci di reprimere il vago orgoglio della loro anima stolida. Ebbene, in tutti questi casi, un uomo siffatto è deriso dal volgo, sia perché, come pare, dimostri una sprezzante alterigia, sia perché ignora le cose più comuni e si smarrisce e si perde a ogni momento. TEOD. E’ proprio così come tu dici, o Socrate.

XXV. SOCR. Ma quando il filosofo, o amico, riesca a trar su in alto qualcuno, il quale sia disposto, per seguir lui, [c] a uscir fuori da questioni come questa, ‘In che cosa io ho fatto ingiuria a te e tu a me’, e a considerare invece la giustizia in se stessa e la ingiustizia, e la natura dell’una e dell’altra, e in che differiscono da tutte le cose o fra loro; o da questioni come, ad esempio, ‘Se il re è felice’, e ancora, ‘Se è felice chi possiede ricchezze’, per salire a considerazioni su la regalità, e in genere su la felicità e infelicità umana, di che natura sono ambedue e in che modo si addice alla natura dell’uomo procacciarsi l’una e fuggire l’altra; - ebbene, quando su tutti questi problemi debba [d] rispondere a sua volta quel tale che dicemmo piccolo di animo e sottile e avvezzo ai cavilli dei tribunali, ecco che allora egli rende al filosofo il contraccambio: perché, sospeso, com’egli è, dall’alto, e di lassù in bilico guardando e non essendoci avvezzo, ha le vertigini, ed è pieno di inquietudini, e non sa che dire e balbetta, suscitando così il riso non di servette Tracie né d’altro ignorante qualunque, i quali di nulla si accorgono, ma di tutti coloro che sono stati allevati altrimenti che come schiavi. Questo è, o Teodoro, il carattere dell’uno e dell’altro: l’uno, quel che tu [e] chiami filosofo, allevato realmente nella libertà e nell’ozio, può bene aver l’aria, senza suo disonore, di uomo semplice e buono a nulla quando gli tocchino uffici servili, e non sappia, per esempio, mettere insieme un bagaglio da viaggio, né preparar buone vivande o raffinati discorsi; l’altro invece è abilissimo a compiere tutti codesti servigi con precisione e sveltezza, mentre poi non sa gettarsi indietro su la destra il mantello come s’addice a persona [176a] libera, e tanto meno sa cogliere l’armonia delle parole sì da celebrare con veridici inni la vita degli dèi e degli uomini felici. TEOD. Se di questo che dici, o Socrate, tu potessi persuadere tutti gli altri come persuadi me, assai più pace e mali minori sarebbero tra gli uomini. SOCR. Sì, Teodoro: ma il male non può perire, ché ha pur da esserci sempre qualche cosa di opposto e contrario al bene; né può aver sede fra gli dèi, ma deve di necessità aggirarsi su questa terra e intorno alla nostra natura mortale. Ecco perché anche ci conviene adoprarci di fuggire di qui al più [b] presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio per quel che uomo può; e assomigliarsi a Dio è acquistare giustizia e santità, e insieme sapienza. Ma in realtà, o mio ottimo amico, non è molto facile persuadere altrui che le ragioni che dice il volgo, doversi fuggire il vizio e seguir la virtù per aver reputazione di persone oneste e non disoneste, non sono proprio quelle per cui la virtù si deve praticare e il vizio no: codeste a me pare che siano, come si dice, storielle da vecchie, e la verità è tutt’altra. Iddio in nessuna circostanza, per nessuna ma-[c] niera, è ingiusto, bensì è sempre al più alto grado giustissimo; e non c’è cosa che più gli assomiglia di quello fra noi uomini che sia divenuto a sua volta giustissimo quanto è possibile. Consiste in questo la vera e reale abilità dell’uomo, o la sua nullità e dappocaggine; conoscere questo è vera sapienza e virtù, non conoscerlo è ignoranza e malvagità manifesta; e le altre che si dicono e credono abilità e sapienze, nel governo della cosa pubblica sono grossolane e volgari, nelle arti sono manuali e meccaniche. [d] A chi dunque commette ingiustizia e dice e fa cose empie, il meglio è non concedere, per la sua capacità al mal fare, il titolo di uomo abile; perché si compiacciono costoro di tale ingiuria, e credono aver lode come di persone che non sono vuote e sciocche, inutile peso alla terra, ma veri uomini quali devono essere coloro che in uno stato vogliono vivere sicuri e tranquilli. E invece bisogna dire la verità, che tanto più essi son quali non credono di essere quanto meno lo credono; e ignorano quale sia la pena dell’ingiustizia, che è la cosa che meno di ogni altra si dovrebbe ignorare: la quale non è quella che essi si immaginano, battiture e morte, e a cui riescono talora, pur commettendo ingiustizia, a sfuggire; ma è una pena da cui [e] sfuggire non è possibile. TEOD. Quale dici? SOCR. Ci sono, o amico, nell’essere, due esemplari, uno divino, felicissimo, l’altro non divino, infelicissimo; ma ciò non veggono essi, e, nella loro estrema stupidità e follia, non s’accorgono che, operando ingiustamente, fanno sé simili [177a] al secondo esemplare, dissimili dal primo: di che appunto pagano la pena vivendo quella vita ch’è simile all’esemplare a cui si fanno simili. E se noi diciamo loro che, se non gettano via quella loro abilità, anche morti non saranno accolti nel luogo che è puro da tutti i mali, ma seguiteranno qui in terra, perennemente, a vivere una vita conforme a se stessi, trovandosi insieme tristi con tristi; - ebbene, se diciamo così, ascolteranno le nostre parole come fossimo noi degli stolti, e fossero essi veramente quegli abilissimi e astuti uomini che si credono. TEOD. E’[b] proprio così, o Socrate. SOCR. Lo so bene, amico mio. Se non che una cosa càpita loro, ed è questa: che se debbano in una conversazione privata dar ragione di cose che spregiano e accogliere le ragioni altrui, e vogliano per un certo tempo tener testa animosamente alla disputa e non abbandonarla disanimati; ecco che allora, mio caro, finiscono col trovarsi in una condizione stranissima, non essendo più soddisfatti nemmeno essi stessi di quello che dicono, e tutta quella loro eloquenza, non so come, si spegne, e appariscono né più né meno che fanciulli. Ma lasciamo stare questo argomento, tanto più che è anche fuor di proposito e solo per caso c’è avvenuto di [c] parlarne; se no, altre digressioni ancora, accavallandosi senza tregua l’una su l’altra, sommergeranno addirittura l’argomento che avevamo posto da principio. Ritorniamo a quello dunque, se così piace anche a te. TEOD. Quanto a me, o Socrate, digressioni di questa specie non le ascolto certo con piacere minore; le quali sono, alla mia età, più facili da seguire. Ma comunque se così vuoi, ritorniamo pure all’argomento di prima.

XXVI. SOCR. Noi eravamo rimasti, mi pare, a questo punto del nostro ragionamento: coloro i quali professano la teoria che l’essere è in continuo moto, e che ciò che ogni volta pare a ciascuno, codesto anche è per quegli a cui pare; costoro, dicevamo, questa teoria sono disposti a sostenerla, oltre che per altri casi in genere, anche e non [d] meno rispetto al giusto, in quanto le leggi che una città pone a se stessa reputandole giuste, anche sono, per la città che se le pone e finché restano in vigore, indiscutibilmente giuste; ma quando si tratti, invece, del bene, non c’è nessuno, dicevamo, così ardito il quale abbia il coraggio di sostenere che quelle leggi che una città pone a se stessa reputandole utili, anche le siano realmente utili per tutto il tempo che restano in vigore: salvo che si voglia intendere il nome e non la cosa, che sarebbe, mi pare, un cavillo burlesco contro quel che stiamo dicendo. O no? TEOD. [e] Certamente. SOCR. E dunque lasciamo stare il nome, e guardiamo la cosa che dal nome è indicata. TEOD. Sta bene. SOCR. Ora, qualunque nome la città dia alla cosa, certo è che proprio questa, cioè l’utile, la città ha di mira quando fa sue leggi; e tutte le leggi che ella pone a se stessa, si adopera perché siano, secondo il proprio pensiero e le proprie possibilità, quanto mai utilissime. O credi che [178a] ad altro fine miri una città, facendo sue leggi? TEOD. Nient’affatto. SOCR. E dimmi, lo coglie sempre ciascuna città questo suo fine, o anche le càpita in molti casi di sbagliarlo? TEOD. Sì, io credo che anche lo sbagli. SOCR. Ebbene, ancor più nettamente questa possibilità di errore sarà riconosciuta da tutti se noi esaminiamo la questione da un altro punto, e cioè in relazione a tutta quanta la specie entro cui anche l’utile viene a trovarsi. Ora l’utile si riferisce, mi pare, anche al tempo futuro; perché, quando facciamo leggi, le facciamo pensando che siano utili per il tempo che viene dopo, che è ciò che diciamo, rettamente, [b] il futuro. TEOD. Benissimo. SOCR. O via, facciamo a Protàgora o a un altro qualunque di quelli che professano la stessa dottrina sua, questa domanda: - "Di tutte le cose" come voi dite e tu dici, o Protàgora, bianche pesanti leggere, e insomma di tutte quante, senza eccezione, le cose di questo genere, "è misura l’uomo": infatti, avendo in se stesso ogni uomo la misura per giudicarle, poiché pensa che esse siano tali qual è l’impressione che ne riceve, egli pensa cose che per lui sono realmente vere e presentemente esistenti. Non è così? TEOD. Sì. SOCR. Ma anche per le cose future noi diremo, o Protàgora, che l’uomo ha in [c] sé questa misura di giudizio; e, quali pensa che esse saranno, tali anche effettivamente saranno per colui che così ha pensato? Prendiamo, per esempio, il caldo: se uno, non medico, pensa di se stesso che sarà colto da febbre e che quindi patirà questa specie di calore, e un altro, medico, pensa il contrario; come diremmo che andrà a finire la cosa, secondo l’opinione di uno dei due, o secondo l’opinione di tutti e due, cosicché a sentire il medico costui non avrà né caldo né febbre, a sentire lui stesso avrà l’una cosa e l’altra? TEOD. Sarebbe un’assurdità da far ridere. SOCR. Ma per sapere se un vino riuscirà dolce o aspro avrà [d] peso, credo, l’opinione del vignaiolo, non quella del citarista. TEOD. Certamente. SOCR. Così pure di una scrittura musicale, se dovrà riuscire all’esecuzione scordata o accordata, il maestro di ginnastica non sarà miglior giudice del musico: sebbene poi anche il maestro di ginnastica la potrà giudicare, accordata o no. TEOD. Non c’è dubbio. SOCR. E se uno sta per essere convitato a un banchetto, il giudizio di lui, che di cucina non s’intende, e mentre il banchetto è ancora in preparazione, sul piacere che ne avrà, sarà certo meno autorevole di quello del cuoco. Perché noi non dobbiamo più qui ormai ragionare e dispu-[e] tare del piacere che uno già prova o ha provato, bensì del piacere che uno proverà o crederà di provare nel futuro, se egli ne sia da sé a se stesso il giudice migliore, oppure no; e così, per esempio, anche dei discorsi che si dovran fare in tribunale, quali siano per essere a ognuno di noi persuasivi, potrai meglio tu, o Protàgora, prevedere e giudicare, che non uno qualunque di quelli che non se ne intendono. TEOD. Ma di certo, Socrate; che anzi, in questo, egli dichiarava di essere di gran lunga superiore a tutti gli altri. SOCR. E ne aveva ben ragione, amico [179a] mio; altrimenti nessuno gli avrebbe dato tanti denari per sentirlo disputare, se quelli che lo frequentavano non gli avesse persuasi che anche di ciò che doveva essere o parere nel futuro non c’era né indovino né altri al mondo che fosse miglior giudice di lui. TEOD. E’ verissimo. SOCR. Ebbene, il far leggi non si riferisce, come l’utile, al futuro? e non riconoscono tutti quanti che una città, quando fa sue leggi, si trova più volte, fatalmente, a non cogliere ciò che le sarebbe più utile? TEOD. Certo. SOCR. E dunque sarà ragionevole da parte nostra dire al [b] tuo maestro che egli non può non riconoscere che uno è più sapiente di un altro; e che quello, sì, è misura; ma non c’è nessunissima necessità abbia da esser misura io che sono un ignorante, come pur mi costringeva or ora ad ammettere, volessi o non volessi, il discorso che feci in sua difesa. TEOD. Mi pare, o Socrate, che proprio entro codesto nodo sia stata chiusa e presa la dottrina di Protàgora: essa che già in quest’altro era stata presa, quando lo stesso Protàgora riconosceva valore alle dottrine altrui, le quali manifestamente negavano la verità della dottrina sua. [c] SOCR. E in parecchi altri nodi ancora, o Teodoro, codesta dottrina può essere imprigionata, e costretta ad ammettere che non tutte le opinioni di tutti sono vere. Se non che, considerando le impressioni che ognuno ha delle cose immediatamente, donde nascono le sensazioni e quindi le opinioni a esse corrispondenti; in codesto caso è più difficile dimostrare che le opinioni non sono vere. Ma forse dico male. Può darsi ch’elle siano realmente inconfutabili, e coloro i quali sostengono che sono evidenti e che sono conoscenze, è probabile dicano la verità; e il nostro Teeteto non ha parlato fuor di proposito quando ha detto che sensazione e conoscenza sono la stessa cosa. In ogni modo, [d] bisogna che ci avviciniamo un po’ di più a questa teoria, come del resto ci consigliava il discorso in difesa di Protàgora; e che esaminiamo bene questa così detta mobilità dell’essere, battendola come si batte un vaso per sentire se suona sano o incrinato. Già ci fu battaglia non piccola intorno a essa, né pochi furono i combattenti.

