Cefalo racconta come, in compagnia di altri filosofi di Clazomene, incontrasse una volta in Atene Adimanto e Glaucone e come chiedesse loro di accompagnarlo da Antifonte, per farsi raccontare la discussione tra Socrate, Parmenide e Zenone, che Antifonte stesso aveva appreso dalle parole di Pitodoro. Il racconto di Antifonte: in occasione delle Grandi Panatenee, Parmenide, già vecchio, e Zenone, sulla quarantina, erano venuti ad Atene. In casa di Pitodoro Zenone, alla presenza di molti, tra cui anche Socrate - allora molto giovane - legge il suo libro (I 126a-127d). Al termine Socrate si fa rileggere da Zenone la prima ipotesi del suo libro: se le cose sono molte esse sono nello stesso tempo simili e dissimili, il che è assurdo. Socrate nota una consonanza tra le tesi di Parmenide e di Zenone, che questi - con alcune rettifiche conferma (II 127d-128e). Obbiezione di Socrate: l'antinomia di Zenone è risolubile mediante la dottrina delle idee e della partecipazione ad esse delle cose; sarebbe invece insolubile se si dimostrasse che la stessa idea del simile è dissimile e quella del dissimile simile (III 128e-130a). Obbiezione generale di Parmenide: esistono veramente idee per ciascuna delle cose sensibili? Per alcune Socrate è certo che esistono, per altre è dubbioso, per altre è certo che non esistano (IV 130a-e). Prima difficoltà della dottrina della partecipazione delle cose alle idee: la cosa partecipa di tutta l'idea o di una sua parte? Assurdità di entrambe le ipotesi. Seconda difficoltà: il cosiddetto "argomento del terzo uomo" (V 130e-132b). Terza difficoltà: le idee non possono essere intese come pensieri. Quarta difficoltà: le idee non possono essere intese come modelli. Quinta e maggiore difficoltà: le idee e le cose sarebbero su due piani paralleli e fra loro non comunicanti (VI 132b-134a). Le idee sarebbero pertanto del tutto inconoscibili per l'uomo e le cose sensibili sarebbero del tutto inconoscibili per la divinità. Assurdità di queste conclusioni; non meno assurda è però la tesi di chi volesse negare le idee (VII 134a-135c). Necessità di una rigorosa analisi dialettica, condotta secondo il metodo per ipotesi: fatta, cioè, una ipotesi, vedere non soltanto le conseguenze che derivano dalla sua affermazione, ma anche quelle che derivano dalla sua negazione, sia rispetto a se stessa sia rispetto agli altri elementi della realtà, presi per sé e presi in relazione tra loro. Parmenide è invitato a fornire una prova (VIII 135c-136e). Preliminari a questa prova (IX 136e-137c). Prima ipotesi: "se l'uno è uno". Se l'uno è uno, esso non avrà parte né sarà, in conseguenza, un tutto. Se l'uno è uno, esso non avrà né principio, né mezzo, né fine; esso sarà senza figura; esso non sarà in alcun luogo (X 137c-138b). Se l'uno è uno, esso non si muove né modificandosi né spostandosi; e neppure sta fermo; se l'uno è uno, esso non è identico né a se stesso né ad altri; e neppure diverso da se stesso o da altro; se l'uno è uno, esso non è simile né dissimile, né rispetto a se stesso né rispetto ad altro; se l'uno è uno, esso non è uguale né disuguale, né a se stesso né ad altro; e neppure più grande o più piccolo (XI 138b-140d). Se l'uno è uno, esso non può essere più vecchio né più giovane né coetaneo di se stesso o di altro. Esso non partecipa perciò del tempo e non potendosi dire che esso "è" o "sarà" o "era", di esso non si potrà dare né nome né ragione, né sarà possibile averne opinione o scienza: conclusione del tutto negativa (XII 140d-142a). Seconda ipotesi: "se l'uno è". Se l'uno è, esso partecipa dell'essere ed è pertanto un tutto ed ha parti (l'uno e ciò che è): dualità all'infinito dell'"uno che è". Da questa dualità può essere dedotta tutta la serie numerica (XIII 142b-144a). Se l'uno è, esso è molteplice, non solo rispetto alle cose che ne partecipano, ma anche rispetto a se stesso (XIV 144b-c). Se l'uno è, esso è uno e molti, tutto e parti, limitato, finito; esso avrà pertanto principio, mezzo e fine; avrà anche figura; sarà sia in se stesso che in altro da sé; si muoverà e starà fermo, sarà identico e diverso, sia rispetto a se stesso, sia rispetto ad altro (XV 144e-146d). Oltre che identico e diverso, esso sarà anche simile e dissimile sia rispetto a se stesso sia rispetto alle altre cose (XVI 146d-148a). Esso sarà inoltre in contatto e distacco da sé e da altro (XVII 148a-149d). Esso, ancora, sarà eguale e disuguale, sia rispetto a se stesso sia rispetto alle altre cose (XVIII 149d-151e). Esso, infine, parteciperà del tempo e sarà più vecchio, più giovane e coetaneo, sia rispetto a se stesso sia rispetto ad altro (XIX 151e153b). Continua la dimostrazione di questo punto. Conclusione del tutto positiva: se l'uno è, di esso si potrà dare nome e ragione e sarà possibile averne opinione e scienza (XX 153b-155e). Terza ipotesi: se "l'uno è e non è". Analisi del problema del cambiamento e del divenire: natura dell'"istante" (XXI 155e-157b). Quarta ipotesi: "se l'uno è, cosa ne consegue per le altre cose?". Se le altre cose partecipano dell'uno che è (della seconda ipotesi), esse parteciperanno anche di tutte le altre determinazioni che nella seconda ipotesi si sono viste spettare all'uno (XXII 157b-159a). Quinta ipotesi: "se l'uno è, cosa ne consegue per le altre cose?". Se le altre cose non partecipano dell'uno che è (della seconda ipotesi), esse non parteciperanno neppure di tutte le altre determinazioni che nella seconda ipotesi si sono viste spettare all'uno (XXIII 159a-160b). Sesta ipotesi: "se l'uno non è". In questo caso il non essere è solo relativo (non è qualcosa) ed esso quindi non esclude una molteplicità di partecipazioni. Esso è dissimile rispetto alle altre cose, ma simile a se stesso; esso è disuguale rispetto alle altre cose, ma uguale a se stesso; partecipa dell'essere, del movimento, della stasi e del divenire (XXIV 160b-163b). Settima ipotesi: "se l'uno non è". In questo caso il non essere è assoluto, e allora esso non avrà alcuna determinazione; su di esso non sarà possibile alcun discorso né se ne potrà avere opinione o scienza (XXV 163b-164b). Ottava ipotesi: "se l'uno non è, cosa ne consegue per le altre cose?". Se le altre cose non partecipano dell'uno, la cui realtà è negata, ad esse spetteranno solo apparentemente tutte quelle determinazioni che spettano all'uno, che è. Contraddittorietà della molteplicità pura (XXVI 164b-165d). Nona ipotesi: "se l'uno non è, cosa ne consegue per le altre cose?". Se le altre cose partecipano dell'uno, la cui realtà è negata, la conclusione è radicalmente negativa. Conclusione generale: sia che l'uno sia, sia che non sia, esso stesso e gli altri rispetto a se stessi e reciprocamente tra loro, sono tutto e non lo sono (XXVII 165d-166c).
[126a] I. Al nostro arrivo ad Atene da casa nostra, Clazomene, c'imbattemmo sulla piazza del mercato in Adimanto e Glaucone. E Adimanto, presami la mano: - Salve, Cefalo, disse, se hai bisogno di qualche cosa qui che rientri nelle nostre possibilità, dillo.
- Anzi, dissi io, sono qui proprio per questo, per rivolgervi una preghiera.
- Pronuncia pure questa preghiera, disse.
Ed io dissi: - Che nome aveva vostro fratello per parte di [b] madre? Non me lo ricordo, infatti. Non era che un bambino, quando venni qui per la prima volta da Clazomene; e da allora è passato ormai molto tempo. Il nome del padre, mi pare, era Pirilampe.
- Precisamente, disse.
- E il suo?
- Antifonte. Ma che cosa vuoi sapere in particolare?
- Costoro qui presenti, dissi io, sono miei concittadini, dei veri e propri filosofi, e hanno sentito dire che questo Antifonte ha avuto numerosi incontri con un certo Pitodoro, [c] un compagno di Zenone, e conosce a memoria, per averli uditi spesso da Pitodoro, i discorsi che una volta si scambiarono Socrate, Zenone e Parmenide.
- E' vero quello che dici, disse.
- Sono proprio questi discorsi, dissi, che desideriamo ascoltare.
- Ma non è difficile, disse, perché quando era ragazzo si era impegnato a fondo ad impararli; mentre ora sulle orme del nonno, suo omonimo, passa la maggior parte del tempo ad occuparsi d'ippica. Ma se occorre, andiamo da lui. Infatti se n'è appena andato di qui a casa, ma abita qui vicino, a Melite.
Scambiate queste parole, c'incamminammo e trovammo [127a] Antifonte a casa, mentre stava affidando a un fabbro un morso da aggiustare. Appena se ne fu liberato, i fratelli gli dissero lo scopo della nostra visita ed egli mi riconobbe fin dal tempo del mio primo soggiorno e mi fece una buona accoglienza. E quando lo pregammo di riferirci quei discorsi, dapprima fu riluttante - perché diceva che era un'impresa non piccola - ma poi ne fece un'esposizione completa. Disse dunque Antifonte che Pitodoro aveva raccontato che una volta alle Grandi Panatenee erano arrivati Zenone e Parmenide. Parmenide era già molto vecchio e assai canuto, ma bello [b] e nobile d'aspetto, all'incirca sui sessantacinque anni. Zenone invece era allora vicino ai quaranta, di notevole statura e gradevole a vedersi, e si diceva che fosse stato l'amante di Parmenide. Raccontava che erano alloggiati da Pitodoro, fuori delle mura, nel Ceramico, e lì appunto erano giunti anche [c] Socrate e numerosi altri con lui, desiderosi di sentir leggere gli scritti di Zenone, che allora infatti per la prima volta erano portati qui da loro. Socrate era allora molto giovane. Fu lo stesso Zenone a darne loro lettura, mentre Parmenide si trovava fuori. E rimaneva ancora ben poco da leggere dei [d] discorsi, quando egli stesso, raccontava Pitodoro, sopraggiunse da fuori e con lui Parmenide e Aristotele, quello che divenne uno dei Trenta, e riuscirono ancora ad ascoltare poche parole degli scritti, ma non certo lui, che anzi già in precedenza ne aveva sentita la lettura da Zenone.
II. Socrate, dunque, dopo aver ascoltato, pregò che fosse nuovamente letta la prima ipotesi del primo argomento e, dopo che fu riletta, disse: - Che intendi dire con questo, Zenone? [e] Che se gli enti sono molti, essi devono essere simili e dissimili, ma questo è appunto impossibile, perché né i dissimili possono essere simili né i simili dissimili? Non è questo che intendi dire?
- Questo, rispose Zenone.
- Se dunque è impossibile che i dissimili siano simili e i simili dissimili, è anche impossible che gli enti siano molti? Infatti se fossero molti, subirebbero ciò che è impossibile. E' forse questo che vogliono le tue argomentazioni, nient'altro che sostenere, contro tutto ciò che si dice comunemente, che i molti non sono? Ed è proprio di questo che tu credi che ciascuno dei tuoi argomentì sia una prova, al punto da ritenere anche che quante siano le argomentazioni che hai scritto, altrettante siano le prove da te fornite che i molti non sono? E' questo che [128a] intendi dire o sono io che non capisco correttamente?
- No, anzi, rispose Zenone, hai afferrato perfettamente l'intento dell'intero mio scritto.
- Capisco, Parmenide, disse Socrate, che Zenone qui vuole esser legato da affinità non solo alla tua amicizia per il resto, ma anche al tuo scritto. In certo modo, infatti, egli ha scritto la stessa cosa che hai scritto tu, ma con una modificazione tenta di farci credere che sta dicendo qualcosa di diverso. Tu affermi, infatti, nel tuo poema che il tutto è uno e ne fornisci prove ottime ed eccellenti. Egli invece afferma [b] dal canto suo che i molti non sono e fornisce anch'eglí prove numerosissime e amplissime. Ora, che uno affermi l'unità e l'altro invece neghi la molteplicità e che ciascuno dei due parli in modo da produrre l'apparenza di non dire nulla di identico, mentre praticamente dite le stesse cose, mi dà l'impressione che i vostri discorsi siano pronunciati per passare sopra noi altri.
-Sì, Socrate, rispose Zenone. Ma tu allora non ti sei reso completamente conto della vera natura del mio scritto. Eppure, come le cagne della Laconia, tu sei bravo a inseguire [c] la pista delle cose dette. Ma è questo che ti sfugge in primo luogo: che il mio scritto non ha assolutamente la presunzione di essere scritto con l'intento che tu dici, in modo da occultarlo agli uomini, come se fosse così portata a termine una grande impresa. Anzi tu parli di qualcosa di accidentale, mentre questi miei scritti sono in verità un ausilío al discorso di Parmenide contro coloro che cercano di porlo in commedia mostrando che, se l'uno è, il discorso viene a subire [d] molte conseguenze ridicole e contrarie ad esso. Questo mio scritto muove appunto obbiezioni contro quelli che affermano la molteplicità e li ricambia della stessa moneta e ancor più, perché vuole mostrare questo: che la loro ipotesi, se i molti sono, verrebbe a subire conseguenze ancora più ridicole dell'ipotesi che l'uno è, se la si svolge in maniera adeguata. E' per tale amore di vittoria che io lo scrissi quand'ero ancora giovane e un tale me ne sottrasse la stesura scritta, sicché non mi fu neppure concesso di decidere se dovesse essere dato alla [e] luce oppure no. In questo, dunque, ti sbagli, Socrate, nel credere che esso sia stato scritto non dal desiderio di vittoria di un giovane, ma dall'ambizíone di un uomo più anziano; poiché, per il resto, come ho appunto detto, non l'hai presentato male.
III. - Lo ammetto, disse Socrate, e ritengo che stia come dici tu. Ma dimmi questo: non credi che esista in sé e per sé [129a] una certa idea di somiglianza e, a sua volta, contraria a questa un'altra, che è il dissimile, e che di queste, che sono due, partecipiamo io e tu e le altre cose che chiamiamo appunto "molti"? E che le cose che partecipano della somiglianza per opera di essa diventano simili e nella misura esatta in cui ne partecipano e quelle che invece partecipano della dissomiglianza dissimili, mentre quelle che partecipano di entrarnbe diventano l'uno e l'altro? E se anche tutte le cose partecipano di entrambe, che sono contrarie, e per il fatto di partecipare di entrambe, sono simili e dissimili a se stesse, che c'è da meravigliarsi? Infatti se uno riuscisse a [b] dimostrare che i simili in sé diventano dissimili o i dissimili simili, si avrebbe un prodigio, credo; ma se dimostra che le cose che partecipano di entrambe risultano affette da entrambe, non mi pare affatto assurdo, Zenone, e neppure se dimostra che tutte le cose sono uno in quanto partecipano dell'uno e che queste stesse cose sono molte in quanto partecipano, d'altro canto, della molteplicità. Se invece dimostrerà che ciò che è uno, questo stesso in sé è molti e, viceversa, i molti uno, di questo allora mi stupirò. E analogamente per tutto il [c] resto: se uno mostrasse che i generi e le idee stesse subiscono in se stesse queste affezioni contrarie, varrebbe la pena di meravigliarsi; ma se di me dimostrerà che sono uno e molti, che ci sarà da meravigliarsi, se egli, quando voglia mostrare che sono molti, dirà che altro è il mio lato destro e altro il mio lato sinistro, altra la mia parte anteriore e altra la mia posteriore e allo stesso modo l'alto e il basso - partecipo infatti della molteplicità, credo - e quando invece voglia mostrare che sono uno, dirà che di noi che siamo sette uomini io [d] sono uno, in quanto partecipo anche dell'uno; sicché egli dimostra che entrambe le asserzioni sono vere. Se dunque a proposito di cose del genere, pietre e legni e cose simili uno tenta di dimostrare che lo stesso oggetto è uno e molti, diremo che egli dimostra che qualcosa è molti e uno, ma non che l'uno è molti né i molti uno, né dice nulla di stupefacente, anzi cose che tutti possiamo ammettere. Se uno invece, a proposito delle cose che dicevo poco fa, in primo luogo divide le idee in sé e per sé separandole l'una dall'altra, come per esempio somiglianza e dissomiglianza, molteplicità e unità, quiete e moto e tutte le altre di questo genere, e poi mostri [e] che tra loro stesse queste idee hanno la possibilità di mescolarsi e separarsi, allora sarei straordinariamente lieto, Zenone, disse. Ritengo che questi argomenti tu li abbia trattati con grande vigore; tuttavia, come dico, sarei molto più lieto a questo punto, se qualcuno fosse in grado di mostrare che questa stessa difficoltà è implicata, in modi svariati, nelle idee stesse, cioè negli oggetti che si colgono col ragionamento, [130a] così come voi avete mostrato che lo è negli oggetti che vediamo.