XXVII. TEOD. Tutt’altro che piccola: che anzi va propagandosi per la Jonia, assai largamente; e i seguaci di Eraclìto fanno da corifèi a questa dottrina con straordinario calore. SOCR. Tanto più dunque, amico Teodoro, ci bisogna esaminarla movendo proprio dal suo principio, [e] come propongono essi Stessi. TEOD. Precisamente. E difatti, o Socrate, ragionare di queste dottrine eraclitee, o, come tu dici, omeriche e più antiche ancora, direttamente coi filosofi della scuola di Efeso, e insomma con tutti coloro che se ne vantano esperti; è cosa più difficile che ragionar con persone che siano state morse dalla tarantola. Realmente questi uomini, d’accordo coi loro scritti, sono in continuo moto; e indugiarsi in un argomento e in una domanda, e quietamente domandare e rispondere, ognu-[180a] no a sua volta, non è loro possibile in nessuna maniera; anzi, è già troppo dire in nessuna maniera, quando si pensi che c’è in essi stessi la negazione assoluta di ogni forma di quiete. Ebbene, se tu a qualcuno di loro domandi qualche cosa, ecco che costui cava fuori come da una faretra certe sue parolette enigmatiche e te le scocca come frecce; e se cerchi che ti dia conto di quello che ha detto, già sei colpito da un altro e nuovo scambio di parole, e così non concludi mai niente con nessuno. E neanch’essi fra loro non concludono niente; perché la cosa da cui si guardano, con ogni cura è di non lasciare che niente nei loro discorsi [b] e nei loro animi sia saldo e sicuro, reputando, io credo, che ciò appunto ch’è sicuro sia stabile; e a questa stabilità essi fanno guerra in tutti i modi, e da tutti i luoghi la scacciano via come possono. SOCR. Forse, Teodoro, questi uomini tu gli hai visti mentre stavano battagliando, e non ti sei mai trovato con loro mentre erano in pace, perché non sono della tua scuola; ma a quegli scolari che vogliono rendere simili a se stessi io credo che assai tranquillamente parlino e dicano cose salde e sicure. TEOD. Ma quali [c] scolari, beato amico? Non ce n’è scolari, fra uomini come codesti, l’uno dell’altro, ma vengono su da sé, spontaneamente, secondo che ciascuno, come che sia, è preso dal suo estro; e l’uno ritiene che l’altro non sappia niente. Da costoro dunque, come ti stavo dicendo, non c’è modo tu possa mai aver conto di niente, né se vogliamo né se non vogliamo; e bisogna che cerchiamo noi stessi di cogliere la loro dottrina e di esaminarla come un problema. SOCR. Sì, dici bene. Ma questo problema non è quello che già ci trasmisero gli antichi, quando, sotto il velo della [d] poesia che li celava agli occhi del volgo, dissero che la gènesi di tutte le cose, cioè Oceano e Teti, sono due fiumi sempre correnti, e che niente sta fermo? mentre poi i moderni, più sapienti di quelli, dichiararono la stessa dottrina apertamente, affinché anche i ciabattini la udissero e aprendessero, e cessassero di credere stoltamente che delle cose che sono alcune stanno ferme e altre si muovono, bensì che tutte quante si muovono, e così, appreso ciò, tenessero quei filosofi nel dovuto rispetto? Se non che per poco non mi dimenticavo, o Teodoro,[e] che altri invece hanno dimostrato il contrario, dicendo che "...immoto l’universo ha nome" e così pure tutto ciò che i Melissi e i Parmenidi hanno sostenuto in contrario a tutti costoro, dicendo che una unica cosa è il tutto, e che sta ferma in se stessa non avendo luogo entro cui muoversi. Ebbene, amico mio, come ci regoliamo con tutti questi filosofi? Perché, procedendo così, a poco a poco siamo caduti, senza avvedercene, nel mezzo tra gli uni e gli altri; e se non ci [181a] salviamo scappando da qualche parte, ne pagheremo la pena come quei tali che giocando nelle palestre attraverso la linea son presi e tirati in senso contrario dagli uni e dagli altri. A me pare dunque che per prima cosa dobbiamo dei due esaminare quelli che già affrontammo, voglio dire i filosofi del perpetuo fluire; e se risulti chiaro ch’essi dicano bene, noi ci tireremo dalla parte di questi tentando di sfuggire agli altri; se invece ci paia che dicano più il vero gli altri che stanno per la immobilità del tutto, allora cercheremo scampo presso costoro da quelli che muovono [b] anche l’immobile. Che se poi apparisca chiaro che non dicono niente di buono né gli uni né gli altri, allora faremo una figura ben ridicola se crediamo di poter dire qualche cosa noi, povera gente come siamo, dopo aver rigettata la opinione di così antichissimi e sapientissimi uomini. Vedi dunque se ci convenga, o Teodoro, andare incontro a un pericolo così grande.TEOD. Ma non ci si può esimere, o Socrate, dall’esaminare che cosa dicono gli uni e gli altri.

XXVIII. SOCR. Sta bene, si esamini pure, visto che ne hai tu stesso così gran desiderio. Ora a me pare che punto [c] di partenza di questo esame intorno al moto sia renderci conto di quel che intendono realmente costoro quando affermano che tutto si muove. Voglio dir questo: dicono costoro che c’è una sola specie di moto, oppure, come pare a me, che ce n’è due? Ma bada, non deve parer solo a me, ché anche tu vi devi partecipare insieme con me; perché, se s’ha da patir qualche guaio, si patisca tutti e due insieme. E dimmi: non dici tu che una cosa si muove quando si tramuta da luogo a luogo o anche quando si aggira nello stesso luogo? TEOD. Sì. SOCR. Sia dunque questa una prima specie di moto. Se poi una cosa resta, sì, nel luogo [d] medesimo, ma invecchia, e di bianca, per esempio, diventa nera, e di molle dura o qualche altra alterazione subisce, non ti par giusto dire che questa è un’altra specie di moto? TEOD. Sì, necessariamente. SOCR. Io dico dunque che ci sono queste due specie di moto, alterazione l’una e l’altra trasferimento. TEOD. E dici bene. SOCR. E ora, fatta questa distinzione, vediamo di ragionare con quelli i quali sostengono che tutto si muove; e domandiamo loro così: "Voi dite che ogni cosa si muove nell’uno e [e] nell’altro modo insieme, trasferendosi e alterandosi; oppure dite che ora si muove nell’uno e nell’altro modo, ora invece in un modo solo dei due?". TEOD. Io non so proprio che cosa rispondere; credo però che diranno nell’uno e nell’altro modo insieme. SOCR. E hai ragione, amico mio; perché, se dicessero diversamente, è chiaro che per costoro le cose sarebbero al tempo stesso in moto e ferme; e dire che tutte le cose si muovono sarebbe egualmente giusto come dire che tutte son ferme. TEOD. Verissimo. SOCR. Dunque, poiché tutte le cose si devono muovere e non ce n’è alcuna che possa non muoversi, è [182a] chiaro che tutte quante si muovono sempre in ognuno dei due moti sopra detti. TEOD. Necessariamente. SOCR. Considera ora quest’altro punto della loro dottrina. Il calore, la bianchezza, o altra qualità simile, noi dicevamo che, secondo loro, si generano su per giù in questo modo: ognuna di queste cose si muove, insieme con la sensazione, nel mezzo tra l’agente e il paziente; e così il paziente diviene senziente, ma non sensazione, e l’agente diviene un quale, ma non qualità. Forse questa parola ‘qualità’ ti apparisce un poco insolita, e non la capisci così in [b] generale; vedi dunque caso per caso. Per esempio, l’agente non diviene né calore né bianchezza, bensì caldo e bianco e così via. Tu ti ricordi di certo che già nei discorsi precedenti dicevamo così, che non c’è cosa veruna la quale esista essa sola in sé e per sé, e quindi neppure l’agente né il paziente; ma dal contatto dell’agente e paziente fra loro, in quanto producono le sensazioni e i sensibili, si generano da un lato certi quali, dall’altro certi senzienti. TEOD. Sì, mi ricordo; e come no? SOCR. Ebbene, tutto il resto della loro dottrina lasciamolo andare [c] senza preoccuparci se dicano in un modo o nell’altro; e teniamoci solo al punto per cui stiamo disputando, e domandiamo: Si muovono e fluiscono tutte le cose, come voi dite, oppure no? TEOD. Sì. SOCR. E si muovono con tutti due insieme i movimenti che distinguemmo, cioè trasferendosi e alterandosi? TEOD. Ma certo, se è vero che ogni cosa si deve muovere compiutamente. SOCR. Ora, se le cose si muovessero trasferendosi solamente e non alterandosi, non saremmo in grado, mi pare, di dir quali sono queste tali cose che fluiscono trasferendosi; o come diciamo? TEOD. Certo, così. SOCR. Ma siccome [d] neppur questo rimane fermo, cioè, per esempio, che quel che fluisce fluisca restando bianco; ma si muta, per modo che anche della stessa bianchezza c’è un fluire e quindi un mutamento in altro colore, se non vogliamo che la cosa sia còlta come ferma in codesto colore: ebbene, sarà mai possibile attribuire a una data cosa il nome di un colore, e al tempo stesso parlar rettamente? TEOD. E che mezzo si può avere, o Socrate, di fissare il nome di un colore o di altra qualità simile, se è vero che la cosa, come quella che fluisce perennemente, ci scappa sempre di sotto nell’atto stesso che se ne parla? SOCR. E che diremo ora di una qualunque delle sensazioni, per esempio del vedere o dell’udire? resterà mai ferma nel punto stesso [e] che uno vede o ode? TEOD. No di certo, se tutto si muove. SOCR. Cosicché di nessuna cosa si deve poter dire ‘vedere’ piuttosto che ‘non vedere’; né si potrà parlare di alcun’altra sensazione piuttosto che della negazione sua, dal momento che le cose si muovono tutte quante in tutt’e due i modi sopra detti. TEOD. No, non si può dire. SOCR. Eppure sensazione è conoscenza, come dicevamo io e Teeteto. TEOD. Dicevate così. SOCR. Ma ecco che allora, a chi ci domandi che cosa è conoscenza, già abbiamo risposto: conoscenza non è niente più che non [183a] conoscenza. TEOD. Così pare. SOCR. Oh, c’è venuta fuori proprio una bella giustificazione a quella nostra risposta, con tanto zelo che abbiamo adoprato a dimostrare che tutto si muove perché quella nostra risposta apparisse giusta! E invece, mi sembra, di chiaro apparisce questo, che, se tutto si muove, ogni risposta, su qualunque cosa uno risponda, è ugualmente giusta, sia che si dica che la cosa "sta così", sia che "non sta così"; e, se non ti piace "sta", "diventa", se non vogliamo far stare fermi con questa parola proprio i filosofi del moto. TEOD. Dici bene. SOCR. Sì, Teodoro; tranne che dissi "così" e "non così". E invece neanche questo ‘così’ si deve dire, perché [b] non ci sarebbe più moto dicendo di una cosa ‘così’; e nemmeno ‘non così’, perché neppure questo è moto; ma bisogna che istituiscano un altro linguaggio coloro che professano questa dottrina, perché, almeno per ora, non hanno espressioni adatte al loro pensiero; salvo che non dicano ‘neppur così’, che sarebbe per loro, fra tutte, nella sua indeterminatezza, la espressione più adatta. TEOD. Sì, sarebbe questo, per loro, il modo di parlare più conveniente. SOCR. Ecco dunque, o Teodoro, che ci siamo liberati dell’amico tuo; e non gli concediamo che ogni uomo [c] è misura di ogni cosa se non è persona intelligente; né gli concederemo che conoscenza è sensazione, almeno seguendo il principio che tutto si muove: salvo che qui il nostro Teeteto non abbia qualche cosa di diverso da dire. TEOD. Tu hai detto benissimo, o Socrate; perché arrivati a questa conclusione, dovevo anch’io essere liberato dall’obbligo di risponderti, secondo quel che s’era pattuito quando fosse finita la disputa intorno alla dottrina di Protàgora.

XXIX. TEET. Sì; ma non prima, o Teodoro, che tu e Socrate abbiate ragionato anche di coloro i quali sosten-[d] gono che il tutto è immobile, come or ora prometteste. TEOD. Così giovane come sei, o Teeteto, vuoi insegnare ai vecchi di commettere ingiustizia violando i patti? Prepàrati tu, piuttosto, a render conto a Socrate di quel che rimane da dire. TEET. Volentieri, se Socrate vuol così; ma assai più volentieri avrei sentito ragionare dell’argomento che dicevo. TEOD. Tu inviti cavalieri al campo invitando Socrate alla disputa: interroga dunque e udirai. SOCR. Ma io non ho intenzione, o Teodoro, di dar retta a [e] Teeteto in quel che mi chiede. TEOD. E perché non gli darai retta? SOCR. Ecco: di fronte a Melisso e agli altri, i quali dicono che l’universo è un’unica cosa immobile, per quanto io abbia un certo ritegno di trattar la questione grossolanamente, ne ho pur sempre meno che di fronte al solo Parmènide. Parmènide mi pare che sia come direbbe Omero, venerando e insieme terribile. Io mi trovai con lui che già era molto vecchio, e io ero molto giovane; e mi par ch’egli avesse una sua profondità di [184a] pensiero veramente nobile e maestosa. Io temo dunque che il suo linguaggio noi non si capisca, e molto più ci sfugga il senso di ciò che disse; e anche temo, quel che più conta ora, di perder di vista il punto per cui già fu avviato il nostro ragionamento, intorno alla conoscenza che cosa è, stornati da questi altri ragionamenti che ci vengano in mezzo a far baldoria, se noi li lasciamo fare. Oltre che, poi, la questione che vorremmo suscitare ora, è di una grandezza straordinaria: e se, guardata così come di passaggio, subirebbe un trattamento non degno, esaminata come si dovrebbe, ci porterebbe per le lunghe, e il problema della conoscenza ne resterebbe sommerso. Non bisogna fare né l’una cosa né l’altra; ed è bene invece ch’io [b] cerchi, con la mia arte ostetricia, di liberar Teeteto dal problema di cui ancora è gravido intorno alla conoscenza. TEOD. Si faccia dunque così, se così ti piace. SOCR. Ebbene, ancora una volta, o Teeteto, considera, su ciò che s’è detto, questo: - perché tu rispondesti che conoscenza è sensazione, non è vero? TEET. Sì. SOCR. Ora, se uno ti domandasse: "Con che cosa l’uomo vede i colori bianchi e neri, con che cosa ascolta i suoni acuti e gravi"; - tu risponderesti, credo, "Con gli orecchi e con gli occhi". [c] TEET. Sì. SOCR. Stare contenti al senso ovvio delle parole e delle espressioni, e non ricercarvi dentro con sottigliezza, è cosa il più delle volte tutt’altro che ignobile, ed è segno anzi di piccineria d’animo fare l’opposto: ma si dànno casi in cui ciò è necessario; come appunto è necessario riprendere ora la risposta che tu hai dato, dove non è giusta. Considera bene: quale di queste due risposte è più giusta, dire che gli occhi sono la cosa "con la quale" vediamo, oppure "mediante la quale" vediamo; dire che gli orecchi sono la cosa "con la quale" udiamo, oppure "mediante la quale" udiamo? TEET. Meglio mi par dire, o Socrate, "mediante cui" abbiamo queste singole sensa-[d] zioni, anzi che "con cui". SOCR. E di fatti strano sarebbe, o figlio, se un numero indefinito di sensi avessero lor sede in noi come dentro a cavalli di legno, ma non si ricongiungessero tutti insieme in un’unica idea, sia essa anima o come altrimenti si debba chiamare, "con la quale", "mediante questi sensi", a guisa di organi, noi abbiamo la sensazione di tutto ciò che è sensibile. TEET. Mi pare meglio così che in quell’altro modo. SOCR. Ebbene, appunto per questo io distinguo qui con tanta sottigliezza, per vedere se c’è in noi un principio unico e sempre uguale a se stesso coi quale noi riusciamo a cogliere, mediante gli occhi, ciò che è bianco e ciò che è nero, mediante altri [e] organi, certe altre qualità. Potresti tu, se interrogato, tutte queste e simili sensazioni riferirle al corpo? Ma forse è meglio che parli tu rispondendo alle mie domande, anzi che mi dia da fare io a rispondere per te. Dimmi dunque: gli organi mediante i quali tu senti ciò che è caldo duro leggiero dolce, non li poni tu ciascuno come organi del corpo? o di qualche altra cosa? TEET. No, di nessun’altra cosa. SOCR. E certo mi vorrai anche concedere che quel [185a],che senti mediante una facoltà non è possibile tu lo senta mediante una facoltà diversa: così, per esempio, ciò che senti mediante l’udito non puoi sentirlo mediante la vista, e ciò che senti mediante la vista non puoi mediante l’udito. E’ così? TEET. O come potrei dire di no? SOCR. Se dunque tu pensi qualche cosa di due oggetti in comune, [uno veduto e l’altro udìto,] non certo questo pensiero potrai averlo mediante l’uno o l’altro dei due organi; né, d’altra parte, mediante l’uno o l’altro dei due organi potrai averne una sensazione, trattandosi di due oggetti insieme. TEET. No certo. SOCR. Orbene, intorno al suono e intorno al colore, presi tutti e due insieme, questo, certo, tu pensi prima di ogni altra cosa, che tutti e due esistono. TEET. Sì. SOCR. E pensi anche che ciascuno dei due è altro [b] dall’altro, ma identico a se stesso? TEET. Certo. SOCR. E pensi anche che tutt’e due insieme sono due, e ciascuno separatamente è uno? TEET. Sì, anche questo. SOCR. E sei capace anche di osservare se sono dissimili tra loro oppure simili. TEET. Crederei. SOCR. Ebbene, tutte queste cose, intorno a codesti due oggetti, mediante quale organo le pensi? Ché non certo mediante l’udito né mediante la vista è possibile tu colga ciò che di essi due oggetti è comune. E c’è anche quest’altra prova di quel che stiamo dicendo: se fosse possibile di tutti due insieme codesti oggetti esaminare se sono salati o no, tu mi potresti rispondere facilmente, lo sai bene, con quale facoltà esa-[c] mineresti ciò; e questa, mi pare chiaro, non è né la vista né l’udito, ma un’altra. TEET. E che ha da essere se non quella facoltà che opera mediante la lingua? SOCR. Bravo: ma dimmi ora, mediante che cosa opera, e che facoltà è quella che ti chiarisce ciò che è comune a tutte le cose in genere e a queste in particolare, onde tu enunci l’ "è" e il "non è", e quel che ora domandavamo di esse? alla percezione di tutte queste qualità quali organi assegnerai tu, mediante i quali quella parte di noi che sente possa sentirle una per una? TEET. Tu vuoi dire, di codesti oggetti in genere, l’essere e il non essere, la simiglianza e la dissimiglianza, la identità e l’alterità, e così [d] anche l’uno e tutta la serie degli altri numeri. Ed è chiaro che anche il pari e il dispari, e tutte le altre proprietà che vanno insieme con queste, tu mi domandi mediante quale degli organi corporei noi le percepiamo con l’anima. SOCR. Tu mi segui, o Teeteto, che è una meraviglia! Precisamente questo io ti domando. TEET. Ma io in verità, o Socrate, non saprei proprio che cosa dire; se non questo, che assolutamente non mi pare ci sia in noi, per codeste cose nessun organo speciale così fatto come c’è per quelle altre; bensì mi pare sia ella stessa l’anima mediante se [e] stessa che discerne ciò che di tutte le cose è comune. SOCR. Bello tu sei, o Teeteto, e non, come diceva Teodoro, brutto: perché chi bello parla è anche bello e buono. Tu oltre a essere bello, mi hai anche fatto del bene, che m’hai liberato da un molto lungo discorso, se ti par chiaro che certe cose l’anima le discerna da sé mediante se stessa, altre invece mediante le facoltà del corpo. Perché questa [186a] era già opinione mia, ma volevo fosse anche tua. TEET. Sì, mi par chiaro.

XXX. SOCR. Dimmi, dunque, in quale di queste due categorie poni l’essere? perché se c’è cosa che a tutte si accompagni è massimanente questa. TEET. Nella categoria di quelle cose a cui l’anima si protende essa sola da sé. SOCR. E anche il simile e il dissimile, anche l’altro e l’identico? TEET. Sì. SOCR. E dimmi, il bello e il brutto, il buono e il cattivo? TEET. Anche queste, mi pare, sono qualità di cui l’anima cerca l’essere sopra tutto nelle relazioni che esse hanno fra loro, comparando in se stessa il [b] passato e il presente col futuro. SOCR. Férmati qui. Dimmi, la durezza di ciò che è duro non la sente l’anima per mezzo del tatto, e similmente la mollezza di ciò che è molle? TEET. Sì. SOCR. Sta bene, ma il loro essere, e che cosa sono esse due e la loro opposizione reciproca, e, ancora, l’essere di questa opposizione, sono tutte cose che l’anima si sforza da se medesima di chiarire a noi, riesaminandole una dopo l’altra e confrontandole fra di loro. TEET. Certamente. SOCR. Dunque vi sono sensazioni che [c] uomini e bestie hanno da natura sùbito appena nati, e sono tutte quelle affezioni che giungono fino all’anima, attraverso il corpo; ma quel che l’anima, riflettendoci su, riesce a scoprire intorno a codeste affezioni, sia relativamente all’essere loro che alla loro utilità, tutto ciò a gran stento si raggiunge, e col tempo e dopo molta esperienza e istruzione, da quei pochi che pur lo raggiungono. TEET. E’ proprio così. SOCR. Dunque è possibile che mai colga la verità chi non coglie nemmeno l’essere? TEET. Impossibile. SOCR. E potrà mai uno aver conoscenza di ciò di cui non coglie la verità? TEET. E come potrebbe, o [d] Socrate? SOCR. Dunque in queste affezioni non c’è conoscenza, bensì nel ragionare che si fa intorno a esse: perché per questa via è possibile, come sembra, toccare l’essere e la verità, per quella è impossibile. TEET. E’ chiaro. SOCR. E allora, vuoi tu chiamare con lo stesso nome quel procedimento e questo, che sono così diversi l’uno dall’altro? TEET. No, non è giusto. SOCR. E che nome darai a quello, cioè al vedere, udire, odorare, aver [e] freddo, aver caldo? TEET. Sentire: e quale altro? SOCR. Tutto codesto, dunque, in generale, lo chiami sensazione. TEET. Necessariamente. SOCR. Ed è quel procedimento, dicemmo, a cui non compete toccare verità; perché nemmeno l’essere tocca. TEET. No, affatto. SOCR. E dunque nemmeno conoscenza. TEET. No. SOCR. E dunque non potranno mai, caro Teeteto, sensazione e conoscenza essere la stessa cosa. TEET. Non pare, o Socrate. Ed ecco che ci è divenuto ora estremamente chiaro che altra cosa è conoscenza da sensazione. SOCR. Sta bene: [187a] ma noi non cominciammo a discutere per questo, per trovare che cosa non è conoscenza, bensì per trovare che cosa è. Tuttavia un passo avanti lo abbiamo fatto; tanto che in ciò che diciamo sensazione non la cercheremo più per nessun modo: bensì la cercheremo in quell’altro processo, qualunque nome esso abbia, quando l’anima si affatica da sé sola essa stessa intorno a ciò che è. TEET. Benissimo; e questo, o Socrate, si chiama, io credo, opinare. SOCR. E credi giusto, o amico. Cosicché, ora, cancella via tutto quel che s’è detto prima, e vedi novamente, da capo, [b] giacché sei arrivato a questo punto, se ti riesce scoprire qualche cosa di più. Dimmi dunque, ancora una volta, che cosa è conoscenza?

XXXI. TEET. Dire che conoscenza è qualunque opinione non è possibile, o Socrate, perché ci sono anche opinioni false: direi che conoscenza è la opinione vera; e sia questa la mia risposta. Se poi, procedendo nel ragionamento, quel che ci pare ora non ci paia più, proveremo a dire qualche cos’altro. SOCR. Bravo Teeteto, così bisogna parlare, con animo pronto, e non come prima che a rispondere [c] esitavi. E, se facciamo così, delle due l’una, o troveremo quel che andiamo cercando, o almeno non crederemo di sapere quel che non sappiamo affatto; né sarà questo, certo, un guadagno disprezzabile. Ebbene, dunque, che cosa dici ora? che ci sono due specie di opinioni, una vera e l’altra falsa, e definisci conoscenza la opinione vera? TEET. Così dico: perché questo ora mi pare. SOCR. Non meriterebbe il conto di riprendere ancora la disputa su l’opinione... in un punto... TEET. Quale punto dici? SOCR. [d] Che mi turba anche ora, come già altre volte e più volte; tanto da essermi trovato in imbarazzo grande meco stesso e con altri, non sapendo dire che cosa mai sia questo stato della mente che proviamo, e in che maniera si generi. TEET. Quale dici? SOCR. Che uno abbia opinioni false. E ancora lo considero, e tuttavia sono in dubbio se lasciarlo andare o riesaminarlo in altro modo di quel che si fece poco fa. TEET. E perché no, o Socrate, se davvero ti sembra che ciò sia, comunque, necessario? Non dicevate male or ora, tu e Teodoro, parlando dell’ozio, che niente costringe alla fretta quando si è in discussioni di questo [e] genere. SOCR. Hai fatto bene a ricordarmelo. Non è forse fuor di proposito ritornare ancora, dirò così, su le nostre tracce: perché è meglio, credo, concluder poco ma bene, anziché molto ma insufficientemente. TEET. Senza dubbio. SOCR. Ebbene, dunque, che cosa stiamo dicendo? Non parliamo noi, a ogni momento, di opinioni false, e che taluno di noi opina falso, e tal’altro invece opina vero, come se così fosse appunto la natura delle cose? TEET. Diciamo così. SOCR. E non ci càpita questo, per [188a] tutte le cose in genere e per ognuna in particolare, che noi o conosciamo o non conosciamo? Perché l’apprendere e il dimenticare, che sono i due processi intermedi, io gli lascio da parte per il momento, non avendo che fare qui con la nostra questione. TEET. Sta bene, Socrate; non ci rimane altro, di ciascun oggetto, che conoscerlo o non conoscerlo. SOCR. E allora, posto ciò, non è necessario che chi opina opini cosa o di quelle che conosce o di quelle che non conosce? TEET. Necessario. SOCR. E chi conosce una cosa non è possibile che quella stessa [b] cosa non la conosca, e chi non la conosce che la conosca. TEET. E come no? SOCR. Dimmi ora, chi opina il falso, è possibile che, la cosa che conosce, creda non sia quella ma un’altra qualunque di quelle che conosce; e così, conoscendole tutt’e due, tutt’e due le ignori? TEET. Impossibile, o Socrate. SOCR. Ancora dimmi, chi opina il falso, è possibile che, la cosa che non conosce, reputi sia un’altra qualunque di quelle che non conosce, come se, per esempio, a uno che non conosca né Teeteto né Socrate, venisse in mente che Socrate è Teeteto o Teeteto Socrate? [c] TEET. E come può essere? SOCR. E nemmeno sarà possibile, mi pare, che uno, quel che conosce, creda sia quello che non conosce; e, viceversa, quello che non conosce sia quello che conosce. TEET. Infatti sarebbe cosa mostruosa. SOCR. O allora come si potrebbe, in altro modo ancora, opinare il falso? Perché fuori di questa alternativa, dal momento che tutte le cose o le conosciamo o non le conosciamo, non è possibile opinare; né sembra possibile, dentro questa alternativa, opinare il falso. TEET. Verissimo. SOCR. Bisogna dunque, quel che cerchiamo, non ricercarlo per questa via, del conoscere e non conoscere; [d] bensì per quella dell’essere e non essere. TEET. Come intendi dire? SOCR. Vedi se non sia vero dire semplicemente così, che chi opina di una cosa qualunque quel che non è, è impossibile che colui non opini il falso, comunque sia altrimenti lo stato della sua intelligenza. TEET. Ed è probabile, o Socrate. SOCR. O allora? che cosa risponderemo, o Teeteto, a uno che ci domandi così: "E’ possibile a chicchessia quello che si sta dicendo, e cioè che un uomo opini quel che non è, sia rispetto a qualcuna delle cose che sono, sia rispetto al non ente per se stesso?". E noi, naturalmente, a questa domanda, credo, risponde-[e] remo così: "Sì, è possibile, quando chi pensa non pensa la verità". - O come risponderemo? TEET. Così. SOCR. Ma si può dare anche in altri casi una risposta simile? TEET. Per esempio? SOCR. Questo, che uno veda si qualche cosa, ma niente veda. TEET. E come? SOCR. In verità se vede uno qualche cosa, dico una cosa, egli vede qualche cosa di ciò che è. O tu credi che quest’ una cosa possa mai essere nel numero delle cose che non sono? TEET. Io no. SOCR. Dunque, chi vede una cosa, vede [189a] qualche cosa che è TEET. E’ chiaro. SOCR. E anche chi ode qualche cosa ammetterai ode una cosa, e cosa che è. TEET. Sì. SOCR. E così pure chi tocca qualche cosa tocca una cosa, e cosa che è, se è una. TEET. Anche questo. SOCR. E chi opina, dimmi, non opina egli una cosa? TEET. Necessariamente. SOCR. E chi opina una cosa non opina egli qualche osa che è? TEET. D’accordo. SOCR. Dunque, chi opina cosa che non è, niente opina. TEET. No, è chiaro. SOCR. Ma in verità, chi niente opina non opina in nessun modo. TEET. [ b] E’ ovvio, mi pare. SOCR. Dunque opinare ciò che non è non è possibile, né di cose che sono né il non ente per se stesso. TEET. E’ chiaro. SOCR. E opinare il falso è cosa diversa dall’opinare ciò che non è. TEET. Cosa diversa, mi sembra. SOCR. Dunque, né per queste considerazioni su l’essere, né per quelle che facevamo poco prima sul conoscere, è possibile in noi falsa opinione. TEET. No certamente.