IV. Pitodoro raccontava che, mentre Socrate diceva queste cose, egli credeva che ad ogni parola Parmenide e Zenone si sarebbero seccati; essi invece gli prestavano grande attenzíone e spesso scambiandosi occhiate reciproche sorridevano come ammirati di Socrate. E ciò appunto, non appena egli ebbe finito, fu espresso da Parmenide: - Socrate, disse, quanto sei degno di ammirazione per lo slancio che metti nella [b] discussione. Ma dimmi: sei stato tu a dividere nel modo che dici, separando da una parte certe idee in sé e dall'altra invece le cose che ne partecipano? E ti pare che sia qualcosa la somiglianza in sé separatamente dalla somiglianza che abbiamo noi, e così l'uno e i molti e tutto quanto hai udito poco fa da Zenone?
- A me almeno sì, rispose Socrate.
- Ed anche cose di questo genere, disse Parmenide, come per esempio una certa idea in sé e per sé del giusto e del bello e del buono e di ogni altra di questo genere?
- Sì, rispose.
- E un'idea di uomo, separatamente da noi e da tutti [c] quelli quali noi siamo, una certa idea in sé di uomo o di fuoco o anche di acqua?
- Su queste, Parmenide, rispose, mi sono trovato spesso in difficoltà, se occorra dire come per le altre oppure diversamente.
- Ed anche a proposito di queste qui, Socrate, che potrebbero sembrare ridicole, come capello e fango e sporcizia o altro di assai spregiato e da poco, ti trovi in difficoltà se sia necessario o meno affermare che anche di ciascuna di queste [d] cose esista separatamente un'idea, che sia da parte sua altra rispetto alle cose che noi afferriamo con le maní?
- Niente affatto, rispose Socrate, anzi queste cose che appunto vediamo, tali anche sono: credere che esista una qualche idea di esse, temo che sarebbe troppo assurdo. Già altre volte tuttavia mi ha turbato il pensiero che non sia lo stesso a proposito di tutte le cose; quando poi mi soffermo su questo punto, ne scappo via di corsa, per timore di precipitare in un abisso di sciocchezze e perdermi. Allora mi dirigo là, verso quegli oggetti che poco fa dicevamo che hanno idee e trascorro il tempo occupandomi di essi.
- Infatti sei ancora giovane, Socrate, disse Parmenide, e [e] la filosofia non ti ha ancora preso come un giorno, a mio avviso, ti prenderà, quando non disprezzerai nessuna di tali cose; ora invece a causa della tua età hai ancora riguardo per le opinioni degli uomini.
V. Ma dimmi questo: tu sei del parere, come dici, che esistano certe idee, di cui queste altre cose qui partecipandone posseggono le denominazioni? Per esempio, partecipando di somiglianza, diventano simili, di grandezza grandi, di bellezza [131a] e di giustizia belle e giuste?
- Certo, rispose Socrate.
- Ora, ciascun oggetto che partecipa partecipa dell'intera idea o di una parte? O sarebbe possibile qualche altro modo di partecipare al di fuori di questi?
- E come potrebbe?, disse.
- Ti pare dunque che l'intera idea, che è una, sia in ciascuno dei molti oggetti o come?
- E che cosa l'impedisce, Parmenide?, rispose Socrate.
- Allora, pur essendo una e identica, sarà al tempo stesso [b] insita nella sua interezza in molti oggetti che sono separati e così essa stessa verrà ad essere separata da se stessa.
- No, rispose, se come il giorno, che è uno e identico, è al tempo stesso in molti luoghi, senza per questo essere separato da se stesso, se è appunto così che anche ciascuna delle idee viene ad essere al ternpo stesso una e identica in tutti gli oggetti.
- Un modo piacevole il tuo, Socrate, disse, di far sì che un'unica identica cosa sia contemporaneamente in molti luoghi; come se, dopo aver ricoperto con un velo molti uomini, dicessi che uno e intero è su molti. O non è una cosa del genere che ritieni di dire?
- Forse, rispose. [c]
- Il velo allora sarà intero su ciascuno o una parte di esso su uno e un'altra su un altro?
- Una parte.
- Allora, Socrate, disse, sono divisibili in parti le idee stesse e gli oggetti che ne partecipano parteciperanno di una parte di esse e in ciascun oggetto sarà non più intera, ma una parte di ciascuna.
- Così pare, almeno.
- Consentirai dunque a dire, Socrate, che l'idea unitaria si divide per noi veramente in parti e sarà ancora una?
- In nessun modo, rispose.
- Guarda, infatti, disse: se dividerai in parti la grandezza in sé e ciascuno dei molti oggetti grandi sarà grande in virtù [d] di una parte di grandezza più piccola della grandezza in sé, non apparirà un'assurdità?
- Certo, rispose.
- E allora? Ciascun oggetto che abbia ricevuto una piccola parte dell'uguale sarà in possesso di qualcosa che, pur essendo minore dell'uguale in sé, renderà l'oggetto che lo possegga uguale a qualcos'altro?
- E' impossibile.
- Anzi, poniamo che uno di noi abbia una parte del piccolo: di questa stessa parte il piccolo sarà maggiore, in quanto essa è una sua parte, e così il piccolo in sé sarà maggiore, mentre ciò a cui sia aggiunta la parte sottratta sarà minore, non maggiore di prima. [e]
- Ma questo non può essere, disse.
- E in che modo allora, Socrate, disse, secondo te le altre cose parteciperanno delle idee, se non possono partecipare né per parti né per intero?
- Per Zeus, no, disse, non mi pare affatto agevole definire questo punto in qualche modo.
- E di fronte a quest'altro punto, allora, qual è il tuo atteggiamento?
- Quale?
- Io sono del parere che tu creda all'esistenza di ciascuna [132a] idea unitaria perché parti da questo: quando ti sembra che molte cose siano grandi, forse ti pare che esista un'unica identica idea se volgi lo sguardo su tutte quelle cose e da ciò ritieni che il grande sia uno.
- E' vero ciò che dici, rispose.
- Ma il grande in sé e le altre cose grandi, se analogamente con l'anima volgi lo sguardo su tutte, non ti appariranno forse, a loro volta, un qualcosa di unitario, un grande in virtù del quale tutte queste cose appaiono grandi?
- Sembra.
- Farà allora apparizione un'altra idea di grandezza, nata accanto alla grandezza in sé e alle cose che partecipano di essa; e sopra tutte queste un'altra ancora, in virtù della quale [b] tutte queste saranno grandi. E così ciascuna delle idee non sarà più una per te, ma illimitata molteplicità
VI. - A meno che, Parmenide, disse Socrate, ciascuna di queste idee non sia un pensiero e ad essa non sia appropriato ingenerarsi in nessun altro luogo che nelle anime, perché in questo modo ciascuna sarebbe una e non subirebbe più quanto si diceva poco fa.
- E allora?, disse. Ciascuno dei pensieri è uno, ma è pensiero di nulla?
- Ma è impossibile, rispose.
- E allora di qualcosa?
- Sì.
- Di qualcosa che è o che non è? [c]
- Che è.
- Non è forse qualcosa di unitario, che quel pensiero pensa come presente su tutte quelle cose e che è una certa forma unica
- Sì.
- E non sarà poi un'idea questo che è pensato come uno e che è sempre identico su tutte?
- Anche questo sembra necessario.
- E allora, continuò Parmenide, in base a quella necessità per la quale dici che le altre cose partecipano delle idee, non sei del parere che o ciascuna cosa consiste di pensieri e tutte pensano oppure esse, pur essendo pensieri, sono prive di pensiero?
- Ma neppure questo è ragionevole, rispose; anzi a me pare, Parmenide, che la cosa stia proprio in questo modo: queste [d] idee stanno fisse nella natura come modelli, mentre le altre cose assomigliano ad esse e ne sono copie e questa partecipazione delle altre cose alle idee non è altro che l'esser foggiate come immagini di esse.
- Allora, disse, se qualcuna assomiglia all'idea, è possibile che quell'idea non sia simile all'oggetto foggiato come immagine, nella misura in cui questo ne risulti una copia simile? O esiste qualche espediente per cui il simile non sia simile al simile?
- Non esiste.
- Non è forse grandemente necessario che il simile e il suo simile partecipino di un'unica identica cosa?
[e]
- E' necessario.
- E ciò di cui i simili partecipando sono simili non sarà appunto l'idea in sé?
- Certamente.
- Allora non è possibile che qualcosa sia simile all'idea, né che l'idea lo sia ad altro; altrimenti accanto all'idea farà sempre la propria apparizione un'altra idea e se questa sarà simile a qualcosa, un'altra ancora e non cesserà mai di sorgere [133a] sempre una nuova idea, se l'idea viene ad essere simile a qualcosa che partecipa di essa.
- E' verissimo quello che dici.
- Dunque non è per somiglianza che le altre cose partecipano delle idee e bisogna invece cercare qualcos'altro per cui partecipano.
- Sembra.
- Tu vedi, dunque, Socrate, quant'è grande la difficoltà se le si definisce come idee esistenti in sé e per sé?
- E come!
- Sappi bene tuttavia, proseguì, che per così dire tu non tocchi ancora con mano quanto sia grande la difficoltà, se [b] distinguendo ciascuno degli enti porrai sempre un'idea unica.
- In che modo?, chiese.
- Molte altre sono le difficoltà, disse, ma la massima è questa. Se qualcuno dicesse che, se le idee sono tali quali noi diciamo che esse debbano essere, ad esse non spetterebbe neppure di essere conosciute, a chi afferma questo nessuno potrebbe dimostrare che si sbaglia, a meno che l'obiettore non si trovi ad essere esperto di molte cose e non privo di doti naturali e consenta poi a seguire chi effettua la dimostrazione attraverso un'ampia elaborazione a partire,da lontano; altrimenti non si lascerebbe affatto persuadere chi pretende che le [c] idee siano inconoscibili.
- Perché mai, Parmenide?, chiese Socrate.
- Perché io credo, Socrate, che sia tu sia ogni altro che ponga l'esistenza in sé e per sé di una qualche sostanza di ciascun oggetto, ammetterebbe in primo luogo che nessuna di esse è in noi.
- Infatti, come potrebbe ancora essere in sé e per se? , disse Socrate.
- Dici bene, continuò. Dunque anche tutte le idee che sono quelle che sono le une in rapporto alle altre hanno la loro sostanza in rapporto a se stesse, ma non in rapporto a [d] quelle copie simili, o come le si voglia porre, che sono presso di noi e delle quali noi partecipando diamo la denominazione a ciascuna. Queste cose invece che sono presso di noi e sono omonime di quelle sono, a loro volta, in rapporto a se stesse, ma non in rapporto alle idee e si riferiscono a se stesse, non a quelle, quante sono denominate a loro volta in questo modo.
- Come dici?, chiese Socrate.
- Per esempio, disse Parmenide, se uno di noi è padrone o schiavo di qualcuno, non è certamente del padrone in sé, di ciò che è realmente padrone, che è schiavo, né è dello schiavo [e] in sé, di ciò che è realmente schiavo, che il padrone è padrone, anzi essendo un uomo è padrone o schiavo di un uomo. La padronanza in sé, invece, è ciò che è della schiavitù in sé e analogamente la schiavitù in sé è schiavitù della padronanza in sé; ma le cose che sono in noi non hanno la loro possibilità in rapporto a quelle né quelle in rapporto a noi, bensì, come dico, quelle sono quello che sono di se stesse e in rapporto a se stesse, e le cose presso di noi analogamente [134a] in rapporto a se stesse. O non comprendi ciò che dico?
- Certo che comprendo, rispose Socrate.
VII. - Allora anche la scienza in sé, disse, ciò che è realmente scienza, sarà scienza della verità in sé, di ciò che è realmente verità?
- Certo.
- A sua volta, ciascuna delle scienze, che è realmente, sarà scienza di ciascuno degli enti che è realmente. O no?
- Sì.
- Invece la scienza che è presso di noi sarà scienza della verità che è presso di noi e; a sua volta, a ciascuna scienza presso di noi non succederà di essere scienza di ciascuna delle [b] cose che sono presso di noi?
- Necessariamente.
- Ma le idee in sé, come tu ammetti, noi non le possediamo né è possibile che siano presso di noi.
- No, infatti.
- Allora è dall'idea in sé della scienza, direi, che i generi in sé sono conosciuti, ciò che ciascuno è realmente?
- Sì.
- E tale idea noi non la possediamo.
- No, infatti.
- Allora, da noi almeno non è conosciuta nessuna delle idee, dal momento che non partecipiamo della scienza in sé.
- Pare di no.
- Sono dunque inconoscibili a noi il bello in sé, ciò che è realmente bello, e il bene e tutti gli oggetti che noi appunto [c] assumiamo come idee esistenti in sé.
- C'è il rischio che sia così.
- Guarda allora questo punto ancora più terribile di quello.
- Quale?
- Tu potresti dire, credo, che se esiste un genere in sé della scienza, esso è molto più esatto della scienza che è presso di noi, e analogamente per la bellezza e per tutto il resto.
- Sì.
- Ma se c'è qualcos'altro che partecipa della scienza in sé, non diresti che non è nessuno più di un dio a possedere la scienza più esatta?
- Necessariamente.
- Sarà in grado allora il dio, che possiede la scienza in sé, [d] di conoscere le cose che sono presso di noi?
- Perché no?
- Perché, rispose Parmenide, noi abbiamo ammesso, Socrate, che né quelle idee hanno la possibilità che hanno in rapporto alle cose che sono presso di noi, né le cose presso di noi in rapporto a quelle, ma le une e le altre soltanto in rapporto a se stesse.
- Lo abbiamo ammesso, infatti.
- Dunque, se presso il dio sono questa padronanza più esatta e questa scienza più esatta, né la padronanza degli dèi potrà mai padroneggiare noi, né la loro scienza potrà mai [e] conoscere noi né altro che sia presso di noi; ma allo stesso modo e noi non dominiamo loro col dominio che è presso di noi né conosciamo nulla del divino con la nostra scienza e quelli, a loro volta, per la stessa ragione, né sono nostri padroni né conoscono le cose umane, pur essendo dèi.
- Ma sta' attento che il tuo discorso non sia troppo sconcertante, disse, se si arriverà a privare il dio del sapere.