XXXII. SOCR. Ma può darsi che ciò che chiamiamo "falsa opinione" si generi in quest’altro modo? TEET. In che modo? SOCR. Così: dicendo falsa opinione una specie di opinione d’altra cosa, come quando uno dica che la tal [c] cosa, fra quelle che sono, è la tal’altra cosa, anche questa fra quelle che sono, perché le scambia nel proprio pensiero. In questo modo colui opina sempre, è vero, cosa che è, ma una cosa per un’altra; e siccome sbaglia il punto che aveva di mira, sarà ragionevole dire che egli opina il falso. TEET. Mi pare che ora tu abbia detto benissimo: perché se uno di una cosa opina che è brutta anziché bella, o che è bella anziché brutta, in codesto caso costui opina il falso veramente. SOCR. Io vedo bene, caro Teeteto, che tu ti prendi gioco di me e che non hai più paura di niente. TEET. E perché mi dici questo? SOCR. Io ti ho l’aria di uno, si vede, che non si appiglierà a codesto tuo "vera-[d] mente falso", domandandoti se ciò ch’è celere si può generare lentamente, o ciò ch’è leggero pesantemente, o se insomma un altro contrario qualunque, non già secondo la propria natura si generi, ma secondo quella del suo contrario, contrariamente a se stesso. Ma io non voglio che tu sprechi il tuo coraggio, e perciò non insisto su questo. Per te è soddisfacente dire, come dici, che opinare il falso vale opinare altra cosa? TEET. Per me sì. SOCR. Dunque, secondo l’opinione tua, è possibile figurarsi nel pensiero una cosa come un’altra, e non come quella che è. TEET. Sì, è possibile. SOCR. Ma allora, quando il pensiero [e] fa questo, non è anche necessario che esso pensi o due cose insieme o una delle due? TEET. Sì, necessario: o tutte due insieme o una per volta. SOCR. Benissimo: ma questo pensare è per te la stessa cosa che dico io? TEET. Che cosa dici tu? SOCR. Che è un ragionamento che l’anima fa con se stessa su ciò ch’ella viene esaminando. Bada, come un ignorante io cerco di spiegarti la cosa; ma insomma l’anima, quando pensa, io non la vedo sotto altro aspetto che di persona la quale conversi con se medesima, [190a] interrogando e rispondendo, affermando e negando. E quando giunge a definire qualche cosa, sia che vi giunga a grado a grado, sia rapidamente e come di un salto, cosicché ella affermi oramai una unica e medesima cosa e non sia più incerta fra due: codesta noi diciamo che è la sua opinione. Io dico dunque che questo opinare è un ragionare, e la opinione un pronunciato ragionamento; ma non un ragionamento che uno pronunci ad altri e con la voce, bensì in silenzio a se stesso. E tu che dici? TEET. Anch’io così. SOCR. Ora, quando uno opina una cosa per un’altra, costui anche afferma a se stesso, mi pare, una [b] cosa per un’altra. TEET. Certamente. SOCR. Ebbene, vedi un po’ di ricordarti se mai una volta dicesti a te stesso che assolutamente il bello è il brutto, o l’ingiusto è giusto; o anche considera, per dire tutto in una parola, se mai ti provasti a persuadere te stesso che assolutamente la tal cosa è un’altra; o se invece, tutt’al contrario, neanche in sogno avesti mai il coraggio di dire a te stesso con eguale assolutezza che il dispari è pari, o altra cosa di questo genere. TEET. Dici bene, mai. SOCR. E credi tu che un [c] altro qualunque, sano di mente o pazzo che sia, abbia il coraggio di dire sul serio a se stesso, con l’intenzione di persuadersene, che necessariamente il bove è cavallo o il due uno? TEET. Ma no, io non credo questo. SOCR. Dunque, se ragionar con se stesso è opinare, nessuno che ragioni e opini di due cose insieme in quanto le abbracci con l’anima tutte due, potrà dire e opinare che l’una di esse cose è l’altra. E bisogna che anche tu abbandoni questa espressione: voglio dir questo, insomma, che nessuno opina [d] esser bello il brutto, né ha verun’altra opinione simile. TEET. Sì, l’abbandono, o Socrate: pare anche a me come tu dici. SOCR. Dunque, chi opina due cose insieme, non è possibile che opini essere l’una l’altra. TEET. Mi pare. SOCR. Ma in verità chi opini una sola delle due cose e in nessun modo l’altra, neanche in questo caso egli opinerà che l’una delle due sia l’altra. TEET. Dici bene: perché se no egli dovrebbe pur abbracciare con l’anima anche l’altra che non opina. SOCR. Dunque né a chi opini due cose insieme, né a chi una sola delle due, è lecito opinare [e] altra cosa. Cosicché, se uno definisce falsa opinione ‘opinare una cosa per un’altra’, costui non dice niente. Né per questa via, né per quelle tentate prima, si può dimostrare che c’è in noi falsa opinione. TEET. E’ chiaro.

XXXIII. SOCR. Ma pure, o Teeteto, se non si dimostrerà che c’è in noi falsa opinione, molte cose assai strane ci troveremo costretti ad ammettere. TEET. E quali? SOCR. Non te le dirò se prima non mi sia provato ad esaminare il problema da ogni punto: gran vergogna avrei per me e per te quando fossimo costretti, intanto che dura questo nostro imbarazzo, ad ammettere le strane conseguenze che [191a] dicevo. Se invece troviamo la strada e ci liberiamo, una volta scampati noi dal rischio di cader nel ridicolo, parleremo degli altri a cui càpitano di questi guai; che se poi saremo tuttavia nell’imbarazzo da ogni parte, allora, sia pure, ci metteremo umilissimamente nelle mani di codesta dottrina perché, come naviganti che soffrono il mal di mare, ci calpesti e faccia di noi quel che vuole. Sta dunque a sentire in che modo io trovi ancora una strada per uscire da questa difficoltà. TEET. Non hai che da parlare. SOCR. Io dico che quando noi convenimmo essere impossibile che uno, la cosa che non sa, opini sia [b] quella che sa e opini falso, convenimmo a torto: ci sono casi in cui ciò è possibile. TEET. Vuoi dire tu forse quello che anch’io allora sospettai, quando affermammo che codesto opinar falso non è possibile, che cioè qualche volta, conoscendo io Socrate e vedendo da lontano un altro che non conosco, credo esser per lui Socrate che conosco? Ecco qui un caso in cui si dà appunto quello che dici. SOCR. Ma non ci staccammo da ciò perché faceva che noi, quel che conosciamo, conoscendolo non lo conoscessimo? TEET. Certamente. SOCR. Infatti non così dobbiamo porre la questione, ma in quest’altro modo; può darsi che ella [c] ceda, può anche darsi che tuttavia resista; comunque, noi siamo a tal punto che ci bisogna saggiarla rivoltandola da ogni parte. Vedi dunque se qualche cosa dico: può essere che uno, non sapendo una cosa prima, dopo la impari? TEET. Sì, può essere. SOCR. E quindi che impari un’altra cosa ancora, e poi un’altra? TEET. Sì. SOCR. Fa’ conto dunque, così per dire, che ci sia nelle anime nostre come un blocco di cera da improntare, in uno più grande in un altro più piccolo, in questo di cera più pura in quello più impura, in alcuni di cera più dura in altri [d] più molle, e in altri di temperanza giusta. TEET. Sta bene. SOCR. E ora diciamo che codesta cera è dono di Mnemòsine, la madre delle Muse; e che in essa, esponendola appunto alle nostre sensazioni e ai nostri pensieri, noi veniamo via via imprimendo, allo stesso modo che s’imprimono segni di sigilli, qualunque cosa vogliamo ricordare di quelle che vediamo o udiamo o da noi stessi pensiamo; e quel che ivi è impresso noi lo ricordiamo e conosciamo finché l’immagine sua rimane; quello invece che vi [e] è cancellato o sia impossibile imprimercelo, lo dimentichiamo e non lo conosciamo. TEET. Sia pure così. SOCR. Ebbene, chi ha di codeste conoscenze, e poi consideri cosa che veda o oda, pensa un po’ tu se costui non possa in questo modo opinare falso. TEET. Ma in quale modo? SOCR. In quanto creda che, talora quello che conosce, talora quel che non conosce, sia quello che conosce; ché questo è il punto in cui non bene ci trovammo d’accordo nel discorso di prima, quando dicemmo che ciò è impossibile. TEET. E ora come dici? SOCR. Ecco qui quel che [192a] si deve dire a questo proposito, rifacendoci dalle distinzioni di prima. Cosa che uno conosce perché ne ha l’impronta nell’anima, ma presentemente non sente, codesta cosa è impossibile egli creda sia un’altra di quelle che conosce perché anche di questa ebbe il ricordo, ma che presentemente non sente; e cosa che uno non conosce e di cui non ha suggello, è impossibile che egli creda sia un’altra che conosce; e cosa che non conosce è impossibile creda che sia un’altra che parimenti non conosce; e cosa che uno conosce sia un’altra che non conosce. E ancora: cosa che uno sente, [indipendentemente dal conoscerla o no,] è impossibile egli creda che sia un’altra di quelle che sente; e cosa che non sente, un’altra di quelle che sente; [b] e cosa che non sente, un’altra di quelle che non sente; e cosa che sente, un’altra di quelle che non sente. E ancora: può anche darsi che uno e conosca e senta una data cosa e ne conservi il segno corrispondente alla sensazione; ma che codesta cosa egli la creda un’altra fra quelle che a sua volta conosce e sente e di cui serba, come della prima, il segno corrispondente alla sensazione, è un caso, se si può dire così, anche più impossibile degli altri sopra detti. Ed è anche impossibile che uno, di cosa che conosce, creda che sia un’altra che conosce e sente e di cui conserva il ricordo direttamente; e cosa che uno sente, creda sia un’altra che conosce e sente, serbandone allo stesso [c] modo il ricordo; e cosa che viceversa né conosce né sente, sia un’altra che né conosce né sente; e cosa che non conosce, sia un’altra che non conosce né sente; e cosa che non sente, sia un’altra che non conosce né sente. Tutti questi casi si distinguono sopra tutti per la impossibilità che si possa in essi opinare falso. Resta dunque, se mai in altri è possibile, che ciò avvenga nei casi seguenti. TEET. In quali? Dato ch’io riesca da codesti a capir qualche cosa di più, perché ora non ti seguo. SOCR. In questi: quando uno, certe cose che sa e sente, oppure che non sa ma sente, reputi siano certe altre che sa; o quando, cosa che sa e [d] sente, reputi siano altre che parimenti sa e sente. TEET. Ora poi sono rimasto molto più indietro di prima.

XXXIV. SOCR. Bene, ascoltami un’altra volta da capo, ma così. Io conosco Teodoro e ho presente nella memoria che persona è; e conosco e ricordo Teeteto allo stesso modo. Ora, può accadere che qualche volta io vi veda, ma qualche altra no; che talvolta io vi tocchi, ma tal’altra no; che talvolta io vi oda o altra sensazione abbia di voi, ma tal’altra no: eppure, anche quando nessuna sensazione io abbia di voi, non per questo vi ricordo meno né ho di voi in me stesso minor conoscenza. Non è così? TEET. [e] Certamente. SOCR. Ecco dunque, di quel che voglio chiarirti, il primo punto che devi capire: uno può, quello che conosce, talora non sentirlo, talora sentirlo. TEET. E’ vero. SOCR. E anche quello che non conosce, non gli accade più volte che neppur lo senta e più volte che lo senta soltanto? TEET. E’ vero anche questo. SOCR. Vedi dunque se ora mi segui un po’ meglio. Socrate, supponi, co-[193a] nosce Teodoro e Teeteto, ma non vede nessuno dei due, né ha presente di loro alcun’altra sensazione; non si dirà mai che egli possa opinare dentro di sé che Teeteto è Teodoro. Dico bene o no? TEET. Sì, è vero. SOCR. E questo è il primo caso di quelli che dicevo dianzi. TEET. Sì, è il primo. SOCR. E il secondo è questo: conosco uno di voi due ma non conosco l’altro, e non ho nessuna sensazione né dell’uno né dell’altro: non si dirà mai neppur così che io, quello di voi che non conosco, creda sia quello che conosco. TEET. Sta bene. SOCR. E il terzo è questo [b] che, non conoscendo io nessuno dei due né avendone sensazione alcuna, non sarà possibile io creda che uno che non conosco sia un altro che non conosco. Gli altri casi di prima fa conto che io te li abbia tutti quanti ripetuti uno per uno, mostrandoti che in nessuno sarà mai possibile che di te e di Teodoro io opini il falso, sia che vi conosca o non vi conosca tutti e due, sia che conosca uno solo di voi e l’altro no; e anche per i casi delle sensazioni è lo stesso. Mi segui ora? TEET. Ti seguo. SOCR. Resta dunque che l’opinar falso avvenga in casi come questo: io conosco te e Teodoro, e di tutti due voi ho le [c] impronte in quel tal blocco di cera, come di due sigilli; tutti due vi vedo di lontano, ma senza distinguervi sufficientemente e mi sforzo di restituire alla visione propria di ciascuno la impronta propria di ciascuno, e di sovrapporre e far combaciare queste due visioni ciascuna alla sua propria orma; se ci riesco, avviene il riconoscimento, ma se non ci riesco, e applico la visione di ognuno dei due alla impronta non sua scambiandole tra loro come chi si calzi a un piede il calzare dell’altro, o anche, come càpita della visione negli specchi che quel che è a destra trascorre a [d] sinistra, càpiti anche a me il medesimo errore; ecco che allora ha luogo ciò che dicemmo opinione di altra cosa e opinar falso. TEET. E’ proprio così, o Socrate: mirabilmente tu hai descritto questo caso dell’opinione. SOCR. E dunque si dà lo stesso anche quando, conoscendovi io ambedue, l’uno di voi, oltre che conoscerlo, lo abbia presente ai miei sensi, l’altro no, ma la conoscenza di quello che sento non si accordi con la sensazione: che è ciò appunto su cui insistevo precedentemente, e tu allora non capivi. TEET. No, è vero. SOCR. Questo ti dicevo, che [e] chi conosca una persona e l’abbia presente ai suoi sensi, e la conoscenza si accordi con la sensazione; e conosca del pari un’altra persona, e l’abbia presente ai suoi sensi, e anche di questa si accordi la conoscenza con la sensazione; non sarà mai possibile egli creda che questa seconda persona sia la prima. Non era questo che dicevo? TEET. Sì. SOCR. Ma ci restava il caso descritto ora, in cui appunto diciamo aver luogo la falsa opinione: e cioè di colui che, conoscendo due persone e tutt’e due vedendole o aven-[194a] done altra sensazione, non riesce, le impronte che di loro ha nella mente, ad accordarle ciascuna con la sensazione sua propria, e, come un cattivo arciere, scambia nel tiro una mira con l’altra e fallisce; che è ciò che anche si dice falsità. TEET. E a ragione. SOCR. E così pure, quando all’una delle impronte sia presente la sensazione ma all’altra no, se alla sensazione presente la mente adatta l’impronta della sensazione assente, allora fallisce; e così in ogni caso di questo genere. In una parola, per quelle [b] cose che uno mai né conobbe né senti, non è possibile, mi sembra, se è solido ora il nostro ragionare, né fallire né falsa opinione; bensì è possibile per quelle che conosciamo e sentiamo; in queste soltanto si aggira e si volge la opinione divenendo ora falsa e ora vera: vera, se a fronte a fronte e in linea retta combaciano fra loro copie e originali; falsa, se s’incontrano lateralmente e di sbieco. TEET. E non si dice bene, o Socrate? SOCR. Dirai ciò con una [c] convinzione ancora maggiore quando avrai udito anche il resto. Perché bello è opinare il vero, e opinare il falso è turpe. TEET. E come no? SOCR. Orbene, questo diverso opinare nasce, dicono, di qui. Quando la cera che uno ha nell’anima è profonda e abbondante e liscia e ben temperata, le immagini delle cose che entrano in noi per mezzo delle sensazioni, si imprimono in questo "cuore" dell’anima, come lo chiamò Omero volendo alludere a questa somiglianza di ‘cera’ e ‘core’; e allora, come queste im-[d] pronte, incidendovici dentro ben nette e con una sufficiente profondità, durano anche molto tempo, così gli uomini anzi tutto apprendono facilmente e facilmente ricordano, e poi non scambiano i segni delle sensazioni fra loro e opinano con verità; perché essendo codesti segni assai chiari e in ampio spazio distribuiti, fanno presto a ritrovarli, e quindi ad assegnare le cose o, come si dice, gli obbietti reali, ciascuno alla sua propria impronta segnata nel blocco di cera. E questi uomini sono chiamati sapienti. O a te forse non pare così? TEET. Anzi, mira-[e] bilmente. SOCR. Altre volte invece questo cuore è irsuto, quale appunto lo lodò il poeta sapientissimo, o è sporco e di cera impura, o liquido troppo o troppo duro; e allora, chi lo ha liquido, facilmente impara ma facilmente anche dimentica, e chi l’ha duro, al contrario. Quelli dunque che hanno cuore irsuto e scabro, qualche cosa come di petroso o pieno di terra e di sporcizie mescolate, costoro hanno le impronte mal distinte; e mal distinte le hanno anche quelli di cuore duro, perché non c’è in loro profondità; e mal distinte anche le hanno quelli dal cuore liquido, [195a] perché confondendosi insieme, presto non si riconoscono più. Se poi, oltre tutto codesto, le impronte, per la ristrettezza del luogo, dato che uno abbia un’animuccia piccina, vengono a cadere insieme l’una su l’altra, esse sono allora più indistinte che mai. Ora questi tali sono tutti quanti nella condizione di opinar falso: perché, quando vedono o odono o pensano alcuna cosa, essendo incapaci di assegnar sùbito ciascuna cosa al suo proprio segno, sono tardi; e, assegnando cose diverse a segni diversi, il più delle volte travedono e traodono e trapensano; e così hanno nome di persone che su la realtà delle cose si ingan-[b] nano, e cioè di ignoranti. TEET. Tu parli il più diritto fra gli uomini, o Socrate. SOCR. Dobbiamo dire dunque che ci sono in noi opinioni false? TEET. Ma certo. SOCR. E anche opinioni vere? TEET. Anche vere. SOCR. Crediamo dunque si sia raggiunto ormai su questo un accordo sufficiente, che cioè, con ogni certezza, ci sono ambedue in noi queste opinioni? TEET. Mirabilmente.

XXXV. SOCR. Ahimé, Teeteto, che tremenda e sgradevole cosa risica d’essere un chiacchierone! TEET. O come, [c] perché dici questo? SOCR. Per fastidio della mia poca intelligenza e sì, proprio, di questa mia smania di chiacchiere. Che altro nome si può dare a uno che tira i discorsi di su e di giù e non ne porta mai a compimento nessuno, incapace com’è per la stupidità sua di persuadersi di nulla? TEET. Ma tu, insomma, di che cosa sei fastidito? SOCR. Non solo sono fastidito, ma ho anche paura di non saper che rispondere se uno mi domanda: "O Socrate, hai tu davvero scoperto che opinione falsa non è possibile né nelle sensazioni fra loro né nei pensieri fra loro, ma solo [d] nel contatto di sensazione e pensiero?". - E io, credo, risponderò di sì, e me ne farò bello, come se proprio qualche cosa di bello avessimo scoperto. TEET. A me almeno, o Socrate, non pare brutto quello che ora s’è dimostrato. SOCR. E dunque, domanderà colui, tu affermi che l’uomo, se noi lo pensiamo soltanto e non lo vediamo, non potremo mai credere che sia cavallo, se anche questo del pari non lo vediamo né tocchiamo ma pensiamo soltanto, e non abbiamo di lui nessun’altra sensazione?". - E risponderò, credo, che questo io affermo. TEET. E a ragione, certo. [e] SOCR. "E allora, seguiterà, l’undici, che non si può far altro che pensare, nessuno, il quale muova da codesto tuo ragionamento, potrà mai credere che sia dodici, perché anche questo si può pensare soltanto: non è così?". - Via, dunque, rispondi tu. TEET. E io risponderò che se uno, questo undici, lo vede e lo tocca, potrà, sì, credere che sia dodici; ma se lo ha solo nel suo pensiero non potrà mai di esso opinare così. SOCR. O come, credi tu che nessuno mai, il quale si sia proposto di considerare in se [196a] stesso, da sé, il cinque e il sette, - bada io non dico sette e cinque uomini, né alcun’altra cosa simile, ma il sette e il cinque per se stessi; quel sette e cinque che noi diciamo impressi là in quel tal blocco di cera e che sono delle cose in cui opinare falso non è possibile; - ebbene, io ti domando, questi numeri non si è dato mai che un uomo qualunque li abbia considerati in se stessi, ragionandone fra sé e sé e domandandosi quanto fanno, e che non abbia detto e pensato che fanno undici, e un altro che fanno dodici; oppure tutti quanti dicono e pensano che fanno dodici? TEET. Ma no di certo, ché molti anzi avranno [b] detto undici; e se uno consideri un numero maggiore, più facilmente sbaglia: perché tu parli, io credo, di ogni numero in generale. SOCR. E credi giusto. Rifletti ora: avviene altro in codesto caso se non questo, di credere che il dodici, dico il dodici in sé, quello stampato nel blocco di cera, è undici? TEET. Sì, mi pare. SOCR. Ma allora la discussione non torna un’altra volta al punto di prima? Chi cade in questo errore pensa che una cosa che egli conosce sia un’altra che parimente conosce. E noi dicevamo che ciò è impossibile; ed era proprio questo l’argomento onde concludevamo che necessariamente non [c] esiste opinione falsa, perché se no la stessa persona era costretta a sapere e a non sapere insieme le stesse cose. TEET. Verissimo. SOCR. Bisogna dunque dimostrare che questo opinar falso è altra cosa, e non scambio di pensiero in rapporto a sensazione. Perché, se fosse così, nei casi in cui si tratti di pensar solamente, non sbaglieremmo mai. Ora, invece, o diciamo che non esiste falsa opinione, o che uno, quello che sa, è possibile non lo sappia. Quale scegli di queste due proposizioni? TEET. Difficile scelta mi pro-[d] poni, o Socrate. SOCR. Ma pure non mi sembra che il ragionamento vorrà lasciarle in piedi tutt’e due. In ogni modo, poiché si deve osar tutto, che diresti tu se ci provassimo a mettere da parte il pudore? TEET. O come? SOCR. Risolvendoci a dire che cosa mai è, finalmente, questo conoscere. TEET. E che cosa c’è di impudico in questo? SOCR. Tu non hai badato, si vede, che tutto il nostro ragionamento, fin dal principio, è stato una ricerca di conoscenza, pur non sapendo, appunto, conoscenza che cosa è. TEET. Ma sì, ci ho badato. SOCR. E allora non ti par cosa impudica che gente la quale non sa che cos’è conoscenza, pretenda definire che cos’è il conoscere? Ma il [e] vero è, Teeteto, che già da un pezzo noi siamo contagiati di questo impuro parlare. Mille e mille volte noi abbiamo detto ‘conosciamo’, ‘non conosciamo’, ‘sappiamo’, ‘non sappiamo’, come se qualche cosa potessimo capire gli uni degli altri, mentre ancora ignoriamo che cos’è conoscenza. Ne vuoi una prova? Anche ora, in questo stesso momento, noi ci siamo serviti un’altra volta delle parole ‘ignorare’ e ‘capire’, quasi che ci fosse lecito servircene, dato che di conoscenza siamo privi. TEET. Ma in che modo potrai ragionare, o Socrate, astenendoti da codeste [197a] espressioni? SOCR. Oh, in nessun modo, essendo io quel pover’ uomo che sono; ma se fossi un disputatore davvero!... Un uomo simile se fosse qui ora, non solo direbbe che bisogna astenersi da codeste parole, ma rimprovererebbe fortemente voi e me di questo modo di parlare. Comunque, da quel pover’uomo che sono, vuoi ch’io mi avventuri a dire che cosa è il conoscere? Mi pare che sarebbe di qualche utilità. TEET. Ma sì, dunque, coraggio! ché se anche non ti astieni da codeste parole, nessuno certo ti darà addosso.