- Eppure, Socrate, disse Parmenide, sono queste le difficoltà e altre ancora assai numerose oltre a queste che le idee [135a] necessariamente comportano, se effettivamente esistono tali idee degli enti e se si definirà ciascuna idea come qualcosa in sé. Tanto che chi ascolta si trova in difficoltà e obietta che queste idee non esistono o, se proprio esistono, è del tutto necessario che esse siano inconoscibili alla natura umana e dicendo questo, dà l'impressione di dire qualcosa e, come dicevamo poco fa, è straordinariamente difficile da persuadere. Solo un uomo fornito di ottime doti naturali sarà in grado di comprendere che di ciascun oggetto c'è un genere e una sostanza in sé e per sé, ma sarà solo un uomo ancor più meraviglioso [b] che potrà trovare e insegnare a un altro tutte queste cose dopo un'adeguata disamina.
- Te lo concedo, Parmenide, disse Socrate; infatti tu parli proprio secondo il mio intendimento.
- Tuttavia, Socrate, disse Parmenide, se qualcuno avendo notate tutte le difficoltà di poco fa e altre simili, non consentirà che ci siano idee degli enti e non distinguerà una determinata idea per ciascun oggetto singolo, non avrà neppure un punto a cui indirizzare il suo pensiero, in quanto non concede che ci sia un'idea sempre identica di ciascuno degli [c] enti, e in tal modo distruggerà completamente il potere della dialettica. Ma di una cosa del genere mi pare che tu ti sia reso fin troppo conto.
- E' vero ciò che dici, disse.
VIII. - Che farai allora a proposito della filosofia? Dove ti volgerai, se queste cose restano ignorate?
- Non mi pare proprio di scorgerlo, almeno per il momento.
- Il fatto è che troppo presto, Socrate, disse, prima di esserti allenato, tu ti accingi a definire un bello e un giusto e un buono e ciascuna singola idea. Ci ho riflettuto anche l'altro [d] ieri sentendoti discutere qui col nostro Aristotele. E' bello e divino, sappilo bene, l'impeto con cui ti slanci verso i ragionamenti; ma finché sei ancora giovane, trascina piuttosto te stesso ad allenarti per mezzo di quell'esercizio che pare inutile ed è chiamato dai più una vuota chiacchiera. Altrimenti la verità ti sfuggirà.
- E qual è il modo, Parmenide, di fare questo allenamento?, chiese.
- Quello che hai sentito da Zenone, disse. Ad eccezione di questo, di cui mi sono compiaciuto nel sentirtelo dire a lui, [e] cioè che non consentivi che l'indagine vagasse nelle cose visibili e si limitasse ad esse, anzi doveva vertere su quegli oggetti che si possono cogliere soprattutto col ragionamento e possono essere considerati idee.
- Infatti, disse, mi pare che per questa via non sia affatto difficile mostrare che gli enti sono simili e dissimili e subiscono qualsiasi altra affezione.
- Ed hai ragione, disse. Ma oltre a ciò bisogna anche fare questo: non solo, dopo aver posto che una singola cosa è, esaminare le conseguenze derivanti dall'ipotesi, ma porre anche [136a] come ipotesi che questa stessa cosa non sia, se vuoi esercitarti meglio.
- In che senso dici?, chiese.
- Per esempio, disse, se vuoi, a proposito di questa ipotesi posta da Zenone, se i molti sono, esaminare che cosa ne deve conseguire sia per i molti stessi in relazione a se stessi e in relazione all'uno, sia per l'uno in relazione a se stesso e in relazione ai molti. E viceversa, se i molti non sono, esaminare nuovamente che cosa ne conseguirà sia per l'uno sia per i molti, tanto in relazione a se stessi quanto gli uni rispetto agli [b] altri. E ancora, se si pone come ipotesi che la somiglianza è o non è, che cosa conseguirà in riferimento all'una o all'altra ipotesi sia per gli stessi oggetti posti come ipotesi, sia per gli altri e tanto in relazione a se stessi quanto gli uni rispetto agli altri. E identico è il discorso a proposito del dissimile e del movimento e della quiete e della generazione e della corruzione e a proposito dell'essere e del non essere stessi. In una parola, a proposito di qualsiasi oggetto di cui tu ponga ogni volta per ipotesi che è e che non è o che subisce qualsiasi altra affezione, bisogna esaminare le conseguenze sia in relazione all'oggetto stesso, sia in relazione a ciascuno singolarmente [c] degli altri oggetti, qualunque tu scelga, e analogamente sia in relazione a più oggetti sia in relazione a tutti quanti insieme; e inversamente esaminare questi altri oggetti tanto in relazione a se stessi quanto in relazione a qualsiasi altro oggetto tu scelga ogni volta, sia che dell'oggetto posto come ipotesi tu abbia posto che è, sia che tu abbia posto che non è, se vuoi discernere la verità con piena padronanza grazie ad un perfetto allenamento.
- Tu parli di un esercizio eccezionale, Parmenide, disse, ed io non comprendo molto. Ma perché non me lo esponi tu stesso ponendo come ipotesi qualcosa, in modo che io possa capire meglio?
- Un lavoro enorme, Socrate, disse, tu imponi a un uomo [d] della mia età.
- Ma perché allora, Zenone, disse Socrate, non ce ne fai tu un'esposizione?
E Zenone, continuava a raccontare, ridendo disse: - Preghiamone Parmenide stesso, Socrate, perché temo che non sia impresa da poco ciò che egli dice. O non vedi che lavoro enorme imponi? Se fossimo più numerosi, non varrebbe la pena pregarlo, perché è inopportuno parlare di argomenti simili davanti a molti, soprattutto per un uomo della sua età. I più, infatti, ignorano che, senza questo procedere peregrinando
[e] attraverso tutte le vie, è impossibile, imbattendosi nella verità, averne intendimento. Io ti prego dunque, Parmenide, insieme a Socrate, per poterti riascoltare anch'io dopo tanto tempo.
IX. Pitodoro raccontava, riferì Antifonte, che dopo queste parole di Zenone, lui stesso e Aristotele e gli altri avevano pregato Parmenide di dare una dimostrazione di quanto diceva e di non fare altrimenti. E Parmenide aveva detto: -E' necessario obbedire. Eppure mi pare di trovarmi nella situazione del cavallo di Ibico, al quale, esperto di gare e ormai vecchio [137a] e sul punto di gareggiare aggiogato al carro e trepidante per la sua esperienza di ciò che lo attendeva, egli paragonava se stesso, dicendo che anch'egli suo malgrado, pur essendo così vecchio, era costretto ad andare incontro all'amore. Al ricordo pare anche a me di avere una gran paura su come occorra attraversare a nuoto alla mia età un tale e così ampio mare di discorsi. Tuttavia devo farvi questo favore, dal momento anche che, come dice Zenone, siamo tra noi. Da quale punto [b] cominceremo dunque e quale ipotesi porremo per prima? O, dato che si è del parere di giocare questo gioco laborioso, volete che io cominci da me stesso e dalla mia stessa ipotesi, ponendo come ipotesi a proposito dell'uno stesso, tanto che sia quanto che non sia uno, per esaminare quali debbano esserne le conseguenze?
- Certo, rispose Zenone.
- Chi mi risponderà allora?, disse. Non sarà forse il più giovane? Infatti sarà quello che s'impiccerà meno del resto e più che mai dirà in risposta ciò che crede; e al tempo stesso la sua risposta sarà per me una pausa di riposo.
- Eccomi pronto a te per questo, Parmenide, disse Aristotele. [c] E' a me infatti che ti riferisci quando dici "il più gíovane". Interroga dunque ed io risponderò.
X. - Va bene, disse. Se è uno, non è forse vero che l'uno non potrà essere molti? - E come potrebbe, infatti? - Allora non deve esserci parte di esso né esso deve essere un intero. - E perché? - La parte è parte di un intero, mi pare. - Sì. - E l'intero? Non è forse intero ciò da cui non manchi nessuna parte? - Certo. - In entrambi i casi allora, sia essendo intero, sia avendo parti, l'uno consisterebbe di parti.- Necessariamente. - In entrambi i casi allora l'uno sarebbe in tal [d] modo molti e non uno. -E' vero. - E invece esso deve essere non molti, ma uno. - Sì, lo deve. - Dunque non sarà un intero né avrà parti, se l'uno sarà uno. - No, infatti.
- Se dunque non ha alcuna parte, non può avere né principio né fine né mezzo, perché queste sarebbero ormai parti di esso. - Esattamente. - Ora, fine e principio sono limiti di ciascun oggetto. - Come no? - Dunque l'uno è illimitato, se non ha né principio né fine. - E' illimitato. - Ed è anche senza figura allora, perché non partecipa né del circolare né del [e] rettilineo. - In che senso? - Circolare è ciò i cui estremi siano ovunque equidistanti dal centro, mi pare. - Sì. - E rettilineo è ciò in cui il mezzo sia frapposto tra i due estremi. - E' così. - Dunque l'uno avrebbe parti e sarebbe molti, se partecipasse della figura, tanto di quella rettilinea quanto di quella circolare. - Certo. - Allora non è né rettilineo né circolare, [138a] dal momento che non ha affatto parti. - Esattamente.
- E certamente, essendo tale, non può essere in alcun luogo, perché non può essere né in altro né in se stesso. - E come? - Se fosse in altro, sarebbe compreso circolarmente da ciò in cui fosse incluso e avrebbe molti contatti con esso in molti punti; ma con ciò che è uno ed è privo di parti e non partecipa di figura circolare è impossibile che ci siano circolarmente contatti in molti punti. - E' impossibile. - Ma se fosse in se stesso, non ci sarebbe altro a comprenderlo che se stesso, se fosse appunto anche in se stesso, perché è impossibile [b] che qualcosa sia in qualcosa che non lo comprenda. - Infatti, è impossibile. - Dunque altro sarebbe ciò che comprende e altro ciò che è compreso, dato che lo stesso oggetto nella sua interezza non farà e subirà contemporaneamente entrambe le cose. E in questo modo l'uno sarebbe non più uno, ma due. - Non può essere, infatti. - Dunque, non essendo né in se stesso né in altro, l'uno non è in nessun luogo. - Non è.
XI. -Guarda allora se, essendo tale la sua condizione, è possibile che esso stia fermo o si muova. - E perché no? Perché se si muovesse, o si sposterebbe o si altererebbe. Sono questi, infatti, gli unici movimenti. - Sì. - Ma alterandosi [c] rispetto a se stesso, l'uno non potrebbe più essere uno, credo. - Non potrebbe. - Dunque non si muove, nel senso almeno di alterarsi. - Pare di no. - Allora per lo spostarsi? - Forse. - Certo, se l'uno si spostasse, o ruoterebbe circolarmente nello stesso luogo o scambierebbe un posto con un altro. - Necessariamente. - Se ruotasse circolarmente dovrebbe necessariamente poggiare su un centro e avere le proprie altre parti che si muovono intorno al centro, ma ciò a cui non spettano né centro né parti, con quale espediente potrà mai [d] essere traslato circolarmente sul centro? - Con nessuno. - Ma scambiando posto, viene ad essere in momenti diversi in luoghi diversi e in questo modo si muove? - Se appunto si muove. - Ma è apparso impossibile che esso sia in qualche modo in qualche cosa? - Sì. - Allora è ancor più impossibile che venga ad esserci? - Non intendo come. - Se una cosa viene ad essere in qualche cosa, non è necessario che essa non sia ancora in questa, dal momento che ci sta ancora venendo ad essere, né sia ancora completamente fuori di questa, se appunto sta già venendo ad esserci? - E' necessario. - Se dunque qualche altra cosa subirà questo, soltanto una cosa che abbia parti potrà subirlo. Infatti una parte di essa sarebbe [e] ormai in quella, mentre un'altra ne sarebbe contemporaneamente fuori. Invece ciò che non ha parti non potrà in alcun modo, credo, essere contemporaneamente tutt'intero né dentro né fuori di qualcosa. - E' vero. - Ma ciò che non ha parti né si trova ad essere un intero, non è ancor più impossibile che venga ad essere in qualche luogo, dal momento che non viene ad esserci né parte per parte né per intero? - Pare. - Allora non scambia posto né andando in qualche luogo e venendo ad essere in qualcosa, né ruotando nello stesso luogo [139a] né alterandosi. - Sembra di no. - Dunque, rispetto ad ogni tipo di movimento l'uno è immobile. - E' immobile. - Ma certamente noi diciamo anche impossibile che esso sia in qualcosa. - Lo diciamo, infatti. - Dunque non è neppure mai nello stesso luogo. - Perché? - Perché sarebbe ormai in quello stesso luogo in cui è. - Certo. - Ma né in se stesso né in altro era possibile che esso fosse. - No, infatti. - L'uno dunque non è mai nello stesso luogo. - Sembra di no. - Ma ciò [b] che non è mai nello stesso luogo non è in quiete né sta ferrno. - Non è possibile, infatti. - L'uno allora, a quanto sembra, né sta fermo né si muove. - Pare di no, almeno.
- E neppure sarà identico né ad altro né a se stesso; e neppure d'altra parte potrà essere diverso né da se stesso né da altro. - In che senso? - Essendo in qualche modo diverso da se stesso, sarebbe diverso dall'uno e non sarebbe uno. - E' vero. - Ed essendo identico ad altro sarebbe quest'altro, ma non sarebbe più se stesso, sicché neppure così sarebbe ciò [c] che appunto è, ossia uno, ma diverso dall'uno. - No, ínfatti. - Dunque non sarà identico ad altro o diverso da se stesso. - No, infatti. - Ma non sarà diverso da altro, finché sia uno, perché non all'uno compete di essere diverso da qualcosa, ma soltanto a ciò che è diverso da altro e a nient'altro. - Esattamente. - Dunque, in quanto è uno, non sarà diverso, O tu lo credi? - No certo, - Ma se non lo è per questo, non lo sarà neppure per se stesso e se non lo è per se stesso, non lo sarà neppure esso stesso. Ma non essendo esso stesso diverso in nessun modo, non sarà diverso da nulla. - Esattamente. E neppure sarà identico a se stesso. - Come no? - La natura [d] dell'uno non è certo quella anche dell'identico. - E perché? Perché quando una cosa diventa identica a qualcos'altro, non diventa una. - Perché mai? - Diventata identica ai molti, diventa necessariamente molti e non uno. - E' vero. - Ma se l'uno e l'identico non differissero in nulla, quando qualcosa diventasse identico, diventerebbe sempre uno e quando diventasse uno, diventerebbe identico. - Certo. - Dunque se l'uno [e] sarà identico a se stesso, non sarà uno con se stesso e così, pur essendo uno, non sarà uno. Ma questo è certamente impossibile. Dunque è anche impossibile per l'uno o essere diverso da altro o essere identico a se stesso. - E' impossibile. - E così l'uno non può essere diverso o identico né rispetto a se stesso né rispetto ad altro. - Infatti, non può.
- E non sarà neppure simile a qualcosa e neppure dissimile, né rispetto a se stesso, né rispetto ad altro. - E perché? - Perché simile è ciò che in qualche modo risulta affetto dall'identico. - Sì. - Ma è apparso chiaro che l'identico è per sua natura separato dall'uno. - E' apparso chiaro, infatti. - Ma se [140a] l'uno risulta affetto da qualcosa di separato dall'essere uno, risulterà affetto dall'essere più che uno; ma questo è impossibile. - Sì. - Dunque non è in alcun modo possibile che l'uno risulti affetto dall'essere identico, né ad altro né a se stesso. - Pare di no. - Allora non è neppure possibile che esso sia simile né ad altro né a se stesso. - Sembra di no. - E l'uno non risulta neppure affetto dall'essere diverso, perché anche così risulterebbe affetto dall'essere più che uno. - Più che uno, infatti. - E ciò che risulta affetto dall'essere diverso o da se stesso o da altro, sarà dissimile o da se stesso o da altro, se ciò che risulta affetto dall'essere identico è appunto simile.[b] - Esattamente. - L'uno invece, a quanto sembra, non risultando affetto in alcun modo dal diverso, non è in alcun modo dissimile né da se stesso né da altro. - No, infatti. - Dunque né simile né dissimile né rispetto ad altro né rispetto a se stesso può essere l'uno. - Pare di no.