XXXVI. SOCR. Hai tu udito come definiscono oggi il conoscere? TEET. Forse, ma in questo momento non me [b] ne ricordo. SOCR. Dicono che conoscere significa avere conoscenza. TEET. E’ vero. SOCR. Noi però vogliamo fare un piccolo mutamento, e dire che conoscere è possedere conoscenza. TEET. E che differenza c’è, secondo te, fra questa definizione e quella? SOCR. Forse nessuna: a ogni modo, quella che può sembrare ci sia, ascolta e giudica insieme con me. TEET. Volentieri, se ci riesco. SOCR. A me non pare siano la stessa cosa possedere e avere: per esempio, se uno s’è comperata una veste e ne è padrone ma non la indossa, di costui diremo che  possiede codesta veste, ma non l’ha. TEET. Giusto. SOCR. Vedi [c] ora se anche della conoscenza è possibile dir così, che uno, pur possedendola, non l’abbia; bensì la possegga come diremmo di uno il quale, presi alla caccia certi uccelli selvatici, colombi o altro, se li allevi in casa dentro una colombaia che s’è costruita: del quale solo in un certo senso potremmo dire che gli ha sempre codesti uccelli, in quanto già li possiede. O no? TEET. Sì. SOCR. Se non che, in altro senso, potremmo anche dire che non ne ha nessuno, ma solo ha sopra di essi, dal momento che se li soggettò collocandoli in un suo recinto domestico, la potestà di [d] prendere e tenere, quando voglia, quel qualunque uccello che di volta in volta brami cacciare, e poi di nuovo rilasciarlo: e questo lo può fare tutte le volte che gli piace. TEET. E’ così. SOCR. Ebbene, come prima costruimmo nelle nostre anime non so qual figura di cera, ora invece immaginiamo in ciascuna anima una specie di gabbia ripiena di uccelli di ogni sorta, dei quali parte vadano a schiere, separatamente dagli altri, parte a piccoli gruppi, e alcuni solitari, in mezzo a questi o a quelli, svolazzando [e] dove loro càpita. TEET. Immaginiamo pure così; ma poi che cosa ne segue? SOCR. Finché s’è ancora ragazzi, questo vaso - invece di uccelli intendi conoscenze - bisogna dire che è vuoto; e quando uno, acquistata conoscenza di qualche cosa, la rinserra in codesto recinto, ecco che costui, diciamo, ha appreso o trovato la cosa di cui quella era la conoscenza: e questo è conoscere. TEET. E sia. [198a] SOCR. Ora, l’andare novamente a caccia di quella qualunque conoscenza che uno voglia, e prenderla e tenerla e poi ancora lasciarla andare, vedi un po’ tu con quali parole si deve esprimere, se con le stesse del primo momento quando colui venne in possesso di quella conoscenza, o con altre. Capirai più chiaramente da questo esempio che cosa voglio dire. C’è un’arte che tu chiami aritmetica? TEET. Sì. SOCR. Supponi che ella sia una caccia di conoscenze di ogni numero in genere, pari e dispari. TEET. Sta bene. SOCR. Con quest’arte, mi pare, chi l’ha, e ha [b] in sua mano egli stesso le conoscenze dei numeri, e anche le trasmette ad altri, chi le vuole trasmettere. TEET. Sì. SOCR. E chi le trasmette ad altri diciamo che insegna, chi le riceve diciamo che impara; ma chi le ha in suo potere per il fatto che le possiede in quel suo tal colombaio, diciamo che conosce. TEET. Precisamente. SOCR. Sta bene attento ora a quello che ne consegue. Il perfetto aritmetico non conosce tutti i numeri? Perché nella sua anima ci sono conoscenze di tutti i numeri. TEET. Certo. SOCR. [c] E dimmi: un uomo tale potrà mai da sé a sé fare calcoli di numeri che abbia solo nella mente; o farà altri calcoli di cose che sono fuori di lui, fra quante sono numerabili? TEET. E come no? SOCR. Ma fare un calcolo non è altro, diremo, che computare quanto un numero viene a essere. TEET. Sì. SOCR. Dunque è evidente che colui còmputa, come se non la conoscesse, cosa che conosce: perché noi s’era convenuto che egli conosce tutti i numeri. Tu ti rendi conto, credo, di difficoltà di questo genere. TEET. Io sì.

XXXVII. SOCR. Allora noi, prendendo immagine dal [d] possesso e dalla caccia delle colombe, diremo che di due specie è questa caccia, l’una, prima di possedere per possedere, l’altra, di chi già possiede per prendere e avere nelle mani ciò che da tempo possedeva. E così, anche quelle cose di cui già da tempo uno aveva nell’animo le conoscenze, perché le aveva imparate e le conosceva, queste stesse cose egli può tornare a impararle ripigliando e tenendo stretta di ciascuna quella conoscenza che già da tempo possedeva, ma non aveva sotto mano nel proprio pensiero. TEET. Vero. SOCR. Ebbene proprio questa [e] era la domanda che ti facevo poco fa: di che vocaboli ci si deve servire parlando, per esempio, dell’aritmetico quando va per contare, o del grammatico quando va per leggere? si deve dire che dunque come già conoscendo ritorna ciascuno in tali casi a imparare da se medesimo quello che già conosce? TEET. Ma sarebbe assurdo, o Socrate. SOCR. E allora dobbiamo dire che colui si metterà a leggere e a contare cose che non conosce, dopo che noi gli abbia-[199a] mo conceduto che conosce tutte le lettere e tutti i numeri? TEET. Anche questo sarebbe assurdo. SOCR. Vuoi tu allora che diciamo che delle parole non ci importa niente, stiracchi pur ciascheduno come gli piace il senso di queste, del ‘conoscere’ e dell’ ‘imparare’: e diciamo invece, poiché altro è, come definimmo, possedere la conoscenza e altro averla, che se da un lato non è possibile che uno quel che possiede non lo possegga, cosicché non si può dare mai in nessun caso che uno quel che sa non lo sappia; è pur possibile dall’altro che di ciò stesso che sa uno prenda opinione falsa? Di fatti è possibile che uno [b] venga ad avere in mano non la conoscenza di codesta cosa che sa, ma un’altra invece di quella, allorché, andando a caccia appunto di una data conoscenza, tra lo svolazzare qua e là delle conoscenze diverse, gli càpiti di sbagliare e di prenderne una per un’altra: come quando quel tale di cui dicevamo credé che l’undici fosse il dodici, e prese la conoscenza dell’undici per quella del dodici, la palombella che gli svolazzava nella testa invece della colomba. TEET. Questo si è ragionevole. SOCR. Quando invece quella conoscenza che uno vuol prendere riesce a prenderla, allora diciamo che colui non s’inganna e opina ciò che realmente è. Ed ecco che così c’è opinione vera e c’è opinione falsa; [c] e di quelle difficoltà che ci davan fastidio prima non ne abbiamo più tra i piedi nessuna. Immagino che dirai come me. O se no, come farai? TEET. Così dico. SOCR. E di fatti ci siamo liberati dalla difficoltà che non conoscano gli uomini quel che conoscono; perché non accade più in nessun modo che noi non possediamo quello che possediamo, sia che di una data cosa si opini falso, sia che si opini vero. Se non che mi pare che un’altra difficoltà, ben più terribile di questa, si affacci all’orizzonte. TEET. Quale? SOCR. A pensare come potrà mai lo scambio delle conoscenze divenire falsa opinione. TEET. Che cosa [d] vuoi dire? SOCR. Questo, anzi tutto: come pensare che uno, il quale ha in sua mano la conoscenza di una certa cosa, ignori proprio codesta cosa; e non già la ignori perchè non la conosce, ma per il fatto stesso che la conosce? e poi ancora, che colui opini che questa cosa è un’altra e che l’altra è questa? Come non sarebbe un’assurdità grande che l’anima, nel momento stesso che la conoscenza le è presente, non conosca nessuna cosa e ignori tutto? A seguire codesto ragionamento niente impedisce che anche l’ignoranza, quando in noi è presente, ci faccia conoscere qualche cosa, e la cecità ci faccia vedere, se è vero che anche la conoscenza può bene qualche volta farei ignorare.[e] TEET. Forse, o Socrate, abbiamo fatto male a supporre che quei tali uccelli fossero in noi soltanto forme di conoscenze; bisognava anche supporre che insieme svolazzassero nella nostra anima forme di non conoscenze; e così, quello che va a caccia, potendo prendere della stessa cosa ora una conoscenza ora una non conoscenza, se prende una non conoscenza opina falso, se una conoscenza opina vero. SOCR. Non è facile non lodarti, o Teeteto. Ma riconsidera da capo quello che hai detto. Sia pur così come dici: dun-[200a] que, chi prende la non conoscenza opina falso. Tu dici così, non è vero? TEET. Sì. SOCR. Ma costui anche non reputerà di opinar falso, credo. TEET. No di certo. SOCR. Bensì reputerà di opinar vero; e sarà nella condizione di uno che ben conosce le cose su le quali si è ingannato. TEET. Senza dubbio. SOCR. Costui dunque crederà di aver preso in caccia una conoscenza, non già una non conoscenza. TEET. E’ chiaro. SOCR. Ed ecco che dopo un lungo giro ci troviamo di fronte un’altra volta alla stessa difficoltà di prima. E quel tale nostro confuta-[b] tore si metterà a ridere e ci dirà: "O come, ottimi amici, uno le conosce tutt’e due codeste cose, conoscenza e non conoscenza, e crede che l’una delle due, che conosce, sia l’altra che anche conosce? oppure non ne conosce nessuna delle due, e opina che quella che non conosce sia l’altra che non conosce? oppure ne conosce una, e l’altra no, e crede che quella che non conosce sia l’altra che conosce, o quella che conosce sia l’altra che non conosce? O se no, mi direte da capo che anche di queste conoscenze e non conoscenze ci sono a lor volta altre conoscenze; e che queste conoscenze, chi le possiede perché le ha rinchiuse, secondo la vostra ridicola immagine, in altri suoi [c] colombai, o raffigurate in altri blocchi di cere, finché le possiede le conosce, anche se non le abbia sotto mano nella sua anima? e così voi sarete costretti, dopo mille e mille giri, a finir sempre nello stesso punto senza avanzare di un passo?". - Che cosa risponderemo a queste domande, o Teeteto? TEET. O mio Socrate, io non so in verità che cosa si dovrebbe rispondere. SOCR. Non ha dunque ragione, o figliuolo, questo argomento, di rimproverarci, e non ci dimostra che abbiamo torto di ricercare la falsa opinione prima della conoscenza, trascurando que-[d] sta? Conoscere che cos’è falsa opinione non è possibile, se prima non si sia capito bene che cosa è conoscenza. TEET. Io non posso non pensare come dici tu, o Socrate, in questo momento.

XXXVIII. SOCR. Da capo, dunque: che cosa è conoscenza? Ché non ancora vorremo rinunziare, credo, alla ricerca. TEET. Affatto, se non vuoi tu rinunziarci. SOCR. Dimmi, dunque, quale definizione possiamo darne per trovarci il meno possibile in contraddizione con noi stessi? TEET. [e] Quella che già tentammo, o Socrate, nel ragionamento di prima; io almeno non ne ho nessun’altra. SOCR. Quale? TEET. Che conoscenza è la vera opinione. L’opinar vero, mi pare, non è soggetto a errore, e le cose che da esso si generano sono tutte buone e belle. SOCR. Chi guidava gli altri a passare il fiume, - tu lo sai, Teeteto, - "La cosa stessa, disse, lo mostrerà". - E così noi, se andiamo avanti nella ricerca, può darsi che quel che cerchiamo, [201a] capitandoci tra i piedi, ci si chiarisca da sé; ma se stiamo fermi non scopriremo niente. TEET. Hai ragione: andiamo e esaminiamo. SOCR. E sia; ma ci basta un esame breve: c’è tutta un’arte la quale ti dimostra che conoscenza non è codesto che dici. TEET. O come? quale arte? SOCR. L’arte di coloro che sono i più gran maestri di sapienza, che la gente chiama rètori e avvocati. Costoro con la loro arte persuadono, ma non già insegnando persuadono, bensì inducendo altrui a pensare quello che vogliono. O credi tu ci siano al mondo maestri così abili i [b] quali, pur non essendo stato nessun de’ giudici presente quando certe persone furono derubate di loro averi o altre violenze patirono, siano capaci la verità di codesti fatti, nel breve tempo che un poco di acqua scorre giù dalla clèssidra, di dimostrare a codesti giudici sufficientemente? TEET. No, non lo credo affatto; bensì, capaci di persuadere. SOCR. Ma non dici che persuadere è indurre altrui ad avere un’opinione? TEET. Certamente. SOCR. E allora, quando de’ giudici siano giustamente persuasi di cose che solo chi le ha viste le può conoscere, se no no; allora, dico, giudicando codesti giudici di ciò solo che hanno sentito dire [c] e di cui siano riusciti a farsi un’opinione vera, non giudicano essi senza conoscenza, ancorché rettamente persuasi, se è vero che giudicano bene? TEET. E’ proprio così. SOCR. Ora, o amico, se opinione vera e conoscenza fossero la medesima cosa, neanche il migliore dei giudici potrebbe mai senza conoscenza opinar rettamente; è chiaro dunque che sono, l’una e l’altra, due cose diverse. TEET. C’è una distinzione, o Socrate, che io ho sentito dire da uno, e me ne ero dimenticato: ci ripenso ora. Diceva colui che conoscenza è la opinione vera accompagnata da ragione; [d] e che opinione senza ragione è al di fuori di conoscenza: che quindi le cose di cui non si dà ragione non sono "conoscibili" - questa parola adoprava, - quelle di cui si dà ragione, conoscibili. SOCR. Hai fatto bene a dirmelo; ma dimmi anche come li distingueva colui questi tali conoscibili dai non conoscibili; ch’io veda se per caso non abbiamo sentito dire allo stesso modo, io e tu. TEET. Non so se lo potrò ritrovare questo da me; ma se un altro me lo dice, potrò, credo, seguirlo.