- Ed essendo tale, non sarà né uguale né disuguale né rispetto a se stesso né rispetto ad altro. - In che senso? - Se è uguale, sarà delle stesse misure di ciò a cui sia uguale. - Sì. - Se invece è in qualche modo maggiore o minore, almeno alle [c] grandezze a cui sia commensurabde, avrà più unità di misura rispetto alle minori e meno rispetto alle maggiori. - Sì. - Invece rispetto a quelle a cui non sia commensurabile, sarà di unità di misura più piccole in un caso e più grandi nell'altro. - Come no? - Ed è impossibile che ciò che non partecipa dell'identico abbia le stesse misure o qualsiasi altra proprietà identica? - E' impossibile. - Allora non avendo le stesse misure, non può essere uguale né a se stesso né ad altro. - Pare di no, almeno. - Ma se ha più o meno misure, avrà tante parti quante sono le misure; e così ancora una volta non sarà più uno, ma tanti quante sono appunto le misure. - Esattamente.[d] - Se invece fosse di un'unica misura, sarebbe uguale alla misura; ma questo è apparso impossibile, cioè che esso sia uguale a qualcosa. - E' apparso, infatti. - Dunque, poiché non partecipa né di una misura né di molte né di poche, né partecipa assolutamente dell'identico, non sarà mai uguale, a quanto sembra, né a se stesso né ad altro; né d'altra parte sarà maggiore o minore né di se stesso né di altro. - Proprio così.
XII. - E allora? Che l'uno sia più vecchio o più giovane o [e] coetaneo di qualcosa, pare possibile?- E perché no? - Perché se ha la stessa età o di se stesso o di altro, parteciperà, credo, di uguaglianza di tempo e di somiglianza, di cui dicevamo che non appartengono all'uno, né la somiglianza né l'uguaglíanza. - Lo dicevamo, infatti. - Ed anche che non partecipa di dissomiglianza e di disuguaglianza, anche questo dicevamo. - Certo. - Come potrà dunque, se è tale, essere più [141a] vecchio o più giovane o coetaneo di qualcosa? - In nessun modo. - L'uno allora non può essere né più giovane né più vecchio né coetaneo né di se stesso né di altro. - Pare di no. - Ma se è tale, l'uno non potrà neppure assolutamente essere in un tempo? O non è necessario che, se qualcosa è in un tempo, diventi sempre più vecchio di se stesso? - E' necessario. - E ciò che è più vecchio è sempre più vecchio [b] di un più giovane? - Come no? - Allora ciò che diventa più vecchio di se stesso, diventa contemporaneamente anche più giovane di se stesso, se deve appunto avere qualcosa di cui diventare più vecchio. - Come dici? - Così: nulla ha bisogno di diventare differente da altro che sia già differente, anzi di ciò che è già differente lo è già, di ciò che lo è diventato lo è diventato, di ciò che verrà ad esserlo verrà ad esserlo, mentre di ciò che sta diventando differente è necessario non che sia diventato né che stia per diventare né sia già differente, ma che stia diventando differente e non sia altrimenti. - E ' necessario. [c] - Ma 'il più vecchio' è appunto una differenza rispetto a 'più giovane' e a niente altro. - Lo è, infatti. - Dunque ciò che diventa più vecchio di se stesso, è necessario che diventi anche contemporaneamente più giovane di se stesso. - Sembra. - Ma è anche necessario che lo diventi per un tempo né maggiore né minore di se stesso, anzi che lo diventi e lo sia e lo sia diventato e stia per diventarlo per un tempo uguale a se stesso. - Anche questo è necessario. - A quanto sembra allora, è necessario che tutte le cose almeno che sono in un tempo e partecipano di tale proprietà, abbiano ciascuna di esse [d] la stessa età di se stesse e diventino contemporaneamente ciascuna più vecchia e più giovane di se stessa . - C'è il rischio. - Ma all'uno, dicevamo, non appartiene nessuna di tali affezioni. - Non appartiene, infatti. - Dunque esso né partecipa del tempo né è in qualche tempo. - No certo, stando almeno a quanto implica il ragionamento.
- E allora? Le espressioni 'era' e 'è diventato' e 'diventava' non pare che significhino una partecipazione al tempo ormai passato? - Proprio così. - E 'sarà', 'diventerà', 'sarà [e] diventato' non significano una partecipazione al tempo futuro? - Sì. - E le espressioni 'è' e 'diviene' non significano forse una al tempo ora presente? - Certo. - Se dunque l'uno non partecipa in nessun modo di nessun tempo, esso non è mai divenuto né diveniva né era mai, né ora è divenuto né diviene né è, né in seguito diventerà né sarà diventato né sarà. - E' verissimo. - Ed è possibile che qualcosa partecipi dell'essere in un modo diverso da qualcuno di questi?. - Non è possíbile. - In nessun modo allora l'uno partecipa dell'essere. - Sembra di no. - In nessun modo allora l'uno è. - Pare di no. - Dunque non è neppure tale da essere uno, perché sarebbe già essente e partecipe di essere. A quanto sembra, invece, l'uno né è uno né è, se bisogna dar credito a questo ragionamento. - C'è il rischio. - Ma ciò che non è, rispetto a questo non essere può esserci qualcosa che sia o in riferimento [142a] ad esso o di esso? - E come? - Rispetto ad esso allora non c'è nome né discorso né una scienza né sensazione né opinione. - Pare di no. - Dunque non è denominato né enunciato né opinato né conosciuto, né qualcuno tra gli esseri ne ha sensazione. - Sembra di no. - Ma è davvero possibile che a proposito dell'uno le cose stiano così? - A me almeno pare di no.
XIII. - Vuoi allora che torniamo nuovamente da capo [b] all'ipotesi, per vedere se nel ritornarci sopra ci appaia qualche risultato diverso? - Certo che voglio. - Dunque, se l'uno è, noi diciamo, le conseguenze relative ad esso, quali che siano, noi dobbiamo ammetterle. Non è così? - Sì. - Guarda allora da principio. Se l'uno è, è possibile che esso sia, ma non partecipi di essere? - Non è possibile. - Dunque anche l'essere dell'uno sarà, ma senza essere identico all'uno, perché altrimenti esso non sarebbe l'essere dell'uno, né quello, cioè l'uno, parteciperebbe di esso, anzi sarebbe analogo dire [c] 'l'uno è' e 'l'uno uno'. Ora invece non è questa l'ipotesi, cioè se l'uno è uno quali debbano esserne le conseguenze, ma se l'uno è. Non è così? - Certo. - Dunque in quanto l'espressione 'è' significa qualcos'altro dall'uno? - Necessariamente. Quando allora si dice riassuntivamente che l'uno è, questa espressione vuol forse significare altro se non che l'uno partecipa di essere? - Proprio così. - Diciamo allora di nuovo, se l'uno è, che cosa ne conseguìrà. Osserva se non è necessario che questa ipotesi significhi che l'uno è tale da avere parti. - Come? - Così: se l'espressione 'è' si dice dell'uno che è [d] e l'espressione 'uno' dell'essere che è uno e l'essere e l'uno non sono la stessa cosa, ma appartengono a quella stessa cosa che abbiamo posto come ipotesi, ossia all'uno che è, non è forse necessario che quest'uno che è sia l'intero e che l'uno e l'essere diventino sue parti? - E' necessario. - E ciascuna di queste due parti la chiameremo soltanto parte o la parte deve essere chiamata parte dell'intero? - Dell'intero. - Dunque ciò che è uno è un intero e ha parti. - Certo. - E allora? Ciascuna di queste due parti dell'uno che è, ossia l'uno e l'essere,[e] manca forse all'altra, o l'uno della parte essere o l'essere della parte uno? - Non sarebbe possibile. - Di nuovo allora anche ciascuna delle due parti possiede l'uno e l'essere ed anche la parte minima viene ad essere costituita a sua volta di due parti e così sempre per la stessa ragione, qualsiasi parte ne risulti possiede sempre queste due parti: infatti l'uno possiede sempre l'essere e l'essere l'uno, sicché è necessario che, venendo sempre ad essere due, non sia mai uno. - Proprio così.[143a] - E così l'uno che è sarà di illimitata molteplicità? Sembra.
- Avanti allora, anche per questa via ancora. - Per quale? - Noi diciamo che l'uno partecipa di essere e perciò è? - Sì. - Ed è per questo che l'uno che è ci è apparso molti. - E così. - E allora? L'uno in sé, che diciamo appunto partecipe di essere, se col pensiero lo cogliamo da solo in sé e per sé, senza questo di cui lo diciamo partecipe, ci apparirà forse soltanto uno o anche molti quest'uno in sé? - Uno, io credo [b] almeno. - Vediamo allora: è necessario che l'uno in sé e il suo essere siano qualcosa di diverso, se l'uno non è appunto essere, ma in quanto uno partecipa di essere. - E' necessario. - Dunque, se altro è l'essere e altro invece l'uno, non in quanto uno l'uno è diverso dall'essere né in quanto essere l'essere è altro dall'uno, ma sono diversi l'uno dall'altro in quanto diversi e altri. - Certo. - Sicché il diverso non è identico né all'uno né all'essere. - Come potrebbe, infatti?
- E allora? Se tra essi scegliamo, se vuoi, l'essere e il diverso [c] o l'essere e l'uno o l'uno e il diverso, in ciascuna scelta non scegliamo forse una determinata coppia che è corretto chiamare 'entrambi'? - Come? - Così: è possibile dire 'essere'? - E' possibile, - E poi dire 'uno'? - Anche questo. - E non si è forse detto l'uno e l'altro di loro due? - Sì. - Ma quando dico 'essere' e 'uno', non li dico forse entrambi? Certo. - Dunque anche se dico 'essere' e 'diverso' o 'diverso' e 'uno', anche così in ciascun caso non li dico in ogni modo entrambi? - Sì. - E questi che sono designati correttamente [d] come entrambi, è forse possibile che siano entrambi, ma non due? - Non è possibile. - E a proposito di essi che sono due c'è un espediente per far sì che ciascuno di essi non sia uno? - Non ce n'è nessuno. - Ciascuno di questi due, dunque, poiché a ciascun insieme succede di essere due, sarà anche uno. - Pare. - Ma se ciascuno di essi è uno, aggiunto uno qualsiasi di essi ad una coppia qualsiasi, il tutto non viene ad essere tre? - Sì. - E tre non è dispari e due pari? - Come no? - E allora? Se c'è il due, non è necessario che ci sia anche il due volte e se c'è il tre anche il tre volte, dato che al due [e] appartiene il due volte uno e al tre il tre volte uno? - E' necessario. - Ma se c'è il due e il due volte, non è necessario che ci sia il due volte due? E se c'è il tre e il tre volte, non è necessarío che ci sia a sua volta il tre volte tre? - Come no? - E se c'è il tre e c'è il due volte, e il due e il tre volte, non è necessario che ci siano il due volte tre e il tre volte due? - E' molto necessario. - Dunque ci saranno multipli pari di pari e multipli dispari di dispari e multipli dispari di pari e multipli [144a] pari di dispari. - E' così. - E se le cose stanno così, credi che rimanga qualche numero, che non sia necessariamente? - In nessun modo. - Dunque, se l'uno è, c'è necessariamente anche numero. - Necessariamente. - Ma se c'è numero, ci saranno i molti e una molteplicità illimitata di enti. O un numero di molteplicità illimitata non viene anche ad essere partecipe di essere? - Certo. - Dunque se la totalità del numero partecipa di essere, anche ciascuna parte del numero parteciperà di esso? - Sì.
XIV. - L'essere allora è distribuito su tutta la molteplicità [b] degli enti e non è sottratto a nessuno di essi, né al più piccolo né al più grande? O è addirittura assurdo il chiederlo? Come potrebbe infatti l'essere essere sottratto a qualcuno degli enti? - In nessun modo. - Esso è dunque spezzettato quanto più è possibile in enti che sono piccoli e grandi e di ogni ordine possibile e più di ogni altra cosa è suddiviso in parti e illimitate sono le parti dell'essere. - E' così. - Dunque [c] le sue parti sono le più numerose? - Le più numerose, certo. - E c'è qualcuna di esse che sia parte dell'essere, e tuttavia non sia nessuna parte? - E come potrebbe avvenire questo? - Anzi se essa appunto è, è necessario, credo, che, finché è, sia sempre una qualche parte; nessuna invece è impossibile. - E necessario. - Ad ogni parte dell'essere, allora, è aggiunto l'uno, dal momento che non manca né alla parte minore né alla maggiore né ad alcun altra parte. - E' così. - Ed essendo uno, è forse intero contemporaneamente in molti [d] luoghi? Considera questo. - Lo considero e vedo che è impossibile. - Allora diviso in parti, se non intero. Infatti in nessun altro modo che diviso in parti, mi pare, sarà presente contemporaneamente in tutte le parti dell'essere. - Sì. - E certamente ciò che è diviso in parti è assolutamente necessario che sia tante quante sono le sue parti. - E' necessario. - Allora non dicevamo il vero poco fa quando dicevamo che l'essere è distribuito nel maggior numero possibile di parti. Infatti esso è distribuito non in parti più numerose di quelle dell'uno, anzi in parti uguali a quelle dell'uno, a quanto sembra. Infatti né [e] l'essere manca dell'uno né l'uno dell'essere, anzi essi si eguagliano perché sempre sono loro due in tutte le cose. - Pare proprio così. - L'uno stesso allora, spezzettato per opera dell'essere, è molti e di illimitata molteplicità. - Pare. - Dunque è molti non solo l'uno che è, ma è necessario che sia molti anche l'uno in sé, che viene distribuito ad opera dell'essere. - Proprio così.
XV. - E certamente, poiché le parti sono parti di un intero, sul piano dell'interezza l'uno sarà limitato. O non sono forse abbracciate dall'intero le parti? - Necessariamente. Ma ciò che abbraccia sarà certo un limite. - Come no? - Dunque [145a] l'uno che è è, mi pare, uno e molti, intero e parti, limitato e illimitato in molteplicità. - Pare. - E allora, dal momento che è limitato, non avrà anche estremità? - Necessariamente. - E se è intero, non avrà anche principio e mezzo e fine? O è possibile che qualcosa sia un intero senza queste tre proprietà? E se a qualcosa venga sottratta una qualsiasi di esse, consentirà ancora ad essere un intero? - Non consentirà. - A quanto sembra, allora, l'uno avrà principio e fine e mezzo.[b] - Li avrà, - Ma il mezzo è certamente equidistante dagli estremi, perché altrimenti non sarebbe mezzo. - No, infatti. - E l'uno, essendo tale, sarà partecipe, a quanto sembra, anche di una certa figura, o retta o circolare o mista di entrambe. - Ne sarà partecipe, infatti.