XXXIX. SOCR. Ascolta dunque in cambio di un sogno un altro sogno. Pare anche a me di aver sentito da taluni [e] che i primi, dirò così, elementi, onde siamo composti io e tu e le altre cose in genere, non ammettono ragione: ciascun elemento, preso in se stesso, si può solo nominare; predicare di esso altra cosa non è, possibile, neppure che è [202a] né che non è, perché già cotesto gli aggiungerebbe il predicato dell’essere o del non essere, mentre non gli deve aggiunger nulla chi intenda parlare di questo o quell’elemento solo per sé. Difatti neppure l’‘in sé’ gli si deve aggiungere, né il ‘quello’ né il ciascuno’ né il ‘solo’ né ‘questo’ né alcun’altra delle molte determinazioni simili. Le quali, correndo attorno da ogni parte, sono applicabili a tutte le cose in quanto che dalle cose a cui si applicano sono diverse: e bisognerebbe, dato che ragionare di esso elemento fosse possibile e questo avesse una sua propria ragione, bisognerebbe, dico, ragionarne indipendentemente da tutte codeste altre determinazioni. Ma in realtà [b] nessuno dei primi elementi può essere espresso da una ragionata proposizione, perché, non avendo niente altro all’infuori del nome, nessun’altra cosa gli conviene all’infuori di questa sola, d’essere nominato; qualora si tratti, invece, delle cose che di questi elementi sono composte, a quel modo che sono intrecciate esse, così anche i nomi loro, intrecciati insieme, diventano ragionata proposizione: intreccio di nomi è ciò appunto che costituisce l’essenza della proposizione. E così è che gli elementi sono irrazionali e inconoscibili, ma sensibili; i nessi sono conoscibili, enunciabili e opinabili con vera opinione. Orbene, quando di qualche cosa uno riesca a formarsi la opinione vera, ma [c] senza ragione, l’anima sua, riguardo a codesta cosa, è nel vero, ma non la conosce, perché non ha conoscenza di una data cosa chi non è capace di darne e riceverne ragione; chi invece riesca ad annettervi e cogliervi la ragione, costui è capace di tutto codesto, ed è anche, rispetto al conoscere, nella condizione migliore. E’ così il sogno che tu udisti, o altrimenti? TEET. Proprio così. SOCR. Allora, ti soddisfa definire in questo modo, che conoscenza è opinione vera accompagnata da ragione? TEET. Perfet-[d] tamente. SOCR. O dunque, Teeteto, siamo riusciti noi, ora, così a caso, in questo giorno, a cogliere una verità che già da tanto tempo tanti uomini sapientissimi ci sono invecchiati su per cercarla e non l’hanno trovata? TEET. Eppure a me pare, o Socrate, che sia detto bene quel che ora s’è detto. SOCR. Può anche darsi che in se stessa la definizione sia buona così: che altra specie di conoscenza ci potrebbe mai essere fuori di ragione e di retta opinione? Tuttavia c’è un punto di quel che s’è detto che non mi soddisfa. TEET. Quale è? SOCR. Quello stesso che sembra essere l’argomento più fino: che gli elementi sono in-[e] conoscibili, tutti i nessi invece conoscibili. TEET. E non è giusto? SOCR. Bisogna vedere. Noi abbiamo, per dir così, come ostaggi della dottrina, gli esempi di cui si valse colui che disse tutte queste cose. TEET. E quali? SOCR. Le lettere dell’alfabeto come elementi, e le sillabe come nessi. O credi che ad altro mirasse chi enunciò la dottrina che stiamo esponendo? TEET. No, a questo.

[203a] XL. SOCR. Ebbene, ripigliamoli questi esempi e saggiamoli; o piuttosto saggiamo noi stessi per vedere se così o no imparammo le lettere. Dimmi, dunque, per prima cosa: veramente le sillabe ammettono ragione e le lettere no? TEET. Mi pare. SOCR. Benissimo, pare anche a me. Ora, se uno t’interrogasse su la prima sillaba del mio nome, in questo modo, - "Dimmi, Teeteto, che cosa è So", - tu che cosa risponderesti? TEET. Che è s e o. SOCR. E ritieni sia questa la ragione della sillaba? TEET. Sì. SOCR. O bravo, dimmi allo stesso modo anche la [b] ragione dell’s. TEET. E come può uno compitare elementi dell’elemento? Ché l’s, o Socrate, è una delle lettere non vocali, un mero suono, come di lingua che sibila; e c’è poi il b e la più parte delle altre lettere le quali non hanno né voce né suono: cosicché sta benissimo dire che codesti elementi sono irrazionali; tanto è vero che perfino i sette che sono i più distinguibili fra tutti hanno solo voce, ma ragione nessuna. SOCR. Dunque, amico mio, su questo punto del problema della conoscenza abbiamo col-[c] pito giusto. TEET. Pare. SOCR. Ma dimmi, s’è anche detto giusto che la lettera non è conoscibile, ma la sillaba sì? TEET. Probabilmente. SOCR. Dimmi ora, che cosa intendiamo per sillaba, le due lettere se sono due, e tutte se sono più; oppure una specie di idea unica generatasi dalla combinazione di esse lettere? TEET. Tutte le lettere, direi io. SOCR. Bene; vedi il caso di queste due, l’s e l’o: tutt’e due insieme sono la prima sillaba del mio nome. Chi conosce la sillaba non conosce ambedue le lettere? [d] TEET. Certo. SOCR. Cioè conosce l’s e l’o. TEET. Sì. SOCR. O come, ignora ciascuna di esse, e, non conoscendo né l’una né l’altra, le conosce tutt’e due? TEET. Ma sarebbe cosa impensabile e mostruosa, o Socrate. SOCR. Ma pure, se è necessario che conosca ciascuna delle due chi ha da conoscerle tutt’e due, è assolutamente necessario che conosca prima le lettere chi dovrà poi conoscere la sillaba: e così il nostro bel ragionamento ci scappa via e [e] se ne va. TEET. E svelto svelto se ne va. SOCR. Perché non gli abbiamo fatto la guardia come si doveva. Bisognava porre che la sillaba non è le lettere, bensì una specie di idea unica nata da quelle, con un’unica forma sua per se stessa, e diversa dalle lettere. TEET. Vero: può darsi che la cosa sia piuttosto così che in quell’altro modo. SOCR. Bisogna pensarci: non si può abbandonare così ignobilmente una dottrina grande e rispettabile. TEET. No, affatto. SOCR. Sia pur così come abbiamo detto ora: il [204a] nesso è un’idea unica costituita di elementi ogni volta armonizzati insieme; e ciò tanto se si tratta di lettere quanto di ogni altra specie di elementi. TEET. Benissimo. SOCR. Non bisogna dunque che il nesso abbia parti. TEET. Perché? SOCR. Perché, dove ci sono parti, l’intero non può non essere tutte le parti. O vuoi dire che anche l’intero è costituito di parti, pur essendo un’idea unica diversa da tutte le sue parti? TEET. Così dico. SOCR. Ma il tutto e l’intero dici che sono la stessa cosa o una cosa di-[b] versa ciascuno? TEET. Io non ho niente di sicuro da dire; ma poiché desideri ch’io ti risponda bravamente, mi arrisico a dirti che sono una cosa diversa. SOCR. La tua bravura, o Teeteto, va bene; ma se anche la tua risposta vada bene, questo bisognerà vederlo. TEET. Sì, bisogna vederlo.

XLI. SOCR. Dunque ci sarebbe differenza, a sentire quel che dici ora, fra l’intiero e il tutto? TEET. Sì. SOCR. Ma come, fra tutte le parti e il tutto c’è differenza? Per esempio, quando contiamo uno, due, tre, quattro, cinque, [c] sei; e quando diciamo due volte tre o tre volte due, o quattro più due o tre più due più uno: in tutti questi casi diciamo sempre lo stesso numero o un numero differente? TEET. Lo stesso numero. SOCR. Cioè il sei. TEET. Sì. SOCR. Ebbene, in ciascuna di queste espressioni non abbiamo detto sempre tutt’e sei unità? TEET. Sì. SOCR. E non diciamo un tutto unico dicendo codeste sei unità tutte quante? TEET. Necessariamente. SOCR. E che altro è codesto tutto se non le sei unità? TEET. Niente altro. [d] SOCR. Dunque, in tutto ciò che risulta di numeri, o diciamo ‘tutto’ o diciamo ‘tutte le unità’, indichiamo sempre la medesima cosa. TEET. E’ chiaro. SOCR. Vediamo così ora: il numero del pletro e il pletro sono la stessa cosa, non è vero? TEET. Sì. SOCR. E il numero dello stadio e lo stadio egualmente. TEET. Sì. SOCR. E così anche il numero dell’esercito è lo stesso che l’esercito, e tutte le altre cose siffatte allo stesso modo; perché di ciascuna di esse tutto il numero è tutto l’essere. TEET. Sì. SOCR. Ma il numero di ciascuna cosa è forse altro [e] che le sue parti? TEET. Niente altro. SOCR. Ora, tutte le cose che hanno parti, saranno costituite di parti, non è vero? SOCR. Ma tutte le parti di una cosa siamo già d’accordo che sono tutta la cosa, se è vero che anche tutto il numero è tutta la cosa. TEET. Sì. SOCR. Ma allora l’intero non è costituito di parti, perché sarebbe un tutto se fosse tutte le parti. TEET. Non pare. SOCR. Ma parte può ella essere quello che è, cioè parte, di altra cosa [205a] dell’intiero? TEET. Sì, del tutto. SOCR. Assai bene ti difendi, o Teeteto: ma dimmi, il tutto non è appunto questo, cioè tutto, quando niente gli manca? TEET. Necessariamente. SOCR. E non è anche intiero questo medesimo, a cui niente da nessun lato faccia difetto? Quello invece a cui qualche cosa faccia difetto non sarà né intiero né tutto, essendo tutt’e due insieme la stessa cosa per la stessa ragione. TEET. Mi pare ora che non ci sia nessuna differenza fra tutto e intiero. SOCR. Ebbene, non dicevamo noi che quando una cosa è costituita da parti, l’intiero e il tutto sono tutte codeste parti? TEET. Precisamente. SOCR. E allora, per tornare al punto che tentai di chiarire poco fa, ci si presentano questi due casi: o la sillaba non [b] è lo stesso che le lettere, e necessariamente ella non ha le lettere come sue parti; o è lo stesso che le lettere, e necessariamente sillaba e lettere devono essere conoscibili allo stesso modo. TEET. E’ così. SOCR. Ma non fu appunto per evitare questo che noi supponemmo la sillaba cosa diversa dalle lettere? TEET. Sì. SOCR. Ebbene, se le lettere non sono parti della sillaba, mi sai tu dire altre cose le quali siano parti della sillaba ma non siano le lettere? TEET. In nessun modo, o Socrate: perché se io concedessi che della sillaba ci sono parti, sarebbe ridicolo buttassi via le lettere per ricorrere ad altro. SOCR. Co-[c] sicché, o Teeteto, secondo quello che ora dici, la sillaba sarà semplicemente una specie di idea unica indivisibile. TEET. Pare. SOCR. Ti ricordi, o amico, che nel discorso di poco fa noi accettammo, e ritenemmo anzi fosse detto bene, che dei primi elementi - quelli, dico, di cui sono composte le altre cose - non si può dar ragione perché ognuno di essi preso in sé e per sé è incomposto; e che quindi non è giusto, nominandoli, nemmeno aggiunger loro predicati come ‘essere’, ‘questo’, e simili, in quanto sono determinazioni diverse ed estranee; e che appunto questa è la causa che rende ciascuno di codesti elementi irrazionale e inconoscibile? TEET. Sì, mi ricordo. SOCR. [d] E non è anche questa la causa del loro esser semplici e indivisibili? Io non ne vedo altra. TEET. Non pare ci sia infatti. SOCR. O allora, non c’è venuta a cadere anche la sillaba nella stessa specie di ciascuno di quei primi elementi, se è vero che non ha parti ed è unica idea? TEET. Proprio così. SOCR. Se dunque la sillaba è un nesso di più lettere ed è un intiero, e codeste lettere sono parti di essa sillaba; ne consegue che anche le lettere come le sillabe sono conoscibili ed enunciabili, dal momento che tutte le parti s’è dimostrato essere la stessa cosa dell’intiero. [e] TERT. Precisamente. SOCR. Se poi la sillaba è un che unico e senza parti, anche la sillaba sarà allo stesso modo della lettera irrazionale e inconoscibile, perché la stessa causa farà irrazionali e inconoscibili ambedue. TEET. Non potrei dire diversamente. SOCR. Dunque non possiamo consentire all’opinione di coloro i quali dicono che la sillaba è conoscibile ed enunciabile, e la lettera no. TEET. Certo non possiamo, se si ha fede nel nostro ragionamento. [206a] SOCR. Ma allora non consentirai piuttosto alla opinione di chi dice il contrario, dopo quello che tu stesso hai sperimentato in te nell’apprendimento delle lettere? TEET. Quale esperimento? SOCR. Questo, che tu, nell’apprendere codeste lettere, non hai fatto altro continuamente che esercitarti a distinguerle ciascuna per sé, sia con la vista sia con l’udito, in modo che la posizione loro, nella pronuncia o nella scrittura, non ti confondesse. TEET. E verissimo questo che dici. SOCR. E aver appreso perfettamente l’arte del citarista che altro significa se non essere [b] in grado di seguire ogni suono e distinguere di che corda è? E codesti suoni, tutti sono d’accordo che si dicono appunto l’alfabeto della musica. TEET. Niente altro che questo. SOCR. Se dunque dobbiamo, da questi elementi e nessi dei quali abbiamo esperienza noi stessi, argomentare anche per gli altri, diremo che gli elementi hanno una conoscibilità molto più evidente dei nessi, e molto più efficace e propria relativamente al compiuto apprendimento di ogni singola disciplina; e se uno ci dica che il nesso è per sua natura conoscibile, e l’elemento è inconoscibile, noi riterremo che colui o vuole scherzare o dice cosa senza senso. TEET. Non c’è dubbio.

[c] XLII. SOCR. Di ciò in verità altre dimostrazioni ancora, se non mi sbaglio, si potrebbero dare; ma non voglio che per codesto ci sfugga di mente quello che c’eravamo proposto, di esaminare che cosa si vuol intendere quando si afferma che ragione aggiunta a opinione vera è la più perfetta forma di conoscenza. TEET. Sì, bisogna esaminare questo. SOCR. O via, chi dice così che cosa vuol significhi la parola ‘ragione’? A me pare una di queste tre cose. TEET. Quali? SOCR. La prima sarebbe questa: [d] manifestare il proprio pensiero, mediante la voce, con verbi e nomi, effigiando nelle parole che fluiscono dalle labbra, come in acqua o specchio, l’immagine dell’opinione. Non ti pare che ragione sia qualche cosa di simile? TEET. Mi pare. Certo chi fa codesto diciamo che ragiona. SOCR. Però codesto, cioè significar con parole che opinione ha uno di una data cosa, chiunque, più o meno prontamente, se non è muto e sordo di natura, è capace di farlo. E, in questo senso, tutti coloro che hanno una giusta opinione, [e] è evidente che tutti quanti l’avranno accompagnata da ragione; e quindi non ci sarà mai giusta opinione scompagnata da conoscenza. TEET. E’ vero. SOCR. Ma non dobbiamo accusare troppo facilmente di aver detto cosa senza senso chi definisce conoscenza nel modo che stiamo ora esaminando; perché forse, dicendo così, colui non intendeva dir questo, bensì che una persona, quando sia interrogata sopra una data cosa, è capace di rispondere a chi la [207a] interroga rendendo conto della cosa per mezzo degli elementi che la compongono. TEET. Per esempio, che cosa vuoi dire, Socrate? SOCR. Per esempio, questo, che anche Esiodo, parlando del carro, dice "i cento pezzi del carro". I quali io non saprei enumerare, e, credo, neanche tu; ma comunque saremmo contenti, a chi ci domandasse che cosa è carro, di poter rispondere ruote, asse, cielo, cerchi, timone. TEET. Benissimo. SOCR. Se non che, probabilmente, colui ci reputerebbe gente ridicola rispondendo solo così; come infatti saremmo se, interrogati sul [b] tuo nome e rispondendo, sillaba per sillaba, mostrassimo, sì, col renderne conto come facciamo, di averne giusta opinione, ma anche ci reputassimo grammatici e capaci di possedere e significare secondo grammatica la ragione del nome di Teeteto: mentre invece non è possibile che dica cosa veruna a norme di conoscenza chi prima non sia penetrato a fondo di ciascuna cosa, insieme con vera opinione, attraverso gli elementi che la compongono; che è quel che già dicemmo precedentemente. TEET. Dicemmo così infatti. SOCR. E così anche del carro noi possiamo, sì, aver giusta opinione; ma solo chi riesca, scorrendo per [c] quei suoi cento pezzi, a definirne l’essenza, solo colui alla opinione vera avrà aggiunta, con codesto, anche la ragione; e della natura del carro, anziché una mera opinione, avrà insieme scienza e conoscenza, essendo penetrato fin dentro al tutto attraverso gli elementi. TEET. E non ti pare sia detto bene, o Socrate? SOCR. E a te pare ben detto, o amico? ammetti tu che la esposizione di ciascuna cosa per mezzo dei suoi elementi sia ragione, e quella fatta per nessi o per aggruppumenti anche maggiori sia [d] senza ragione? Questo dimmi, e questo punto vogliamo esaminare. TEET. Ma sì, io lo ammetto pienamente. SOCR. Forse dici questo reputando che taluno abbia conoscenza di qualche cosa allorché creda, per esempio, che lo stesso elemento ora appartenga alla stessa cosa ora a un’altra; o anche quando alla stessa cosa ora creda appartenga un elemento ora un altro? TEET. Niente affatto. SOCR. Ma allora non ti ricordi, quando incominciasti a imparare le lettere dell’alfabeto, che tu e gli altri facevate precisamente così? TEET. Tu vuoi dire che, della stessa sillaba, ora credevamo che la lettera fosse questa, [e] ora quella; o anche che, la stessa lettera, ora la univamo alla sillaba cui spettava, ora a un’altra? SOCR. Questo dico. TEET. Non me ne sono dimenticato affatto; e sono ben lontano dal credere che abbiano conoscenza coloro che si trovano in questa condizione. SOCR. O allora? Quando in quel primo tempo che s’impara a scrivere, scrivendo uno il nome Theeteto, creda di dover scrivere Th e e, e così [208a] scriva; e provandosi poi a scrivere il nome Theodoro creda di dover scrivere T e e, e così scriva: ebbene, diremo che colui ha conoscenza della prima sillaba dei vostri due nomi? TEET. Ma dicevamo pure or ora d’accordo che chi fa codesto non ha conoscenza. SOCR. E niente impedisce che anche rispetto alla seconda sillaba e alla terza e alla quarta la stessa persona sia senza conoscenza. TEET. No, niente. SOCR. E non è chiaro che allora colui, quando scriva per ordine il nome Theeteto, lo scriverà possedendone, oltre che retta opinione, anche tutti gli elementi che lo compongono, uno dopo l’altro? TEET. E’ chiaro. SOCR. [b] E tuttavia non ne ha conoscenza, ma solo retta opinione, come stiamo dicendo. TEET. Sì. SOCR. E ne ha la ragione insieme con retta opinione; perché lo scrisse possedendone tutti gli elementi in fila, che è ciò appunto che convenimmo di chiamare ragione. TEET. Vero. SOCR. C’è dunque, o amico, una retta opinione accompagnata da ragione, la quale non si deve ancora chiamar conoscenza. TEET. Pare.

XLIII. SOCR. Cosicché fu sogno, evidentemente, la nostra ricchezza, quando credemmo di aver in mano la più sicura ragione di conoscenza. O vuoi che non la condanniamo ancora? Ché forse non in questo modo colui avrà [c] voluto definire la parola ‘ragione’, bensì nell’altro che tuttavia rimane dei tre; noi dicemmo che certo in uno di codesti tre avrebbe posto il senso della parola ‘ragione’ chi definì conoscenza essere giusta opinione accompagnata da ragione. TEET. Hai fatto bene a ricordarmelo: di fatti ne rimane ancora uno. Il primo era come chi dicesse un’immagine del pensiero nella voce; il secondo, che abbiamo esaminato dianzi, era un giungere fino all’intiero percorrendo tutta la serie degli elementi; e ora il terzo quale è? SOCR. Quello che diranno i più: poter indicare un segno onde la cosa di cui si domanda differisce da tutte le altre. TEET. Per esempio, quale ragione, e di che cosa, mi puoi dire? [d] SOCR. Per esempio, se ti piace, del sole: credo basti, per avere il tuo assenso, dire del sole che è il più risplendente di tutti i corpi celesti che girano intorno alla terra. TEET. Sta bene. SOCR. Vedi ora perché diciamo così; e il perché è quello che dicevamo or ora: che cioè, se tu colga di una data cosa quel tale segno distintivo ond’ella si distingue dalle altre, tu coglierai, come dicono, la ragione di codesta cosa; qualora invece tu ne colga soltanto una qualità comune, avrai la ragione di quelle cose a cui codesta qualità [e] comune appartiene. TEET. Capisco; e mi pare sia giusto intendere la parola ‘ragione’ in tale modo. SOCR. E così colui che, già avendo di una qualunque delle cose che esistono retta opinione, ne colga inoltre quel segno onde si distingue dalle altre, egli verrà ad avere di codesta cosa anche la conoscenza, mentre prima non ne aveva che l’opinione. TEET. Diciamo proprio così. SOCR. Se non che, caro Teeteto, ora che mi sono avvicinato un po’ di più a quel che stiamo dicendo, come chi si avvicina a uno scenario dipinto, non ne capisco più niente del tutto; mentre, finché ne stavo discosto, qualche cosa mi pareva pure che si dicesse. TEET. O come, perché questo? [209a] SOCR. Te lo dirò, se ci riesco: per esempio, io ho di te retta opinione; se anche io colga di te la ragione, allora ti conosco; se no, ti opino soltanto. TEET. Sì. SOCR. E ragione, dicevamo, significa interpretazione della tua differenza. TEET. Appunto. SOCR. Ebbene, quando di te opinavo soltanto, che forse coglievo in te, col pensiero, alcuno di quei segni distintivi onde tu ti distingui dagli altri? TEET. Non parrebbe. SOCR. Dunque pensavo di te qualche cosa di comune che non è più proprio di te che [b] di chiunque altro. TEET. E’ naturale. SOCR. Ma dimmi allora, come facevo mai io, in codesto caso, a opinare di te piuttosto che di un altro qualsiasi? Supponi ch’io pensi qui di Teeteto in questo modo, che è uomo, che ha naso e occhi e bocca, e così via, un per uno, tutte le altre membra: orbene, questo pensiero è mai possibile faccia sì ch’io pensi piuttosto a Teeteto che a Teodoro, o all’ultimo, come si dice, dei Misi? TEET. Non è possibile. SOCR. E ancora; se io penso di uno che, come te, non solo abbia [c] naso e occhi, ma anche sia rincagnato di naso e con gli occhi in fuori, che forse per codesto dovrò io opinare te piuttosto che me o un altro dei tanti che assomigliano a me e a te? TEET. No. SOCR. Ma pure, credo, la opinione che io ho di Teeteto non sarà formata in me prima che questa tua rincagnatura di naso non abbia lasciato nella mia memoria imprimendovici, un suo segno particolare che la differenzia da tutte le altre rincagnature che ho vedute; e così dico di tutti gli altri segni di cui il tuo aspetto risulta; e sarà questo o quello che desterà in me, anche se t’incontro domani, il ricordo della tua persona e farà ch’io abbia di te giusta opinione. TEET. Verissimo. SOCR. Cosicché [d] anche la retta opinione risale per ciascuna cosa alla differenza. TEET. Pare. SOCR. E allora questo aggiunger ragione alla retta opinione che cosa significa in più? perché, se significa dover tuttavia opinare in che si differenzia una cosa dalle altre, la proposta è sommamente ridicola. TEET. Come? SOCR. Perché alla retta opinione che noi già abbiamo della differenza onde si distinguono certe cose dalle altre, ci comanda di aggiungere tuttavia retta opinione della differenza onde queste medesime cose si distinguono dalle altre. E così, rivoltare, come dicono, una bacchetta o un pestello o altra cosa rotonda da un lato o [e] dall’altro, sarebbe sempre poco o nulla di fronte a una proposta come codesta. La quale sarà più giusto chiamarla il comando di un cieco; e in verità comandarci di aggiungere tuttavia quello che già abbiamo perché s’impari quello che già opiniamo, è cosa in tutto degna realmente di un uomo accecato. TEET. Dimmi ora, che cosa volevi sapere dianzi quando mi domandavi... SOCR. Questo, che, se cogliere di una cosa anche la ragione vuoi dire conoscere e non già solo opinare, la differenza di detta cosa, allora, caro figliolo, sarebbe una meraviglia, perché avremmo scoperto la più bella tra le ragioni di conoscenza: infatti conoscere, [210a] mi pare, è cogliere conoscenza; non è così? TEET. Sì. SOCR. E allora colui, naturalmente, interrogato che cosa è conoscenza, risponderà che è retta opinione con conoscenza di differenza; perché aggiunta di ragione vorrebbe dir proprio questo, chi segua l’interpretazione sua. TEET. Così pare. SOCR. E sarebbe risposta quanto mai stolidissima, perché ci verrebbe a dire, mentre noi stiamo cercando che cosa è conoscenza, che conoscenza è retta opinione con conoscenza sia pur con conoscenza di differenza o di che altro vuoi. Cosicché, o Teeteto, né sensazione, né opinione [b] vera, né ragione accoppiata con vera opinione, potranno mai essere conoscenza. TEET. No, è chiaro. SOCR. Ebbene, amico, dimmi, siamo noi ancora gravidi di qualche cosa intorno alla conoscenza, e con le doglie del parto; oppure tutto quel che s’aveva in noi lo abbiamo partorito? TEET. Io t’assicuro che per l’aiuto tuo assai più cose ho dette che non ne avessi dentro di me. SOCR. Ma tutte queste cose non ho io mostrato con l’arte mia di ostetrico che sono vuote e vane, e che non vale la pena di allevarle? TEET. Proprio così.

XLIV. SOCR. Quando dunque tu voglia, o Teeteto, dopo [c] di queste, divenir gravido di altre meditazioni: se ci riuscirai, sarai pieno, in virtù della presente ricerca, di meditazioni migliori; se rimarrai vuoto e sterile, sarai men pesante a chi è teco e più mansueto, ché allora non crederai, nella tua saggezza, di conoscere quello che non conosci. Di questo soltanto è capace la mia arte, niente di più; né io so cosa alcuna di quelle che sanno gli altri, quanti mai sono e furono uomini grandi e meravigliosi. Quest’arte ostetricia anch’io l’ebbi, come mia madre, in dono da un dio; per aiuto alle donne ella, io per aiuto degli uomini, quanti [d] sono come te giovani e nobili e belli. E ora mi bisogna andare al portico del Re per rispondere all’accusa che contro di me ha scritta Melèto; ritroviamoci qui di nuovo domattina, o Teodoro.