- Ma essendo così, non sarà esso sia in se stesso sia in altro? - Come? - Ciascuna delle parti, mi pare, è nell'intero e nessuna è fuori dell'intero. - E' così. - E tutte le parti sono abbracciate dall'intero? - Sì. - E certamente l'uno è tutte le sue parti, [c] né più né meno che tutte. - Infatti. - Dunque l'uno è anche l'intero? - Come no? - Se dunque tutte le parti si trovano ad essere in un intero e l'uno è tutte le parti e l'intero stesso, e tutte le parti sono abbracciate dall'intero, l'uno sarà abbracciato dall'uno e già in questo modo l'uno stesso sarà in se stesso. - Pare. - D'altra parte, tuttavia, l'intero non è nelle parti, né in tutte né in qualcuna. Infatti se fosse in tutte, sarebbe necessariamente anche in una, perché se non fosse in [d] una qualunque, non potrebbe neppure più essere in tutte, credo. Ma se questa una è una tra tutte e l'intero non è in essa, come potrà ancora essere in tutte? - In nessun modo. Né è certamente in alcune parti, perché se l'intero fosse in alcune, il più sarebbe nel meno, il che è impossibile. - E' impossibile, infatti. - Ma se l'intero non è né in più parti né in una né in tutte, non è forse necessario che sia in qualche altra cosa o non sia più in nessun luogo? - E' necessario. - E non essendo in nessun luogo, non sarebbe affatto. Ma essendo [e] intero, dal momento che non è in se stesso, è necessario che sia in altro? - Certo. - L'uno, dunque, in quanto intero, è in altro; mentre in quanto si trova ad essere tutte le sue parti, è in se stesso. E così l'uno è necessariamente in se stesso e in altro. - Necessariamente.
- Ma se tale è la natura dell'uno, non è forse necessario che si muova e insieme stia fermo? - In che modo? - Se è appunto in se stesso, sta fermo, direi, perché se è in una cosa e da questa non si sposta, sarà in questa stessa cosa, cioè in se [146a] stesso. - Lo è, infatti. - Ma ciò che è sempre nella stessa cosa, è certamente necessario che stia sempre fermo. - Certo. - E ciò che è sempre in altro, non è viceversa necessario che non sia mai nella stessa cosa e, non essendo mai nella stessa cosa, non stia neppure fermo e, non stando fermo, si muova? - E' così. - Dunque è necessario che l' uno, essendo sempre in se stesso e in altro, sempre si muova e stia fermo. - Pare.
- E certamente esso deve essere identico a se stesso e diverso da se stesso, e analogamente identico agli altri e [b] diverso da essi, se è appunto affetto dalle precedenti proprietà. - Come? - Ogni oggetto ha con ogni altro una relazione di questo tipo, mi pare: o è identico o è diverso; oppure, se non è né identico né diverso, sarà o parte dell'oggetto con cui è in tale relazione o come un intero in relazione a una parte. - Pare. - Ma l'uno in sé è forse parte di se stesso? - In nessun modo. E allora non può neppure essere come un intero in relazione a una parte di se stesso, essendo in tal caso una parte in relazione a se stesso. - Infatti, non sarebbe possibile. - Ma l'uno è forse diverso dall'uno? - No certo. - Allora non sarà [c] neppure diverso da se stesso. - No, certamente. - Dunque, se in relazione a se stesso non è né diverso né un intero né una parte, non è ormai necessario che esso sia identico a se stesso? - E' necessario. - E allora? Ciò che è in un luogo diverso da se stesso, pur essendo nello stesso luogo di se stesso, non è necessario che sia diverso da se stesso, se sarà appunto anche in un luogo diverso? - A me pare. - Tale appunto è parsa la situazione dell'uno, che è contemporaneamente in se stesso e in altro. - E' parsa tale, infatti. - A quanto sembra, allora, l'uno per questo aspetto sarà diverso da se stesso. - Sembra. [d] - E se qualcosa è diverso da qualcos'altro, non sarà diverso da ciò che è diverso? - Necessariamente.
XVI. - Dunque tutte le cose che non sono uno, sono tutte diverse dall'uno e l'uno è diverso da quelle che non sono uno? - Come no? - L'uno allora sarà diverso dagli altri. - Diverso. - Guarda allora: l'identico in sé e il diverso in sé non sono contrari tra loro? - Come no? - Consentirà dunque mai l'identico ad essere nel diverso o il diverso nell'identico? -Non lo consentirà. - Se dunque il diverso non sarà mai nell'identico, non c'è nessun ente nel quale il diverso sia per un tempo qualsiasi, perché se per un tempo qualsiasi fosse in qualcosa, per quel tempo il diverso sarebbe nell'identico.[e] Non è così? - E' così, - Ma poiché non è mai nell'identico, il diverso non sarà mai in qualcuno degli enti. - E' vero. - Dunque il diverso non sarà insito né nelle cose che non sono uno né nell'uno. - No, infatti, - Non è per il diverso, allora, che l'uno può essere diverso dalle cose che non sono uno, né le cose che non sono uno diverse dall'uno. - No, infatti, - E neppure per se stesse possono essere diverse tra loro, dal momento che non partecipano del diverso. - Come potrebbero, infatti? - Ma se non sono diverse né per se stesse né per il [147a] diverso, non sfuggiranno ormai completamente alla diversità reciproca? - Sfuggiranno. - Ma le cose che non sono uno non partecipano neppure dell'uno; altrimenti non sarebbero non uno, ma in qualche modo uno. - E' vero. - Allora non saranno neppure numero le cose che non sono uno, perché neppure così assolutamente sarebbero non uno, avendo numero. - No, infatti. - Ma le cose che non sono uno sono forse parti dell'uno? O anche così le cose che non sono uno parteciperebbero dell'uno? - Parteciperebbero. - Se dunque in tutti i modi l'uno è uno, mentre le altre cose sono non uno, l'uno non sarà né parte delle cose che sono non uno, né un [b] intero con esse come parti; né d'altra parte le cose che non sono uno saranno parti dell'uno né interi con l'uno come parte. - No, infatti. - Ma abbiamo appunto detto che le cose che tra loro non sono né parti né interi né diverse, saranno identiche tra loro. - Lo abbiamo detto. - Dobbiamo allora dire che anche l'uno, dato che è in questo rapporto con le cose che non sono uno, è identico ad esse? - Dobbiamo dirlo. - A quanto sembra, allora, l'uno è diverso dagli altri e da se stesso e identico ad essi e a se stesso. - Così almeno rischia di apparire dal ragionamento.
- E dunque anche simile e dissimile rispetto a se stesso e [c] rispetto agli altri? - Forse. - In quanto almeno è apparso diverso dagli altri, anche gli altri, credo, saranno diversi da esso. - Perché no? - Sarà dunque diverso dagli altri così come essi lo sono da lui, né più né meno? - E perché no? - Allora se né più né meno, in modo simile? - Sì. - In quanto dunque si trova nella condizione di essere diverso dagli altri e gli altri da lui allo stesso modo, per questo aspetto si troveranno ad essere identici l'uno agli altri e gli altri all'uno. - Come dici? - Così: ciascun nome non lo applichi a un determinato [d] oggetto? - Io sì. - E allora? Lo stesso nome puoi pronunciarlo più volte o una volta sola? - Io sì. - E se lo pronunci una volta sola, designi l'oggetto di cui è nome, mentre se lo pronunci più volte, non lo designi? Oppure se pronunci lo stesso nome sia una volta sola sia più volte, è assolutamente necessario che tu enunci anche sempre lo stesso oggetto? Come no? - E anche il diverso è un nome attribuito a un determinato oggetto? - Certo. - Allora, quando lo pronunci, sia una volta sola sia più volte, non lo applichi ad altro né nomini [e] qualcos'altro se non quell'oggetto di cui era ed è nome. Necessariamente. - Dunque quando diciamo che diversi sono gli altri dall'uno e diverso è l'uno dagli altri, pur pronunciando due volte il termine 'diverso', tuttavia non lo applichiamo affatto ad un'altra natura, bensì sempre a quella di cui era ed è il nome. - Certo. - Poiché dunque l'uno è diverso dagli altri e gli altri lo sono dall'uno, per il fatto stesso di [148a] trovarsi affetti da questo diverso, l'uno risulterà affetto rispetto agli altri non da un'altra affezione, ma dalla stessa. Ma ciò che è affetto da un'affezíone identica è simile, mi pare. Non è così? - Sì. - Poiché dunque l'uno si trova affetto dall'essere diverso rispetto agli altri, per questo stesso aspetto esso sarà tutto simile a tutti gli altri; infatti è tutto diverso da tutti gli altri. - Sembra.
XVII. - Ma il simile è certamente contrario al dissimile. Sì. - Dunque anche il diverso lo è all'identico. - Anch'esso. - Ma ci è anche apparso che l'uno è identico agli altri. - Ci è apparso, infatti. - Ma l'essere identico agli altri è l'affezione [b] contraria all'essere diverso dagli altri. - Certo. - E in quanto diverso almeno, l'uno ci è apparso simile. - Sì. - Allora, in quanto identico, sarà dissimile, in base all'affezione contraria a quella che lo fa simile. E non era il diverso che lo rendeva simile? - Sì. - Sarà allora l'identico a renderlo dissimile; altrimenti l'identico non sarà contrario al diverso. - Sembra. - L'uno, dunque, sarà simile e dissimile rispetto agli altri, [c] simile in quanto diverso e dissimile in quanto identico. - A quanto sembra, esso ha anche un rapporto del genere. - Ed ha anche questo. - Quale? - In quanto affetto dall'identico, non è affetto dall'essere differente; ma non essendo affetto dall'essere differente, non è dissimile; ma non essendo dissimile, è simile. In quanto invece è affetto dall'essere altro, è differente; ma essendo differente, è dissimile. - E' vero quello che dici. - L'uno allora, poiché è identico agli altri e poiché è diverso, in base a entrambi questi aspetti e in base a ciascuno dei due, sarà simile e dissimile rispetto agli altri. - Certo.[d] - E analogamente anche rispetto a se stesso, dal momento che è apparso diverso da se stesso e identico a se stesso, in base a entrambi questi aspetti e in base a ciascuno dei due, apparirà simile e dissimile? - Necessariamente.
- E allora? A proposito dell'essere o del non essere l'uno in contatto con se stesso e con gli altri, esamina come stia la cosa. - Esamino. - L'uno stesso, mi pare, ci è apparso essere in se stesso in quanto intero. - Esattamente. - Ed anche negli altri? - Sì. - Allora, in quanto è negli altri, sarà in contatto con gli altri; mentre in quanto è in se stesso, gli sarà precluso [e] di essere in contatto con gli altri e sarà invece in contatto con se stesso, essendo in se stesso. - Pare. - E così l'uno sarà in contatto con se stesso e con gli altri. - Sarà in contatto. - E per quest'altra via? Tutto ciò che deve essere in contatto con qualcosa non deve forse essere adiacente all'oggetto con cui deve essere in contatto, occupando il posto immediatamente successivo a quello in cui sia situato l'oggetto del contatto? - Necessariamente. - Anche l'uno allora, se deve essere in contatto con se stesso, deve situarsi immediatamente di seguito a se stesso, occupando il posto adiacente a quello in cui è esso stesso. - Deve farlo, infatti. - Ora, se fosse due, l'uno potrebbe fare questo e venire a trovarsi [149a] contemporaneamente in due posti; ma finché è uno, non lo consentirà? - No, infatti. - E' la stessa necessità dunque a vietare all'uno di essere due e di essere in contatto con se stesso. - E' la stessa. - Ma neppure con gli altri sarà in contatto. - E perché? - Perché, noi diciamo, ciò che deve essere in contatto, ma rimanendo distinto, deve essere adiacente all'oggetto con cui deve essere in contatto e nessun terzo oggetto deve essere in mezzo a loro. - E' vero. - Come minimo allora devono esserci due oggetti, se deve esserci contatto. - Sì, devono. - Ma se a questi due termini se ne aggiunge di seguito un terzo, essi saranno tre, mentre i contatti saranno due. - Sì. [b] - E così con l'aggiunta successiva di uno si aggiunge anche un contatto e ne consegue che i contatti sono sempre minori di uno rispetto alla somma dei numeri. Infatti di quanto i primi due eccedevano i contatti per il fatto che il loro numero era maggiore a quello dei contatti, di questa uguale quantità anche il successivo numero totale eccede il totale dei contatti, dato che ormai di lì in poi nel mornento stesso in cui si fa un'aggiunta nel numero, si aggiunge anche un contatto ai [c] contatti. - Esattamente. - Per quanti siano dunque gli enti numericamente, i contatti sono sempre minori di uno rispetto ad essi. - E' vero. - Se invece c'è un solo ente e non c'è dualità, non può esserci contatto. - E come potrebbe? - Ma gli altri dall'uno, noi diciamo, né sono uno né partecipano di esso, se sono appunto altri. - No, infatti. - Negli altri allora non è insito numero, se in essi non c'è l'uno. - Come sarebbe possibile, infatti? - Dunque gli altri non sono né uno né due né nulla che abbia il nome di un altro numero. - No. - Solo l'uno, [d] allora, è uno e non può esserci dualità. - Pare di no. - E quindi non c'è contatto, se non c'è il due. - Non c'è. - Dunque né l'uno è in contatto con gli altri né gli altri lo sono con l'uno, dal momento che non c'è contatto. - No, infatti. E così, in base a tutte queste considerazioni, l'uno, sia con gli altri sia con se stesso, è in contatto e non è in contatto. - Sembra.
XVIII. - Ed è forse anche uguale e disuguale sia rispetto a se stesso, sia rispetto agli altri? - Come? - Se l'uno fosse maggiore o minore degli altri o, viceversa, gli altri fossero [e] maggiori o minori dell'uno, in quanto l'uno è uno e gli altri sono altri dall'uno, per queste loro sostanze almeno non potrebbero essere tra loro né maggiori né minori. Se invece oltre ad essere tali, avessero ciascuno l'uguaglianza, sarebbero uguali tra loro? E se invece gli uni possedessero grandezza e l'altro piccolezza, oppure l'uno grandezza e gli altri piccolezza, tra queste due idee sarebbe maggiore quella a cui si aggiungesse la grandezza e minore invece quella a cui si aggiungesse la piccolezza? - Necessariamente. - Esistono dunque queste due idee, la grandezza e la piccolezza? Perché, se non ci fossero, non sarebbero contrarie l'una all'altra e non verrebbero a ingenerarsi negli enti. - Come potrebbero, infatti? - Se [150a] dunque nell'uno s'ingenera la piccolezza, essa sarà insita o nell'intero o in una parte di esso. - Necessariamente. - Ma che avverrebbe se s'ingenerasse nell'intero? Non sarebbe essa o ugualmente coestesa all'uno per tutta la sua interezza oppure circoscrivente l'uno? - Evidentemente. - Ma se fosse ugualmente coestesa, la piccolezza non sarebbe forse uguale ad esso, mentre, se lo circoscrivesse, non sarebbe maggiore? - Come no? - Ma è possibile che la piccolezza sia uguale a qualcosa o maggiore di qualcosa e svolga le funzioni di grandezza e di uguaglianza, ma non le proprie? - E' impossibile.[b] - Dunque la piccolezza non può essere nell'uno intero, ma se mai, in una parte. - Sì. - Né d'altronde in tutta la parte; altrimenti produrrà gli stessi effetti che in rapporto all'intero: cioè sarà uguale o maggiore della parte in cui venga ad essere insita di volta in volta. - Necessariamente. - Dunque la piccolezza non sarà mai insita in nessuno degli enti, dal momento che non s'ingenera né in una parte né in un intero; né ci sarà qualcosa di piccolo all'infuori della piccolezza in sé. - Sembra di no. - E neppure la grandezza sarà insita in esso, perché ci sarebbe qualcos'altro di maggiore oltre la grandezza in sé, ossia ciò in cui fosse insita la grandezza, e questo senza che [c] ci sia un piccolo rispetto al quale dovrebbe eccedere, se è appunto grande. Ma questo è impossibile, dal mornento che la piccolezza non è insita in nessun luogo. - E' vero. - Anzi la grandezza in sé non di altro è maggiore che della piccolezza in sé, né la piccolezza di altro è minore che della grandezza in Sé. - No, infatti. - Dunque né gli altri sono maggiori o minori dell'uno, dal momento che non posseggono né grandezza né piccolezza, né queste stesse due hanno la possibilità in rapporto all'uno di eccedere e di difettare, bensì soltanto [d] l'una in rapporto all'altra; né a sua volta l'uno può essere maggiore o minore di queste due o degli altri, dal momento che non possiede né grandezza né piccolezza. - Pare di no. - Se dunque l'uno non è né maggiore né minore degli altri, è necessario che esso né ecceda né difetti rispetto ad essi? - E' necessario. - E ciò che né eccede né difetta è assolutatnente necessario che sia di ugual misura, ma essendo di ugual misura è necessario che sia uguale. - Come no? - E certamente anche l'uno in sé sarà in questa situazione rispetto a se stesso: [e] non avendo in sé né grandezza né piccolezza, non eccederà né difetterà rispetto a se stesso, ma essendo di ugual misura, sarà uguale a se stesso. - Certo. - Dunque l'uno sarà uguale a se stesso e agli altri. - Pare. - E certamente, essendo in se stesso, sarà anche dall'esterno intorno a se stesso e, in quanto circoscrivente, sarà maggiore di se stesso, in quanto invece [151a] circoscritto, minore; e in questo modo l'uno in sé sarà maggiore e minore di se stesso. - Lo sarà, infatti. - Non è allora necessarío anche questo: che non ci sia nulla al di fuori dell'uno e degli altri? - Come no? - Ma ciò che è in ogni caso deve sempre essere anche in qualche luogo. - Sì. - Dunque, ciò che è in qualcosa sarà in qualcosa di maggiore, essendo a sua volta minore? Perché in altro modo una cosa non può essere in un'altra. - No, infatti. - Ma poiché non c'è nient'altro al di fuori degli altri e dell'uno e poiché essi devono essere in qualcosa, non è ormai necessario che essi siano l'uno nell'altro, ossia gli altri nell'uno e l'uno negli altri, oppure che non siano in nessun luogo? - Pare. - Ora, in quanto l'uno è negli [b] altri, gli altri saranno maggiori dell'uno, dal momento che lo abbracciano, mentre l'uno sarà minore degli altri, dal momento che ne è abbracciato. Ma in quanto gli altri sono nell'uno, per la stessa ragione l'uno sarà maggiore degli altri, mentre gli altri saranno minori dell'uno. - Sembra. - L'uno, dunque, è uguale, maggiore e minore sia di se stesso, sia degli altri. - Pare. - E certamente, se è maggiore e minore e uguale, sarà di misure uguali e più numerose e meno numerose rispetto a se stesso e rispetto agli altri; e poiché di misure, [c] anche di parti. - Come no? - Ed essendo di misure uguali e più e meno numerose, anche numericamente sarà minore e maggiore di se stesso e degli altri e analogamente uguale a se stesso e agli altri. - Come? - Rispetto agli oggetti di cui è maggiore, avrà anche più misure e quante misure, anche parti; e allo stesso modo rispetto a quelli di cui è minore; e analogamente rispetto a quelli a cui è uguale. - E' così. - Dunque, essendo maggiore e minore e uguale, sarà di misure uguali e più numerose e meno numerose di se stesso e poiché [d] di misure, anche di parti? - Come no? - Allora essendo di parti uguali a se stesso, sarà quantitativamente uguale a se stesso, mentre essendo di parti più numerose, sarà più di se stesso ed essendo di parti meno numerose, minore numericamente di se stesso. - Pare. - E l'uno non si troverà in questa stessa situazione anche in rapporto agli altri? In quanto appare maggiore di essi, è necessario che sia anche numericamente più di essi; in quanto più piccolo invece, meno di essi e in quanto uguale di grandezza, uguale anche quantitativamente agli altri? - E' necessario. - E così ancora una volta, a quanto sembra, l'uno sarà numericamente uguale e più e [e] meno sia di se stesso, sia degli altri. - Lo sarà.
XIX. - L'uno allora partecipa anche del tempo ed è e diventa sia più giovane, sia più vecchio, tanto di se stesso quanto degli altri, e né più giovane né più vecchio né di se stesso né degli altri, se partecipa del tempo? - Come? - Gli appartiene di essere, mi pare, se è appunto uno. - Sì. - Ma l''essere' che cos'altro è se non partecipazione alla sostanza in congiunzione col tempo presente, così come l''era' è comunicazione [152a] con la sostanza in congiunzione col passato e il 'sarà', a sua volta, in congiunzione col futuro? - Lo è, infatti. - Allora partecipa del tempo, se partecipa appunto anche dell'essere. - Certo. - E del tempo che procede? - Sì - Allora diventa sempre più vecchio di se stesso, se avanza appunto nel tempo. - Necessariamente. - E ci ricordiamo che il più vecchio diventa più vecchio di ciò che diventa più giovane? - Ce lo ricordiamo. - Poiché dunque l'uno diventa più vecchio di se stesso, diventerà più vecchio di se stesso che diventa più giovane? - Necessariamente. - In questo modo [b] diventa appunto più giovane e più vecchio di se stesso. - Sì. - E non è forse più vecchio quando lo stia diventando nel tempo dell''ora', intermedio tra l"era' e il 'sarà'? Infatti, nel suo procedere dal prima al dopo, non potrà saltare, credo, l''ora'. - No, infatti. - Ma non si arresta forse dal diventare più vecchio nel momento in cui incontri l''ora'e in quel momento non diventa, ma è già più vecchio? Infatti, se avanzasse [c] ancora, non sarebbe mai afferrato dall''ora', perché ciò che avanza è nella situazione di trovarsi a contatto con entrambi, l''ora' e il 'poi', in quanto dall''ora' si sta allontanando e al 'poi' invece si sta afferrando, divenendo nell'intervallo fra entrambi, il 'poi' e l''ora'. - E' vero. - Ma se è necessario che tutto ciò che diviene non possa passare a fianco dell''ora', una volta che ci sia sopra, si arresta sempre dal [d] divenire ed in quel momento è ciò che ad esso capita di star diventando. - Pare. - Anche l'uno allora, quando nel diventar più vecchio incontri l''ora', si arresta dal divenire ed è in quel momento più vecchio. - Certo. - Dunque di ciò di cui diventava più vecchio, di questo è anche più vecchio. Ma lo diveniva di se stesso? - Sì. - E il più vecchio è più vecchio di uno più giovane? - Lo è. - Dunque l'uno è anche più giovane di se stesso nel momento in cui, diventando più vecchio, incontri l''ora'. - Necessariamente. - Ma l''ora' si accompagna sempre all'uno per tutto il suo essere: infatti esso, [e] ogni volta che è, è sempre ora. - Come no? - Sempre, dunque, l'uno è e diviene più vecchio e più giovane di se stesso. - Sembra, - Ma lo è e lo diviene per più tempo di se stesso o per un tempo uguale? - Per un tempo uguale. - Ma se diviene o è per un tempo uguale, ha certamente la stessa età. - Come no? - Ma ciò che ha la stessa età non è né più vecchio né più giovane. - No, infatti. - Dunque l'uno che diviene ed è per un tempo uguale rispetto a se stesso, non è e non diviene né più giovane né più vecchio di se stesso. - Mi pare di no. - E degli altri? - Non so che dire. - Ma questo almeno puoi dirlo, che gli altri dall'uno, essendo appunto diversi [153a] e non diverso, sono più di uno, perché se fossero diverso, sarebbero uno, mentre essendo diversi sono più di uno e devono avere quantità. - Devono averla, infatti. - Ma essendo quantità, parteciperanno di un numero maggiore dell'uno. Come no? - E nell'ambito del numero diremo che vengono e sono venuti ad essere prima i maggiori o i minori? - I minori. - Primo allora sarà il minimo; e questo è l'uno. Non è così? - Sì. - Dunque di tutto ciò che ha numero l'uno è venuto [b] ad essere per primo. Ma anche gli altri, se sono appunto altri e non altro, hanno tutti numero. - Ce l'hanno, infatti. - Ma essendo venuto ad essere per primo è venuto ad essere prima, credo, mentre gli altri sono venuti ad essere dopo e le cose che sono venute ad essere dopo sono più giovani di ciò che è venuto ad essere prima. E in questo modo gli altri saranno più giovani dell'uno, mentre l'uno sarà più vecchio degli altri. - Lo sarà, infatti.
XX. - E che ne è di questo? E' possibile che l'uno sia venuto ad essere contro la propria natura o è impossibile? - E' impossibile. - Ma l'uno è apparso in possesso di parti e, se di [c] parti, anche di principio, di fine e di mezzo. - Sì. - Ora, prima di tutto viene ad essere il principio, sia dell'uno stesso, sia di ciascuno degli altri, e dopo il principio vengono ad essere anche tutte le altre cose sino alla fine? - Come no? - E tutte queste altre cose noi diremo che sono parti dell'intero e dell'uno e che lo stesso uno è venuto ad essere uno e intero contemporaneamente alla fine. - Lo diremo. - Ma la fine, credo, viene ad essere per ultima e l'uno per sua natura viene ad essere contemporaneamente a questa, sicché, se è appunto [d] necessario che l'uno stesso non venga ad essere contro la propria natura, dal momento che è venuto ad essere contemporaneamente alla fine, sarà per sua natura che viene ad essere ultimo rispetto agli altri. - Pare. - Allora l'uno è più giovane degli altri, mentre gli altri sono più vecchi dell'uno. - Pare così anche a me. - E allora? Il principio o qualsiasi altra parte dell'uno o di qualsiasi altra cosa, se è appunto parte e non parti, non è necessario che sia uno, almeno essendo parte? - Necessariamente. - L'uno allora verrà ad essere contemporaneamente sia a ciò che viene ad essere primo, sia a ciò che viene ad essere secondo, e non manca a nessuna [e] delle altre parti che vengono ad essere via via, qualunque sia che venga ad aggiungersi a un'altra qualsiasi, finché dopo aver effettuato il percorso sino alla parte estrema, venga ad essere uno e intero, senza mancare né del mezzo né del primo né dell'estremo né di nessun'altra parte nella sua genesi. - E' vero. - L'uno dunque ha la stessa età di tutti gli altri, sicché, se l'uno in sé non si è generato contro natura, non può essersi generato né prima né dopo gli altri, ma contemporaneamente. E in base a questo ragionamento l'uno non sarà né più vecchio né più giovane degli altri, né gli altri [154a] lo saranno dell'uno; mentre in base al ragionamento precedente esso era più vecchio e più giovane e analogamente gli altri rispetto ad esso. - Certo. - Così dunque è ed è venuto a essere. Ma che dire a proposito del suo venire ad essere più vecchio e più giovane degli altri, e gli altri di lui, e del suo non venire ad essere né più giovane né più vecchio? Anche nel caso del venire ad essere le cose stanno come in quello dell'essere oppure diversamente? - Non so dirlo. - Ma io [b] questo almeno so: che se una cosa è più vecchia di un'altra, non è più possibile che essa diventi ancora più vecchia della differenza iniziale di età, che aveva appena nata, né d'altra parte che la più giovane diventi ancora più giovane, perché ugualí aggiunti a disuguali, di tempo o di qualsiasi altra grandezza, danno come risultato una differenza sempre uguale alla differenza iniziale. - Come no? - Dunque ciò che è non diventerà mai né più vecchio né più giovane di ciò che è, se la [c] differenza di età rimane sempre uguale, anzi uno è ed è diventato più vecchio e l'altro più giovane, ma non lo diventano. - E' vero. - Allora l'uno che è non diventa mai né più vecchio né più giovane degli altri che sono. - No, infatti. - Ma guarda se per questa via essi diventano più vecchi e più giovani. - Per quale? - Quella per cui l'uno è apparso più vecchio degli altri e gli altri dell'uno. - E allora? - Quando l'uno sia più vecchio degli altri, è venuto ad essere da più tempo degli altri, mi pare. - Sì. - Considera nuovamente: se ad [d] un tempo maggiore e a uno minore aggiungiamo un tempo uguale, il maggiore differirà dal minore di una frazione uguale o di una più piccola? - Di una più piccola. - Allora, quale che sia la differenza di età che l'uno inizialmente aveva in rapporto agli altri, tale differenza esso non l'avrà anche in seguito, ma acquistando un tempo uguale a quello acquistato dagli altri, avrà rispetto ad essi una differenza di età sempre minore di prima. O no? - Sì. - Dunque ciò che in rapporto a qualcosa differisce in età meno di prima, diventerà più [e] giovane di prima relativamente alle cose rispetto a cui prima era più vecchio? - Sì, più giovane. - Ma se esso diventa più giovane, quegli altri a loro volta non diventano in rapporto all'uno più vecchi di prima? - Certo. - Dunque ciò che è diventato più giovane diventa più vecchio rispetto a ciò che è diventato prima e che è più vecchio, ma non è mai più vecchio, bensì diventa sempre più vecchio di quello. Quello, infatti, procede in direzione dell'essere più giovane, mentre esso in quella dell'essere più vecchio. Il più vecchio, d'altra [155a] parte, diventa più giovane del più giovane analogamente. Infatti, procedendo entrambi in direzione contraria, diventano l'uno il contrario dell'altro, il più giovane più vecchio del più vecchio e il più vecchio più giovane del più giovane, ma non sono in grado di essere diventati tali, perché se lo fossero diventati, non lo diventerebbero più, ma lo sarebbero. Ora invece diventano più vecchi e più giovani reciprocamente: l'uno diventa più giovane degli altri, in quanto è apparso essere più vecchio e venuto ad essere prima, mentre gli altri diventano più vecchi dell'uno, in quanto sono venuti ad essere[b] dopo. In base allo stesso ragionamento tale è anche il rapporto degli altri con l'uno, dal momento che essi sono apparsi più vecchi dell'uno e venuti ad essere prima. - Pare che sia tale, infatti. - Poiché dunque nessuna cosa diventa più vecchia né più giovane di un'altra, in quanto differiscono sempre tra loro di un numero uguale, né l'uno diventerà più vecchio o più giovane degli altri, né gli altri dell'uno. Ma poiché è necessario che differiscano di una frazione sempre diversa le cose che sono venute ad essere prima rispetto a quelle [c] venute dopo e quelle venute dopo rispetto a quelle venute prima, per questo è appunto necessario che diventino reciprocamente più vecchi e più giovani, sia gli altri dell'uno, sia l'uno degli altri? - Certo. - In base a tutte queste argomentazioni allora l'uno in sé è e diventa più vecchio e più giovane sia di se stesso, sia degli altri, e non è né diventa né più vecchio né più giovane né di sé né degli altri. - Perfettamente. - Ma poiché l'uno partecipa del tempo e del diventare più vecchio e più giovane, non è forse necessario che [d] partecipi del prima e del poi e dell'ora, se partecipa appunto del tempo? - E' necessario. - Dunque l'uno era, è e sarà e diveniva, diviene e diventerà. - Perché no? - E per esso e di esso può esserci qualcosa e c'era e c'è e ci sarà. - Certo. Dunque di esso può esserci scienza e opinione e sensazione, dato che anche ora noi stiamo compiendo nei suoi confronti tutte queste operazioni. - E' corretto ciò che dici. - E per esso c'è anche un nome e un discorso ed esso è denominato e enunciato. E tutte le cose di questo genere che si trovano a [e] concernere gli altri, esistono anche a proposito dell'uno. E' perfettamente proprio così.
XXI. - Diciamo ancora per la terza volta. Se l'uno è quale abbiamo esposto, non è forse necessario che esso, essendo uno e molti e né uno né molti e partecipando del tempo, in quanto è uno, in un certo momento partecipi dell'essere e in un altro momento, invece, in quanto non è, non partecipi dell'essere? -E' necessario. - Potrà dunque, nel momento stesso in cui partecipa, non partecipare e nel momento stesso in cui non partecipa, partecipare? - Non potrà. - Dunque in un certo tempo partecipa e in un altro non partecipa, perché soltanto in questo modo può partecipare e non partecipare della medesima cosa. - Esattamente. - Dunque c'è anche il tempo in cui viene ad assumere l'essere e quello in cui [156a] lo abbandona? O come sarà possibile che ora lo abbia e ora non lo abbia, se non c'è mai un momento in cui lo assuma e lo lasci? - In nessun modo sarà possibile. - E il venire ad assumere l'essere non lo chiami forse nascere? - Io sì. - E l'abbandonare l'essere non lo chiami forse perire? - Certo. L'uno allora, a quanto sembra, assumendo e lasciando l'essere, nasce e perisce. - Necessariamente. - Ma essendo uno e [b] molti e nascendo e perendo, quando diventa uno, non perisce forse il suo essere molti e quando diventa molti, non perisce forse il suo essere uno? - Certo. - Ma divenendo uno e molti, non è forse necessario che si disgreghi e si aggreghi? - E' molto necessario. - E quando diventi dissimile e simile, che si assimili e si diversifichi? - Sì. - E quando diventi maggiore e minore e uguale, che si accresca e diminuisca e si eguagli? - E' cosi. - Ma quando, essendo in moto, si fermi e [c] quando, essendo fermo, si muti in direzione del movimento, bisogna certamente che esso non sia in nessun tempo. - E come? - Star fermo prima e successivamente muoversi e muoversi prima e successivamente fermarsi, queste cose sarà impossibile che esso le subisca senza mutare. - Come potrebbe, infatti? - Ma non c'è nessun tempo in cui sia possibile che qualcosa contemporaneamente né si muova né stia fermo. - Non c'è, infatti. - Ma neppure muta senza il mutare. - Non è verosimile. - E allora quando muta? Infatti non muta né quando sta fermo né quando si muove né quando è nel tempo - No, infatti. - Esiste allora questa cosa stupefacente, [d] nella quale esso sia nel momento in cui muta? - Quale cosa? - l'istante. L'istante infatti sembra significare qualcosa di questo genere: ciò a partire da cui muta passando nell'una o nell'altra di due condizioni. Infatti non muta a partire dallo star fermo quando ancora è fermo né muta a partire dal movimento quand'è ancora in movimento; anzi questa natura un po' stupefacente dell'istante si situa tra il movimento e la quiete, senza essere in alcun tempo, e procedendo dall'uno [e] in direzione dell'altro ciò che si muove muta passando nello star fermo e ciò che sta fermo passando nel muoversi. - C'è il rischìo. - Anche l'uno allora, se appunto sta fermo e si muove, muterà passando nell'una o nell'altra condizione, perché solo così potrà fare l'una e l'altra cosa, ma mutando muta istantaneamente e quando muta, non può essere in alcun tempo e in quell'istante né si muoverà né starà fermo. - No, infatti. - E non è forse così anche per gli altri mutamenti? Quando dall'essere muta passando al perire o dal non essere al [157a] nascere, in quell'istante viene ad essere tra determinati movimenti e stati di quiete e allora né è né non è, né nasce né perisce? - Almeno sembra. - Stando allo stesso ragionamento, allora, anche nel passare da uno a molti e da molti a uno, non è né uno né molti, né si disgrega né si aggrega. Ed anche nel passare da simile a dissimile e da dissimile a simile, non è né [b] simile né dissimile, né si assimila né si diversifica. E così nel passare da piccolo a grande e a uguale e viceversa, non è né piccolo né grande né uguale, né si accresce né diminuisce né si eguaglia. - Sembra di no. - Tutte queste affezioni allora si troverà a subire l'uno, se è. - Come no?
XXII. - Ma non bisogna forse esaminare che cosa tocca subire agli altri, se l'uno è? - Bisogna esaminarlo. - Diciamo allora che cosa devono subire gli altri dall'uno, se l'uno è? - Diciamolo. - Poiché sono appunto altri dall'uno, gli altri non sono l'uno, perché altrimenti non sarebbero altri dall'uno. - Esattamente. - Ma gli altri neppure sono completamente [c] privi dell'uno, anzi in qualche modo ne partecipano. - In quale? - In questo, che gli altri dall'uno sono altri in quanto hanno parti, perché se non avessero parti, sarebbero perfettamente uno. - Esatto. - Ma parti, noi diciamo, sono parti di ciò che sia un intero. - Lo diciamo, infatti. - Ma l'intero è necessariamente un'unità consistente di una molteplicità e di esso saranno parti le parti. Infatti ciascuna delle parti deve essere parte non di una molteplicità, ma di un intero. - Come questo? - Se qualcosa fosse parte di una molteplicità, nella quale essa fosse inclusa, sarebbe certamente parte di se stessa, il [d] che è impossibile, e di ciascuna singolarmente delle altre, se è appunto parte di tutte. Infatti, se non è parte di una, lo sarà delle altre all'infuori di questa e così non sarà parte di ciascuna singolarmente, ma non essendolo parte di ciascuna, non lo sarà di nessuna delle molte. Ma non essendo di nessuna, è impossibile che sia qualcosa, parte o qualsiasi altra cosa, di tutte queste, di ciascuna delle quali è nulla. - Pare almeno. - La parte allora non è parte né della molteplicità né di una totalità, ma di una determinata idea unica e di una determinata unità che chiamiamo intero, che è venuto ad [e] essere una unità compiuta a partire da una totalità. E' di questo che la parte sarà parte. - Proprio così. - Se dunque gli altri hanno parti, parteciperanno sia dell'intero sia dell'uno. - Certo. - E' necessario allora che gli altri dall'uno siano un uno intero compiuto fornito di parti. - E' necessario. - E identico è il discorso anche per ciascuna parte, perché anche questa necessariamente partecipa dell'uno. Infatti, se ciascuna [158a] di esse è parte, il 'ciascuna' significa appunto che è una, distinta dalle altre ed esistente di per sé, se sarà appunto ciascuna. - Esattamente. - Ma parteciperà dell'uno evidentemente perché è altro dall'uno; altrimenti non parteciperebbe, ma sarebbe uno essa stessa. Ora essere uno è impossibíle, mi pare, tranne che all'uno stesso. - E' impossibile.- Invece partecipare dell'uno è necessario sia per l'intero sia per la parte. Il primo infatti sarà un singolo intero, di cui sono parti le parti, mentre ciascuna parte che sia parte di un intero sarà una singola parte dell'intero. - E' così. - E non è in [b] quanto diverse dall'uno che parteciperanno dell'uno le cose che ne partecipano? - Come no? - Ma le cose diverse dall'uno saranno molte, mi pare, perché se le cose altre dall'uno non fossero né uno né più di uno, non sarebbero nulla. - No, infatti.
- Ma poiché sono più di uno sia le cose che partecipano dell'uno che è parte, sia quelle che partecipano dell'uno che è intero, non è fin d'ora necessario che siano illimitatamente molteplici queste stesse cose che partecipano dell'uno? - Come? - Vediamo così la cosa. Nel momento in cui partecipano dell'uno, non ne partecipano forse in quanto non sono uno né partecipano dell'uno? - Evidentemente. - Dunque in quanto sono delle molteplicità, nelle quali l'uno non è incluso? [c] - Delle molteplicità, certamente. - E allora? Se col pensiero volessimo sottrarre da tali molteplicità il minimo che ci sia possibile, non è necessario che anche questo minimo sottratto, se appunto non partecipa dell'uno, sia molteplicità e non uno? - E' necessario. - Procedendo sempre in questo modo nell'esaminare la natura in sé e per sé diversa dall'idea, quanto di essa vediamo ogni volta sarà illimitata molteplicità? - Proprio così. - E certamente quando ciascuna singola parte diventi parte, da quel momento ha un limite [d] rispetto alle altre parti vicendevolmente e rispetto all'intero e così l'intero rispetto alle parti. - Precisamente. - Agli altri dall'uno, allora, consegue che, in seguito alla loro comunanza con l'uno e con se stessi, viene a generarsi qualcosa di diverso, a quanto sembra, il quale procura loro appunto un limite reciproco; mentre la loro stessa natura procura ad essi, di per se stessi, illimitatezza. - Pare. - E così gli altri dall'uno, sia come interi sia parte per parte, sono illimitati e partecipano di limite. - Certo.
- Sono dunque anche simili e dissimili, sia reciprocamente [e] sia rispetto a se stessi? - In che modo? - In quanto sono tutti illimitati secondo la loro propria natura, saranno dunque affetti dalla medesima proprietà. - Certo. - E in quanto partecipano tutti di limite, anche per questo saranno tutti affetti dalla medesima proprietà. - Come no? - Ma in quanto si trovano affetti dall'essere limitati e illimitati, sono affetti da queste proprietà che sono contrarie tra loro. - Sì.[159a] - Ma i contrari sono dissimili al massimo grado possibile. - Come no? - Stando allora a ciascuna delle due affezioni singolarmente essi saranno simili a se stessi e reciprocamente, mentre stando a entrambe insieme saranno sotto entrambi i rapporti contrarissimi e dissimlissimi. - C'è il rischio. - E così gli altri stessi saranno simili e dissimili, sia a se stessi sia reciprocamente. - E' così. - E non avremo più alcuna difficoltà a trovare che gli altri dall'uno sono identici e diversi tra loro, in movimento e in quiete e sono affetti da tutte le proprietà contrarie, dal momento che ci sono appunto apparsi affetti da esse. - E' esatto ciò che dici. [b]
XXIII. - E se lasciamo ormai stare queste cose come evidenti e riesaminiamo invece nuovamente se l'uno è, gli altri dall'uno si trovano forse soltanto in questa condizione o non anche in questa? - Certo. - Diciamo allora da capo: se l'uno è, da quali proprietà devono essere affetti gli altri dell'uno? - Diciamolo. - L'uno non è forse separato dagli altri e gli altri non sono forse separati dall'uno? - E perché? - Perché, mi pare, oltre ad essi non c'è una cosa diversa che sia altro dall'uno e altro dagli altri. Infatti si è detto tutto, quando si è [c] detto l'uno e gli altri. - Sì, tutto. - Dunque non c'è in più una cosa diversa da questi e nella quale l'uno e gli altri possano coesistere. - No, infatti. - Dunque non coesistono mai nella stessa cosa l'uno e gli altri. - Sembra di no. - Allora sono separati? - Sì. - E neppure diciamo che abbia parti l'uno che è veramente uno. - Come potrebbe, infatti? - L'uno, dunque, non può essere intero negli altri né possono essere negli altri parti di esso, se è separato dagli altri e non ha parti. - Come potrebbe, infatti? - In nessun modo allora gli altri possono [d] partecipare dell'uno, né partecipando di qualche sua parte né partecipando della sua interezza. - Sembra di no. - In nessun modo allora gli altri sono uno, né hanno in se stessi niente di uno. - No, infatti. - Dunque gli altri non sono neppure molti. Infatti ciascuno di essi sarebbe una singola parte dell'intero, se essi fossero molti. Ora invece gli altri dall'uno non sono né uno né molti, né intero né parti, dal momento che in nessun modo partecipino di esso. - Esattamente. - E neppure due né tre sono gli altri stessi né il due o il tre sono insiti in essi, se sono appunto completamente privati [e] dell'uno. - E' così.
- E neppure sono simili e dissimili rispetto all'uno gli altri stessi, né c'è in essi somiglianza e dissomiglianza. Infatti, se fossero essi stessi simili e dissimili o avessero in se stessi somiglianza e dissomiglianza, gli altri dall'uno avrebbero in se stessi, mi pare, due idee reciprocamente contrarie. - Pare. - Ma è impossibile, si è detto, che partecipino di due cose qualsiasi cose che non partecipano nemmeno di una. - E' impossibile. - Dunque gli altri non sono né simili né dissimili né le due cose insieme, perché se fossero simili o dissimili rispetto [160a] all'uno, parteciperebbero dell'una o dell'altra idea e, se fossero le due cose insieme, parteciperebbero delle due idee contrarie. Ma questo è apparso impossibile. - E' vero.
- E allora non sono neppure identici né diversi, né in movimento né in quiete, né nascono né muoiono, né sono maggiori né minori né ugualí, né sono affetti da nessun'altra di tali proprietà. Infatti, se tollerano di essere affetti da qualcosa del genere, essi parteciperanno anche dell'uno e del due e del tre e del dispari e del pari, di cui è apparso impossibile che essi partecipino, dal momento che sono totalmente e assolutamente [b] privi dell'uno. - E' verissimo. - Così dunque, se l'uno è, l'uno è tutto e non è neppure uno, allo stesso modo sia in rapporto a se stesso, sia in rapporto agli altri. - Perfettamente.
XXIV. - Bene. Ma se l'uno non è, non bisogna forse indagare dopo questo che cosa ne deve conseguire? - Bisogna indagarlo, infatti. - In che cosa può consistere questa ipotesi, se l'uno non è? Differisce forse in qualcosa da questa: se il non uno non è? - Certo che differisce. - Differisce soltanto o è anche totalmente il contrario dire 'se il non uno non è' [c] dal dire 'se l'uno non è'? - E' totalmente il contrario. - Ma se uno dicesse 'se la grandezza non è' o 'se la piccolezza non è' o qualche altra proposizione del genere, in ciascun caso non indicherebbe forse di star dicendo che ciò che non è, è qualcosa di diverso? - Certo. - Anche ora dunque indica di star dicendo che ciò che non è, è qualcosa di diverso dagli altri, quando dice 'se l'uno non è', e sappiamo quel che vuol dire? - Lo sappiamo. - In primo luogo dunque parla di qualcosa di conoscibile e in secondo luogo di qualcosa di diverso dagli altri, quando dice 'uno', sia che gli aggiunga l'essere, sia che gli aggiunga il non essere. Infatti non si conosce [d] affatto meno che cosa sia ciò di cui si dice che non è e che è differente dagli altri. O no? - Necessariamente. - Bisogna allora dire da capo in questo modo: se l'uno non è, che cosa ne deve risultare? In primo luogo deve appartenergli questo, a quanto sembra, che di esso c'è scienza; altrimenti non si conosce neppure che cosa si dice, quando si dice 'se l'uno non è'. - E' vero. - Ed anche che gli altri sono diversi da esso, altrimenti neppure esso potrebbe essere detto diverso [e] dagli altri? - Certo. - Anche la diversità allora gli appartiene, oltre la scienza. Infatti quando si dice che l'uno è diverso dagli altri, si parla non della differenza degli altri, ma di quella sua. - Pare. - E certamente l'uno che non è partecipa anche del 'di quello' e del 'di qualcosa' e del 'di questo' e 'a questo' e 'di questi' e di tutte le determinazioni del genere. Infatti non si potrebbe parlare dell'uno né di cose diverse dall'uno, né ci sarebbe qualcosa per lui né di lui, né si potrebbe dirne qualcosa, se non gli spettassero né il 'qualcosa' né queste altre determinazioni. - Esattamente. - Essere non è certo possibile all'uno, se appunto non è, ma nulla impedisce che esso partecipi di molte cose, anzi è necessario, se è appunto [161a] quell'uno e non altro che non è. Se invece non sarà né l'uno né quell'uno, ma il discorso concerne qualcos'altro, non si deve neppure pronunciare nulla; mentre se è di quell'uno e non di altro che si pone come ipotesi che non è, è necessario che gli spettino sia il 'quello', sia molte altre determinazioni. - Proprio così.
- Esso allora possiede anche dissomiglianza rispetto agli altri. Infatti, gli altri dall'uno, essendo diversi, saranno anche di specie diversa. - Sì. - Ma se di specie diversa, non sono di altra specie? - Come no? - E se di altra specie, non sono dissimili? - Dissimili, certo. - Se dunque sono dissimili dall'uno, [b] è chiaro che è rispetto a un dissimile che i dissimili saranno dissimili. - E' chiaro. - Anche l'uno dunque avrà dissomiglianza ed è relativamente ad essa che gli altri sono dissimili dall'uno. - Sembra. - Ma se esso ha appunto dissomiglianza dagli altri, non è forse necessario che abbia somiglianza con se stesso? - Come? - Se l'uno ha dissomiglianza dall'uno, il discorso non verterà, mi pare, su un oggetto tale quale l'uno, né l'ipotesi verterà sull'uno, bensì su altro dall'uno. - Certo. - Ma non è così che deve essere. - No certo. - [c] L'uno allora deve avere somiglianza con se stesso. - Deve.
- E certamente non è neppure uguale agli altri, perché se fosse uguale, già sarebbe e sarebbe simile ad essi per quanto riguarda l'uguaglianza. Ma entrambe queste cose sono impossibili, se appunto l'uno non è. - Impossibili. - Ma dal momento che non è uguale agli altri, non è forse necessario che anche gli altri non siano uguali ad esso? - E' necessario. - Ma i non uguali non sono disuguali? - Sì. - E i disuguali non sono disuguali rispetto a ciò che è disuguale? - Come no? - L'uno allora partecipa anche di disuguaglianza ed è relativamente ad essa che gli altri sono disuguali da lui? - Sì [d] partecipa. - Ma alla disuguaglianza appartengono certamente grandezza e piccolezza. - Le appartengono. - Allora all'uno che è tale appartengono sia grandezza sia piccolezza? C'è il rischio. - Ma grandezza e piccolezza sono sempre distanti tra loro. - Certo. - Dunque c'è sempre qualcosa di intermedio tra esse. - C'è. - Puoi dire qualcos'altro di intermedio tra esse che non sia l'uguaglianza? - No, è proprio questo. - Allora a ciò a cui appartengono grandezza e piccolezza, appartiene anche l'uguaglianza, che è intermedia tra queste due. - Pare. - A quanto sembra, allora, all'uno che [e] non è spetteranno uguaglianza e grandezza e piccolezza. - Sembra.
- E certamente anche dell'essere esso deve partecipare in qualche modo. - E come? - Esso deve trovarsi in questa condizione che diciamo, perché, se non fosse così, noi non diremmo cose vere dicendo che l'uno non è. Se invece diciamo cose vere, è chiaro che diciamo cose che sono. O non è così? - Così, certo. - Ma poiché affermiamo di dire cose vere, è necessario che noi affermiamo anche di dire cose che sono. [162a] - E' necessario. - A quanto sembra, allora, l'uno che non è è. Infatti se non sarà non esistente, ma in qualche modo si allontanerà dall'essere avviandosi verso il non essere, immediatamente sarà esistente. - Proprio così. - Dunque esso deve avere come legame col non essere l'essere non esistente, se deve non essere, così come ciò che è, per poter essere a sua volta compiutamente, deve avere il non essere non esistente. E' così infatti che ciò che è soprattutto sarà e ciò che non è non sarà: ciò che è partecipando della sostanza dell'essere esistente, ma non della sostanza del non essere non esistente, se intende essere compiutamente; ciò che non è, invece,[b] partecipando non della sostanza del non essere esistente, ma della sostanza dell'essere non esistente, se anche ciò che non è, a sua volta, non sarà compiutamente. - E' verissimo. - Dunque, poiché a ciò che è spetta il non essere e a ciò che non è l'essere, anche all'uno, dal momento che non è, è necessario che spetti l'essere in riferimento al suo non essere. - E' necessario. - Anche l'essere allora risulta appartenere all'uno, se non è. - Sì, risulta. - E anche il non essere, se appunto non è. - Come no?
- Ed è possibile che ciò che è in una determinata condizione non sia in tale condizione, senza mutare rispetto a questa condizione? - Non è possibile. - Allora tutto ciò che è tale, che sia e non sia in una determinata condizione, [c] significa mutamento. - Come no? - Ma mutamento è movimento. O che diremo? - Movimento. - Dunque, l'uno è apparso essere e non essere? - Sì. - Allora appare essere e non essere in una determinata condizione. - Sembra. - Allora l'uno che non è, è apparso anche in movimento, dal momento che è apparso in possesso anche di mutamento dall'essere al non essere. - C'è il rischio. - Ma se non è in nessun luogo tra le cose che sono, come non è se appunto non è, non potrà neppure spostarsi da un luogo a un altro. - Come potrebbe, infatti? - Allora non potrà muoversi per [d] spostamento. - No, infatti. - Né potrà rivoltarsi nello stesso luogo, perché in nessun luogo ha contatto con ciò che è identico. Infatti l'identico è una cosa che è, mentre ciò che non è, è impossibile che sia in qualcuna delle cose che sono. - E' impossibile, infatti. - Dunque l'uno che non è non può rivoltarsi in ciò in cui non è. - No, infatti. - Né, credo, l'uno si altera rispetto a se stesso, né l'uno che è né l'uno che non è. Infatti, il discorso non verterebbe più sull'uno, se esso si alterasse rispetto a se stesso, ma su qualcos'altro. Esattamente. - Ma se né si altera né si rivolta nello stesso luogo né si sposta, si può ancora muovere in qualche modo? - E come potrebbe? - Ciò che è immobile è necessariamente [e] in quiete e ciò che è in quiete sta fermo. - Necessariamente. - A quanto sembra, allora, l'uno che non è sta fermo e si muove. - Sembra. - Eppure, se si muove, è altamente necessario che si alteri. Infatti, comunque una cosa si muova, in questa stessa misura non è più nella situazione [163a] identica in cui era, ma in una diversa. - E' così. - Allora, muovendosi, l'uno si altera anche. - Sì. - E non muovendosi in alcun modo, non si altererà in alcun modo. - No, infatti. - Allora, in quanto si muove, l'uno che non è si altera, mentre in quanto non si muove, non si altera. - No, infatti. - Dunque l'uno che non è si altera e non si altera. - Pare. - Ma ciò che si altera non è forse necessario che diventi diverso da prima e cessi dalla sua precedente condizione, [b] mentre ciò che non si altera né venga ad essere né cessi di essere? - E' necessario. - Dunque l'uno che non è, in quanto si altera, viene ad essere e cessa di essere, mentre in quanto non si altera, né viene ad essere né cessa di essere. E così l'uno che non è viene ad essere e cessa di essere e né viene ad essere né cessa di essere. - No, infatti.
XXV. - Ancora una volta, allora, torniamo al punto di partenza per vedere se ci appariranno le stesse cose che ora ci sono apparse o altre diverse. - Occorre farlo. - Dunque, diciamo, se l'uno non è, che cosa ne deve conseguire per esso? [c] - Sì. - L'espressione 'non è', quando la pronunciamo, significa forse altro se non assenza di sostanza per ciò di cui diciamo che non è? - Nient'altro. - E quando diciamo che qualcosa non è, diciamo forse che in un certo modo non è, mentre in un altro è? Oppure questa espressione 'non è' significa semplicemente che ciò che non è non è in nessun modo sotto nessun aspetto né partecipa in alcun modo di essere? - Sì, nel modo più semplice. - Dunque ciò che non è non può essere né può partecipare dell'essere in alcun altro [d] modo. - No, infatti. - Ma il venire ad essere e il cessare di essere erano forse altro se non il venire ad assumere essere e il venire a perdere essere? - Nient'altro. - Ma ciò a cui non spetta nulla di questo, né può assumerlo né può perderlo. E come potrebbe? - L'uno allora, dal momento che in nessun modo è, non deve avere né abbandonare né assumere essere in alcun modo. - Verosimilmente. - Dunque l'uno che non è né cessa di essere né viene ad essere, dal momento che in nessun modo partecipa di essere. - Pare di no. - E neppure si altera in alcun modo. Infatti, se subisse questo, verrebbe già ad [e] essere e cesserebbe già di essere. - E' vero. - Ma se non si altera, non è forse necessario che neppure si muova? - E' necessario. - E certamente non diremo neppure che stia fermo ciò che non è in nessun luogo, perché ciò che sta fermo deve sempre essere in uno stesso luogo. - Nello stesso, come no? - E così ancora una volta dobbiamo dire che ciò che non è né sta mai fermo né mai si muove. - No, infatti. - Ma neppure qualcuna delle cose che sono gli appartiene, perché partecipando di questa, parteciperebbe già di essere. - E' [164a] chiaro. - Allora non ha né grandezza né piccolezza né uguaglianza. - No, infatti. - E non può neppure avere somiglianza né diversità, né rispetto a se stesso né rispetto agli altri. - Pare di no. - Ed è possibile che gli altri siano rispetto ad esso, se nulla deve essere rispetto ad esso? - Non è possibile. - Dunque gli altri non sono rispetto ad esso né simili né dissimili, né identici né diversi. - No, infatti. - E allora? Le espressioni 'di quello' o 'a quello' o 'qualcosa' o 'questo' o 'di questo' o 'di altro' o 'ad altro' o 'un tempo' o 'poi' o 'ora' o scienza o [b] opinione o sensazione o discorso o nome o qualsiasi altra delle cose che sono esisterà in riferimento a ciò che non è? - Non esisterà. - Così un uno che non è non ha alcuna determinazione sotto nessun aspetto. - Sembra che non ne abbia, sotto nessun aspetto.
XXVI. - Diciamo ancora: se l'uno non è, in quali condizioni devono trovarsi gli altri? - Diciamolo. - Essi devono essere altri, mi pare, perché se non fossero altri, non sarebbe degli altri che si parlerebbe. - E' così. - Ma se il discorso verte sugli altri, gli altri sono diversi. O con le espressioni 'altro' e 'diverso' non ti riferisci allo stesso oggetto? - Io, almeno, sì. - Ma noi diciamo, mi pare, che il diverso è diverso da un diverso e l'altro è appunto altro da un altro? - Sì. [c] - Anche per gli altri, allora, se devono essere altri, c'è qualcosa da cui saranno altri. - Necessariamente. - E che cosa può essere? Infatti non saranno altri dall'uno, dal momento che esso non è. - No, infatti. - Allora lo sono reciprocamente. Infatti non rimane loro che questo oppure non essere altri da nulla. Esattamente. - Dunque è insieme per insieme che essi sono reciprocamente altri, perché uno per uno non potrebbero esserlo, dal momento che non c'è uno. Ma ciascun gruppo di essi,[d] a quanto sembra, è illimitatamente molteplice e, anche se si prende quello che pare il più piccolo, istantaneamente, come un sogno nel sonno, invece di uno come pareva, appare molti e, invece che piccolissimo, immenso in relazione alle parti che risultano dal suo spezzettamento. - E' giustissimo. - Dunque è per gruppi del genere che gli altri saranno reciprocamente altri, se pur non essendoci l'uno, essi sono altri. Precisamente. - Ci saranno allora molti gruppi, ciascuno dei quali apparirà, ma non sarà uno, se appunto non ci sarà uno? - E' così. - E sembrerà che di essi ci sia numero, se ciascuno sembrerà anche uno ed essi sono molti. - Certo. - E tra essi [e] alcuni appariranno pari e altri dispari, ma non veramente, se appunto non ci sarà uno. - No, infatti. - E certamente anche uno piccolissimo, noi diciamo, sembrerà essere incluso in essi, ma esso apparirà molti e grandi in relazione a ciascuno dei molti, come se questi fossero piccoli. - Come no? - E [165a] ciascun gruppo sarà considerato uguale ai molti e piccoli. Infatti non potrebbe passare in modo apparente da maggiore a minore, prima di dare l'apparenza di pervenire a ciò che è intermedío, ma questo sarà un'apparenza di uguaglianza. - Verosimilmente. - Dunque apparirà anche in possesso di un limite rispetto a un altro gruppo, pur non avendo rispetto a se stesso né principio né limite né mezzo? - In che modo? Perché ogni volta che uno afferri col pensiero qualcuno di essi come un qualcosa che è, prima del principio appare ogni volta un altro principio e dopo la fine un'altra fine che rimane [b] e nel mezzo altri più mediani del mezzo, ma più piccoli, in quanto non è possibile cogliere ciascuno di essi unitariamente, dal momento che l'uno non è. - E' verissimo. - E' necessario, credo, che ogni ente che sia colto col pensiero, spezzettandosi, si frantumi, perché si coglierà sempre un gruppo senza unità, mi pare. - Certo. - Un oggetto del genere, dunque, se lo si guarda da lontano e con vista debole, appare [c] necessariamente uno, ma se lo si intende da vicino e con acutezza d'intelletto, ciascuno singolarmente appare illimitatamente molteplice, se è appunto privato dell'uno che non è? - E' del tutto necessario. - E così, se l'uno non è, ma gli altri dall'uno sono, ciascuno degli altri deve apparire sia illimitato sia in possesso di limite, sia uno sia molti. - Deve, infatti. - Dunque sembreranno anche sia simili sia dissimili? - Come? - Come pitture in prospettive che a chi sta lontano appaiono tutte una cosa sola e affette dalla stessa proprietà e sembrano essere simili. - Certo. - Mentre a chi si avvicina [d] appaiono molte e diverse e, a causa dell'apparenza del diverso, di diverso aspetto e dissimili rispetto a se stesse. - E' così. - E' dunque necessario che i gruppi appaiano simili e dissimili, sia rispetto a se stessi sia reciprocamente. - Certo. - Dunque anche identici e diversi reciprocamente, in contatto e separati rispetto a se stessi, mossi da ogni tipo di movimento e fermi sotto ogni aspetto, soggetti a nascere e a perire e né una cosa né l'altra, e così, mi pare, per tutte le affezioni del genere, che ci è ormai agevole passare in rassegna, se pur non essendoci l'uno, i molti sono. - E' verissimo. [e]
XXVII. - Torniamo nuovamente ancora una volta al principio e diciamo che cosa deve conseguire, se l'uno non è, ma gli altri dall'uno sono. - Diciamolo. - Gli altri, dunque, non saranno uno. - Come potrebbero, infatti? - Ma neppure molti. Infatti tra i molti, se fossero, sarebbe incluso anche l'uno, perché se nessuno di essi è uno, tutti insieme non sono nulla, sicché non saranno neppure molti. - E' vero. - Ma non essendo l'uno incluso negli altri, gli altri non sono né molti né uno. - No, infatti. - E neppure appaiono uno né molti. - E perché? - Perché gli altri non hanno alcuna [166a] comunanza in nessun modo e sotto nessun aspetto con nessuna delle cose che non sono, né qualcuna delle cose che non sono è presente in qualcuno degli altri. Infatti le cose che non sono non posseggono alcuna parte. - E' vero. - Presso gli altri, allora, non c'è né opinione né qualche apparenza di ciò che non è; né ciò che non è viene opinato sotto nessun aspetto e in nessun modo in riferimento agli altri. - No, infatti. - Se dunque l'uno non è, anche di qualcuno degli altri non si ha l'opinione che sia uno e neppure che sia molti, perché senza [b] l'uno avere opinione di molti è impossibile. - Infatti, è impossibile. - Se dunque l'uno non è, gli altri né sono né sono opinati essere né uno né molti. - Sembra di no. - E neppure simili né dissimili. - No, infatti. - E neppure identici né diversi, né in contatto né separati, né in possesso di tutte le altre determinazioni che prima abbiamo passato in rassegna come loro apparenze: gli altri né sono né appaiono nessuna di queste, se l'uno non è. - E' vero. - Se dunque riassumendo dicessimo che, se l'uno non è, nulla è, diremmo [c] correttatnente? - In ogni caso. - Lo si dica allora. E si dica anche che, a quanto sembra, sia che l'uno sia, sia che non sia, esso stesso e gli altri, tanto in rapporto a se stessi quanto reciprocamente, tutto sotto ogni aspetto essi sono e non sono, appaiono e non appaiono. - E' verissimo.